di Fabrizio Casari

Un altro muro, a completare la recinzione della fortezza ariana nella sua versione magiara, sembra dipingere con pennellate di vergogna l’ultimo quadro del Vecchio Continente. Qui non si tratta più di politiche inclusive o esclusive nei confronti dei migranti, nemmeno di governance obbligata per quanto difficile. Si tratta di una concezione xenofoba che sull'identità religiosa e su una (presunta) identità etnica costruisce un programma pericoloso per la convivenza europea.

L’odio razziale che la sottocultura del fascista Orban eleva a linea politica, apre interrogativi non più rinviabili nel seno europeo. L’Europa che ci viene proposta nella sua rappresentazione giuridica e politica, ovvero l’Unione Europea, non è certo uno spettacolo che scalda i cuori.

La prematura scomparsa degli elementi culturali che l’avevano disegnata - dall’identità politica al modello socioeconomico - è da tempo evidente e la riduzione dell’Europa ad un consorzio finanziario a guida tedesca è un fatto difficilmente contestabile. Ma nella gestione dei flussi migratori emerge però prepotentemente una Europa che dimostra come il sistema di valori, l’identità e persino l’anima culturale sulla quale era stata concepita sono ormai alla deriva.

S’avanza una Europa nera, che dipinge gli equilibri politici e la stessa identità continentale a tinte fosche. E il paradosso della vicenda profughi ed immigrati è che i paesi dell’Est, in particolare Polonia e Bulgaria, hanno letteralmente invaso il resto d’Europa con centinaia di migliaia di migranti.

Allora chiedevano, giustamente, aiuti e comprensione; oggi, che pensano di essere diventati paesi autosufficienti, offrono marchiature e muri a chi fugge dai rispettivi inferni. L’Ungheria governata dal fascista Orban, cui è addirittura toccato un semestre di presidenza Ue appena prima dell’impalabile semestre italiano, non rappresenta però un caso isolato, una sorta di unicità negativa che l’insieme dei 28 paesi che compongono la Ue può permettersi di giudicare alla stregua di un fenomeno locale o temporaneo.

Certo la storia dell’Ungheria è nera come il carbone ed è certamente diversa da quella polacca o Ceka, ma il propagarsi rapido dell’ideologia totalitaria in tutta l’Europa dell’Est rende impossibile sottovalutare o circoscrivere il problema. Alla rivendicazione di una improbabile razza magiara, Budapest fa seguire i fatti. Lo spaccio di oltre 800.000 passaporti ungheresi in quelli che considera territori perduti in Slovacchia, Romania e Ucraina, crea allerta.

La Nato ritiene che Orban provi a insediare quinte colonne etniche nei paesi Baltici per chiedere domani modifiche alle frontiere. Basterebbe che la Commissione Europea si rivolgesse al Comando Nato nella stessa Bruxelles per avere valutazioni circa la pericolosità del premier fascista ungherese.

E nell’opera di revisione di quanto fatto finora sarebbe bene anche considerare finalmente con uno sguardo diverso lo stesso governo ucraino, certo non privo d’identità nazistoidi al suo interno, invece che di proseguire nelle sanzioni contro Mosca che, pur con tutti i suoi errori e crimini, come già in altri passaggi storici - dall’Afghanistan alla Siria - si oppone sola alle derive iperpoliticiste dell’Occidente, che per interessi geostrategici crea e difende milizie e governi orrendi che successivamente gli si rivoltano contro con tutta la loro pericolosità.

A meno di non voler sostenere che l’unica condizione per la presenza nella Ue sia l’applicazione delle dottrine monetariste, la Polonia in mano a Duda, la Repubblica Ceka dell’antieuropeista ad alto tasso etilico Zeman, la Slovacchia di Fico (che ha l‘ardire di definirsi socialista), come la Bulgaria del corrotto Ponta, rappresentano un problema di natura politico - e dunque sistemico - che Bruxelles non può fingere d’ignorare.

