di Michele Paris

Dal summit dei G-20 in Turchia, martedì il presidente americano Obama è volato nelle Filippine per partecipare al primo di una serie di vertici che coinvolgono i paesi dell’Asia sud-orientale e dell’area Pacifico, mettendo subito in chiaro l’intenzione da parte degli Stati Uniti di sfruttare ogni singolo palcoscenico internazionale per alimentare ulteriori tensioni anti-cinesi.

Il primo evento a cui sta prendendo parte Obama è quello che riunisce i 21 paesi membri della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica (APEC), in corso appunto a Manila. Nei prossimi giorni si terranno invece il summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e il Forum dell’Asia Orientale (EAS), entrambi a Kuala Lumpur, in Malaysia.

L’inquilino della Casa Bianca ha da subito sollevato la questione delle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale, oggetto da alcuni anni di accese dispute, incoraggiate da Washington, tra Pechino e vari paesi della regione. Già durante il primo giorno di lavori all’APEC, Obama ha invitato la Cina a interrompere le operazioni nell’arcipelago di Spratly conteso con le Filippine, dove recentemente alcune aree sono state strappate al mare per costruire installazioni civili e militari.

Obama ha poi chiesto ai leader cinesi di prendere iniziative per ridurre le tensioni nel Mar Cinese Meridionale, mentre ha ribadito l’appoggio del suo governo a quello di Manila nella causa presentata dalle Filippine contro Pechino presso un tribunale internazionale a L’Aia, in Olanda, sui territori contesi.

L’enfasi posta sulla necessità di trovare una soluzione multilaterale, verosimilmente mediata da Washington, per risolvere le rivendicazioni nelle acque del sud-est asiatico è stata inoltre, come di consueto, un altro modo per alzare in maniera deliberata il livello dello scontro con la Cina, visto che quest’ultimo paese si è sempre detto disposto a negoziare una soluzione diplomatica ma soltanto a livello bilaterale e senza interferenze di paesi terzi.

La scelta del presidente americano di affrontare direttamente un argomento così sgradito a Pechino appare ricca di significato, non solo perché giunge a pochi giorni dagli attentati di Parigi che hanno fatto alzare i livelli della retorica dell’unità nella lotta al terrorismo, ma anche alla luce del fatto che i vertici APEC, dedicati alle questioni economiche e commerciali, sono raramente il teatro di dispute diplomatiche o di discussioni legate alla sicurezza della regione.

Come se non bastasse, il presidente cinese, Xi Jinping, aveva accettato di essere presente a Manila solo dopo avere avuto la rassicurazione dal presidente filippino, Benigno Aquino, che il suo governo non avrebbe sollevato la questione delle dispute territoriali durante il summit.

Già martedì, comunque, nel suo primo giorno di visita nelle Filippine, Obama aveva mostrato la volonta di agitare ancor più le acque nel continente asiatico. Il presidente era apparso pubblicamente a bordo della fregata filippina BRP Gregorio Del Pilar nel porto di Manila, da dove ha riassunto la posizione e la strategia USA in relazione alle dispute territoriali nella regione.

Questa imbarcazione, oltretutto, faceva parte della flotta della guardia costiera americana prima di essere acquistata nel 2011 dal governo filippino e oggi viene utilizzata proprio per pattugliare le aree rivendicate da Manila nel Mar Cinese Meridionale.

Obama ha ad ogni modo parlato dell’impegno del suo paese “per la sicurezza nelle acque della regione e per la libertà di navigazione”, annunciando poi la fornitura di altre due navi alla marina delle Filippine nel quadro di un piano da 250 milioni di dollari destinato ad “aumentare l’assistenza ai nostri alleati e ai nostri partner nella regione sul fronte della sicurezza marittima”.

I fondi stanziati saranno erogati in due anni e la fetta maggiore andrà proprio alle Filippine (79 milioni), seguite da Vietnam (40 milioni), Indonesia (20 milioni) e Malaysia (2,5 milioni), tutti paesi che sono tornati a manifestare apertamente le rispettive rivendicazioni territoriali nei confronti della Cina su istigazione degli Stati Uniti. L’aumentata “sicurezza marittima” a cui ha fatto riferimento martedì Obama non è infatti altro che un’escalation di provocazioni nel Mar Cinese Meridionale che minacciano di sfociare in pericolosi scontri militari nelle acque della regione.

L’irrigidimento delle posizioni americane a qualche anno dal lancio della “svolta” asiatica in funzione di contenimento della Cina si riflette sempre più nelle posizioni ufficiali degli “alleati” e dei “partner” nella regione evocati da Obama.

Se nel concreto questi paesi dell’Asia sud-orientale sembrano mantenere un’attitudine relativamente cauta verso Pechino, vista l’importanza della Cina per le loro economie, mostrano però anch’essi una pericolosa tendenza all’allineamento strategico sulle posizioni USA, quanto meno in questo frangente con un Obama in visita nella regione impegnato a elargire aiuti economici tutt’altro che trascurabili.

Qualche giorno fa, l’Indonesia, uno dei paesi fin qui più attenti a non prendere parte allo scontro tra Washington e Pechino, ha così minacciato di denunciare la Cina presso la Corte Permanente di Arbitrato de L’Aia se non saranno risolte pacificamente le dispute territoriali che mettono di fronte i due paesi, in questo caso per le isole Natuna, sempre nel Mar Cinese Meridionale.

