di Michele Paris

La prevista sconfitta nelle primarie del New Hampshire della favorita per la nomination Democratica, Hillary Clinton, per mano del senatore del Vermont, Bernie Sanders, è arrivata puntualmente martedì con dimensioni ancora più consistenti rispetto a quelle indicate dai sondaggi. Sul fronte Repubblicano, invece, Donald Trump ha finalmente capitalizzato l’onda anti-establishment che sta animando l’elettorato americano, lasciando i suoi sfidanti a contendersi il ruolo di candidato alternativo attorno a cui dovrebbero coalizzarsi i vertici del partito.

Pur considerando le dimensioni del piccolo stato del New England e, probabilmente, la scarsa rappresentatività che qui si riscontra circa la varietà demografica degli Stati Uniti, la portata dell’affermazione di Sanders sembra difficile da sopravvalutare. Per la prima volta nella storia degli USA, un candidato auto-definitosi “socialista” ha vinto un’elezione primaria per uno dei due principali partiti e lo ha fatto sia mobilitando un numero di elettori Democratici e “indipendenti” di gran lunga superiore a quello registrato negli anni scorsi, sia raccogliendo la maggioranza dei consensi in tutte le fasce demografiche e sociali, a eccezione di quelle che includono i più ricchi e i più anziani.

Il 60% dei voti andato a Sanders contro poco più del 38% per Hillary Clinton testimonia dell’interesse di ampie fasce della popolazione per soluzioni progressiste - se non esplicitamente di impronta socialista - ai problemi legati alle differenze sociali e di reddito, alla disoccupazione e alla sotto-occupazione, all’educazione e all’assistenza sanitaria universale.

L’allargamento del margine tra Sanders e Hillary evidenziato dai risultati finali in New Hampshire rispetto alle previsioni è poi anche la conseguenza della reazione dello staff, dei sostenitori e della famiglia dell’ex segretario di Stato alla crisi in cui è piombata la sua campagna elettorale dopo il virtuale pareggio nei caucuses dell’Iowa della scorsa settimana.

Con ogni probabilità, gli attacchi più o meno diretti rivolti a Sanders e ai suoi potenziali elettori hanno infatti finito per avere l’effetto contrario, spostando gli equilibri della competizione ancor più a favore del 73enne senatore. Nei giorni precedenti l’apertura delle urne in New Hampshire, l’ex presidente Bill Clinton aveva usato toni insolitamente duri nel criticare Sanders, mentre in un comizio della sua consorte, l’ex segretario di Stato, Madeline Albright, e la nota femminista, Gloria Steinem, avevano denunciato non troppo garbatamente le donne intenzionate a votare per il rivale di Hillary.

Se l’entusiasmo generato dalla campagna di Sanders è il risultato di un genuino desiderio di rompere con un sistema politico bloccato ed espressione unica dei poteri forti, è però impossibile considerare seriamente il veterano senatore come un elemento rivoluzionario. I temi da lui promossi sembrano appartenere a un’agenda di estrema sinistra solo per gli standard odierni di un panorama politico americano spostatosi drammaticamente a destra.

Le proposte avanzate da Sanders sono in realtà riconducibili alla tradizione “liberal” del Partito Democratico, all’interno del quale svariati candidati nell’ultimo secolo hanno rappresentato candidature di “sinistra”, sostanzialmente per intercettare ed estinguere i segnali di rivolta sociale diffusi negli Stati Uniti.

La prova incontrovertibile della natura di Sanders, peraltro allineato in gran parte alla delegazione Democratica del Congresso negli ultimi due decenni nonostante lo status nominale di indipendente, è data dalle sue posizioni in politica estera. Anche se su questi temi ha prevalso per il momento la vaghezza, Sanders ha più volte mostrato di essere virtualmente indistinguibile da Obama o dalla stessa Hillary, proponendosi, in caso di conquista della Casa Bianca, come difensore dell’imperialismo americano, sia pure in una versione relativamente moderata.

Visto che le avventure belliche e la politica estera egemonica di Washington sono la logica conseguenza delle politiche di classe sul fronte interno, perseguite dal Partito Repubblicano così come da quello Democratico, all’interno del quale Sanders intende operare, appare a dir poco improbabile che anche solo alcune delle misure “radicali” promesse dal senatore del Vermont possano concretizzarsi in caso di vittoria nelle elezioni di novembre.

Il team di Hillary ha sostenuto di avere preventivato la sconfitta in New Hamsphire, ma in realtà la ex first lady ha condotto una campagna elettorale piuttosto intensa in uno stato che l’aveva vista vincere su Obama nelle primarie del 2008 dopo la batosta dell’Iowa. Per i commentatori americani, Hillary sarà comunque favorita nei prossimi due appuntamenti di febbraio, cioè nei caucuses del Nevada il giorno 20 e in South Carolina sette giorni più tardi.

Media e sostenitori di Hillary hanno già iniziato a giocare la carta razziale in vista delle sfide a venire, evidenziando i presunti precedenti di quest’ultima nel promuovere i diritti e la condizione delle minoranze.