Vi è insomma una parte consistente dell’Europa dell’Est dai tratti xenofobi e fascisti che non può più essere considerata compatibile con ll’Unione Europea. La cosiddetta “svolta” del 1989 è ora chiara a tutti. La comune caratteristica degli ex paesi del blocco orientale a guida sovietica sembra, a posteriori, voler dare ragione a chi la vedeva come una minaccia più che una promessa.

Non bastano certo le minacce di procedure d’infrazione, ovvero multe che non verranno mai riscosse, ad affrontare con la giusta determinazione il problema. E nemmeno la minaccia di sanzioni semplici da aggirare e che nessuno rispetterebbe, servirebbero a lavare la coscienza dell’Ue, che ama spacciarsi come centro della cultura multietnica e baluardo della democrazia internazionale.

Il blocco dell’ultradestra europea si caratterizza infatti per l’odio razziale contro l’immigrazione e per la repressione spietata verso le opposizioni interne, che quasi ovunque vede anche la versione giuridica nell’impedimento legale alla formazione di partiti comunisti o di sinistra che dir si voglia.

Non sono fascisti perché marchiano gli immigrati: marchiano gli immigrati perché sono fascisti e, in quanto tali, per passato e presente, incompatibili con il consesso civile. L’Unione Europea deve aprire una fase nuova, cominciando a dire con chiarezza che non può far parte della UE chi applica politiche razziste e repressive al suo interno.

Che non può continuare a partecipare ad una identità politica europea chi nega i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta Internazionale delle Nazioni Unite e dalla Carta dei Diritti dell’Uomo, oltre che dallo statuti fondativi della stessa Unione Europea.

Sarebbe un buon sistema per inviare un messaggio anche alle forze più reazionarie che, accucciate come avvoltoi in attesa dell’occasione giusta, minacciano anche dall’interno l’identità democratica degli stessi paesi fondatori dell’Unione.

Diceva Bertold Brecht che la sconfitta del nazismo non doveva generare illusioni, perché “sebbene la bestia sia stata annientata, il ventre che la concepì è ancora gravido”. Parole profetiche quelle del grande drammaturgo.

La minaccia dell’onda nera appesta di nuovo il centro del Vecchio Continente e l’affermarsi in molti paesi delle destre xenofobe, nostalgiche del nazismo, rischia di trasformare di nuovo l’Europa da soluzione del problema a problema senza soluzione. Già una volta la storia ha dimostrato che ad esitare la si paga cara. La conoscenza dei corsi e ricorsi vichiani dovrebbero spingere a non ripetere l’errore.


di Michele Paris

Il governo islamista turco del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) sta intensificando le operazioni militari nel sud-est del paese contro i guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). L’escalation registrata in questi giorni è la conseguenza di almeno due attentati condotti dal PKK a inizio settimana che avevano provocato la morte di una trentina tra soldati e poliziotti turchi.

Per la prima volta da due anni a questa parte, truppe di terra dell’esercito di Ankara sono entrate anche in territorio iracheno per colpire i militanti curdi sui monti Qandil. L’intervento di oltre 200 membri delle forze speciali turche e i bombardamenti dei velivoli militari F-4 e F-16 hanno ucciso almeno 40 combattenti del PKK martedì e, secondo l’agenzia di stampa ufficiale Anadolu, altri 100 sarebbero stati eliminati nella sola giornata di mercoledì.

La ripresa delle ostilità dopo più di due anni di tregua tra il governo e il PKK è dovuta al tracollo del processo di pace in seguito a un attentato curdo contro la polizia turca nel mese di luglio. La decisione dei vertici del PKK di riprendere le armi era stata adottata come rappresaglia per un altro attentato nella città di Suruç, avvenuto qualche giorno prima, nel quale furono uccisi 33 simpatizzanti della causa curda. L’atto terroristico era stato attribuito allo Stato Islamico (ISIS) ma per il PKK la strage era stata quanto meno favorita dal governo di Ankara.

