di Michele Paris

Nella notte italiana tra martedì e mercoledì è andato in scena a Las Vegas il primo dibattito televisivo tra i cinque candidati alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Democratico. Lo show, organizzato dalla CNN, secondo i commentatori americani avrebbe visto prevalere nettamente Hillary Clinton, anche se la serata ha rivelato più che altro una certa inquietudine dovuta alle pressioni provenienti dagli elettori che chiedono sempre più politiche di marca progressista a un sistema arroccato nella difesa dei privilegi di una piccola cerchia di super-ricchi.

Le pressioni sull’ex segretario di Stato riguardavano in realtà anche la necessità di sfoderare una prestazione di rilievo davanti alle telecamere, viste le difficoltà incontrate negli ultimi mesi dalla sua campagna elettorale. Hillary ha in primo luogo dovuto fare i conti con le ripercussioni legate al persistere della polemica repubblicana sulle responsabilità dell’attacco integralista all’ambasciata USA di Bengasi, in Libia, del settembre 2012.

Inoltre, da alcuni mesi infuria la controversia sull’utilizzo da parte di Hillary di un account di posta elettronica privato per la corrispondenza ufficiale quando era segretario di Stato. La concorrenza in casa democratica, poi, è apparsa molto più agguerrita del previsto in seguito all’ascesa nei sondaggi del senatore del Vermont, Bernie Sanders, in grado di suscitare l’entusiasmo di un numero relativamente elevato di potenziali elettori delle primarie con il suo messaggio marcatamente “liberal”.

Soprattutto, la ex first lady, per la sua vicinanza al mondo degli affari e per le politiche guerrafondaie perseguite nel corso della sua carriera e di quella del marito, suscita aperta repulsione tra molti negli Stati Uniti e il fatto che sia diventata da subito la favorita d’obbligo per la nomination democratica dipende quasi esclusivamente dalla copertura mediatica che può vantare e, soprattutto, dall’appoggio di facoltosi finanziatori.

In generale, il dibattito di martedì ha visto tutti i partecipanti adottare una retorica progressista per cercare di intercettare il desiderio di giustizia sociale e di contenimento delle disuguaglianze di reddito diffuso tra la popolazione americana. L’apparente spostamento a sinistra del dibattito politico tra i candidati democratici dipende, oltre che dalla disposizione di lavoratori e classe media nel paese, anche dall’inaspettato successo fin qui della campagna di Sanders.

Il senatore nominalmente indipendente è stato infatti il bersaglio di svariati attacchi portati da Hillary Clinton durante il dibattito, finendo per apparire spesso sulla difensiva. L’indubbia maggiore dimestichezza di Hillary su palcoscenici simili ha messo in luce la vulnerabilità di Sanders in un processo di selezione del potere che predilige l’apparenza, ma ha anche a tratti evidenziato come siano in larga misura vuote le pretese di quest’ultimo di rappresentare una candidatura “anti-establishment”.

La Clinton ha ad esempio ricordato come Sanders si sia opposto in passato a leggi sulla restrizione del diritto di portare armi da fuoco, mentre durante la serata è emersa nettamente l’affinità del senatore del Vermont con la politica estera dell’amministrazione Obama, in particolare riguardo la Siria.

Sanders, da parte sua, ha cercato di attaccare la rivale collegandola a Wall Street e agli eccessi dell’industria finanziaria USA. I due sfidanti hanno poi bollato come “ingenui” i rispettivi piani per tenere sotto controllo le grandi banche, anche se la discussione ha indubbiamente risollevato la questione della vicinanza di Hillary a questo ambiente.

Complessivamente, né Sanders né gli altri tre candidati uomini hanno però calcato la mano contro Hillary, nonostante gli argomenti non sarebbero mancati. Sanders, anzi, a un certo punto della serata ha preso le parti dell’ex senatrice di New York, quando si è detto “stanco” di assistere alla polemica delle e-mail del Dipartimento di Stato.

A fare compagnia a Hillary Clinton e a Bernie Sanders a Las Vegas vi erano gli altri tre candidati ufficiali alla nomination democratica: l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, l’ex senatore della Virginia, Jim Webb, e l’ex senatore ed ex governatore del Rhode Island, Lincoln Chafee.