Altrettanto prudente era stato in genere finora anche il governo della Malaysia, ma sabato scorso il vice primo ministro, Zahid Hamidi, nel corso di un discorso pubblico ha bollato come “infondate” le rivendicazioni cinesi su basi storiche nel Mar Cinese Meridionale.

Le provocazioni più significative nelle ultime settimane hanno visto tuttavia protagonisti proprio gli Stati Uniti, i quali continuano anche a incoraggiare una corsa agli armamenti tra i paesi del sud-est asiatico. Il mese scorso, Washington aveva inviato una nave da guerra all’interno delle acque territoriali delle isole Spratly, su cui la Cina afferma la propria sovranità pur essendo rivendicate dalle Filippine, e successivamente aveva autorizzato a volare sopra di esse dei bombardieri B-52.

Vari esponenti dell’amministrazione Obama e i vertici militari americani hanno assicurato che simili operazioni proseguiranno in futuro, malgrado la ferma reazione di Pechino. Gli USA fanno riferimento alla necessità di garantire la libertà di navigazione, lasciando intendere che quest’ultima sarebbe minacciata dalle rivendicazioni cinesi e dai lavori condotti su alcune isole nel Mar Cinese Meridionale.

Questa tesi è però assurda, visto che è proprio la Cina ad avere tutto l’interesse a difendere la libertà dei traffici commerciali nell’area. Da queste rotte vitali per Pechino transita infatti una parte molto consistente delle importazioni e delle esportazioni cinesi, mentre è piuttosto la presenza militare statunitense in svariati paesi della regione a rappresentare una potenziale minaccia, soprattutto in caso di esplosione di un conflitto tra le prime due potenze economiche del pianeta.

Uno dei più recenti accordi promossi da Washington per lo stazionamento di forze armate e navali è stato quello con le Filippine, siglato nella primavera del 2014, che prevede la concessione di alcune basi militari al personale americano. L’intesa, a cui si oppone la gran parte della popolazione filippina e sezioni della classe dirigente indigena preoccupate per il deterioramento dei rapporti con la Cina, è però al vaglio della Corte Suprema di Manila, in quanto violerebbe la Costituzione del paese asiatico che vieta la presenza a tempo indeterminato di soldati stranieri sul territorio nazionale.

Il regime cinese, da parte sua, continua intanto a mantenere un atteggiamento apparentemente pacato nei vertici internazionali, rispondendo raramente alle provocazioni americane. Il presidente Xi, ad esempio, mercoledì durante il summit APEC di Manila ha invitato i paesi membri a “promuovere un’atmosfera di pace” attraverso il dialogo e la cooperazione, senza fare alcun riferimento alle questioni aperte nel Mar Cinese Meridionale.

Soprattutto però, il leader cinese ha come al solito giocato la carta economica per cercare di logorare l’influenza USA e attrarre i paesi vicini sempre più nella propria orbita. Con un occhio anche al trattato di libero scambio sui generis denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP), sottoscritto a ottobre tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi asiatici, del continente americano e dell’Oceania, Xi ha avanzato la causa di un trattato concorrente, ovvero la cosiddetta Area di Libero Scambio dell’Asia-Pacifico.

Pechino, ha fatto sapere Xi, intende insomma intensificare gli sforzi per mandare in porto svariati accordi di libero scambio. D’altra parte, la forza di attrazione del gigante cinese, nonostante il relativo rallentamento della crescita economica, rappresenta un formidabile ostacolo ai tentativi di integrare la regione in un sistema diplomatico-militare-economico guidato dalla declinante potenza americana.

A conferma di ciò, il presidente cinese ha citato il perfezionamento a portata di mano dell’accordo di libero scambio tra il suo paese e i membri dell’ASEAN, nonché trattati simili già siglati tra Pechino e due importanti alleati di Washington – Australia e Corea del Sud – che dovrebbero entrare in vigore entro la fine di quest’anno.

di Michele Paris

A quasi un anno dalla diffusione della sintesi del rapporto del Senato americano sugli interrogatori di presunti terroristi con metodi di tortura da parte della CIA, lo scontro interno al governo di Washington per impedirne la pubblicazione integrale ed evitare conseguenze legali o politiche ai responsabili continua a rimanere molto acceso nonostante lo scarso interesse della stampa ufficiale.

Ai primi di dicembre del 2014, era giunta a termine una lunga contesa che aveva ritardato di quasi due anni la pubblicazione di quella che rappresenta solo una piccola parte di uno studio di 6.700 pagine. Nelle 525 pagine declassificate vi erano comunque descritti numerosi crimini commessi dalla principale agenzia di intelligence USA, tra cui il ricorso alle più sadiche forme di tortura e alla menzogna per occultare queste ultime e far credere all’efficacia degli interrogatori “avanzati” per ottenere preziose informazioni dai detenuti.

Le gravissime accuse contenute nel rapporto stilato dalla commissione per i Servizi Segreti del Senato di Washington - ai tempi della compilazione a maggioranza democratica - non ha prevedibilmente innescato alcun processo, né tantomeno alcuna incriminazione, a carico di coloro che hanno commesso i fatti descritti e di quanti hanno autorizzato le torture o hanno contribuito al tentativo di insabbiamento.

Anzi, certi dell’impunità, potenziali criminali di guerra come l’attuale direttore della CIA, nonché ex primo consigliere per l’Antiterrorismo di Obama, John Brennan, sono più volte intervenuti pubblicamente non solo per difendersi ma anche per attaccare il rapporto stesso e i suoi compilatori, esaltando al contempo “i tremendi sacrifici e i servizi resi da vari membri dell’agenzia per la sicurezza del paese”.