Il riesplodere del conflitto ha così gettato la Turchia nel caos. In molti ritengono che il presidente, Recep Tayyip Erdogan, abbia alimentato deliberatamente le tensioni nel paese dopo la delusione elettorale patita dal suo partito nel mese di giugno. In quell’occasione, l’AKP aveva perso la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento e i leader dei vari partiti non sono riusciti a dare vita a un governo di coalizione.

Erdogan ha allora indetto un’altra tornata elettorale per il prossimo primo novembre, nel tentativo di recuperare i consensi perduti a beneficio soprattutto del Partito Democratico Popolare curdo (HDP), entrato per la prima volta nel Parlamento di Ankara.

Mettendo ancora una volta gli interessi del suo partito e delle classi che lo sostengono al primo posto, Erdogan ha cercato di stimolare i sentimenti nazionalisti e anti-curdi nella popolazione dopo avere sostanzialmente provocato la ripresa della guerra con il PKK, così da convincere gli elettori della necessità di un governo forte monocolore dell’AKP per stabilizzare la Turchia in un momento di crisi domestica e regionale.

La strategia del presidente, oltre a mettere a ferro e fuoco le regioni sud-orientali della Turchia, ha provocato il risveglio di forze reazionarie talvolta violente, come confermano le recenti manifestazioni in varie località del paese che hanno preso di mira cittadini curdi e organi di stampa non allineati al governo.

In particolare, martedì un gruppo di dimostranti ha preso d’assalto il quartier generale dell’HDP ad Ankara prima di essere disperso dalla polizia, mentre per due notti consecutive a inizio settimana a finire sotto attacco era stato un edificio che ospita il quotidiano Hurriyet, sempre nella capitale. Una di queste ultime incursioni era stata guidata dal parlamentare dell’AKP, Abdürrahim Boynukalin, presidente della sezione giovanile del partito di Erdogan.

Lo stesso presidente aveva indicato indirettamente Hurriyet come un possibile bersaglio delle proteste nel corso di un intervento pubblico. Erdogan aveva cioè denunciato un articolo del giornale di tendenze secolari che riportava in maniera critica una dichiarazione del presidente nella quale sosteneva che, se l’AKP avesse ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni di giugno, la Turchia sarebbe stata risparmiata dall’attuale ondata di violenze.

Un giro di vite sulla libertà di stampa è inoltre un’altra delle conseguenze delle manovre promosse da Erdogan. A parte Hurriyet, le testate più colpite sono quelle che fanno parte del gruppo Akin Ipek, vicino al predicatore auto-esiliato negli USA, Fethullah Gülen, ex alleato e ora nemico giurato di Erdogan.

In un recente discorso pubblico, il presidente si è scagliato esplicitamente contro i mezzi di stampa critici del governo, accusandoli di “demoralizzare e confondere” la popolazione e di “favorire il terrorismo” in un momento in cui le “forze di sicurezza stanno combattendo con sacrificio”.

A motivare le operazioni contro il PKK non sono però soltanto considerazioni elettorali, bensì anche altre legate alla situazione mediorientale. Erdogan e il primo ministro, Ahmet Davutoglu, vedono con estrema apprensione gli sviluppi della guerra in Siria, soprattutto in relazione all’avanzata delle formazioni curde, in grado di creare una zona autonoma de facto nel nord di questo paese.

Ankara teme che ciò possa favorire le spinte autonomiste o, peggio ancora, indipendentiste dei curdi in territorio turco. Da qui la necessità di colpire il PKK. Le operazioni contro i curdi sono state avallate dagli Stati Uniti, dopo che Washington ha ottenuto dalla Turchia la possibilità di accedere alle proprie basi militari e l’impegno - sia pure più nominale che effettivo - di partecipare alla guerra contro l’ISIS in Siria e in Iraq.