Molti americani hanno probabilmente conosciuto solo martedì i tre candidati minori, i quali, pur cercando di differenziare in qualche modo le loro posizioni da quelle di Hillary e di Sanders, hanno finito per fare da contorno ai due protagonisti della sfida in ambito democratico.

Se il dibattito non ha registrato particolari attacchi personali tra i candidati, come è accaduto invece frequentemente nei primi due già andati in scena tra gli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca, nondimeno il confronto di Las Vegas ha fornito qualche motivo di interesse per lo più ai media ufficiali e agli addetti ai lavori.

La retorica “liberal” ostentata da Hillary durante la serata, così come nelle ultime settimane, è poco più di una farsa per occultare l’inclinazione chiaramente e tradizionalmente destrorsa della famiglia Clinton, sia sui temi economici sia su quelli legati alla sicurezza nazionale e alla politica estera.

Lo stesso Bernie Sanders è a sua volta parte integrante del sistema da quasi tre decenni e, pur auto-definendosi talvolta “socialista”, ha quasi sempre votato con il Partito Democratico, di cui non fa parte in maniera formale. Non solo, Sanders ha nel suo curriculum al Congresso di Washington voti censurabili, come quelli a favore dell’aggressione americana contro la Serbia nel 1999 e della cosiddetta Autorizzazione all’Uso della Forza Militare dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che consentì l’invasione dell’Afghanistan e il lancio della “guerra al terrore”.

In questi mesi di campagna elettorale, Sanders ha cercato spesso di evitare le questioni di politica estera ma, quando pressato, ha espresso il proprio apprezzamento per la gestione delle varie crisi in Medio Oriente da parte del presidente Obama, mentre ha garantito di essere disposto a utilizzare, se eletto, tutto il potenziale della macchina da guerra americana per difendere gli interessi della classe dirigente del suo paese.

Com’è evidente, gli attacchi portati da Sanders contro i miliardari e gli appelli alla riduzione delle esplosive disuguaglianze sociali che caratterizzano gli Stati Uniti stridono con il suo sostanziale abbraccio dell’imperialismo a stelle e strisce, visto che i due aspetti sono intrinsecamente legati tra di loro.

Il primo dibattito democratico in vista delle primarie del 2016, caratterizzato da una discussione vagamente orientata a sinistra, ha comunque messo in chiaro come la classe politica americana senta le pressioni di una popolazione che continua in larga misura a pagare le conseguenze della crisi strutturale del capitalismo esplosa nel 2008.

Anche se ogni soluzione o iniziativa per invertire la rotta risulta praticamente impossibile all’interno di un sistema politico dominato da due partiti espressione delle élite economico-finanziarie americane, la cifra di questa situazione è emersa soprattutto in una circostanza apparentemente trascurabile durante il dibattito.

Ciò è accaduto quando il moderatore della serata, il conduttore della CNN Anderson Cooper, ha introdotto nella discussione la definizione di “capitalismo” in relazione agli orientamenti ideologici dei candidati. Pur rimanendo assenti condanne esplicite del capitalismo come sistema, si è assistito a una moderata critica di esso, quanto meno per gli standard della politica ufficiale americana.

A differenza degli anni scorsi, infatti, i politici interpellati sulla questione si sono astenuti dall’esprimere un appoggio incondizionato al capitalismo, ritenendo invece di dover mitigare le loro opinioni o condannandone le distorsioni. Hillary Clinton, ad esempio, ha avvertito della necessità di “salvare il capitalismo da se stesso di tanto in tanto” per poi manifestare ammirazione e sostegno per le piccole e medie imprese.

Sanders, invece, dopo avere elogiato lo spirito imprenditoriale americano, ha sorvolato sulle proprie inclinazioni “socialiste”, dichiarandosi comunque oppositore del “capitalismo da casinò” che si pratica a Wall Street.

di Michele Paris

Con le 50 tonnellate di armi recapitate dal cielo domenica scorsa ai “ribelli” anti-Assad, gli Stati Uniti hanno fatto registrare un nuovo picco di irresponsabilità nella loro già disastrosa e caotica strategia siriana. La fornitura diretta del materiale bellico è stata decisa in seguito alla chiusura definitiva del fallimentare programma di addestramento di introvabili combattenti “moderati” e, soprattutto, rappresenta una rischiosissima risposta al crescente impegno militare della Russia nel conflitto in corso in Siria.