La stessa Casa Bianca ha fatto di tutto per mettere in pratica il proposito del presidente Obama di “guardare avanti” senza indagare troppo sul passato sporco della “guerra al terrore”, contribuendo di fatto a far sparire completamente dal dibattito pubblico la questione delle torture della CIA.

L’eventuale incriminazione dei responabili e dei mandanti politici dei crimini commessi contro i sospettati di terrorismo fisserebbe d’altra parte un precedente spiacevole per gli esponenti di spicco dell’amministrazione Obama, tra cui lo stesso presidente, i quali hanno abolito formalmente l’autorizzazione a torturare per sostituirla con gli assassini mirati, ugualmente o ancor più in violazione del diritto internazionale e della Costituzione americana.

La pubblicazione del rapporto completo sulle torture rappresenterebbe in questo senso una grave preoccupazione per quanti erano coinvolti nel programma di interrogatori della CIA, visto che nelle 6.700 pagine potrebbero essere citati con precisione nomi, luoghi e responsabilità di quanto accaduto dopo l’11 settembre 2001.

Per comprendere l’approccio dell’amministrazione Obama alla questione delle torture e il grado di trasparenza che la contraddistingue, risulta estremamente interessante ricostruire almeno in maniera sommaria la sorte del rapporto dopo la pubblicazione del riassunto nel dicembre dello scorso anno.

Secondo un recente articolo del New York Times, poco dopo la pubblicazione, la commissione del Senato che aveva redatto il rapporto, presieduta dalla senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, aveva debitamente inoltrato copia della versione integrale al Pentagono, alla CIA, al Dipartimento di Stato e al Dipartimento di Giusizia, assieme alla raccomandazione - solo apparentemente ironica - di leggerlo integralmente affinché i crimini descritti potessero servire da lezione per il futuro.

I supporti informatici che contengono il rapporto giacciono però tuttora intatti nelle casseforti dei ministeri e delle agenzie a cui sono stati inviati. Il Dipartimento di Stato, spiega il Times, al momento della ricezione ha ad esempio messo sotto chiave la propria copia con un timbro che recita: “Materiale del Congresso - Non Aprire, Non Leggere”.

Queste iniziative fanno parte di un’autentica farsa messa in piedi dall’amministrazione Obama per impedire la diffusione pubblica del rapporto stesso. Il testo integrale è infatti oggetto di dispute legali, con associazioni come la American Civil Liberties Union (ACLU) che ne hanno chiesto la pubblicazione secondo quanto previsto dalla legge sulla Libertà di Informazione (FOIA).

Quest’ultima legge si applica però soltanto ai documenti del governo, mentre quelli del Congresso possono rimanere segreti. Il Dipartimento di Giustizia e gli altri organi dell’esecutivo che hanno ricevuto copia del rapporto sulle torture hanno perciò deciso di non volerlo aprire né leggere, in quanto ritengono che così facendo il materiale in questione resterebbe di esclusiva pertinenza del Congresso e quindi non sottoposto all’obbligo di pubblicazione.

Nel mese di maggio, un tribunale federale di primo grado aveva deliberato in favore dell’amministrazione Obama ma un verdetto d’appello è atteso nel prossimo futuro. Nel frattempo, la senatrice Feinstein è stata al centro di un nuovo scontro tra i poteri dello stato negli USA, dopo che nel 2014 aveva tenuto un eccezionale discorso al Congresso per accusare la CIA di avere violato la Costituzione mettendo sotto sorveglianza i terminali dei membri della Commissione sui Servizi Segreti impegnati nella realizzazione del rapporto sulla stessa agenzia di Langley.

La Feinstein ha cioè indirizzato una lettera al ministro della Giustizia, Loretta Lynch, accusando il suo dipartimento di volere bloccare la diffusione del rapporto e, quindi, impedire che “gli errori del passato siano ripetuti”. Oltre al fatto che di errori non si tratta, bensì di politiche criminali deliberate, la senatrice democratica, nonostante i toni molto duri nei confronti del governo, ha peraltro mostrato più volte estrema docilità verso l’apparato della sicurezza nazionale USA.

Ciò è confermato, tra l’altro, dal fatto che, fino allo scorso anno, in qualità di presidente della Commissione sui Servizi Segreti, avrebbe potuto promuovere la pubblicazione unilaterale della versione integrale del rapporto senza attendere il via libera della CIA, ovvero dell’agenzia oggetto dell’indagine e responsabile dei crimini in essa descritti.

A tutt’oggi, le probabilità che il contenuto del rapporto possa essere portato a conoscenza del pubblico sono sembre più poche, anche perché il cambio di maggioranza al Senato nel mese di gennaio ha cambiato gli equilibri tra favorevoli e contrari alla pubblicazione.

