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di Fabrizio Casari
Alla veneranda età di 86 anni, sebbene con molto ritardo rispetto all’auspicabile, è morto nell'ospedale militare di Santiago del Cile Manuel Contreras, l’ex capo della DINA, la polizia segreta del dittatore Augusto Pinochet che insanguinò il Cile dal 1973 al 1977, quando venne chiusa su pressioni del Presidente USA Jimmy Carter. Aldilà della carica formale, che ricoprì per 4 anni, i più terribili per il Cile, nella sostanza e per tutto il periodo della dittatura pinochettista, Contreras fu il primo macellaio del regime, l’uomo che s’incaricò di realizzare la “pulizia sociale” attraverso assassinii, torture, detenzioni arbitrarie e desaparecidos, che restano il lascito concreto ed incancellabile del regime di Pinochet.
Icona del regime, rappresentazione orrorifica della crudeltà umana, l’ex capo della DINA, riproposizione cilena della Gestapo, viene da sempre citato ad esempio quando si parla di terrorismo di stato. Mai pentito, il boia Contreras rivendicò con assoluta, ferma indecenza, la sua azione criminale ed il suo ruolo nella “battaglia contro il marxismo”.
Nel momento migliore della sua vita - ovvero l’altro ieri, quando la morte è arrivata a fargli visita - si trovava in prigione, dove scontava la pena inflittagli dal Tribunale per 58 condanne, cumulate in oltre 500 anni di carcere. La Commissione per la verità e la riconciliazione aveva assegnato alla diretta responsabilità della DINA diretta da Contreras più di 1500 omicidi.
Formatosi in una scuola militare statunitense, Contreras fu la contabilità ordinata dell’orrore, la macellazione trasferita nella politica, l’odio e il rancore elevati ad ideologia, lo specchio riflesso di un regime criminale che si reggeva sul sangue dei cileni e sui dollari degli Stati Uniti.
Sebbene scaricò Pinochet, del ruolo dei suoi padroni statunitensi e di quanto con loro condiviso non ha mai voluto parlare, portandosi nella tomba i segreti più inconfessabili insieme alle mostrine di generale, che a causa degli inevitabili compromessi della riconciliazione nazionale post-dittatura, aveva mantenuto anche da detenuto.
D’altra parte, gli Stati Uniti non avrebbero certo gradito rivelazioni che, comunque, non avrebbero salvato Contreras da condanne a centinaia di anni di carcere. Ma il Cile non fu l’esclusivo perimetro dell’azione criminale di Contreras, che programmò e fece realizzare omicidi mirati in diversi altri paesi, con la collaborazione della CIA ed il ruolo attivo di alcuni dei fuoriusciti cubani agli ordini di Luis Posada Carriles e Orlando Bosh, quest’ultimo fatto oggetto del perdono presidenziale di George Bush padre, ex Direttore della Cia prima di divenire vicepresidente con Reagan.
Tra gli assassini all’estero, quello di Carlos Prats, ex Ministro della Difesa del governo di Unidad Popular guidato da Salvador Allende, assassinato insieme a sua moglie con una bomba collocata sotto la sua auto a Buenos Aires, dove si era rifugiato.
Identica sorte per Orlando Letelier, ex Ministro degli Esteri di Allende. Il 21 settembre del 1976, Letelier venne assassinato insieme alla sua assistente, la statunitense Ronnie Moffit. E anche Roma vide all’opera le squadracce assassine della DINA, quando l’ex dirigente della Democrazia Cristiana cilena, Bernardo Leighton, scampò ad un attentato contro di lui.
Il ruolo attivo, comunque consenziente dell’intelligence Usa nelle attività criminali di Contreras in quegli anni è cosa provata, non si tratta di ipotesi politiche che pure godrebbero di credibilità. Dal 1975 al 1977 Contreras era regolarmente stipendiato dalla CIA, come hanno rivelato i documenti declassificati statunitensi.
In questa veste partecipò con un ruolo di primo piano nell’Operazione Condor, il piano di cattura e sterminio sistematico degli oppositori latinoamericani concordato e realizzato unitariamente dai servizi segreti delle dittature militari di Cile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Paraguay e Brasile.