A confermare il lancio delle armi è stato lunedì un portavoce del Pentagono, il quale ha assicurato che i beneficiari sarebbero “gruppi arabi siriani” i cui leader sono stati “debitamente verificati” dagli Stati Uniti.

Il Dipartimento della Difesa non ha però rivelato l’identità di queste formazioni ribelli, anche se i media americani hanno parlato di una “Coalizione Araba Siriana”. Questa denominazione è stata probabilmente ideata dal Pentagono per raggruppare varie formazioni a cui destinare gli armamenti.

Fonti governative e dei militari USA sono intervenute sui media d’oltreoceano per garantire che le armi paracadutate hanno raggiunto “forze amiche”. Il gruppo in questione sarebbe composto da 4 o 5 mila uomini che stanno combattendo contro lo Stato Islamico (ISIS) nei pressi di Raqqa, città nel nord della Siria ritenuta la capitale del “califfato”.

Il materiale sembrerebbe provenire dai depositi allestiti in paesi come Turchia e Giordania e che dovevano servire a dotare di armi i combattenti addestrati dagli americani nell’ambito del programma da poco abbandonato.

Al di là delle poco utili rassicurazioni dei vertici militari americani, il lancio di tonnellate di armi nel bel mezzo di una zona di guerra chiarisce a sufficienza il livello di disperazione raggiunto dal governo americano con l’avvio della campagna russa. L’intervento di Mosca per sostenere Assad ha spinto l’amministrazione Obama ad attivarsi per cercare di salvare le forze ribelli che da oltre quattro anni operano come forza d’urto per rovesciare il regime di Damasco.

Soprattutto, l’azione russa ha smascherato la natura delle formazioni su cui contano gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente. Nonostante la pretesa di armare soltanto ribelli “moderati”, filo-occidentali e passati al vaglio della CIA o del Pentagono, i gruppi che Washington afferma di appoggiare sono virtualmente indistinguibili da quelli con inclinazioni fondamentaliste violente.

Anche per questa ragione, le armi appena lanciate finiranno con ogni probabilità nelle mani della filiale di al-Qaeda in Siria – il Fronte al-Nusra – se non dell’ISIS. Questa stessa fine aveva fatto d’altra parte il materiale che era stato fornito alla manciata di combattenti addestrati dagli americani e inviati in Siria prima dello stop definitivo al già ricordato programma.

La conferma del fatto che la linea di demarcazione tra i terroristi e i ribelli “moderati” in Siria sia a dir poco confusa viene anche dalla giustificazione principale fornita da Washington per la stessa cancellazione del programma di addestramento.

Secondo il Pentagono, infatti, non è stato praticamente possibile reperire uomini disposti a combattere soltanto contro le forze dell’ISIS e non contro quelle del regime, proprio perché per la grandissima maggioranza dei combattenti che si trovano in Siria il nemico non è rappresentato dal delirio jihadista di al-Baghdadi, bensì da un governo sciita alleato di Iran e Hezbollah.

Un articolo fondamentalmente di propaganda pubblicato martedì dal New York Times per sottolineare la pericolosità di uno scenario siriano caratterizzato sempre più da una guerra a distanza tra USA e Russia, è apparso in questo senso particolarmente illuminante.

Grazie anche alle testimonianze di vari comandanti delle formazioni che hanno ricevuto le armi americane qualche giorno fa, risulta evidente come sul campo non ci siano troppe distinzioni tra “moderati” ed estremisti.

Il Times spiega come la minaccia immediata al regime di Assad venga soprattutto da una “coalizione di insorti islamisti chiamata Esercito della Conquista”, all’interno del quale spicca il Fronte al-Nusra. A fianco di questo gruppo, continua il pezzo del giornale newyorchese, e “talvolta in aiuto” a esso, figurano “svariati gruppi relativamente secolari, come il Libero Esercito della Siria che… ha avuto accesso ai TOW [missili anticarro]” americani.