Il successore di Dianne Feinstein alla guida della Commissione, il repubblicano del North Carolina, Richard Burr, si sta infatti impegnando per occultare del tutto il rapporto. Il senatore ha definito quest’ultimo una “nota a margine della storia” e ha già chiesto agli organi del governo che ne hanno ricevuto copia di restituirla alla Commissione, agevolando probabilmente il definitivo insabbiamento di uno dei documenti più rilevanti per l’assegnazione delle responsabilità nei crimini commessi dagli Stati Uniti nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”.

di Fabrizio Casari

Si allarga al resto d’Europa l’allarme terrorismo. Ultimo in ordine di tempo quello di ieri sera allo stadio di Hannover, dove doveva svolgersi la partita di calcio tra Germania e Olanda; annullata anche quella che doveva disputarsi a Bruxelles tra Belgio e Spagna. Sembra quindi che anche la Germania debba aggiungersi ai paesi nel mirino del Daesh. Ma soprattutto che, diversamente da episodi passati, un attentato rischi di essere solo l’inizio di una catena di altri e che non uno, ma molti paesi europei possano venire coinvolti.

Prosegue così senza sosta il clima di timore per nuovi attentati in Europa, a conferma di come le intelligence occidentali valutino seriamente le capacità operative del Daesh. Sono passate solo poche ore da quando Francois Hollande ha chiesto a Bruxelles di non lasciar sola Parigi nelle operazioni militari contro il Daesh. “Siamo in guerra, chiediamo aiuto alla UE”, ha detto il titolare dell’Eliseo. L’alto Commissario per la politica estera e di sicurezza europea, Federica Mogherini, ha risposto positivamente, garantendo l’impegno della UE al fianco della Francia.

Ma le parole della Mogherini sono soprattutto sostegno politico e buone intenzioni più che una risposta alla chiamata alle armi dei francesi. L’appello all’art. 42.7 del Trattato di Lisbona è stato sì accolto, ma con una interpretazione quantomeno elastica. Il che non è un male, non essendo l’ennesima invasione di un paese mediorientale la soluzione auspicabile, ma solo l’innesco per altri due decenni di terrore.

Diversamente da quanto affermato sui media internazionali, infatti, l’abbraccio del mondo con la Francia risulta al momento più che altro una pacca sulle spalle. Né gli Stati Uniti, né l’Europa, meno che mai i paesi arabi e i regimi monarchici del Golfo si sono spinti oltre un impegno generico. D’altra parte le responsabilità storiche della Francia nel continente africano e nella stessa crisi siriana non sono certo trascurabili ed è naturale che l’atteggiamento da tenere non può essere l’adesione acritica alla volontà di Hollande.

Allo stato, Parigi ha trovato orecchie e voci disponibili ad un impegno militare solo da parte della Russia, con la quale è allo studio un coordinamento che verrà raffinato nella prossima riunione tra Hollande e Putin, il prossimo 26 a Mosca, con il presidente francese reduce dal viaggio negli Usa dove il 24 incontrerà Obama.

La riunione con Obama è particolarmente importante, dal momento che verranno stabiliti gli eventuali possibili confini ed ambiti della collaborazione militare con la Russia per un paese membro della Nato. Gli esiti della riunione avranno conseguenze decisive anche per l’eventuale impegno della UE. L’Europa non muove un passo senza la guida statunitense. Non si tratta solo di capacità militare, ma anche di leadership politica. In particolare per la Gran Bretagna, che nella dipendenza totale dalle scelte statunitensi ha da sempre il suo tratto distintivo.

Ma se Parigi spera di convincere Obama ad intervenire al suo fianco, rischia di rimanere deluso. Sarà un aiuto - quello statunitense - in intensificazione dei raid aerei, in  intelligence e mezzi di ricognizione, in sistemi di protezione e assistenza alle operazioni, ma non in termini di truppe. Il Presidente USA, conscio degli errori storici di Washington in Medio Oriente (ai quali lui stesso ha dato un decisivo, tragico apporto) tende a non chiudere il suo mandato con un’altra spedizione militare, benché i falchi nel Congresso e al Senato spingano in questa direzione. Dunque, al momento, Parigi può contare solo sulla Russia.

Russia che pure ha già colpito duramente i terroristi ed ha consentito all’esercito siriano di ristabilire ordine nei suoi reparti, ma che si rende perfettamente conto che l’articolazione in piccoli reparti del Daesh rende insufficienti i soli bombardamenti sulle loro postazioni. Mosca ritiene comunque che una eventuale strategia condivisa di attacco non possa essere affrontata in un ambito come quello Nato, al cui interno siede la Turchia, e nemmeno possano essere coinvolti gli alleati storici statunitensi nell’area - come i sauditi - perché la sicurezza delle operazioni sarebbe seriamente compromessa in virtù degli interessi diretti di Ankara e Riyadh che dei nemici sono i migliori amici.

Lo ha detto chiaro e tondo al G20 lo stesso Putin:“Vi sono anche qui, all’interno di questo G20 - ha detto il Presidente russo - paesi che sostengono l’ISIS” (o Daesh come lo si voglia chiamare). L’intenzione di Mosca è quella di scoperchiare la pentola dove in un minestrone indigesto vengono cucinati interessi divergenti.

In particolare quelli delle monarchie oscurantiste del Golfo, che utilizzano i terroristi del Daesh per abbattere Assad e rompere l’alleanza politico-militare sciita tra l’Iran, la Siria, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. E anche quelli della Turchia, che sostiene il Daesh sia attraverso l’aiuto diretto (il passaggio di loro uomini e merci alla frontiera turca) che indirettamente, bombardando i Peshmerga kurdi, unici ad infliggere severe sconfitte agli uomini del Califfato. L’interesse di Ankara non è di sconfiggere il Daesh quanto impedire sul nascere la riunificazione dei kurdi in Irak, Siria e Turchia, dal momento che la riunificazione dei circa 30 milioni di kurdi in un unico Stato è vista come una minaccia mortale al suo regime.