Contreras è vissuto tenendo insieme la crudeltà personale e l’odio ideologico, in una miscela che ha rappresentato il core business delle dittature militari latinoamericane volute e sostenute fin che ciò fu possibile da Washington. Una vita spesa a procurare dolore e morte, si è finalmente esaurita. Spesso la morte di un boia disegna una soddisfazione nei volti dei giusti. Questo è uno di quei casi.
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di Michele Paris
La strategia statunitense in Siria sta a poco a poco mostrando il vero obiettivo della campagna militare scatenata ormai quasi un anno fa. Dietro la facciata della guerra contro lo Stato Islamico (ISIS), Washington e i suoi alleati in Medio Oriente stanno infatti preparando un’intensificazione dell’offensiva in questo paese, diretta a rovesciare il regime di Bashar al-Assad.
In questo senso va intesa la recente autorizzazione fornita dall’amministrazione Obama alle forze aeree americane, le quali potranno ora entrare in azione per difendere la manciata di “ribelli” siriani addestrati dal Pentagono e dalla CIA, non solo se attaccati dall’ISIS o da altri gruppi estremisti, ma anche dalle forze di Damasco.
L’ordine della Casa Bianca è stato accompagnato dalle inutili rassicurazioni circa la natura essenzialmente “difensiva” della misura appena adottata e dalla conferma che gli Stati Uniti “non sono in guerra con il regime di Assad”. In realtà, l’autorizzazione a bombardare obiettivi legati al governo siriano, sia pure a scopi teoricamente difensivi, comporta una pericolosa escalation del conflitto, rendendo solo una questione di tempo lo scontro diretto tra Damasco e gli USA. Tanto più che le forze governative sono attive nella provincia settentrionale di Aleppo, dove operano i mercenari addestrati da Washington.
La decisione resa nota a inizio settimana giunge pochi giorni dopo l’umiliazione patita dagli stessi “ribelli” appoggiati dagli USA in seguito a un attacco del Fronte al-Nusra, ovvero l’organizzazione fondamentalista che rappresenta ufficialmente al-Qaeda in Siria. Il Fronte aveva rapito il comandante del gruppo di uomini inviati nel paese dopo essere stati addestrati dagli americani, assieme ad altri sei membri di questo modestissimo manipolo di combattenti.
Per stessa ammissione del Pentagono, i 500 milioni di dollari stanziati dal governo di Washington per addestrare migliaia o decine di migliaia di uomini per combattere l’ISIS hanno dato finora un risultato irrisorio, con appena una sessantina di uomini rispediti in Siria, inevitabilmente impreparati ed esposti agli assalti dei ben più potenti gruppi jihadisti.
L’effetto di questo episodio è stato devastante per il governo e i vertici militari americani, i quali - come i loro stessi uomini in Siria - ritenevano probabilmente che il Fronte al-Nusra e le formazioni ad esso legate potessero agire da alleati di fatto dei guerriglieri sotto la loro protezione.
Questa ipotesi di alleanza o collaborazione resta comunque reale, vista l’inconsistenza dei mercenari di Washington. In tal caso, se anche il regime di Damasco dovesse decidere di non colpire direttamente questi ultimi, un’offensiva contro le forze jihadiste armate potrebbe fornire la giustificazione di una risposta da parte americana, essendo i loro uomini integrati con queste ultime.
Organizzazioni come il Fronte al-Nusra e altre di ispirazione fondamentalista continuano d’altra parte a ricevere assistenza più o meno clandestina da parte degli alleati di Washington, come Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
In ogni caso, il gruppo di combattenti addestrati dagli USA appare talmente inefficace da rendere virtualmente indistinguibile la natura offensiva o difensiva di un eventuale operazione in cui esso potrebbe trovarsi coinvolto. Il ruolo delle poche decine di uomini spediti in Siria, perciò, sembra essere precisamente quello di provocare un attacco delle forze del regime per stabilire una sorta di casus belli che giustifichi l’offensiva americana diretta contro Assad.
Tutti i segnali delle ultime settimane indicano d’altra parte un’evoluzione del conflitto in Siria verso una nuova guerra aperta per il cambio di regime. In particolare, l’ennesima svolta strategica americana in Medio Oriente ha accelerato i preparativi in questo senso. L’amministrazione Obama ha cioè scaricato i guerriglieri curdi, che fino ad ora avevano rappresentato il partner principale nella lotta all’ISIS, per ottenere l’ingresso nelle ostilità della Turchia.