Lo stesso articolo spiega poi che i TOW e altre armi americane hanno svolto un ruolo decisivo nel mettere in crisi Assad, ammettendo però che la nuova forza di fuoco a disposizione dei ribelli ha favorito anche il Fronte al-Nusra, emanazione diretta di un organizzazione terroristica che il governo USA da quattordici anni dipinge come il nemico giurato della civiltà occidentale.

Il New York Times cerca di dipingere questi sviluppi come un effetto collaterale trascurabile e non desiderato dal governo USA, mentre si tratta in realtà di una politica deliberata portata avanti in maniera più o meno clandestina per colpire il regime siriano. Ciò è confermato anche dagli avvertimenti lanciati alla Russia affinché nei raid aerei decisi dal presidente Putin non vengano colpite formazioni “diverse dall’ISIS”.

Allo stesso modo, profondamente disonesti sono i tentativi di descrivere come “scomodo” o di convenienza il matrimonio tra l’Esercito Libero della Siria e l’ala qaedista in Siria, resosi necessario dall’impossibilità del primo di operare “senza il consenso” della seconda. Praticamente tutti i gruppi che combattono in Siria contro Assad sposano, con varie sfumature, un’agenda settaria sunnita e non sembrano in particolare imbarazzo nel collaborare con milizie apertamente terroristiche. Quando sono stati registrati scontri interni ai ribelli sono stati dovuti quasi sempre a contese territoriali o per risorse da sfruttare.

Negli ultimi giorni, intanto, grazie al supporto aereo russo, l’esercito regolare siriano ha fatto segnare progressi in varie parti del paese in mano ai gruppi fondamentalisti, tra cui alcuni appoggiati direttamente dall’Occidente. Sul piano diplomatico, invece, l’inviato speciale dell’ONU per la Siria, Staffan de Mistura, si prepara a incontrare i leader di Russia e Stati Uniti per cercare di intavolare un negoziato che porti a una soluzione politica del conflitto.

La distanza che rimane tra le due posizioni in merito alla sorte di Assad e, più in generale, all’orientamento strategico dell’eventuale regime che dovrà sostituire quello attuale al potere a Damasco non promette però nulla di buono per la Siria.

L’intensificarsi del conflitto e l’aumento dell’impegno militare delle due potenze rischia infatti seriamente di trascinare entrambe in un pericoloso vortice che potrebbe finire per mettere di fronte direttamente le forze di Mosca e Washington, con conseguenze prevedibilmente disastrose non solo per la Siria e il Medio Oriente.

di Michele Paris

Il gravissimo attentato suicida che sabato scorso ha sconvolto la capitale turca, Ankara, ha aggravato la crisi interna al paese euro-asiatico a poche settimane dal secondo appuntamento elettorale in meno di sei mesi. Prevedibilmente, il governo del presidente, Recep Tayyip Erdogan, e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha individuato come primo sospettato dell’attacco lo Stato Islamico (ISIS), aggiungendo poi altre tre entità come possibili esecutrici dell’attentato, cioè due gruppi di “estrema sinistra” turchi e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Al momento non sembrano esserci rivendicazioni ufficiali, ma il governo ha affermato di avere riscontrato indizi che rendono l’attentato di sabato molto simile a quello dello scorso mese di luglio nella località di Suruç, nella Turchia meridionale al confine con la Siria. In quell’occasione furono uccisi 32 membri di un’organizzazione giovanile di sinistra che stavano pianificando un intervento a Kobane, in Siria, per contribuire ai lavori di ricostruzione della città a maggioranza curda.

Secondo alcuni media locali, uno degli attentatori di Ankara sarebbe il fratello di uno degli organizzatori della strage di Suruç ed entrambi erano affiliati all’ISIS, nonché parte di un gruppo di uomini inviati in Siria per eseguire attentati terroristici contro obiettivi curdi.

Il collegamento tra i due attentati è particolarmente allarmante, visto che quello di luglio aveva fornito l’occasione al governo per partecipare attivamente alle operazioni della coalizione ufficialmente anti-ISIS messa in piedi dagli Stati Uniti. In realtà, i bersagli di gran lunga preferiti dalle forze aeree turche erano stati da subito i guerriglieri curdi che, in Iraq e in Siria, avevano rappresentato l’ostacolo più efficace all’avanzata dell’ISIS.

