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di Mario Lombardo
Con un discorso al quartier generale dell’Unione Africana nella capitale dell’Etiopia, Addis Abeba, martedì si è chiuso il viaggo in Africa orientale del presidente americano, Barack Obama. Prima dell’intervento che ha chiuso l’attesa trasferta, l’inquilino della Casa Bianca aveva visitato il Kenya, paese natale del padre, e successivamente incontrato il primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn.
Il punto centrale dell’intervento di martedì è stato l’invito ai leader africani a rispettare le norme costituzionali dei loro paesi e a farsi da parte una volta esaurito il mandato assegnato dagli elettori. Il riferimento immediato è stato il caso del Burundi, dove una grave crisi politica è scoppiata lo scorso mese di aprile in seguito alla decisione del presidente, Pierre Nkurunziza, di candidarsi alla guida del paese per la terza volta.
La mossa di Nkurunziza aveva provocato accese proteste popolari e un tentativo di colpo di stato da parte di una sezione delle forze armate, dal momento che la Costituzione del Burundi prevede un massimo di due mandati. Nonostante le pressioni internazionali, il presidente ha però partecipato al voto di settimana scorsa, conquistando un nuovo mandato.
Nel discorso di Obama non sono inoltre mancati i riferimenti ai diritti umani, alla corruzione che pervade i sistemi di governo africani e alla necessità di combatterla, principalmente per creare un clima favorevole agli investimenti internazionali.
Nelle ore precedenti l’apparizione alla sede dell’Unione Africana, invece, il presidente USA aveva visitato una fabbrica etiope che opera nel settore alimentare, dove ha presentato una serie di iniziative del suo governo destinate teoricamente ad alleviare la fame nel continente.
Piuttosto controverso era stato poi l’incontro con il premier etiope, il cui governo - definito da Obama come “democraticamente eletto” - il presidente USA ha ringraziato per essere un partner fidato nella “guerra al terrore”. Le parole di Obama hanno suscitato parecchie critiche anche tra gli stessi sostenitori della sua amministrazione.
Il partito al potere in Etiopia - Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo (EPRDF) - nel mese di maggio aveva conquistato ogni singolo seggio in palio nelle elezioni parlamentari, universalmente considerate irregolari. Ben poco democratico è anche il sistema politico e la società dell’Etiopia, caratterizzati dalla regolare repressione degli oppositori e dalla censura dei mezzi di informazione indipendenti.
Obama ha comunque provato a lanciare qualche critica benevola a Desalegn, esortando il suo regime a tollerare il dissenso, ammettendo che in Etiopia resta ancora “parecchio lavoro da fare” sul fronte democratico ma riconoscendo le sfide e le difficoltà che questo paese deve affrontare dopo un lungo periodo di dittatura.
Al di là delle diatribe sulle questioni dei diritti umani e delle pressioni che Obama ha fatto o avrebbe potuto fare ai leader di Kenya ed Etiopia, entrambi i paesi visitati in questi giorni rappresentano partner strategici importanti degli Stati Uniti in un’area cruciale del continente africano.
I temi della sicurezza e della lotta al terrorismo islamista sono stati ampiamente discussi sui media di tutto il mondo, con al centro l’impegno dell’amministrazione Obama a sostenere lo sforzo di Kenya ed Etiopia soprattutto contro le milizie di al-Shabaab in Somalia.
Un’altra questione sull’agenda di Obama nel corso della visita di cinque giorni in Africa è stata poi la guerra civile che da oltre un anno sta insanguinando il Sudan del Sud, paese creato pochi anni fa su iniziativa degli Stati Uniti per indebolire il Sudan, importante produttore di petrolio il cui regime ha stabilito profondi legami con la Cina.
Il conflitto in corso ha provocato una vera catastrofe umanitaria e Obama ha cercato di rinvigorire gli sforzi diplomatici per una soluzione pacifica, mettendo però in guardia fin dall’inizio circa l’improbabilità di giungere a risultati concreti durante la sua presenza in Africa.
Se la visita dei giorni scorsi è stata promossa sui giornali ufficiali come una sorta di ritorno a casa per Obama o, tutt’al più, un tentativo disinteressato di consolidare la guerra al terrorismo, quest’ultimo aspetto nasconde in realtà ancora una volta la volontà americana di mantenere ed espandere il controllo su un’area strategicamente importante del globo.