Ankara, com’è noto da tempo, vede con maggiore preoccupazione la formazione di un’entità autonoma curda nel nord della Siria e la permanenza al potere di Assad che non l’espansione dell’ISIS. A questo scopo, il governo del presidente Erdogan e del premier Davutoglu spinge per la creazione di una no-fly zone oltre il proprio confine meridionale, sia per scongiurare il consolidamento di uno stato curdo di fatto indipendente sia per organizzare al meglio un’offensiva contro le forze di Damasco.
Tramite il recente accordo con la Turchia, gli Stati Uniti hanno da parte loro avallato questo progetto illegale, il quale, assieme alla decisione di questa settimana di rispondere agli attacchi del regime siriano, segna una tappa fondamentale nella guerra contro Assad, scatenata ormai più di quattro anni fa.
Sul nuovo impulso alla guerra in Siria deciso dalla Casa Bianca hanno influito ragioni sia di politica interna sia gli eventi che hanno segnato recentemente la scena mediorientale. Sul fronte interno, Obama continua a essere esposto alle pressioni dei “falchi” che chiedono da anni un impegno diretto dei militari USA per chiudere definitivamente con Assad, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.
Nel secondo caso, invece, non è solo l’insistenza a farla finita con Assad da parte della Turchia e delle monarchie assolute del Golfo a costituire un fattore decisivo sulle sconsiderate scelte di politica estera del governo USA, ma anche probabilmente i nuovi scenari aperti dall’accordo sul nucleare iraniano.
L’intesa siglata il mese scorso a Vienna, almeno nei calcoli di Washington, dovrebbe rendere cioè improbabile una reazione di Teheran a un’offensiva diretta contro l’alleato Assad, poiché trascinerebbe la Repubblica Islamica in un conflitto di vaste proporzioni in Medio Oriente, spegnendo sul nascere le ambizioni della propria classe dirigente a rientrare a pieno titolo nei circuiti del capitalismo internazionale.
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di Carlo Musilli
Fiumi d'inchiostro continuano a scorrere in Grecia e sulla Grecia, ma l'unico argomento davvero cruciale per il destino del Paese - la necessità di ristrutturare il debito pubblico - rimane ancora sullo sfondo. "C'è un elefante nel salotto buono", recita un detto inglese dedicato alle verità scomode note a tutti e da tutti ignorate.
Intanto, mentre il pachiderma si destreggia fra porcellane e cristalli, Atene cerca di tornare a una parvenza di normalità. Oggi riapre la Borsa, la settimana scorsa il Governo ha alzato il limite ai prelievi sul conto corrente, portandolo a 420 euro in tre giorni anziché in una settimana. Nel frattempo, i tecnici della Troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) sono tornati vittoriosi nella capitale greca, dove hanno ricominciato a lavorare indisturbati.
In ballo c'è il nuovo Memorandum che dovrà essere siglato entro la metà del mese, così da permettere il versamento della prima rata del nuovo piano di aiuti entro il 20 agosto, quando Atene dovrà rimborsare alla Bce più di 3 miliardi di euro. Oltre all'innalzamento dell'età pensionabile e alla cancellazione delle baby-pensioni, il pacchetto di riforme imposto dai creditori prevede altri due interventi particolarmente dolorosi, la reintroduzione dei licenziamenti collettivi e lo stop alla contrattazione collettiva.
Sul versante finanziario, invece, la Grecia deve fare i conti con la recente direttiva europea sulle risoluzioni bancarie, un nuovo meccanismo di salvataggio che prevede in prima istanza il contributo di correntisti, azionisti e obbligazionisti degli istituti, anche ricorrendo a prelievi forzosi sui depositi oltre i 100mila euro, come già avvenuto a Cipro. Tra le banche greche e la Bce sono in corso colloqui proprio per allontanare il fantasma dell'haircut in caso di ristrutturazioni.