Le similitudini tra le due stragi riguardano anche il possibile ruolo svolto proprio dal governo o, per lo meno, quello percepito da molti, a cominciare dalla popolazione turca. Dopo i fatti di Suruç, soprattutto la minoranza curda aveva apertamente parlato di attentato favorito da Ankara per riaccendere la guerra civile e rafforzare le credenziali in materia di sicurezza nazionale del partito Giustizia e Sviluppo (AKP), uscito dalle elezioni di giugno senza la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento per la prima volta da oltre un decennio.

Le manifestazioni di protesta contro il governo andate in scena nel fine settimana dopo le bombe di sabato hanno ugualmente visto i partecipanti attribuire a Erdogan e Davutoglu la responsabilità quanto meno della carenza di un servizio di sicurezza adeguato nonostante gli avvertimenti circa possibili gravi attentati in fase di organizzazione in territorio turco.

Molti giornalisti e partecipanti alla dimostrazione colpita dalle esplosioni, e che intendeva chiedere la riapertura del dialogo tra il governo e il PKK, hanno infatti puntato il dito contro il governo per l’insolita scarsità di controlli e di forze di polizia presenti ad Ankara nella giornata di sabato.

Se è indubbiamente possibile che il governo di Erdogan e Davutoglu abbia potuto allentare deliberatamente le maglie della sicurezza nel corso di una manifestazione pro-curda, visti i vantaggi che un attentato potrebbe determinare per il partito al potere in termini elettorali, a ben vedere le responsabilità del presidente e del primo ministro sono anche maggiori.

Gli oltre 100 morti di sabato a Ankara, sono infatti anch’essi la conseguenza del clima prodotto dalla disperata politica estera di un governo e di un sempre più autoritario Erdogan che stanno vedendo crollare una strategia regionale che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto soddisfare le ambizioni da grande potenza della Turchia sull’onda di una temporanea crescita economica relativamente sostenuta.

Il principale colossale fallimento di questo piano è stato il tentativo di rovesciare il regime siriano di Assad, puntando in maniera sconsiderata su formazioni integraliste violente, incluso l’ISIS. A questi gruppi, la Turchia - assieme alle monarchie assolute del Golfo Persico e sotto la supervisione di Washington - non solo ha garantito il libero transito da e verso la Siria, ma ha anche offerto assistenza logistica, denaro e armi.

Questa pericolosa strategia è completamente esplosa tra le mani di Erdogan una volta che l’ISIS è diventata una forza pressoché fuori controllo, finendo per minacciare la stessa Turchia. Inoltre, il dilagare di forze jihadiste in Siria grazie proprio all’appoggio turco ha ironicamente rafforzato lo status delle milizie curde oltreconfine, legate a doppio filo con il PKK, con il rischio di alimentare rivendicazioni indipendentiste.

In questo scenario e formalmente all’interno della coalizione guidata dagli USA, la Turchia ha intrapreso una campagna aerea contro le postazioni curde in Iraq, mentre ha inaugurato dopo anni operazioni militari anche sul proprio territorio. La fine della tregua con il PKK ha così segnato l’uccisione di centinaia di guerriglieri curdi e, di conseguenza, la riattivazione della guerriglia con un numero crescente di vittime tra forze di sicurezza e civili.

Le contraddizioni e gli errori che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la politica estera di Ankara si sono inevitabilmente riflessi sulla situazione interna, creando caos e violenze ma anche grattacapi per un AKP che sembra avere imboccato una parabola discendente sul fronte del gradimento degli elettori.

In vista delle elezioni di inizio novembre, dunque, Erdogan e Davutoglu si ritrovano in un pantano sempre più profondo, sia pure preparato dalle loro stesse azioni, che rischia di generare ulteriore violenza in Turchia e che, oltretutto, potrebbe non pagare in termini di consensi una volta chiuse le urne.