I paesi dell’Africa orientale rappresentano infatti il punto d’incontro tra una vasta area ricca di risorse del sottosuolo e vie d’acqua attraversate da rotte commerciali vitali per l’economia mondiale, in particolare sul fronte delle forniture petrolifere.
Sia in questa regione che, più in generale, nell’intera Africa, gli Stati Uniti stanno cercando infine di contrastare l’espansione della Cina, la quale ha da tempo abbondantemente superato gli USA come primo partner commerciale del continente. I segni della presenza cinese in Africa sono ormai ovunque, inclusa la stessa Etiopia, e dal punto di vista economico è difficile pensare che Washington possa scalzare Pechino nel breve o medio periodo.
Per questa ragione, in Africa come altrove, gli Stati Uniti cercano di compensare l’influenza e il peso economico perduti a favore della Cina incrementando la propria presenza militare, giustificata da necessità di “stabilizzazione” e dall’infinita “guerra al terrore”.
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di Michele Paris
La decisione adottata lo scorso fine settimana dal governo turco di prendere parte attiva alla campagna bellica guidata dagli Stati Uniti ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS) rappresenta una svolta strategica significativa e potenzialmente in grado di cambiare le sorti del conflitto in Siria. Ankara rimane però prigioniera delle contraddizioni prodotte dalla sua stessa politica estera, mentre le conseguenze delle proprie azioni potrebbero facilmente portare a un’ulteriore destabilizzazione dell’intero Medio Oriente.
Dopo i primi bombardamenti condotti dai jet turchi contro le basi dell’ISIS nel nord della Siria nella giornata di venerdì, le incursioni oltre confine si sono ripetute nella notte di domenica. In questo caso, come era parzialmente successo due giorni prima, le bombe hanno però colpito postazioni del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nel nord dell’Iraq, in risposta a una serie di attentati registrati in Turchia nei giorni scorsi e, da ultimo, un attacco nella serata di domenica risoltosi in due soldati turchi uccisi nella località di Diyarbakir.
La nuova intraprendenza turca è scaturita dall’accordo siglato sempre settimana scorsa con gli Stati Uniti, da tempo impegnati a convincere il governo del presidente, Recep Tayyip Erdogan, e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, a partecipare all’azione contro l’ISIS in territorio iracheno e siriano. Washington ha inoltre ottenuto l’utilizzo di almeno due basi militari in Turchia, tra cui quella di Incirlik, da dove prenderanno il volo gli aerei da guerra impegnati nella campagna contro i fondamentalisti islamici.
Gli aspetti cruciali dell’intesa sembrano essere però le concessioni fatte dall’amministrazione Obama al governo di Ankara, anche se non ancora riconosciute ufficialmente, come la riapertura delle ostilità con il PKK dopo la tregua che durava dal 2012. Gli Stati Uniti hanno appoggiato pubblicamente l’iniziativa della Turchia, citando il diritto di questo paese all’autodifesa e ricordando come anche Washington consideri il PKK un’organizzazione terrorista.
Il crollo del processo di pace tra il governo turco e il PKK ha tuttavia delle implicazioni ben più ampie, visto che questa organizzazione armata curda ha stretti legami con il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo-siriano e il suo braccio armato, le Unità di Protezione Popolare (YPG). Sia il PYD sia l’YPG sono stati finora in prima linea nella lotta contro l’ISIS in Siria, fungendo di fatto da alleati della coalizione guidata dagli USA.
Gli sviluppi di questi giorni suggeriscono perciò che la Turchia abbia ottenuto il via libera dagli americani per colpire la presunta minaccia curda oltre i propri confini meridionali in cambio dell’impegno - la cui intensità sarà tutta da verificare - di partecipare all’offensiva contro l’ISIS. Ankara, d’altra parte, vede con maggiore nervosismo la formazione di un fronte unitario curdo che non l’espansione dell’ISIS in Siria, la cui avanzata è stata anzi sostenuta più o meno attivamente per favorire la caduta di Bashar al-Assad.
