di Mario Lombardo

Dopo le storiche elezioni dello scorso 8 novembre in Myanmar, vinte a valanga dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, erano subito iniziate frenetiche trattative per trovare un equilibrio nella gestione del potere nel paese del sud-est asiatico, dove i militari continuano a svolgere un ruolo di primo piano. I negoziati tra questi ultimi e la NLD sono ancora in corso e, secondo alcune notizie provenienti dalla ex Birmania, potrebbero risolversi in un clamoroso via libera all’elezione alla presidenza della stessa San Suu Kyi.

Capitalizzando la profondissima ostilità nei confronti di una giunta militare che ha governato il paese con il pugno di ferro per decenni, la NLD aveva ottenuto quasi l’80% dei seggi del Parlamento (Assemblea dell’Unione) in palio. I militari, però, grazie alla Costituzione approvata prima di indire “libere” elezioni, si erano riservati il 25% dei seggi e l’assegnazione di alcuni ministeri-chiave, come quello della Difesa e degli Interni. Per emendare la Costituzione è necessario un voto favorevole del 75% più uno dei membri del Parlamento.

Inoltre, con il preciso scopo di impedire ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente, era stato stabilito che alla massima carica del paese non poteva accedere chi avesse parenti stretti di nazionalità diversa da quella birmana. Com’è noto, il marito - deceduto - e i due figli della 70enne premio Nobel hanno cittadinanza britannica.

Il nuovo Parlamento si è ad ogni modo insediato la settimana scorsa nella capitale, Naypyitaw, e alcune delle prime iniziative della nuova maggioranza guidata da San Suu Kyi hanno dimostrato l’esistenza di intense discussioni tra la NLD e il Partito Unito per la Solidarietà e lo Sviluppo (USDP) dei militari. Anzi, la NLD ha mostrato ampia disponibilità a collaborare con i militari. Ad esempio, il deputato del USDP, T Khun Myat, è stato eletto vice-presidente della Camera dei Rappresentanti, mentre l’ex “speaker” ed ex generale Shwe Mann, già numero uno del USDP, è stato messo a capo di una potente commissione parlamentare.

Queste e altre concessioni, secondo alcuni, potrebbero rientrare in un accordo per consentire ad Aung San Suu Kyi di essere eletta presidente del Myanmar. Due esponenti di spicco della NLD hanno rivelato qualche giorno fa al New York Times che il partito ora di maggioranza è pronto a offrire ai militari posizioni di rilievo nel governo in cambio di una modifica costituzionale.

Vista la sensibilità di un’iniziativa di questo genere, la stampa locale e internazionale sta ipotizzando che vi sia allo studio in questi giorni la possibilità di ricorrere a un espediente per ottenere lo stesso obiettivo, quello cioè di “sospendere” l’articolo 59(f) della Costituzione, che vieta appunto a personalità politiche nella condizione famigliare di San Suu Kyi di correre per la presidenza.

Questa eventualità è stata smentita seccamente dal portavoce del gruppo parlamentare del USDP, generale Tin San Naing, il quale ha addirittura escluso che siano in corso discussioni con la NLD sull’argomento. In generale, anche i vertici della NLD stanno evitando di parlare dei negoziati con i militari, tanto che a fine gennaio, poco prima di un incontro con il comandante delle Forze Armate birmane, generale Min Aung Hlaing, avevano emesso una direttiva che autorizzava la sola San Suu Kyi a parlare pubblicamente delle questioni legate al processo di “transizione”.

La prudenza di entrambe le parti è comprensibile. I militari, da un lato, non intendono mostrare segnali di debolezza nonostante la batosta subita alle urne, mentre per la leader della NLD la rivelazione dei dettagli sulle trattative per la spartizione del potere con coloro che l’hanno costretta a una lunga prigionia potrebbe macchiare l’immagine attentamente costruita di “icona” democratica.

D’altra parte, i militari birmani, riservandosi la possibilità di intervenire nelle vicende politiche del paese, intendono salvaguardare i propri interessi, soprattutto economici, anche se ufficialmente in minoranza e, per questa ragione, eventuali concessioni alla NLD sulla questione della presidenza dovranno essere ricambiate in maniera adeguata.

Un altro segnale che le discussioni stanno proseguendo è giunto proprio in questi giorni, con l’annuncio del rinvio delle nomine dei candidati alla presidenza al prossimo mese di marzo. Secondo la Costituzione, i nomi dei tre possibili presidenti devono essere proposti dalle due camere che compongono il Parlamento e dalle Forze Armate. Una seduta congiunta del Parlamento è chiamata poi a scegliere il presidente, mentre i due candidati perdenti diventano automaticamente i nuovi vice-presidenti.