Le ultime settimane hanno segnato infatti una batosta dopo l’altra per il governo dell’AKP. L’intervento militare della Russia in Siria in appoggio al regime di Damasco ha stravolto i piani della Turchia, la quale ha visto finire distrutti sotto bombe vere i propri investimenti nel fondamentalismo anti-Assad e il venir meno, per il momento, dell’ipotesi di una no-fly zone in territorio siriano.

L’estremo nervosismo del governo di Ankara è apparso evidente dalle accuse spropositate seguite ad alcune presunte violazioni dello spazio aereo turco da parte dei jet di Mosca impegnati in Siria. Malgrado gli aerei da guerra turchi abbiano violato più volte i cieli siriani in questi anni e bombardato senza troppi riguardi le postazioni curde in territorio iracheno, Erdogan ha fatto un patetico appello alla NATO per chiedere all’alleanza di difendere il proprio paese contro eventuali ulteriori “minacce” da parte della Russia.

L’amministrazione Obama, infine, pur appoggiando l’isteria turca nei confronti del Cremlino, ha appena annunciato la fine del programma di addestramento di guerriglieri anti-Assad “moderati”, in quanto inesistenti, optando invece per la fornitura diretta di armi e denaro alle milizie sunnite che già combattono sul campo contro le forze regolari siriane. Per salvare le apparenze, però, verranno armate anche le organizzazioni militari anti-Isis, e tra di esse sembrano esserci anche quelle curde, il cui possibile ritorno a svolgere un ruolo da protagoniste nel caos della Siria aggiungerebbe un ulteriore problema al già lunghissimo elenco con cui devono fare i conti Erdogan e Davutoglu.

di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Bandiere rosse e pugni chiusi, la Germania continua a sorprendere. Alle 16 di sabato 10 ottobre, ancora passavano davanti alla porta di Brandeburgo le migliaia di persone che protestavano contro il Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che l'Unione europea e gli Stati Uniti da tre anni stanno ancora negoziando. E' un patto che non  tutela i diritti umani o il diritto al lavoro o il welfare bensì impone la libertà di commercio e di investimento quali diritti attorno ai quali tutto deve ruotare.

Che è poi quanto vogliono le multinazionali perché il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) serve appunto ad abolire ogni barriera - tariffaria e regolamentare - al libero commercio e alla libertà degli investimenti.

Conseguentemente a questo patto, ogni norma che pone vincoli al commercio ed agli investimenti è considerata illegale. Pertanto il trattato fissa, per le aree geografiche interessate, una sorta di Costituzione generale in cui la libertà di commercio e di investimenti diventano il punto fondamentale a cui qualunque altro diritto e volontà deve piegarsi.

Questo vuol dire che ogni impresa multinazionale potrà denunciare direttamente uno Stato (o una regione, o un Land o un comune o un Rathaus) che venga ritenuto colpevole di aver violato la libertà di commercio e di investimento. Questo vuol dire anche che ogni impresa multinazionale potrà obbligare gli Stati  a cancellare le norme in contrasto con quanto stabilito nel patto, e imporre multe salate nel caso in cui si ritenga che le leggi abbiano danneggiato le multinazionali.

Insomma, il trattato permetterebbe di esportare in Europa prodotti che in America vengono venduti, ma che da noi sarebbero fuori da ogni norma e legge, come "la carne agli antibiotici". Dopo i recenti fatti che hanno coinvolto industrie come la Nestlé e i suoi spaghetti al piombo, ci si chiede chi poi lo voglia questo mercato unico - Obama più di ogni altro lo ama e lo sostiene - che può infliggerci qualunque cosa anche se è micidiale per la salute.

E' per questo che la Confederazione dei Sindacati tedeschi, la Deutscher Gewerkschaftsbund  (Dgb), temendo che l’accordo faciliterebbe l’ingresso di ogm difficili da rintracciare e perdita di occupazione, hanno organizzato la manifestazione di sabato scorso. Era dal 1989, l'anno della caduta del muro, che non  vedevo cortei così imponenti.

Secondo alcune stime, cinquecento mila persone sono passate davanti alla porta di Brandeburgo, reggendo cartelli contro il Ttip e sventolando le bandiere del sindacato, ma anche quelle rosse con la falce e martello e (chi si rivede?) il pugno alzato. 