Sul fronte interno, il progetto politico di Erodgan prevede invece la trasformazione dell’attuale sistema parlamentare in un presidenzialismo con egli stesso alla guida per un lungo periodo senza troppi vincoli costituzionali. Su questo progetto Erdogan aveva scommesso tutto lo scorso anno, lasciando la guida del governo per candidarsi alla presidenza.

Per cambiare la Costituzione, l’AKP deve però tornare a disporre di un’ampia maggioranza in Parlamento. Anche a questo scopo, come aveva fatto prima delle elezioni di giugno, Erdogan sta partecipando attivamente alla campagna elettorale del suo partito, nonostante il ruolo super partes attribuito all’ufficio del presidente in Turchia.

I calcoli di Erdogan potrebbero però saltare completamente visto il rapido deteriorarsi della situazione nel paese. Alcuni sondaggi diffusi nei giorni scorsi indicano infatti un ulteriore calo dei consensi per l’AKP, mentre l’HDP, che Erdogan vorrebbe ricacciare al di sotto dell’assurda soglia di sbarramento del 10% prevista dalla legge elettorale turca, appare in ascesa.

Con l’economia ugualmente in caduta libera, le opzioni per Erdogan e il governo islamista potrebbero perciò ridursi a un ulteriore deliberato inasprimento del conflitto con il PKK e un maggiore impegno per rovesciare il regime di Assad in Siria, oppure a un colpo di mano per cancellare o rimandare il delicatissimo appuntamento con le urne.

di Jacopo Risdonne

La rivincita della solidarietà. Una scintilla di umanità illumina il cielo d’Europa. 12mila islandesi (a fronte di una popolazione di 330mila) scavalcano il muro dell’indifferenza europea e chiedono al governo di rivedere la disponibilità ad ospitare solo un massimo di 50 rifugiati siriani. I cittadini aderiscono ad una petizione lanciata su Facebook e spalancano le porte delle proprie case ai “futuri amici, sposi, colleghi”. La solidarietà, spesso assopita negli angoli più remoti del Vecchio Continente, sembra dunque risvegliarsi da un lungo sonno. Ancora in letargo quella della Lega.

È una guerra umanitaria. Non una di quelle che si combattono a suon di colpi di mitragliatrice, per una pace insaguinata. Ma una di quelle che distruggono barriere - invisibili e non - erette tra popoli, tra esseri umani. Il primo mattone è stato buttato giù dalla scrittrice e professoressa Bryndis Bjorgvinsdottir. Il suo appello, lanciato su Facebook sottoforma di una lettera aperta indirizzata al Ministro del Welfare islandese, è stato accolto da migliaia di famiglie. E gli altri mattoni del muro son venuti giù da soli, al grido di “solo perchè non sta accadendo qui, non significa che non stia accadendo.”

Migliaia di braccia aperte sono pronte ad accogliere chi ne ha bisogno e brancola nel buio dell’indifferenza; chi non cerca caritá ma vita. Migliaia di chilometri, quelli che separano Reykjavik da Damasco, si sgretolano sotto i colpi dei messaggi che gli abitanti della remota isola hanno trasmesso: “Sono una madre single. Possiamo prendere in casa un bambino che ha bisogno. Sono un’insegnante e vorrei insegnare al bambino a parlare, leggere e scrivere islandese, ed aiutarlo ad inserirsi qui. Abbiamo vestiti, un letto, giocattoli e tutto ciò di cui un bambino ha bisogno. Naturalmente vorrei pagare il biglietto aereo”; “ho una stanza in più in un appartamento spazioso e sono più che contenta di condividerlo. Insieme al mio tempo e al mio sostegno”.

Il vento islandese soffia contrario. L’onda xenofoba, quella malcelata dalla retorica degli alti ranghi della politica europea, si infrange sul muro della solidarietà. “I rifugiati sono risorse umane, esperienza e capacità. I rifugiati sono i nostri prossimi sposi, migliori amici, anime gemelle, o i batteristi della band dei nostri figli, i nostri colleghi o miss Islanda 2022, l’idraulico che ci sistemerà il bagno o il pompiere”.