E’ quindi necessario un robusto salto di qualità nell’intesa politica che, sola, può produrre una strategia condivisa. Politicamente, economicamente, Mosca non può assumere sulle sue spalle il destino della guerra al Califfato e del riassetto generale del Medio Oriente in termini politici e militari: la condivisione di linea politica con l’Occidente e la sua leadership è indispensabile. Le rassicuranti parole di Obama circa l’importanza del suo intervento potrebbero sì essere il primo passo per l’interruzione del contrasto con Washington e Bruxelles, ma non si può escludere che Obama voglia delegare ai russi i lutti inevitabili per la sconfitta del Daesh.

Mosca non vuole e non può rimanere isolata ma intende sin da ora delineare quale sarebbe lo scenario per la Siria una volta che il Daesh fosse stato sconfitto. E decidere una linea comune per la Siria è solo il primo passo di una generale rivisitazione degli equilibri regionali. A fronte di un ulteriore coinvolgimento, Mosca chiederà un deciso cambio di rotta a Washington e Bruxelles. Sa che qualunque riassetto possibile nel risiko mediorientale che non metta in discussione radicalmente l’espansionismo saudita e turco, difficilmente avrà una dimensione di prospettiva a medio-lungo termine.

Il che non toglie che Mosca, anche in assenza di un’intesa globale, continuerà ad attaccare il Daesh; motivi geostrategici, di sicurezza e, a questo punto, anche d’immagine, glielo impongono. L’ammissione del riscontro di prove della presenza di un ordigno a bordo del volo russo esploso sul Sinai, serve proprio a riconfermare ai russi l’inevitabilità di una iniziativa militare contro il terrorismo jahidista. “Li andremo a stanare ovunque siano e la vendetta sarà tremenda” ha detto Putin. Ma sarà il grado di condivisione con l’Occidente a stabilire la misura e la modalità dell’intervento russo. Diversamente, continuerà ad assicurare la riconquista da pare dell’esercito siriano del controllo del Paese e si limiterà a garantire l’incolumità delle sue basi e il mantenimento al potere di Assad o di un suo successore gradito a Mosca.

E mentre si vanno delineando le strategie d’intervento e i piani di reazione alla minaccia terroristica, va registrata una commovente ondata di solidarietà popolare con la Francia senza precedenti, che viaggia soprattutto nella Rete. Una solidarietà importante, che viaggia però con il retrogusto amaro di una similitudine eurocentrica, dal momento che né l’attentato a Beirut con 35 morti di Hezbollah ad opera del Daesh, né l’abbattimento dell’aereo russo sul Sinai, con 224 vittime altrettanto innocenti come quelle di Parigi, avevano suscitato hashtag, bandiere sui profili facebook e minuti di silenzio nelle diverse capitali europee.

Non si vuole certo polemizzare sul dolore e la sacrosanta indignazione che ogni morte innocente produce, ma l’espressione di questi sentimenti indipendentemente dall’appartenenza delle vittime risulterebbe certo più nobile e meno schierata. Sarebbe quindi bene che gli europei esportassero anche a Sud la giusta indignazione per le vittime del terrore.

Certo, sappiamo tutti qual è l’amara verità: sul borsino internazionale del dolore la morte di un occidentale vale molto più che quella di un orientale. E’ uno degli aspetti peggiori del dominio culturale del mainstream informativo in mano all’Occidente, che chiama morti gli altri e vittime i suoi. Rafforzando così le frustrazioni e le umiliazioni che affollano il mondo arabo e dalle quali attingono cinicamente i califfi d’ogni sorta per trasformare ogni musulmano in un potenziale terrorista.

di Michele Paris

La risposta del governo francese agli attentati terroristici di venerdì scorso a Parigi sembra prevedere quasi esclusivamente un’accelerazione delle iniziative già in corso da oltre un anno per combattere lo Stato Islamico in territorio iracheno e siriano. Sul fronte internazionale, infatti, il presidente Hollande ha autorizzato da subito un’intensificazione dei fin qui inutili bombardamenti sulla presunta capitale del “califfato”, Raqqa, nel nord della Siria.

Sul suolo domestico, invece, Parigi sta preparando un altro giro di vite sulle libertà civili e i diritti democratici per prevenire nuovi attacchi da parte di individui radicalizzati che, come confermano le identità dei responsabili dei recenti episodi di sangue, quasi sempre trovano già posto negli archivi delle forze di sicurezza transalpine.

A partire da domenica sera, come è noto, i jet francesi hanno iniziato a operare bombardamenti sulle postazioni dell’ISIS a Raqqa partendo da basi militari negli Emirati Arabi Uniti e in Giordania. Le operazioni sono coordinate con gli Stati Uniti, da dove l’amministrazione Obama ha fatto sapere che i raid saranno ulteriormente intensificati nelle prossime settimane.

Le notizie di incursioni più frequenti nei territori controllati dall’ISIS è stata diffusa in varie occasioni dall’inizio della nuova campagna mediorientale promossa da Washington nell’estate del 2014, salvo poi concretizzarsi tutt’al più in perdite modeste e tutt’altro che determinanti per i fondamentalisti guidati da al-Baghdadi.

Lo sdegno internazionale per i fatti di Parigi, che fanno seguito a quelli, decisamente meno condannati da media e governi occidentali, del velivolo commerciale russo abbattuto sul Sinai e della strage di civili sciiti a Beirut, potrebbe essere sfruttato sia per arrivare a un’invasione di terra della Siria sia per fare pressioni sulla Russia a unirsi alla coalizione “anti-ISIS” e a scaricare finalmente il presidente Assad.