Simbolo storico della lotta proletaria, dell'unità e della solidarietà, il pugno alzato (o pugno chiuso) nasce tra la fine del 1923 e l'inizio del 1924 come saluto del Rotfrontkämpferbund (RFKB - RFB), i Soldati rossi di prima linea, organizzazione paramilitare del Partito comunista tedesco (KPD).

Siccome il pugno alzato nasce in contrapposizione al saluto dei nazisti che distendevano il braccio fino alla mano, è stato  recuperato in questa sfilata per esaltare la lotta “contro le multinazionali che sono i veri nazisti del ventunesimo secolo”, come mi ha spiegato Beate, giovane infermiera dell'ospedale Martin-Luther-Krankenhaus.

Per la cronaca va precisato pure che con la  manifestazione di ieri si è inaugurata la settimana di mobilitazione europea contro il Ttip che si concluderà - sabato 17 ottobre - a Bruxelles, dove verranno presentati le 3 milioni di firme raccolte nei mesi scorsi contro il trattato e gli altri accordi di libero scambio.

Infatti, l'obiettivo della mobilitazione internazionale è  di intrecciare le molteplici istanze promosse dalla società civile, e di costruire un grande blocco di opinione pubblica contraria ad un sistema di commercio internazionale che - come detto - mette i diritti umani e civili in secondo piano rispetto agli interessi delle grandi multinazionali e dei gruppi finanziari.

La più grande manifestazione era attesa a Berlino, e così è stato: hanno marciato circa 500 mila. Ad essa ha partecipato anche una numerosa presenza italiana poiché l'arrivo del Ttip falcerebbe in modo pesante l'interscambio tra noi e la Germania e viceversa, con un grave danno per entrambi i paesi.

Sicché pure in Italia sono previsti presidi in decine di centri urbani. Alla protesta nelle strade verrà affiancata una massiva campagna di pressione istituzionale, con valanghe di tweet ed e-mail che affolleranno gli account dei parlamentari italiani troppo "distratti" in merito a un tema che riguarda da vicino la vita di ciascun cittadino.

Anche per questo, ripeto,  davanti a Brandeburgo e lungo la Under der Linden c'erano molti giovani italiani che sfilavano con i loro coetanei tedeschi. Insieme, come quelli di ventisei anni fa. Naturalmente, nel 1989 quei volti erano sorridenti, il Muro crollò nella serenità. Quando si dovrà aspettare perché “crollino” le multinazionali?

di Michele Paris

L’aggressione dell’Arabia Saudita e di una manciata di altri regimi arabi contro lo Yemen dura ormai dai più di sei mesi nel tentativo di reinstallare al potere il presidente-fantoccio, Abd Rabbu Mansour Hadi, e di piegare la resistenza dei guerriglieri sciiti Houthi. Il conflitto continua a far segnare atroci episodi di violenza e stragi deliberate di civili da parte dei paesi aggressori, come ha confermato questa settimana un nuovo rapporto diffuso da Amnesty International.

L’indagine giunge a poche settimane da una precedente ricerca che aveva assegnato la responsabilità di crimini di guerra a entrambe le parti in conflitto e ha riguardato in particolare 13 incursioni aeree operate tra maggio e luglio da parte della coalizione guidata da Riyadh nelle regioni nord-orientali dello Yemen. Durante questi raid sono stati uccisi circa 100 civili, di cui 59 bambini, in conseguenza della decisione saudita di dichiarare obiettivi militari le città di Saada e Marran.

Per Donatella Rovera di Amnesty International, le “forze della coalizione” sono responsabili di non avere adottato “sufficienti precauzioni per evitare morti civili, come richiesto dal diritto internazionale”. Questa dichiarazione è a dir poco un eufemismo, dal momento che le forze armate della monarchia saudita sembrano voler prendere di mira deliberatamente gli obiettivi civili in Yemen per terrorizzare la popolazione e piegare la resistenza all’aggressione.

Ciò è confermato dall’elevato numero di stragi commesse dall’inizio degli attacchi lo scorso mese di marzo. Che le bombe su edifici civili non siano dovute a “errori”, spiega Amnesty, è testimoniato anche dal fatto che in alcuni casi gli obiettivi non-militari sono stati bombardati più volte.