Le parole recitate dalla petizione fanno breccia nel governo di Reykjavik e smuovono le coscienze del gabinetto. Il ministro del Welfare, Eyglò Harðardòttir, ha intenzione di richiedere una revisione al rialzo della propia quota umanitaria, che ad ora vorrebbe arrivassero al massimo 50 rifugiati. “Percorreremo ogni strada possibile per accogliere più rifugiati”, ha detto alla televisione pubblica islandese. Anche il Premier David Gunnlaugsson ha risposto con lo stesso tono alla sollecitazione dei concittadini, navigando sulla stessa lunghezza d’onda: “Penso che ci sia grande consenso sul fare di più nel rispondere al problema: dobbiamo solo trovare come farlo al meglio.”

Le generose offerte stonano con le timide e sobrie reazioni che pullulano sul palcoscenico europeo, dove l’asta al ribasso è ormai un istinto naturale, intrinseco. La ripartizione vorrebbe che a Londra arrivassero 216 rifuggiati siriani: non abbastanza nemmeno per riempire un treno della metropolitana londinese, hanno fatto notare. Meno di mille sono quelli ospitati negli Stati Uniti.

Ma non serve spostarsi molti paralleli più in là per navigare in acque ben più mosse. Le scorie della solidarietà islandese si sono schiantate contro le Alpi. O almeno, non hanno raggiunto il leader della Lega, Matteo Salvini, che è di tutt’altro avviso rispetto alle migliaia di famiglie islandesi. In un messaggio pubblicato in rete, il cui pensiero è stato condiviso da più di 20mila persone, ne ha approfittato per esprmersi a proposito del tema: “Il governo Renzi sta cercando altri 20.000 APPARTAMENTI, posti letto in albergo, residence, campeggi e villaggi vacanze, per ospitare i CLANDESTINI che sbarcheranno in Italia.  Ovviamente, a spese degli italiani. Una VERGOGNA, contro cui la Lega si opporrà in ogni maniera. Se servirà, anche occupando quegli appartamenti. Non ci sono 20.000 italiani in difficoltà da aiutare???"

Quella islandese non è l’unica storia di solidarietà che colora ed illumina le buie pagine dell’Europa degli ultimi tempi. Vi sono comuni cittadini che con passo felpato si muovono e si organizzano per restituire un senso al concetto di Europa. Che colmano i vuoti lasciati dai governi. Che aprono porte sbattute in faccia a chi è figlio di un destino ingeneroso. Che tentano di strappare le vesti dell’indifferenza ad un’Europa più volte immortalata in una posa menefreghista. Vesti, quelle, che talvolta hanno indossato i governi, ma non i cittadini. Gli esseri umani hanno infatti spesso dimostrato di essere più solidali dei loro governi.


di Mario Lombardo

L’ammissione davanti al parlamento di Londra da parte del premier David Cameron di avere autorizzato l’assassinio extra-giudiziario di due cittadini britannici in Siria ha nuovamente messo in luce la palese illegalità con cui il gabinetto conservatore conduce la propria politica estera. I fatti descritti lunedì dal primo ministro in riferimento a un attacco con un drone, avvenuto a Raqqa nel mese di agosto, sono senza precedenti per la Gran Bretagna e, nonostante le critiche piovute su Downing Street, potrebbero facilmente ripetersi nel prossimo futuro con l’annunciato aumento dell’impegno militare contro lo Stato Islamico (ISIS) e il regime di Bashar al-Assad.

Anche se da tempo Londra è in prima fila a fianco degli Stati Uniti nella violazione del diritto internazionale con la scusa della “guerra al terrore”, l’omicio deliberato e arbitrario di cittadini britannici all’estero rappresenta il pericoloso superamento di un confine oltre il quale è difficile vedere limiti ai poteri dell’esecutivo.