Quanto all'elefante in salotto, mentre tutti si sforzano di non guardarlo, l'unica istituzione con gli occhi fissi sul pachiderma è il Fmi, che stavolta punta i piedi e fa sul serio: non parteciperà al salvataggio di Atene finché il Paese non darà il via libera a nuove riforme e soprattutto finché i creditori europei non prenderanno un impegno concreto sul fronte della ristrutturazione del debito.
La divergenza fra Bruxelles e Fondo monetario su questo punto è tutta politica. I Paesi europei non intendono ridurre il peso del debito ellenico perché significherebbe ammettere di aver sprecato i soldi dei propri contribuenti. In realtà non c'è stato alcuno spreco, il punto è che l'obiettivo non è mai stato la salvezza della Grecia: quelle risorse sono servite in massima parte a ripulire i bilanci delle banche francesi e tedesche, spostando sui conti pubblici nazionali l'esposizione al debito greco.
Il denaro in questione non tornerà mai indietro, anche perché nel frattempo stiamo infliggendo al Pil della Grecia l'ennesima bordata d'austerità. In queste condizioni, immaginare che un giorno Atene riuscirà a tornare sul mercato, finanziare da sola tutto il proprio debito pubblico e ripagare per intero i prestiti ricevuti significa credere nella versione finanziaria di Babbo Natale. Lo sanno tutti benissimo, ma piuttosto che ammetterlo e scontarne il prezzo politico preferiscono continuare ad alimentare il perverso schema Ponzi che tiene artificialmente in vita i conti di Atene: debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi.
Un circolo vizioso che il Fmi vuole interrompere non per buon cuore, ma perché subisce pressioni da più parti: alcuni lamentano mancanza di equità nel trattamento riservato ai diversi Paesi del globo, altri sono contrari all'accanimento terapeutico incapace di guarire la malattia greco-europea. A capeggiare il secondo gruppo sono gli Stati Uniti, che da qualche tempo vanno a caccia di elefanti nei salotti europei.
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di Michele Paris
Le elezioni del prossimo 17 agosto per il rinnovo del Parlamento dello Sri Lanka rischiano di presentare una sgradita sorpresa al governo in carica nell’isola dell’oceano Indiano e ai suoi sponsor in India e negli Stati Uniti. L’ex presidente Mahinda Rajapaksa, dato per finito dopo l’installazione alla guida del paese di un suo ex ministro lo scorso mese di gennaio, ha infatti annunciato la propria candidatura alla carica di primo ministro, contando sul consenso che ancora raccoglie tra la maggioranza cingalese di fede buddista.
Con uno schiaffo al presidente, Maithripala Sirisena, i leader del Partito per la Libertà dello Sri Lanka (SLFP) un paio di settimane fa avevano scelto Rajapaksa come candidato premier. La decisione aveva smentito clamorosamente la presa di posizione di Sirisena, il quale solo pochi giorni prima aveva dichiarato che avrebbe impedito la nomina a capo del governo del suo rivale e predecessore in caso di successo alle elezioni dell’SLFP.
Rajapaksa e Sirisena fanno parte dello stesso partito, ma il secondo si era prestato alle manovre di una sezione della classe dirigente dello Sri Lanka e delle rappresentanze diplomatiche di India e Stati Uniti per succedere al primo nella carica di presidente. L’occasione si era presentata sul finire del 2014, quando Rajapaksa aveva indetto le elezioni con due anni di anticipo per evitare un’emoraggia di consensi a causa dei suoi metodi di governo anti-democratici e della corruzione dilagante sotto il suo regime.
Il Partito Nazionale Unito (UNP) filo-americano e l’ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, anch’essa appartenente all’SLFP, avevano allora promosso la candidatura di Sirisena, a sua volta dimessosi da ministro della Sanità nel governo del presidente Rajapaksa.
Cavalcando l’impopolarità di quest’ultimo, Sirisena era così riuscito a prevalere nel voto di gennaio. Rajapaksa aveva inizialmente cercato di delegittimare il risultato ma, avvertito più o meno apertamente da Washington e Delhi che la sua resistenza a farsi da parte avrebbe scatenato una rivolta appoggiata dai loro governi, aveva finito per riconoscere la sconfitta.