La prima ipotesi sembra essere lontana dai pensieri della Casa Bianca o dell’Eliseo, ma influenti sezioni della classe dirigente, non solo americana, continuano a spingere per una soluzione di questo genere. Molto più chiara è al contrario la volontà di questi governi e dei loro alleati di provare a forzare l’allineamento di Mosca ai loro obiettivi strategici, uno sforzo diventato meno complicato - almeno dal loro punto di vista - dopo i 129 morti di Parigi.

Il teatro di queste manovre è stato il G-20 di Antalya, in Turchia, prevedibilmente dominato dagli attentati di venerdì. Obama e Putin hanno tenuto un faccia a faccia informale per più di mezz’ora, definito “costruttivo” dalla Casa Bianca. L’incontro è stato accompagnato da un coro di dichiarazioni di vari leader impegnati a chiedere alla Russia di concentrarsi sulla lotta all’ISIS invece di prendere di mira le formazioni anti-Assad “moderate”.

Considerando anche che in un paio di mesi l’intervento militare legale della Russia in Siria ha assestato maggiori danni all’ISIS e alle altre organizzazioni fondamentaliste, che spesso coincidono con quelle definite “moderate” dall’Occidente, il forcing su Putin di questi giorni ha evidentemente come obiettivo lo sganciamento di Mosca dal regime di Damasco.

Ciò giunge sulla scorta dell’accordo raggiunto sabato a Vienna su una generica “road map” per un cessate il fuoco e una transizione politica in Siria. Tutte le parti convenute nella capitale austriaca sono sembrate condividere il piano di una Siria unitaria e non-settaria, così come il processo che dovrebbe portare a una nuova Costituzione e a elezioni entro 18 mesi. Il punto su cui rimane il muro contro muro è il ruolo di Assad, ovvero, al di là della sorte personale del presidente, quale orientamento strategico dovrà avere il governo che potrebbe sorgere nel prossimo futuro a Damasco.

I propositi occidentali di unità nella lotta ai terroristi in Siria sono stati ribaditi dallo stesso Putin, anche se, nel concreto, le posizioni restano distanti, visto che la categoria nella quale sono classificati i gruppi integralisti adottata dalla Russia non ha gli stessi contorni di quella di Washington, Londra o Parigi.

Nonostante la retorica di dichiarazioni che sollecitano misure più incisive per combattere l’ISIS, qualsiasi iniziativa militare che verrà eventualmente adottata in relazione alla Siria continuerà ad avere come reale obiettivo la rimozione del regime di Assad. Se il governo francese e i suoi alleati vedono con ovvia apprensione il diffondersi del rischio attentati in Europa, non saranno di certo i morti di Parigi a far cambiare i loro calcoli strategici in Siria.

Sulle formazioni jihadiste, Parigi come Washington o Londra, per non parlare di Ankara e Riyadh, hanno investito enormemente con l’obiettivo di abbattere il regime di Damasco, mettendo in conto la possibilità di “effetti collaterali” sotto forma di attentati terroristici entro i propri confini. All’interno di un panorama strategico di questo genere, dunque, risulta estremamente improbabile l’abbattimento del rischio terrorismo, visto che l’Occidente intende accelerare le stesse politiche che lo hanno generato.

Dal G-20 sono uscite comunque varie promesse da parte dei leader che vi hanno partecipato per dare l’impressione di voler combattere più efficacemente il rischio terrorismo, tra cui quelle di incrementare la condivisione di informazioni di intelligence, di rafforzare i controlli alle frontiere in Europa e, la più improbabile di tutte, di interrompere i canali di finanziamento dei jihadisti.

L’altra questione emersa inevitabilmente subito dopo la strage di venerdì è la riproposizione delle misure da stato di polizia della stessa natura di quelle già implementate più volte nell’ultimo decennio e che, a rigor di logica, sono da considerarsi inutili per i fini dichiarati ufficialmente. Infatti, com’è accaduto in maniera puntuale con i precedenti episodi riconducibili al terrorismo internazionale, in Francia e non solo, praticamente in ogni occasione i responsabili erano già ben noti ai servizi segreti o alle forze di polizia.

Il processo di radicalizzazione di molti giovani musulmani, non solo francesi, avvenuto in Siria, è stato seguito con estrema attenzione dai servizi segreti occidentali, visto che, almeno per i primi anni del conflitto, l’obiettivo di questi individui e dei governi dei paesi da dove provenivano, vale a dire la guerra contro Assad, coincideva alla perfezione.

Se gli attentatori erano perciò più o meno tenuti sotto controllo da organi dello stato dotati di facoltà quasi illimitate nell’ambito della sorvegliamza, è legittimo chiedersi quali altri poteri sarà necessario attribuire alle forze di sicurezza per prevenire ulteriori attentati. Ciò appare tanto più inquietante alla luce dei contorni dell’operazione suicida di Parigi, condotta non da terroristi improvvisati o “lupi solitari” difficili da individuare, bensì da team altamente addestrati, ben armati e finanziati e con collegamenti all’estero, in grado di pianificare con attenzione la strage.