Cameron ha rivelato in ogni caso che il 21 agosto un drone “Reaper” dell’aeronautica militare britannica (RAF) aveva colpito un veicolo nei pressi della città siriana, ritenuta la capitale non ufficiale del territorio controllato dall’ISIS, a bordo del quale vi erano tre persone, tra cui i cittadini del Regno, Reyaad Khan e Ruhul Amin, membri dell’organizzazione jihadista e dell’età rispettivamente di 21 e 26 anni.

Secondo il premier, l’operazione era stata studiata meticolosamente, anche se l’obiettivo dell’incursione doveva essere soltanto Khan, responsabile delle attività di reclutamento dell’ISIS, mentre Amin sarebbe stato ucciso accidentalmente. Un terzo britannico ha inoltre perso la vita in un attacco con un drone nella giornata del 24 agosto, il 21enne Junaid Hussain, anche se quest’ultimo raid sarebbe stato condotto dagli Stati Uniti.

Le spiegazioni fornite da Cameron per i due assassini extra-giudiziari implicano una fiducia completa nelle sue parole, dal momento che il governo non ha presentato alcuna prova delle responsabilità attribuite a Khan e Amin. Il primo ministro ha semplicemente definito l’operazione “necessaria e proporzionata” alle esigenze di “auto-difesa” del suo paese.

I due jihadisti, secondo Londra, stavano progettando attentati terroristici in Gran Bretagna, da mettere in atto probabilmente durante eventi commemorativi nel mese di maggio e di giugno. La soluzione estrema di uccidere entrambi è stata decisa in quanto “non vi erano alternative”, visto che nell’area di Raqqa “non esiste un governo con cui collaborare”, né la Gran Bretagna aveva “soldati sul campo” che avrebbero potuto arrestare i due fondamentalisti.

Nel passaggio più controverso del suo intervento di lunedì, Cameron si è detto sicuro che il via libera agli omicidi mirati non richiedeva alcuna autorizzazione o dibattito parlamentare, poiché il governo dispone del “diritto di agire tempestivamente” quando è in gioco “l’interesse nazionale della Gran Bretagna” o nel caso sia necessario “agire per evitare una catastrofe umanitaria”. In questi casi, ha spiegato il primo ministro, il governo ha facolta di agire e solo “successivamente [è tenuto a] fornire spiegazioni alla Camera dei Comuni”.

Il capo del governo ha quindi esplicitamente sostenuto che l’azione intrapresa in Siria è stata “del tutto legale”. La conformità dell’attacco alle norme del diritto internazionale è stata confermata dal Procuratore Generale del Regno (“Attorney General”) - il cui ufficio decretò anche la legalità dell’invasione dell’Iraq nel 2003 - e il lancio del missile che ha ucciso Khan e Amin è stato autorizzato dal ministro della Difesa, Michael Fallon.

L’iniziativa del governo conservatore di Londra ricorda tristemente gli assassini mirati condotti dagli Stati Uniti contro cittadini americani, il più noto dei quali fu quello del predicatore Anwar al-Awlaki, avvenuto in Yemen nel 2011 su ordine personale del presidente Obama.

Se la Gran Bretagna non ha una Costituzione scritta che, come quella americana, protegge esplicitamente i propri cittadini da decisioni arbitrarie di organi dello Stato, come nel caso di Awlaki e di altri americani uccisi dai droni perché sospettati di terrorismo, la morte di Reyaad Khan e Ruhul Amin appare difficilmente giustificabile da un punto di vista democratico.

Entrambi i defunti affiliati all’ISIS sono stati giustiziati esclusivamente in seguito a una decisione del potere esecutivo, in base a prove che, se pure dovessero esistere, risultano sconosciute. Nonostante gli appelli alla “sicurezza nazionale” e anche nel caso piuttosto dubbio che le parole di Cameron al Parlamento corrispondano a verità, rimane la realtà di un’operazione palesemente illegale che calpesta pericolosamente i diritti democratici garantiti a tutti i cittadini britannici, al di là della natura dei crimini di cui siano sospettati.