In Nevada e in South Carolina vi è una forte incidenza tra gli elettori Democratici rispettivamente di ispanici e neri, considerati finora al di fuori della portata di Sanders, in grado di far segnare risultati positivi in stati in prevalenza bianchi come Iowa e New Hampshire. Non a caso, subito dopo la chiusura delle urne martedì, Sanders si è recato a New York per incontrare uno dei leader storici della comunità di colore, Al Sharpton.

In Nevada, poi, una parte importante dei votanti nelle primarie Democratiche è costituita dagli iscritti ai sindacati - soprattutto della ristorazione e del gioco d’azzardo - i cui vertici sono allineati all’establishment del partito e, quindi, appoggiano la candidatura di Hillary Clinton.

Alla luce dell’esito delle primarie in New Hampshire, gli strateghi della Clinton si sono visti costretti a puntare tutto sulle prossime date. Così facendo, però, anche una vittoria della loro candidata con margini ridotti rispetto a quelli previsti dai sondaggi rischierà di trasformarsi in una mezza sconfitta, come in Iowa, e di dare un ulteriore impulso alla campagna di un Sanders che già dispone di risorse finanziarie ormai paragonabili a quelle di Hillary.

In casa Repubblicana, a determinare la prevista vittoria di Donald Trump sono state in sostanza le stesse apprensioni rilevate tra gli elettori Democratici, anche se in questo caso in forma populista e marcatamente reazionaria. Il miliardario newyorchese era arrivato al voto in New Hampshire dopo un dibattito con gli altri candidati Repubblicani nel fine settimana nel quale aveva fornito una delle prestazioni più sconcertanti tra quelle già abbastanza discutibili registrate finora.

Nel rispondere a una domanda dei moderatori sulla “guerra al terrore”, Trump si era detto favorevole all’utilizzo di metodi di tortura - “waterboarding e molto di più” - negli interrogatori di sospettati di terrorismo. L’uscita di Trump, in maniera forse ancora più inquietante, non ha suscitato la minima condanna dei colleghi di partito, né della stampa ufficiale o dei candidati Democratici alla Casa Bianca.

Razzismo, nazionalismo, esaltazione della ricchezza, del militarismo e di forme autoritarie di governo costituiscono i tratti principali della campagna elettorale di Donald Trump, in grado di far leva sulle paure delle fasce più disorientate della popolazione americana dopo anni di guerre e stenti sul fronte economico.

In New Hampshire, il margine di vantaggio di Trump sul secondo classificato ha comunque sfiorato i venti punti percentuali. Le prestazioni degli altri aspiranti alla nomination hanno di nuovo fatto tremare i vertici del partito, poiché il candidato dell’establishment che sembrava avere le migliori credenziali per contrastare Trump dopo i caucuses dell’Iowa, il senatore della Florida Marco Rubio, è stato protagonista di una prova anonima.

Rubio aveva rimediato una figuraccia nel dibattito di sabato scorso dopo gli attacchi di alcuni suoi rivali. Di fronte soprattutto all’offensiva del governatore del New Jersey, Chris Christie, Rubio aveva mostrato tutta la sua inconsistenza, peggiorando inoltre le cose quando durante e dopo il dibattito aveva cercato di reagire ripetendo in modo meccanico una serie di frasi e concetti chiaramente studiati a tavolino.

Al secondo posto in New Hampshire è giunto così l’outsider John Kasich, attuale governatore “moderato” dell’Ohio, ma la sua performance ha fatto ben poco per confortare quanti all’interno del partito ritengono che l’eventuale nomination di Trump sia una garanzia di sconfitta nelle presidenziali di novembre.

Kasich è poco conosciuto a livello nazionale e ha condotto finora una campagna di basso profilo, così che difficilmente potrà essere considerato il cavallo su cui puntare per impedire il successo di Trump. I Repubblicani dovranno perciò attendere ancora per veder prevalere un candidato gradito all’establishment in grado di raccogliere il sostegno dei grandi donatori e provare a contrastare l’attuale favorito.

Dietro a Trump, infatti, la situazione è apparsa molto incerta in New Hampshire. A parte Kasich, il senatore del Texas, Ted Cruz, vincitore a sorpresa in Iowa e visto oltretutto anch’esso con diffidenza dai vertici del partito, Jeb Bush e Marco Rubio hanno raccolto ciascuno tra il 10,5% e poco meno del 12%.

Il calendario delle primarie prevede ora il voto in alcuni stati meridionali, dove il prevalere di un elettorato di tendenze conservatrici potrebbe ulteriormente premiare Trump e Cruz, ritardando ancor più il processo di selezione tra gli altri candidati. I vari Rubio, Kasich, Bush e Christie, nel caso quest’ultimo dovesse decidere di proseguire la sua campagna dopo il pessimo risultato in New Hampshire, sono poi quasi tutti ben finanziati, rendendo improbabile il loro abbandono della corsa se non in presenza di ripetute prestazioni più che deludenti.

A differenza del Partito Democratico, quello Repubblicano terrà le prossime primarie il 20 febbraio prossimo in South Carolina e il 23 i caucuses nel Nevada, dove i sondaggi danno Trump in vantaggio, per poi passare al tradizionale appuntamento del “Super-martedì” il primo giorno del mese di marzo.

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