Il governo del presidente Hollande e del primo ministro, Manuel Valls, ha in ogni caso deciso lo stato di emergenza e si appresta a chiedere un cambiamento della legge francese per prolungarne drasticamente la durata. La sospensione di alcuni diritti costituzionali tramite questo strumento è basata su una legge del 1955, adottata nell’ambito della guerra d’Algeria, e prevede una durata di non più di dodici giorni. Il governo di Parigi intende invece prolungarla di ben tre mesi e mercoledì preparerà un disegno di legge che sarà poi presentato e votato in Parlamento.

Tra le misure autorizzate dallo stato di emergenza vi sono la possibilità di mettere in atto alcuni provvedimenti anti-democratici in maniera arbitraria, come perquisizioni in abitazioni private, coprifuoco, controllo della stampa, arresti, chiusura di luoghi ed edifici pubblici, stop alle manifestazioni di piazza.

In un intervento di fronte ai due rami del Parlamento a Versailles con pochissimi precedenti storici, lunedì Hollande ha lanciato un appello a unire le forze per combattere l’ISIS, aggiungendo sinistramente che la Francia è “in guerra” contro il terrorismo jihadista.

Tutto il legittimo sdegno per i fatti di sangue di venerdì scorso, così come i proclami e le iniziative del governo francese, non possono ad ogni modo far dimenticare il contesto in cui sono avvenuti gli attentati e le responsabilità per la creazione del clima tossico che si respira in Europa di riflesso dalle crisi che attraversano il Medio Oriente.

I governi occidentali, con quello di Parigi in prima fila, a fronte della retorica della “guerra al terrore”, dietro le quinte hanno coltivato e continuano a coltivare forze islamiste ultra-reazionarie e violente per promuovere i loro interessi strategici, come il cambio di regime in paesi come Libia e, ora, Siria.

Questi gruppi integralisti mantengono rapporti a dir poco ambigui con le intelligence occidentali, le quali contribuiscono allo sforzo di armarli, finanziarli e addestrarli assieme ai regimi dittatoriali del mondo arabo, alimentando violenze e atrocità nei teatri di guerra mediorientali e, allo stesso tempo, fornendo la giustificazione per interventi militari diretti in una spirale di violenza senza fine che, sempre più, sembra trovare drammaticamente eco anche nelle capitali occidentali.

di Fabrizio Casari

Si deve all’abilità della sicurezza dello stadio dove si svolgeva la partita tra Francia e Germania se il bilancio degli attentati terroristici non è arrivato a contare migliaia di morti. Aver immediatamente chiuso le uscite dallo stadio ha impedito la fuga generale di decine di migliaia di tifosi nel pieno del panico, che avrebbe potuto replicare moltiplicando per cento quanto avvenuto all’Heysel nel 1985.

Nella dinamica degli attentati emergono alcuni dati che vanno evidenziati. La scelta del Venerdì, giorno santo dedicato alla preghiera per i musulmani non sembra casuale. I luoghi scelti, in primo luogo il teatro Bataclan (dove si svolgeva un concerto di musica metal), ma anche lo stadio, sono luoghi per eccellenza dove si recano i parigini.

Sono posti difficilmente meta di turisti che, invece, sono soliti muoversi in altre zone, dal Quartiere Latino a Montmartre, dagli Champs Elysees e Place de la Concorde, al Louvre, alla Tour Eiffel.

C’è, con tutta evidenza, un salto in avanti rispetto agli scorsi attentati contro Charlie Hebdo. Se nei confronti della rivista satirica si poteva leggere, per quanto folle e omicida, la risposta di presunti musulmani presumibilmente offesi per le cialtronate che venivano pubblicate e dunque la scelta di colpire a Parigi poteva essere una sorta di effetto collaterale dovuto alla collocazione fisica della redazione, quelli di ieri non hanno un bersaglio in qualche modo identificabile con l’avversione all’Islam.

In questo senso, volendo cercare una linea unificante con gli attacchi di pochi mesi orsono, quelli di ieri più che ad un obiettivo preciso ed identificato nell’occasione con la redazione del giornale satirico, sembrano inserirsi nello stesso orribile solco di quanto avvenne nel supermercato. Il nemico dichiarato è la gente comune, il normale vivere quotidiano di una città europea. A maggior ragione di una capitale che contiene milioni di musulmani, la maggior parte stipati in banlieues che, a semplice vista, ricordano la vita in cattività di ormai tre generazioni di maghrebini.

Il silenzio assoluto delle guide musulmane di Francia colpisce non poco. E’ forse figlio di una difficoltà a pronunciarsi, stretti tra un dovere di cittadinanza europeo e un obbligo di solidarietà e comprensione con i giovani assassini che uccidono in nome del Corano. Colpisce ed inquieta, quel silenzio, perché ridurrà ulteriormente i margini di manovra di coloro che cercheranno di differenziare la caccia agli assassini dalla caccia all’Islam.

La rivendicazione arrivata dall’ISIS accusa la Francia di essere “la capitale dell’abominio e della perversione”, ma se così fosse gli attentati avrebbero avuto luogo a Pigalle o in altri luoghi dove le libertà negli usi e costumi francesi si manifesta con maggiore nettezza. E quindi più credibil l’obiettivo fosse il terrore per il terrore, fosse cioè infondere la paura a 360 gradi.

E così come avvenne nello scorso Gennaio, non si realizzano attacchi singoli, ma più nuclei in posti diversi per quanto relativamente vicini. Il che dice qualcosa sugli assassini e qualcos’altro su chi dovrebbe difendere l’incolumità delle città.