A rendere ancora più grave l’atteggiamento del governo di Londra e a ribadire il completo disprezzo della legalità che caratterizza la sua politica estera vi è infine il fatto che i militari britannici non dispongono di nessuna autorizzazione del Parlamento a condurre operazioni in territorio siriano.

Già lo scorso mese di luglio era emerso come gli aerei britannici avessero preso parte alle incursioni americane in Siria contro l’ISIS, nonostante il voto del Parlamento del settembre 2014 limitasse le operazioni all’Iraq. Lo stesso Cameron nell’ottobre dell’anno scorso aveva promesso pubblicamente che non ci sarebbero state operazioni militari in Siria se non dopo una nuova esplicita autorizzazione parlamentare che, peraltro, il governo intende chiedere nelle prossime settimane.

Soprattutto sulla violazione del mandato del Parlamento si stanno concentrando le critiche rivolte in questi giorni a Cameron da parte di politici e media d’oltremanica, mentre in molti sembrano dare quasi per scontata l’autorità dell’esecutivo di ordinare l’assassinio sommario di cittadini britannici.

Questo atteggiamento conferma il progressivo venir meno dell’impegno per il rispetto dei diritti civili e democratici basilari tra le élite britanniche, e non solo, dopo più di un decennio di “guerra al terrore”. Un mancato rispetto ribadito ulteriormente dal governo conservatore nella giornata di martedì, quando, in risposta alle critiche, il ministro della Difesa ha assicurato che l’esecutivo intende continuare a colpire con i droni in Siria nel caso di una vera o presunta minaccia terroristica.

di Fabrizio Casari

Dopo più di un anno dagli eventi, il caso Ayotzinapa continua, legittimamente, a scuotere il Messico. La relazione diffusa ieri dagli esperti designati dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani, stabilisce con nettezza errori e sciatterie dei rapporti di polizia che, nella loro complessità, rendono completamente inaffidabile il risultato delle indagini ufficiali.

Quello che la relazione non dice apertamente, ma che emerge comunque con sufficiente nettezza dalla sua lettura, è che gli abusi, gli occultamenti e le distruzioni di prove, insieme al rifiuto di prendere in considerazioni altri scenari a seguito dei sopralluoghi e delle successive testimonianze, ben più che imperizia ed approssimazione configurano una voluta, decisa deviazione nell’attività investigativa della polizia.

Nella versione ufficiale dell’accaduto, diramata dall’allora Procuratore Generale del Messico, Jesus Murillo Karam, recentemente destituito, si sosteneva che il fermo dei 43 studenti “normalistas” di Ayotzinapa era stato operato da agenti della polizia locale. In seguito, gli stessi agenti li avrebbero “consegnato” ai narcos che, come punizione per le proteste contro il governo dello Stato di Guerrero, avrebbero ucciso e quindi bruciato i corpi degli studenti sequestrati. Il luogo del crimine orrendo, secondo quanto riferiva la polizia, sarebbe stato la vicina discarica di Cocula. Le basi testimoniali di ciò sono rappresentate da persone minacciate e risultano stridenti di fronte agli esami forensi.

La relazione definisce quindi del tutto falsa la ricostruzione ufficiale, dato che i periti (messicani e stranieri) convocati per fare luce sull’avvenuto, a seguito dei rilevamenti operati sul posto hanno escluso categoricamente che la discarica di Cocùla sia stato il teatro dell’incenerimento di 43 cadaveri. Dunque la relazione degli esperti smentisce categoricamente la parte conclusiva della ricostruzione ufficiale.

C’è poi tutta la parte precedente al presunto assassinio dei 43 scomparsi e riguarda gli scontri e il fermo degli studenti. Anche qui si evidenzia la totale oscurità della ricostruzione ufficiale e l’assoluta reticenza dei rapporti di polizia. Diversamente da quanto divulgato dalla Procura della Repubblica non vi sono prove della consegna degli studenti ad un gruppo di narcos, meno che mai della loro uccisione.