Le colpe di Rajapaksa agli occhi di India e Stati Uniti non erano tanto le tendenze autoritarie evidenziate durante gli anni al potere o i crimini commessi nella guerra contro le Tigri Tamil (LTTE), bensì l’instaurazione di rapporti molto stretti con la Cina. Soprattutto durante gli ultimi anni della presidenza Rajapaksa, Pechino ha concesso ingenti prestiti al governo cingalese per la realizzazione di infrastrutture, mentre in due occasioni sottomarini cinesi hanno attraccato nel porto di Colombo, suscitando le preoccupazioni di Washington e Delhi.
Il sostegno a Sirisena aveva perciò come obiettivo lo sganciamento dello Sri Lanka dalla Cina e l’allineamento di questo paese alle esigenze strategiche statunitensi e indiane. Appena eletto alla presidenza, Sirisena ha infatti ordinato la sospensione di molti progetti avviati da aziende cinesi e la revisione delle modalità di assegnazione degli appalti.
Episodi molto probabili di corruzione sono stati sfruttati politicamente sia per giustificare un allentamento delle relazioni con Pechino sia per perseguire penalmente Rajapaksa e il suo entourage, spesso fatto di membri della sua famiglia.
La stessa amministrazione Obama aveva manovrato con le Nazioni Unite per fare avanzare un’indagine sulla possibile violazione dei diritti umani nelle fasi finali della guerra contro le forze ribelli Tamil nel 2009, durante le quali furono uccisi 40 mila civili appartenenti a questa minoranza etnica.
La pubblicazione del rapporto dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani è stata rinviata alla fine di settembre e, con ogni probabilità, il documento verrà usato come arma per colpire Rajapaksa, soprattutto nel caso dovesse riuscire a diventare primo ministro.
L’ex presidente, in ogni caso, continua ad apparire in un comizio dopo l’altro e ad attaccare duramente l’attuale governo. Il suo ritorno sulla scena politica dello Sri Lanka è favorito dalle mancate promesse fatte in campagna elettorale da Sirisena, in particolare sul fronte economico e del miglioramento delle condizioni di vita di milioni di poveri e lavoratori.
Rajapaksa insiste anche sull’appello al nazionalismo cingalese, ricordando puntualmente la sconfitta inflitta dal suo governo ai “terroristi” Tamil. In maniera esplicita, inoltre, Rajapaksa promette un’inversione di rotta della politica estera del suo paese, così da tornare a guardare alla Cina, la quale aveva favorito una qualche crescita economica in Sri Lanka e, soprattutto, aveva arricchito molti tra politici e imprenditori nella cerchia dell’ex presidente.
Una vittoria nelle elezioni di agosto per Rajapaksa rappresenterebbe infine una vera e propria beffa per Sirisena e le forze che lo appoggiano. Dopo l’elezione di gennaio, infatti, il nuovo governo ha implementato la promessa elettorale di ridimensionare i poteri del presidente e rafforzare quelli assegnati al primo ministro.
Se in Sri Lanka non sono stati finora diffusi sondaggi attendibili sugli equilibri politici in vista del voto, svariati analisti citati dalla stampa internazionale prevedono una possibile sconfitta per Rajapaksa e l’SLFP, con l’UNP del primo ministro in carica, Ranil Wickremesinghe, in vantaggio e favorito per la formazione del prossimo governo.
Rajapaksa aveva tuttavia perso le elezioni presidenziali di gennaio con un margine piuttosto ridotto e sembra conservare un seguito consistente nel paese. Il suo ritorno al potere in Sri Lanka potrebbe essere però ostacolato dalle divisioni che continuano a caratterizzare il suo partito, lacerato tra l’ex presidente - e le sirene cinesi - e il suo successore sostenuto da India e Stati Uniti, i cui governi sono ben decisi a mantenere la propria influenza su questo paese strategico per il controllo delle rotte commerciali nell’Oceano Indiano.
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di Michele Paris
La competizione per la leadership laburista in Gran Bretagna, dopo la sconfitta patita alle urne lo scorso mese di maggio, sta rapidamente gettando il partito in una grave crisi, provocata principalmente dal gigantesco divario esistente tra gli orientamenti dei suoi vertici e quelli della sua teorica base elettorale.