Sono circa una decina i commandos suicidi. Il che significa che, includendo ideazione, organizzazione, logistica e comunicazioni, sono state perlomeno una quarantina le persone coinvolte nell’organizzazione della strage. La domanda, dunque, è inevitabile: i servizi segreti francesi hanno esaurito la loro fama nelle cantine dove torturavano i resistenti algerini negli anni 60? Dove e su quale qualità dell’intelligence riposa l’ostinata riproposizione di una grandeur che ormai risulta drammaticamente imbelle?

E’ evidente che i protagonisti, per quanto abili possano essere (ma certo, vista la giovane età, non si tratta di veterani guerriglieri) sono riusciti a bucare completamente le maglie della rete di controllo che dalle banlieues al resto di Francia, la DGSE e il Ministero dell’Interno hanno teso successivamente all’assalto a Charlie Hebdo.

La notizia secondo la quale uno dei componenti del commando era schedato e “attenzionato” dai servizi francesi, aumenta gli interrogativi. Perché era libero? Ed era almeno sorvegliato? E chi lo sorvegliava non aveva notato nulla nei suoi movimenti che potesse insospettire? Qui non ci si trova di fronte alla scheggia impazzita, al gesto isolato di un esaltato obiettivamente difficile da prevenire, ma all’azione di un nucleo organizzato al quale la retata di 24 ore prima in Italia e Germania può aver solo spinto ad accelerare l’azione.

Il Presidente Hollande, una delle maggiori delusioni nella storia politica della Francia, ha invitato tutto il Paese alla mobilitazione, com’era inevitabile. Ma forse, più concretamente, dovrebbe decidere di proporre una modifica sostanziale alle linee operative dei suoi organi d’intelligence, in primo luogo dismettendo quella di punta di lancia degli interessi delle imprese d’Oltralpe per concentrarsi invece sulla difesa dell’integrità e inviolabilità del suo territorio dalla minaccia interna ed estera.

Si può - anzi si deve - ricordare che l’orrore provato ieri in Francia è solo una minima parte di quello provato in tutto il Medio Oriente ogni giorno, ma più che replicare all'unisono la retorica da boyscout e l’elegia del modello di democrazia occidentale contro la barbarie, è meglio che l’azione di ieri sia contestualizzata politicamente è della sua condotta in Siria che Parigi è chiamata a rispondere.

Che viene vista dall’ISIS come un tradimento, evidentemente. Perché in particolare in Libia, ma anche in Siria, la Francia è stata in prima linea contro i legittimi governi di Tripoli e Damasco ed anche in Irak Parigi non ha mai rappresentato un sostegno al governo sciita. Dunque, l’affermazione dell’ISIS è stata certamente agevolata dalla linea politica di Parigi, oltre che da quella di Londra e Washington.

Dallo scorso Settembre, però, pur con molte più parole che proiettili, Parigi ha dato un giro diverso con la sua partecipazione all'alleanza internazionale contro l'ISIS e, a seguito di questa nuova collocazione, ha effettuato alcune missioni di attacco in Siria.

Quello che però ha cambiato il quadro complessivo è la recente Conferenza di Vienna, nella quale hanno cominciato a delinearsi i primi contorni per un processo di pace. Nata a seguito dell’intervento russo in Siria, la consultazione tra le nazioni vede la presenza del governo di Damasco e di quello di Teheran, cominciando così a delineare un totale cambio di rotta verso l'ISIS da parte di Parigi e Londra. Nel comunicato dell'ISIS che rivendica gli attentati di ieri a Parigi, vengono indicate Londra, Washington e Roma come le tappe successive del terrore camuffato da religione. Dunque, sebbene i distinguo sono evidenti, la sfida è a l'Occidente tutto.

Tra dieci giorni, i 17 paesi che stanno scegliendo il percorso possibile per la soluzione politica alla guerra siriana torneranno a riunirsi. Ebbene sarà opportuno intraprendere un deciso e definitivo percorso che abbandoni l’ostilità politica contro Assad e sappia invece costruire un’alleanza militare con il governo di Damasco e l’esercito lealista per sconfiggere definitivamente il Califfato di Al Baghdadi.

Gli iraniani e i curdi in Irak, i Peshmerga curdi e i russi in Siria, stanno già facendo sul serio. E’ ora che l’Occidente si aggiunga e metta con le spalle al muro i suoi alleati sauditi e turchi invece di continuare ad individuare in Assad il problema.

In questo senso, le dichiarazioni di ieri del Ministro degli Esteri italiano, Gentiloni, che ritiene come l'obiettivo sia la cacciata di Assad, risultano particolarmente stupide. Per carità, non è certo Gentiloni la figura di riferimento per la politica estera del nostro Paese, ma sarebbe opportuno che fosse ricondotto al silenzio da chi decide.

Se si vuole pacificare la Siria, Assad è parte della soluzione, non il problema. Impossibile chiedergli di lasciare il comando perché il vuoto di potere produrrebbe solo una nuova Libia, dove pure l'Occidente e la Francia in particolare stanno sperimentando il fallimento totale. Serve piuttosto una rapida disfatta militare dell’islamismo per ridurre l’aureola del terrore e preparare un nuovo inizio per la Siria.

Ci sarà tempo successivamente per analizzare errori e fallimenti di chi per liberarsi dell’asse tra Teheran, Damasco, Beirut e Gaza ha pensato di costruire un Frankestein del terrore. Che poi, come già in Afghanistan, gli si è rivoltato contro facendogli pagare il prezzo più alto.


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