Vi sono invece testimonianze che riferiscono di abusi della polizia sugli studenti fermati, di minacce ai testimoni oculari e di ulteriori fatti che smentiscono la ricostruzione addomesticata delle fonti ufficiali, che parlano di quattro autobus sulla scena del sequestro dei 43 studenti. Viene invece confermata da diverse testimonianze e dalla ricostruzione indipendente  la presenza sulla scena di un quinto autobus.

Nella versione ufficiale il quinto autobus adibito al trasporto degli studenti sarebbe stato distrutto dagli studenti stessi nel corso dei tafferugli, ma i testimoni oculari lo smentiscono con forza e indicano che potrebbe essere invece proprio quello con il quale sono stati portati via gli studenti.

E sono tante le evidenziazioni di buchi enormi nelle indagini: una tra tante, il rifiuto da parte della polizia di esaminare i video delle telecamere della zona fin quando gli investigatori del CDHI non lo hanno ordinato, ma ormai troppo tardi e con i video già distrutti.

Com’era prevedibile, la Procura Generale ha respinto le conclusioni della CIDH ed ha ribadito che i corpi degli studenti sono stati inceneriti. Ciononostante, il Procuratore Generale, Arely Gòmez, ha immediatamente ordinato una nuova perizia. Lo stesso Presidente della Repubblica si è detto disposto ad andare fino in fondo, anche se nessuno gli crede.

Non è compito della Commissione Interamericana per i Diritti Umani denunciare le responsabilità politiche nell’accaduto ed evidenziare il contesto completamente illegale nel quale lo Stato di Guerrero in particolare, ma tutto il Messico in generale, vive. Per fare questo i familiari dei 43 scomparsi si sono mossi, senza sosta, in patria e all’estero per sollecitare attenzione, per chiedere di esercitare pressioni su un Paese molto diverso da quello che il manichino di Televisa, Enrique Pena Nieto, racconta in favore di telecamere.

Lo scopo dell’indagine commissionata agli esperti internazionali era quello di verificare la congruità della versione ufficiale che ha dato per chiuse le indagini e archiviato il caso. E invece no. La relazione evidenzia come il caso non sia affatto chiuso, invita la polizia a raddoppiare gli sforzi per catturare i responsabili del sequestro degli studenti, chiarirne il destino ed indagare in forma esaustiva sui legami tra forze dell’ordine e criminalità.

La pratica di far scomparire le persone che cadono nelle loro mani è la caratteristica principale della polizia messicana. Le stesse indagini sul caso di Ayotzinapa hanno portato alla luce l’esistenza di fosse comuni di decine di corpi nella zona di Iguala. Zona nella quale ci sono più di 300 indagini ancora aperte per denunce di persone scomparse. Un vero e proprio flagello che colpisce quasi ogni lembo del Paese, basti pensare che nel solo 2104, sono state oltre 25.000 secondo il registro dei dati ufficiale.

E trattasi di stima per difetto, visto che in diversi casi, per diversi motivi, la scomparsa di una persona non viene nemmeno denunciata per evitare i rischi connessi in alcuni casi o perché gli scomparsi non dispongono di familiari che denuncino la loro assenza.

Gli studenti di Ayotzinapa, in questo senso, sono poi persino simbolicamente un obiettivo adeguato per il crimine istituzionale, che appunto si esprime negli stati controllati dal PRI o dal PAN o anche dal PRD (Guerrero è uno di questi ultimi).

Quei 43 scomparsi rappresentano una scuola nata per i poveri, a destinazione sociale e con spirito di riscatto per chi solo nella conoscenza può vedere mutare il suo infame destino; a vocazione decisamente ribelle, è indigesta ai fautori della paura come modello per il quotidiano. Una scuola di sinistra, certo, ma soprattutto priva di terrore, è divenuta vittima del terrorismo di Stato.



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