Proprio la fine del regime di Damasco è senza dubbio al centro dei pensieri di Erdogan e Davutoglu, come conferma l’altra importante concessione con ogni probabilità fatta dagli Stati Uniti ad Ankara. La Turchia avrebbe cioè ottenuto l’OK per la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il proprio confine in territorio siriano.
Da quello che hanno riportato i giornali americani e turchi, l’amministrazione Obama intende evitare di chiamare quest’area con il proprio nome - “no-fly zone” - visto che ciò renderebbe fin troppo evidente come il vero obiettivo della campagna condotta da quasi un anno in Siria sia il regime di Assad. Quindi, Ankara e Washington parleranno di “area di sicurezza” o “area protetta”, anche se il risultato sarà comunque quello di istituire un territorio da assegnare al controllo dell’opposizione siriana “moderata” per organizzare non tanto la battaglia contro l’ISIS ma contro le forze di Damasco.
Con una certa ironia quasi certamente involontaria, domenica il Washington Post ha ricordato come gli Stati Uniti e la Turchia abbiano però pareri differenti circa i gruppi armati di opposizione in Siria da considerare “moderati”, alla luce soprattutto della spregiudicata politica di Ankara a favore di organizzazioni jihadiste violente, utilizzate come forza d’urto per cercare di rovesciare Assad.
In ogni caso, l’impatto di un impegno diretto della Turchia in Siria minaccia di produrre una frattura nella coalizione nominalmente anti-ISIS, poiché i leader curdi siriani, i quali non senza ragioni accusano da tempo Erdogan di appoggiare questa stessa organizzazione, hanno espresso preoccupazione per il possibile ingresso delle truppe di Ankara in Siria. Un eventuale scontro tra la Turchia e le forze dell’YPG metterebbe nelle mani di Washington una nuova questione spinosa sul fronte siriano, sia pure anche in questo caso derivante dalla dissennata politica estera americana.
Che le intenzioni di Erdogan siano quelle di colpire principalmente i curdi sul proprio territorio è comunque evidente anche dalla netta prevalenza dei militanti appartenenti a questa minoranza tra le centinaia di arresti in varie operazioni di polizia condotte negli ultimi giorni.
Anche se ufficialmente motivata dall’attentato suicida di una settimana fa nella città di Suruç, commesso da un membro dell’ISIS, e dalle azioni del PKK, la svolta strategica e militare di Ankara a cui si sta assistendo era in preparazione da tempo.
Una serie di fattori sembra avere contribuito alla svolta decisa da Erdogan e Davutoglu, tutti più o meno riconducibili alla crisi politica del loro partito (AKP) e al ridimensionamento della posizione della Turchia sullo scacchiere regionale, ugualmente conseguenza delle politiche del governo.
Innanzitutto, la decisione di partecipare in maniera diretta alla guerra contro l’ISIS, come dimostra anche l’enorme interesse suscitato tra i media di tutto il mondo, consente in qualche modo alla Turchia di tornare a svolgere un ruolo di primo piano nelle vicende mediorientali.
Se Ankara aveva partecipato attivamente alla guerra clandestina per abbattere Assad, appoggiando fin dall’inizio del conflitto in Siria i gruppi armati fondamentalisti, l’esplosione e l’avanzata in Iraq dell’ISIS avevano finito per produrre una coalizione tra gli USA, i paesi arabi sunniti e le formazioni curde irachene e siriane, a discapito appunto di una Turchia rimasta relativamente isolata.
La partecipazione tardiva alla campagna anti-ISIS e l’offensiva contro il PKK sono così il tentativo di recuperare una certa influenza in Medio Oriente, coerentemente con le ambizioni da potenza regionale nutrite dal governo dell’AKP.
L’altro fattore, in parte collegato al precedente, ha a che fare invece con la situazione politica interna turca. Com’è noto, l’AKP ha perso per la prima volta da quando è al potere la maggioranza assoluta in Parlamento nelle elezioni dello scorso mese di maggio, soprattutto a causa della conquista per la prima volta di un certo numero di seggi da parte della formazione curda HDP.
Vista la difficoltà nel mettere assieme un gabinetto di coalizione che, in ogni caso, ridurrebbe gli spazi di manovra di Erdogan e Davutoglu, i due leader dell’AKP puntano a nuove elezioni tra pochi mesi per tornare a governare in autonomia. A questo scopo, il presidente e il primo ministro intendono alimentare i sentimenti nazionalisti e anti-curdi in Turchia, così da recuperare una parte dei consensi finiti all’HDP nell’ultima tornata elettorale.