A scatenare una feroce polemica all’interno del “Labour” è stata la relativamente sorprendente ascesa del candidato della sinistra del partito, Jeremy Corbyn, a tutt’oggi il favorito nella corsa alla sostituzione di Ed Miliband. Il veterano deputato 66enne ha infatti superato nel gradimento dei possibili elettori i vari aspiranti segretari di tendenze più moderate o apertamente schierati con il “New Labour” e l’ex primo ministro, nonché potenziale criminale di guerra, Tony Blair.
Lo status di “front-runner” di Corbyn rappresenta una beffa per l’establishment laburista che teme la sua elezione a segretario, visto che la sua candidatura era stata sponsorizzata all’ultimo momento proprio da vari leader del partito contrari alle sue posizioni progressiste. Per un partito spostatosi nettamente a destra negli ultimi anni e punito severamente alle urne, molti all’interno di esso auspicavano la presenza di un candidato di “sinistra”, sia per dare l’impressione dell’apertura del Labour a tutti gli orientamenti sia, soprattutto, per dimostrare l’esiguità di un elettorato “radicale” in Gran Bretagna e giustificare perciò l’abbraccio delle politiche neo-liberiste.
Questa scommessa sembrava però poter andare a buon fine solo in caso di una candidatura debole di Corbyn e di un’inevitabile sonora sconfitta, come avevano agevolmente previsto i leader moderati del partito. L’agenda di Corbyn, fatta di misure volte a invertire le politiche di austerity degli ultimi governi laburisti e conservatori, ha al contrario suscitato una valanga di consensi e un numero inaspettato di nuovi aderenti al partito, pronti a sostenere il candidato di “sinistra” nelle prossime elezioni per la leadership.
A favorire il decollo della candidatura di Jeremy Corbyn è stata anche la modifica delle regole per l’elezione del leader del partito. A differenza del passato, in questa occasione chiunque potrà partecipare al voto, a patto che sia disposto a donare tre sterline al Partito Laburista.
Decine di migliaia di persone hanno così aderito al Labour o si sono registrate come “sostenitori” nelle ultime settimane, provocando non l’esultanza dei suoi leader ma suscitando bensì un’angoscia diffusa.
Secondo i sondaggi pubblicati in questi giorni dai media britannici, Corbyn avrebbe un margine sostanzioso sui suoi sfidanti, essendo attestato in media attorno al 40% dei consensi, contro circa il 20% degli ex membri del governo di Gordon Brown, Yvette Cooper e Andy Burnham, e poco più di un misero 10% della fedelissima di Tony Blair, Liz Kendall. Anche in un ipotetico testa a testa con Burnham o Cooper, Corbyn risulterebbe al momento il candidato vincente.
Questi sviluppi hanno trasformato la sfida interna al Partito Laburista in una vera e propria farsa. Svariati parlamentari laburisti hanno infatti manifestato reazioni tra il patetico e l’isteria, denunciando le modalità con cui si dovrà tenere il voto per il leader del partito. Le nuove regole avrebbero cioè consentito l’inflitrazione di elementi “socialisti” e “comunisti” che intendono appoggiare Corbyn.
Per il deputato John Mann, il voto è a rischio sabotaggio per opera di individui di “estrema sinistra” che si sono tradizionalmente opposti ai laburisti e che ora starebbero cercando “espressamente di distruggere” il partito. Lo stesso Mann ha invitato la leader ad interim del Labour, Harriet Harman, a controllare in maniera più scrupolosa il profilo dei nuovi aderenti al partito, visto che la maggior parte di essi sembra sostenere la candidatura di Corbyn.
Per altri, addirittura, la competizione per la leadership del partito dovrebbe essere sospesa, mentre il ministro-ombra per l’Energia, Caroline Flint, ha sostenuto che “a coloro che non condividono gli obiettivi o i valori del Labour dovrebbe essere negato il diritto di voto nelle elezioni” per il nuovo segretario.
Ancora, secondo il Daily Telegraph, se Corbyn dovesse diventare il prossimo segretario del partito, importanti parlamentari laburisti starebbero già complottando per la sua deposizione, subito dopo l’elezione, prevista per settembre, o “tra un anno o due”, verosimilmente in attesa degli effetti di una campagna politica e di stampa che prenderebbe di mira fin da subito la sua leadership.