Gli elicotteri e gli aerei da guerra dei sauditi e dei loro partner hanno ridotto in macerie, tra l’altro, fabbriche, moschee, scuole, ospedali, mercati, strutture portuali e edifici in quartieri residenziali. Particolare sconcerto aveva provocato a fine settembre un bombardamento durante una festa di matrimonio in un villaggio sul Mar Rosso.

Le vittime in quello che è stato finora il più grave singolo massacro della guerra erano state più di 130, comprese 80 donne. Solo il giorno precedente, inoltre, altri 30 civili erano stati uccisi dai raid di elicotteri sauditi nella provincia nord-occidentale di Hajjah.

Complessivamente, secondo i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, alla fine di settembre le vittime civili nel conflitto in corso in Yemen erano più di 2.300, mentre i feriti ammontavano a quasi 5 mila. Non solo, la situazione umanitaria nel paese più povero del mondo arabo sta ormai precipitando. Alcuni dati rendono a sufficienza l’idea della catastrofe provocata dall’aggressione saudita.

Secondo il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU, 10 delle 22 provincie che compongono lo Yemen stanno fronteggiando situazioni di emergenza per quanto riguarda l’accesso al cibo dei suoi abitanti.

La gravità della situazione è dovuta in particolare al blocco navale imposto dall’Arabia Saudita, in collaborazione con la marina militare americana, visto che il fabbisogno alimentare dello Yemen è assicurato per il 90% da importazioni.

Sempre per l’ONU, almeno 20 milioni di yemeniti, ovvero l’80% della popolazione totale, necessita di una qualche forma di aiuto umanitario. Poco meno di due milioni di persone, infine, sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e a fuggire in altre parti del paese o all’estero a causa della guerra.

Il recentissimo rapporto di Amnesty denuncia poi l’utilizzo delle distruttive “cluster bombs”, o “bombe a grappolo”, da parte della “coalizione”, nonostante siano proibite a livello internazionale. Singolarmente, molti in Occidente e nel mondo arabo che ora non muovono un dito nei confronti dell’Arabia Saudita avevano più volte denunciato il regime di Assad nei mesi scorsi e, più recentemente, anche la Russia per avere fatto uso di questi stessi ordigni in Siria.

Come afferma l’organizzazione britannica a difesa dei diritti umani, in questi mesi vi sono stati numerosissimi episodi che potrebbero portare vari esponenti della monarchia medievale sul banco degli imputati in un processo per crimini di guerra.

A far loro compagnia per le stragi in Yemen dovrebbero esserci anche i vertici del Pentagono e dell’amministrazione Obama, poiché quest’ultima, nonostante i dubbi sull’aggressione per ragioni di opportunità, è totalmente complice del massacro in atto.

Non solo Washington condivide gli obiettivi strategici di Riyadh, legati al contenimento dell’influenza iraniana nella penisola arabica attraverso la reimposizione di Hadi come presidente dello Yemen e la sconfitta degli Houthi sciiti, ma gli Stati Uniti forniscono ai sauditi fin dall’inizio della guerra informazioni sugli obiettivi da colpire e assistenza logistica.

Consiglieri militari americani sono impegnati assieme ai loro colleghi del regno in un centro di comando congiunto predisposto in Arabia Saudita, da dove vengono gestite le operazioni militari in Yemen.

Soprattutto, poi, gli USA assicurano l’adeguato mantenimento delle scorte di armi saudite. Dopo i contratti da record per svariate decine di miliardi di dollari firmati nei mesi scorsi per la fornitura di armi all’Arabia Saudita e alle altre monarchie del Golfo Persico, a settembre era stato annunciato un nuovo accordo da un miliardo con Riyadh in concomitanza con la visita a Washington del sovrano saudita, Salman, accolto a braccia aperte da Obama.

Per Amnesty, anche le “cluster bombs” usate dall’Arabia Saudita sono state fornite dagli Stati Uniti, i quali continuano evidentemente a considerare queste armi come uno strumento legittimo, nonché un ottimo affare, visto che sono tra i paesi che non hanno sottoscritto la convenzione per la loro messa al bando.


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