Ugualmente, colpendo o dando l’impressione di colpire l’ISIS, il governo turco proverà a neutralizzare le accuse che molti anche sul fronte interno gli rivolgono di avere sostenuto l’organizzazione fondamentalista o, quanto meno, di avere tollerato le operazioni e il transito verso la Siria dei suoi membri, con il risultato di avere destabilizzato la stessa Turchia.
Questa scommessa non è tuttavia priva di rischi per Erdogan, visto che le decisioni dei giorni scorsi minacciano di trascinare ancor più la Turchia in un conflitto su due fronti – siriano e curdo – decisamente impopolare tra la popolazione. Gli ostacoli che si prospettano per il governo sono in definitiva di sua stessa creazione, essendo il rafforzamento dell’ISIS e delle formazioni curde la diretta conseguenza delle manovre messe in atto per indebolire il regime di Assad in Siria.
La Turchia, ad ogni modo, ha chiesto per martedì la convocazione di una riunione straordinaria della NATO, secondo il ministero degli Esteri di Ankara per “informare gli alleati sulle operazioni in corso contro l’ISIS in Siria e il PKK nel nord dell’Iraq”. Il vertice, in realtà, potrebbe essere l’occasione per dare una qualche legittimità alle incursioni iniziate nei giorni scorsi e per ottenere l’appoggio alla creazione di una no-fly zone a tutti gli effetti in territorio siriano.
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di Emy Muzzi
Londra. Il comunicato stampa con cui il Foreign Office britannico ha annunciato il via libera, con le debite precauzioni, ai cittadini britannici che volessero visitare l’Iran, ha aperto uno squarcio nel cielo grigio e piovoso di uno dei tanti sabati londinesi. Sì è vero, non è altro che l’estensione diplomatica dell’accordo di Vienna per la non proliferazione del nucleare, eppure la decisione ha il suo peso e il suo senso nel marcare quella che è senza dubbio una vittoria della diplomazia che segna la travagliata storia dei rapporti Iran-Occidente.
L’agreement voluto da Obama, Kerry, Rouhani e il ministro degli esterni iraniano Javad Zarif, apre una nuova fase che, se le 111 pagine del trattato saranno rispettate da Tehran, avrà sviluppi politico economici notevoli.
Ma i limiti restano: se da una parte i ‘Brits’ potranno apprezzare la maestosità dell’Impero Persiano a Tehran o a Persepoli, in caso di necessità non ci sarà ancora un’ambasciata britannica a dar loro sostegno.
L’attacco del 2011 contro la sede diplomatica del Regno Unito a Tehran è ancora storia recente. Ci vorrà tempo perché la Union Jack sventoli di nuovo a Tehran, ma il ministro degli esteri Philip Hammond fa capire, tra le parole, che se la riduzione delle sanzioni da una parte e l’abbandono del programma nucleare a fini bellici dall’altra funzioneranno, l’ambasciata potrebbe anche riaprire.
Per il momento i cittadini britannici dovranno evitare i confini con Pakistan, Afghanistan e Iraq e fare riferimento all’ambasciata svedese. Fatta eccezione per queste aree di crisi il capo del Foreign Office ha dichiarato che “In altre aree dell’Iran il rischio per i cittadini britannici è cambiato, e questo in parte è dovuto alla riduzione dell’ostilità sotto il governo del presidente Rouhani”.
La mossa sullo scacchiere della diplomazia internazionale accende su Londra quella luce che nelle settimane scorse a Vienna era stata oscurata da John Kerry e dalla sua dialettica decisa che se da una parte viene regolarmente smentita dalla malafede della ‘necessità’ di una guerra in Siria, dall’altra ha il pregio di aver imposto dei limiti all’Israele oltranzista di Netanyahu che ha tentato, come sempre, di monopolizzare e strumentalizzare il Congresso Usa ai suoi fini.
La smaccata indipendenza delle dinamiche Usa, e (moderatamente di riflesso) anche Britanniche, dalla violenta opposizione di Israele all’accordo con Tehran è il passo in avanti verso quella marginalizzazione del potere di Benjamin Netanyahu che riequilibra, in parte, l’asse internazionale.