Simili denunce e minacce fanno seguito alle numerose dichiarazioni rilasciate settimana scorsa da vari leader ed ex leader laburisti, tutti preoccupati per le possibili conseguenze di un’eventuale svolta a sinistra del partito in caso di elezione di Jeremy Corbyn. Liz Kendall e Yvette Cooper avevano ad esempio affermato di non essere disposte a prendere parte al governo-ombra sotto la leadership di Corbyn, prospettando secondo molti l’ipotesi di una futura scissione nel partito.
Anche Tony Blair, senza apparente imbarazzo, era intervenuto nel dibattito, esaltando i presunti successi nel passato del New Labour e mettendo in guardia dai pericoli che comporta l’adozione da parte del partito di una “vecchia piattaforma di sinistra”.
In generale, i leader laburisti che si oppongono a Corbyn e i giornali che sostengono il partito sono impegnati a spiegare come l’unico percorso per tornare al governo passi attraverso un ulteriore spostamento a destra. Il ritorno a politiche anche solo vagamente di ispirazione progressista assesterebbe invece un colpo mortale al Labour, destinandolo all’irrilevanza politica per decenni. Secondo questa interpretazione, la sconfitta del Partito Laburista alle elezioni di maggio sarebbe stata appunto causata dalle posizioni troppo a sinistra dell’ormai ex leader, Ed Miliband.
La candidatura di un politico non particolarmente radicale e che promuove più che altro iniziative tipiche delle socialdemocrazie europee del recente passato è bastata dunque a smascherare la vera natura del Partito Laburista odierno e la profonda crisi in cui versa.
Incapace da tempo di formulare una proposta politica alternativa che vada incontro alla diffusissima richiesta tra lavoratori e classe media di invertire le devastanti politiche anti-sociali dei conservatori - e degli stessi precedenti governi laburisti di Brown e Blair - il Labour rischia di implodere di fronte alla sola prospettiva di una leadership teoricamente disposta a fare una reale opposizione nel Parlamento britannico.
La popolarità di Jeremy Corbyn - al di là delle sue reali intenzioni e dell’effettiva disponibilità a sfidare l’establishment del partito - testimonia come un’ampia fetta della popolazione britannica sia attestata su posizioni molto più progressiste, se non “radicali”, di quanto ritengano o vogliano far credere i politici laburisti. Questi ultimi vivono in una realtà parallela a quella della maggioranza dei loro connazionali e i rapporti che li legano ai poteri forti della società impediscono loro di comprendere o ammettere come i presunti punti deboli di Corbyn siano i motivi stessi del suo inaspettato successo.
Mentre la leadership laburista solo pochi giorni fa ha ordinato ai propri deputati l’astensione in Parlamento durante il voto sull’ultima dose di austerity imposta dal governo Cameron, dopo averne sposato in gran parte i principi, la maggioranza dei britannici continua ad avere opinioni e a nutrire aspettative diametralmente opposte.
Mercoledì, ad esempio, il Belfast Telegraph ha opportunamente ricordato un sondaggio del mese di marzo condotto da YouGov, nel quale gli interpellati esprimevano opinioni favorevoli, e con maggioranze schiaccianti, al controllo pubblico di servizi in mano privata o in fase di privatizzazione, dagli ospedali alle carceri, dalle scuole alle ferrovie, dalla posta all’elettricità e all’acqua.
Proprio la ri-nazionalizzazione dei servizi privatizzati in questi anni è uno dei punti centrali della piattaforma con cui Corbyn si sta candidando alla guida del Partito Laburista. La sua proposta politica parte dal presupposto che il Labour rischia una crisi di consensi irreversibile se non sarà in grado di opporsi all’austerity dominante in Gran Bretagna e nel resto dell’Europa.
Gli altri punti cruciali della sua agenda includono infine l’aumento delle tasse per i redditi più alti, la riduzione delle agevolazioni fiscali per le grandi aziende e un piano di investimenti pubblici per la realizzazione di progetti di infrastrutture, tutte proposte viste con orrore dai suoi sfidanti nel partito.
Se la popolarità di queste e altre iniziative appare evidente dal gradimento raccolto finora da Corbyn, tutto un altro discorso è invece la possibilità che anche una sola di esse possa essere effettivamente implementata all’interno di un partito sclerotizzato e al servizio delle élite economico-finanziarie britanniche.