Per lo spostamento delle nomine al 17 marzo prossimo non sono state fornite motivazioni ufficiali, né dai militari né dalla NLD. Il fatto che vi siano trattative delicate in corso è confermato però dall’insolita vicinanza di questa data a quella prevista per l’insediamento del nuovo governo, ovvero il primo di aprile, prima della quale dovrà essere eletto il prossimo presidente. Cinque anni fa, in seguito al voto boicottato dalla NLD, al Parlamento bastarono pochi giorni dopo l’insediamento per eleggere presidente l’ex generale Thein Sein.

Le vicende seguite al ritorno alla politica attiva della NLD e di Aung San Suu Kyi in Myanmar non sembrano dunque per il momento rispettare del tutto le aspettative democratiche degli elettori birmani che, con entusiasmo, avevano salutato l’arrivo di una nuova era. Il premio Nobel, già prima delle elezioni, aveva agito come una sorta di portavoce della giunta militare, visitando vari paesi occidentali per chiedere ai loro governi di credere nel processo di transizione in atto nel suo paese e revocare le sanzioni economiche applicate nei confronti del regime.

Con vari esponenti di quest’ultimo, poi, San Suu Kyi ha stabilito in fretta rapporti molto cordiali, mostrando una certa sicurezza nella possibilità di ricoprire un ruolo tutt’altro che simbolico nel panorama politico birmano. Tuttora citata dai media di mezzo mondo è la sua dichiarazione di qualche mese fa, con la quale aveva assicurato che chiunque sarebbe stato scelto come presidente dalla NLD, soltanto a lei sarebbero spettate le decisioni più importanti per il paese.

Il comportamento di Aung San Suu Kyi è stato criticato da molti anche all’interno del suo partito in Myanmar, sia per la spregiudicatezza con cui ha deciso di trattare con i militari sia, in questo caso soprattutto dall’estero, per la sostanziale indifferenza nei confronti della minoranza musulmana Rohingya che vive nel paese, sottoposta a una durissima repressione, se non a un vero e proprio genocidio, da parte delle autorità e della maggioranza buddista.

Agli osservatori non intossicati dalla propaganda occidentale, tuttavia, questa sorta di evoluzione non risulta particolarmente sorprendente. Come molti altri martiri della democrazia o presunti tali in Asia e altrove, anche Aung San Suu Kyi rappresenta uno degli strumenti dei governi occidentali, a cominciare da quello americano, per penetrare e promuovere i propri interessi in paesi guidati da regimi ostili o strategicamente non allineati.

In questo quadro, le battaglie democratiche di personalità come il premio Nobel birmano si risolvono in larga misura nell’apertura dei rispettivi paesi agli investitori stranieri e all’integrazione nei circuiti del capitalismo internazionale. I benefici di questi processi sono raccolti quasi esclusivamente da una classe borghese relativamente ristretta, a cui partiti come la NLD fanno riferimento, mentre la gran parte della popolazione può aspirare tutt’al più a diventare manodopera a bassissimo costo per le multinazionali.

Questa è naturalmente l’evoluzione che ci si attende da un Myanmar in fase di transizione. Una transizione avviata proprio dal regime militare, i cui membri hanno utilizzato Aung San Suu Kyi per riavvicinarsi agli Stati Uniti e all’Occidente dopo molti anni segnati dall’isolamento internazionale e da una partnership politica ed economica quasi esclusiva con la Cina.

Gli USA, da parte loro, hanno intravisto la possibilità di sottrarre un paese strategico come la ex Birmania all’influenza di Pechino dopo il lancio della cosiddetta “svolta” asiatica da parte dell’amministrazione Obama, ricorrendo come di consueto sia a minacce che a incentivi per convincere il regime a cambiare rotta.

Anche e sorattutto con la fine degli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi, letteralmente dall’oggi al domani il Myanmar è passato così da paria a paese in transizione democratica, quando l’unico vero cambiamento era stato il riorientamento strategico del regime da Pechino a Washington, sia pure con tutte le sfumature del caso.

Le prime elezioni “libere” dello scorso novembre hanno poi contribuito a legittimare il cambiamento agli occhi della comunità internazionale, anche se i negoziati tra la NLD e i militari di queste settimane, oltre a metterne di nuovo in dubbio la credibilità, rivelano il persistere di tensioni interne che minacciano di mettere a repentaglio l’intero processo accuratamente preparato da tutte le parti in causa, dentro e fuori i confini della ex Birmania.

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