A cosa si deve questa svolta? A chi fa, o faceva comodo, un Iran nemico del mondo, minaccia internazionale e minaccia incombente di morte per Israele? Ai conservatori in Usa e Israele sicuramente, all’industria e commercio legale e illegale di armi, e sul fronte politico alla Russia rispetto al margine d’influenza e strumentalizzazione del mondo islamico in funzione anti occidentale in una fase in cui il conflitto in Ucraina ha inaugurato il ‘revival’ della guerra fredda.
Inoltre c’è una cosa che ha cambiato l’ottica dei Democratici Usa su Israele: la vendita illegale delle armi tecnologiche ‘made in Usa’ alla Cina (su cui pende il bando). Questa porcata gli americani non l’hanno dimenticata e, qui ricordiamo, che la strategia di marginalizzazione di Russia e Cina è la strategia a lungo termine che tiene alta la bandiera filo iraniana.
Nel pur necessario scetticismo, bisogna riconoscere che l’accordo è un passo serio, positivo. Una delle conseguenze immediate risuona nella parola chiave comprensibile in tutte le lingue, anche in persiano: ‘business’.
Se il Regno Unito nel ricostruire il business con Tehran procede ancora con cautela, è Berlino a fare il salto in avanti. Pochi giorni fa Bloomberg ha lanciato la notizia: “Il gruppo Basf sta pianificando la ricostruzione del suo business in Iran”. La potente multinazionale chimica tedesca è pronta a fare affari.
Reduce da una visita, (non turistica) nel regno dell’antica Persia assieme al vice della Merkel, Sigmar Gabriel, il ceo della Basf Kurt Bock ha detto entusiasta in una trionfale conferenza stampa: “La tecnologia, la qualità del lavoro e l’attendibilità tedesche sono altamente apprezzate in Iran, per questo abbiamo grandi possibilità di ricucire e sviluppare vecchi legami”.
Oddio! Ma la Basf non era multinazionale criminale che costruiva elementi chiave per la costruzione di armi chimiche? Speriamo che l’accordo di Vienna non si risolva in una riconversione dell’industria bellica iraniana dal nucleare al chimico....
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di Michele Paris
La pubblicazione avvenuta questa settimana dell’annuale “libro bianco” del ministero della Difesa giapponese ha innescato un nuovo scontro diplomatico con il governo cinese in concomitanza con l’approvazione alla camera bassa del parlamento di Tokyo di un pacchetto legislativo volto a liquidare i principi pacifisti fissati dalla Costituzione nipponica.
Il documento che delinea le sfide globali alla sicurezza del Giappone dedica un’insolitamente ampia sezione alla Cina, il cui comportamento sembra suscitare “forti preoccupazioni” a Tokyo. Il tono del “libro bianco” è di forte critica verso il vicino cinese e, in particolare, contiene rimproveri altamente provocatori in merito alle operazioni di Pechino nelle acque contese dei mari Cinese Orientale e Meridionale.
La Cina, secondo il governo ultra-conservatore del premier Shinzo Abe, agirebbe in maniera “aggressiva”, cercando di forzare il cambiamento dello status quo e di promuovere le proprie rivendicazioni “senza scendere a compromessi”.
L’aspetto più controverso del documento giapponese, e maggiormente contestato da parte della Cina, riguarda la richiesta di interrompere la costruzione di piattaforme per l’esplorazione di giacimenti di gas e petrolio nel Mar Cinese Orientale.
A supporto delle proprie critiche, il ministero della Difesa di Tokyo nella giornata di mercoledì ha diffuso una mappa che indica il posizionamento delle strutture “off-shore” installate dalla Cina, in aggiunta a 14 fotografie aeree degli stessi impianti. Per il segretario generale del Gabinetto giapponese, Yoshihide Suga, le piattaforme accertate sarebbero 16, di cui 12 identificate a partire dal giugno 2013.
Lo stesso Suga ha inoltre spiegato quali sarebbero le ragioni della preoccupazione giapponese per le attività di Pechino. Il governo cinese, cioè, avrebbe costruito le strutture utili all’estrazione di gas e petrolio in un’area dove i confini tra i due paesi non sono stati ancora definiti bilateralmente.
Tokyo invita perciò le autorità cinesi a tornare al tavolo delle trattative sulla base di un accordo raggiunto tra i due paesi nel 2008, nel quale avevano concordato in linea di principio di condurre operazioni esplorative congiunte nel Mar Cinese Orientale.
Il carattere tendenzioso delle accuse formulate da Tokyo è apparso chiaro nel momento in cui il governo Abe ha ribadito che, in assenza di un accordo bilaterale, la propria posizione ufficiale in relazione al Mar Cinese Orientale prevede il riconoscimento di una linea di demarcazione che taglia esattamente a metà l’area marittima in questione. Da questo presupposto, il Giappone ha dovuto ammettere che le strutture costruite da Pechino sono situate sul lato cinese della linea mediana di demarcazione.
L’interpretazione giapponese - sia pure provvisoria - dei confini nel Mar Cinese Orientale ha dato così legittimità alle reazioni del ministero degli Esteri di Pechino, da dove è stato ribadito che le attività di esplorazione per gas e petrolio “vengono condotte in acque indisputabilmente sotto la giurisdizione cinese, la quale è pienamente all’interno della sovranità” della Repubblica Popolare.
Il Giappone, in ogni caso, teme che la propria sicurezza possa essere compromessa se le strutture “off-shore” cinesi dovessero essere utilizzate a scopi militari, ad esempio con il posizionamento di “sistemi radar” o con la creazione di “basi operative per elicotteri o droni destinati a condurre pattugliamenti aerei”. Vari commentatori e analisti citati anche dalla stampa giapponese, tuttavia, hanno espresso parecchie perplessità circa il fatto che le piattaforme esistenti possano essere convertite in strutture militari da parte della Cina.
Come già anticipato, il “libro bianco” del ministero della Difesa nipponico è stato reso noto pochi giorni dopo l’approvazione in parlamento di un provvedimento fortemente voluto dal primo ministro Abe e che dovrebbe consentire l’impiego delle forze armate del Giappone all’estero con minori vincoli. Tra l’altro, la nuova legislazione prevede la possibilità che i militari giapponesi partecipino alle avventure belliche degli alleati, a cominciare dagli Stati Uniti.
Queste leggi, oltre a essere di molto dubbia costituzionalità, sono estremamente impopolari in Giappone e la loro promozione da parte di Abe ha già provocato un vero e proprio crollo dell’indice di gradimento del premier nel paese. Il ricorso a una retorica aggressiva per demonizzare la Cina intende dunque sollecitare il sentimento nazionalista giapponese, così da contrastare la diffusa opposizione alla svolta militarista impressa dal capo del governo.
Su questo punto ha insistito la reazione cinese alla pubblicazione del documento strategico giapponese. Il ministero della Difesa di Pechino ha affermato che Tokyo “ha maliziosamente ingigantito le questioni riguardanti il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale”, ma anche quelle sulla “sicurezza del web e la trasparenza militare”.
Tutto ciò, secondo quanto affermato giovedì dall’ambasciatore cinese a Tokyo, Cheng Yonghua, allo scopo di “alimentare la minaccia cinese” e favorire l’implementazione del controverso pacchetto legislativo sulla sicurezza. Lo stesso ambasciatore ha poi aggiunto che trasformare la Cina in un “nemico immaginario” non può che ostacolare il miglioramento dei rapporti tra i due paesi.
La strumentalizzazione del “libro bianco” giapponese e delle accuse alla Cina in esso contenute è stata confermata da quanto ha scritto giovedì il quotidiano nipponico conservatore Yomiuri Shimbun, secondo il quale il governo di Tokyo ha chiesto almeno dal 2013 lo stop delle operazioni esplorative di Pechino nel Mar Cinese Orientale, ma ha atteso solo ora - in contemporanea con il voto in parlamento sulla legislazione militarista - per pubblicare le immagini e la mappa delle installazioni “off-shore”.
Con la mossa di questi ultimi giorni, il governo giapponese ha aggiunto quindi un nuovo motivo di scontro con la Cina, facendo salire ulteriormente le tensioni in Estremo Oriente. L’aggravamento di conflitti territoriali considerati relativamente trascurabili per decenni nel continente asiatico è legato principalmente al ritorno ad aggressive politiche all’insegna del militarismo da parte di Tokyo.
Allo stesso tempo, queste stesse politiche sono in parte il riflesso del riassetto strategico in fase di elaborazione degli Stati Uniti, a sua volta determinato dall’espansione dell’influenza cinese in un’area del globo strategicamente ed economicamente sempre più importante.
Washington, nel tentativo di invertire il proprio declino, ha lanciato un ambizioso quanto pericoloso piano di riposizionamento delle proprie forze navali in Asia orientale, perseguendo in parallelo legami diplomatici e militari più profondi con vari paesi, molti dei quali da qualche tempo nell’orbita economica di Pechino.
In questo processo, dal Giappone alle Filippine al Vietnam, gli USA hanno incoraggiato rivendicazioni territoriali e atteggiamenti provocatori nei confronti della Cina, in una strategia di accerchiamento che rischia seriamente di portare le tensioni fino al punto di rottura.
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di Michele Paris
Nel corso di una recente intervista televisiva al network americano MSNBC, uno degli ex alti ufficiali più autorevoli e influenti degli Stati Uniti ha apertamente invocato misure di controllo e repressione del dissenso tipiche del regime nazista. Il generale in pensione Wesley Clark, già due volte brevemente candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca, ha infatti prospettato la detenzione in campi di internamento per coloro che ha definito come “americani sleali”.
L’inquietante proposta è stata illustrata nel corso di un intervento seguito alla recente sparatoria in un centro di reclutamento delle forze armate USA a Chattanooga, nel Tennessee, per mano di un giovane di origine kuwaitiana che avrebbe manifestato simpatie fondamentaliste.
Per trovare una soluzione alla presunta minaccia terroristica che incomberebbe sugli Stati Uniti, Clark ha fatto riferimento al periodo della Seconda Guerra Mondiale. Durante il conflitto, cioè, “se qualcuno appoggiava la Germania nazista a spese degli Stati Uniti”, ha spiegato l’ex generale, “veniva rinchiuso in un campo come prigioniero di guerra”, visto che questa opinione non era considerata come una manifestazione della libertà di espressione.
Allo stesso modo, nella situazione odierna, per queste persone con tendenze fondamentaliste, “diventare radicalizzate, non appoggiare gli Stati Uniti ed essere sleali verso gli Stati Uniti, in linea di principio è un loro diritto”, secondo Clark. Tuttavia, “è nostro diritto e obbligo di isolarli dalla comunità per la durata del conflitto” in corso contro il terrorismo internazionale.
Ancora più sbalorditiva è stata la tesi successiva dell’ex comandante NATO in Europa, per il quale il rischio rappresentato dai musulmani “radicalizzati” autorizzerebbe misure preventive. Il governo dovrebbe così “identificare le persone che hanno maggiori probabilità di seguire un percorso di radicalizzazione”, in modo da “interromperlo precocemente”. Il consiglio di Clark non è indirizzato infine soltanto alle autorità americane, ma anche ai “paesi alleati come Regno Unito, Germania e Francia”, i quali dovrebbero “rivedere le loro procedure legali”, ovvero procedere con lo smantellamento delle più fondamentali garanzie democratiche.
In sostanza, il consiglio avanzato da Clark implica che il governo dovrebbe prendere di mira individui non solo che non hanno commesso alcun crimine ma che non hanno nemmeno manifestato l’intenzione di commettere qualche atto vagamente illegale. Un’iniziativa di questo genere – evidentemente adeguata a uno stato di polizia – dovrebbe comportare un’ulteriore espansione della sorveglianza di massa ai danni della popolazione americana, così da identificare potenziali “terroristi” sulla base delle loro idee o, ancora peggio, delle loro ipotetiche tendenze o inclinazioni.
La gravità delle parole di Wesley Clark è difficile da sopravvalutare. Com’è evidente, il concetto di “slealtà” verso gli Stati Uniti evocato dall’ex generale, nonostante sia stato collegato da egli stesso alla minaccia del terrorismo islamista, è sufficientemente indefinito da includere virtualmente ogni genere di opposizione alle politiche repressive, imperialiste e al servizio dei grandi interessi economici del governo americano.
Al di fuori di ogni vincolo legale, Clark auspica inoltre la detenzione in campi di internamento per l’intera durata della “guerra” senza fine che gli USA starebbero combattendo contro il terrorismo, risultando di fatto in una prigionia indefinita.
La sua citazione del clima di paranoia durante la Seconda Guerra Mondiale è poi ulteriormente allarmante per i musulmani, visto che fa riferimento alle decine di migliaia di americani di origine tedesca e, soprattutto, giapponese, internati praticamente soltanto a causa del loro paese di provenienza, in quello che viene ormai comunemente riconosciuto come un crimine commesso dal governo USA.
Il cenno alle simpatie naziste che avrebbero giustificato in passato la detenzione di civili innocenti in suolo americano è inoltre tristemente ironico, poiché la proposta avanzata settimana scorsa da Clark è perfettamente in linea con i provvedimenti adottati proprio da Adolf Hitler a partire dal 1933 contro i suoi oppositori con la scusa di combattere un’inesistente minaccia “terroristica” che gravava sul Reich.
Sconcertante quasi come le parole dell’ex generale Clark è stato il quasi completo silenzio della stampa ufficiale negli Stati Uniti. I suoi commenti sui campi di internamento non sono stati riportati dalle principali pubblicazioni, nemmeno quelle teoricamente “liberal” come New York Times e Washington Post.
I pochi media, soprattutto alternativi, che ne hanno dato notizia hanno spesso ricordato come questa proposta non sia giunta da una delle varie figure di agitatori della galassia dell’estrema destra americana, bensì da un ex alto ufficiale che, secondo la testata on-line The Intercept, “si è fatto un nome all’interno dei circoli politici progressisti”.
Affiliato al Partito Democratico, per il quale, come già ricordato, ha corso in due occasioni senza successo per la Casa Bianca, Clark è un sostenitore della candidatura alla presidenza di Hillary Clinton. Nel passato più o meno recente, inoltre, l’ex generale era stato molto critico degli abusi dell’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre.
La maschera “progressista” di Clark è però caduta definitivamente, assieme a quella della classe dirigente americana, dal momento che il pensiero dell’ex generale è con ogni probabilità condiviso da molti nelle stanze del potere a Washington.
Già sul finire degli anni Ottanta, nell’ambito dello scandalo Iran-Contras gli americani erano venuti a conoscenza della cosiddetta “Operazione Rex 84” che prevedeva, in una situazione di crisi, la sospensione della Costituzione, l’entrata in vigore della legge marziale, l’assegnazione dei compiti di governo ai militari e il trasferimento forzato in campi di detenzione di coloro che erano considerati una minaccia alla sicurezza nazionale.
Più recentemente, la questione dei campi di internamento è tornata a circolare negli Stati Uniti. Lo scorso anno, ad esempio, il giudice ultra-reazionario della Corte Suprema, Antonin Scalia, nel corso di un discorso pubblico aveva citato una sentenza del 1944 che autorizzava le detenzioni di massa in campi di internamento sul territorio americano, avvertendo i suoi ascoltatori che si sarebbero “auto-ingannati se avessero pensato che la stessa cosa non potrebbe succedere ancora”.
Senza evocare teorie cospirazioniste, è dunque tutt’altro che improbabile che all’interno dell’apparato politico-militare americano da qualche tempo si sia tornati a discutere di misure estreme come la detenzione di massa di individui “radicalizzati” o semplicemente di oppositori del governo.
Una misura di questo genere è d’altra parte in linea con molte altre adottate nell’ultimo decennio per rafforzare i poteri di controllo dell’apparato della sicurezza nazionale, dal Patriot Act ai provvedimenti pseudo-legali che autorizzano il monitoraggio di massa delle comunicazioni elettroniche.
Vista la reale entità della minaccia del terrorismo islamista, di gran lunga inferiore ad esempio a quella rappresentata dalle forze di polizia USA, responsabili in media di più di mille uccisioni di civili ogni anno, le ragioni della creazione delle fondamenta di uno stato di polizia sono da ricercare altrove.
La classe dirigente americana è attraversata cioè dal timore quotidiano per una possibile esplosione sociale, alimentata da politiche destabilizzanti e distruttive sul fronte internazionale e, su quello domestico, da disuguaglianze economiche gigantesche e sempre meno compatibili con sistemi di governo anche solo apparentemente democratici.