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di Michele Paris
Con la consueta amichevole stretta di mano tra i delegati del sindacato automobilistico americano UAW (United Auto Workers) e i vertici di General Motors (GM), lunedì a Detroit si sono aperte ufficialmente le trattative per il rinnovo di un contratto di lavoro che interessa circa 140 mila persone. Nei prossimi giorni sarà dato il via ufficiale anche ai negoziati con Ford e Fiat-Chrysler e la questione principale al centro delle discussioni sarà legata ai livelli di retribuzione, in netta discesa negli ultimi anni nonostante l’impennata dei profitti delle tre compagnie.
In cima alla lista delle richieste dei lavoratori c’è appunto il desiderio più che legittimo di recuperare i mancati adeguamenti dei loro stipendi a partire dalla stipula dell’ultimo contratto, avvenuta nel 2011, e di mettere fine all’odiato sistema dei “due livelli” retributivi.
Quest’ultimo era stato introdotto nel 2007 grazie alla connivenza del sindacato per abbassare drasticamente il costo del personale delle compagnie automobilistiche. In base a esso, gli stipendi di circa 40 mila lavoratori assunti dopo il 2007 sono stati di 15,8 dollari l’ora, poi saliti a 19,3 dollari nel 2011, contro livelli che vanno dai 28,5 ai 33 dollari per quelli entrati in Ford, GM o Fiat-Chrysler prima di questa data.
Ai dipendenti più anziani, non viene poi riconosciuto un aumento dello stipendio base da ben otto anni, anche se tutti hanno beneficiato in questi anni di premi una tantum grazie ai ritrovati profitti dei tre colossi dell’auto.
Il sistema dei “due livelli” ha portato enormi benefici alle compagnie, consentendo loro di ridurre al 6,7% nel 2014 la quota del costo del personale in relazione al totale di un singolo veicolo prodotto, contro il 15% nel 2008. Questa dinamica ha sostanzialmente equiparato il costo del lavoro di Ford, GM e Fiat-Chrysler a quello sostenuto dalle case automobilistiche asiatiche e tedesche che operano vari impianti soprattutto negli stati americani del sud, pressoché privi di sindacati e governati da politici particolarmente ben disposti verso il business.
La posizione della UAW alla vigilia delle trattive per il rinnovo del contratto che scadrà a settembre appare a dir poco ambigua. Ufficialmente i suoi vertici vogliono cancellare il sistema dei “due livelli” retributivi o, quanto meno, ridurre la distanza tra gli importi erogati ai dipendenti più anziani e a quelli assunti recentemente. D’altro canto, però, ci sono voci che il sindacato possa addirittura accettare un “terzo livello”, secondo il quale i futuri dipendenti potrebbero guadagnare appena 10 dollari l’ora.
Questa iniziativa favorirebbe altre nuove assunzioni in Ford, GM e Fiat-Chrysler, assicurando nuovi potenziali iscritti alla UAW in vista dell’entrata in vigore in Michigan e in Indiana di nuove leggi, approvate negli scorsi anni da legislature statali repubblicane, che rendono volontario e non più obbligatorio il pagamento delle quote sindacali da parte dei lavoratori.
Visti dunque i rapporti più che amichevoli tra i vertici della UAW e la dirigenza delle tre compagnie, la sfida principale del sindacato sarà quella di tenere sotto controllo le pressioni dei propri iscritti per ottenere una parte dei profitti generati in questi anni dal loro stesso lavoro.
I negoziati appaiono particolarmente complicati con Fiat-Chrysler, non solo per le ben note aspirazioni di Sergio Marchionne a perseguire una nuova fusione che avrebbe ulteriori probabili conseguenze negative sulla forza lavoro, ma anche per la situazione attuale all’interno dell’azienda, parzialmente diversa da quella di Ford e GM.
Circa il 45% dei dipendenti di Fiat-Chrysler fa parte del secondo livello retributivo, ovvero quello più basso, a differenza di Ford e GM che sono attestate rispettivamente al 28% e al 19%. In concreto, Fiat-Chrysler ha un costo orario del lavoro – inclusa la copertura sanitaria e altri benefit – attorno ai 47 dollari per dipendente, contro i 55 di GM e i 57 di Ford.
Fiat-Chrysler potrebbe dunque opporre la maggiore resistenza al tentativo di ridurre le differenze retributive tra i propri dipendenti, visto il possibile impatto. Secondo uno studio indipendente, infatti, un aumento di 5 dollari l’ora per ogni lavoratore significherebbe un aumento dei costi pari a 400 milioni l’anno.
In ogni caso, sia i vertici aziendali sia quelli sindacali continuano a manifestare l’intenzione di mantenere alto il livello di competitività delle tre compagnie, senza perciò “danneggiarlo” con “eccessive” richieste di aumenti degli stipendi. Le compagnie automobilistiche hanno tuttavia fatto registrare più di 70 miliardi di dollari di utili dal 2011 a oggi e buona parte di questo denaro è stato impiegato per il riacquisto di proprie azioni (“buyback”) o per pagare dividendi agli azionisti.
Pochi giorni prima dell’inaugurazione delle discussioni per il rinnovo del contratto, inoltre, una manovra di Ford è apparsa particolarmente inquietante. La compagnia, con un annuncio intimidatorio nei confronti dei proprio dipendenti, ha fatto sapere di voler chiudere un impianto nei sobborghi di Detroit, dove vengono realizzati i modelli Focus e C-Max, per trasferire la produzione in Messico.
In questo impianto lavorano più di 4 mila persone e la minaccia di chiusura è un modo nemmeno troppo velato per minare la resistenza dei lavoratori ed estrarre nuove concessioni durante le imminenti trattative con la UAW.
Le tre compagnie, così, hanno tutta l’intenzione di tenere bassi i costi del personale, congelando ancora gli aumenti delle retribuzioni per sostituirli con premi legati alla produttività e ai profitti. Questo concetto lo ha riassunto alla perfezione lo stesso Marchionne, il quale, dopo avere incassato più di 70 milioni di dollari in compensi nel 2014, ha respinto l’idea che ai lavoratori siano riconosciuti “diritti acquisiti” relativi all’aumento della paga oraria.
Per i dipendenti di Ford, GM e Fiat-Chrysler si prospetta oltretutto un ridimensionamento dell’assistenza sanitaria che ricevono tramite il loro contratto di lavoro. I costi sanitari sono infatti nel mirino del management, tanto più che dal 2018 entrerà in vigore una tassa del 40%, stabilita dalla riforma di Obama del 2010, sui piani di assicurazione più generosi offerti dalle aziende private, cioè i cosiddetti “Cadillac plans”.
In questo caso, è stata la stessa UAW a proporre una via d’uscita vantaggiosa solo per le tre compagnie. Il presidente del sindacato, Dennis Williams, ha cioè prospettato la creazione di un’assicurazione sanitaria collettiva per i 140 mila dipendenti di Ford, GM e Fiat-Chrysler, gestita da un fondo simile a quello già operato dalla UAW per garantire la copertura dei lavoratori in pensione (VEBA).
Un simile progetto rappresenterebbe una nuova lucrosa opportunità per i vertici della UAW, i quali si ritroverebbero svariati altri miliardi di dollari da gestire in investimenti, anche se l’assistenza sanitaria per i lavoratori diventerebbe più onerosa e, con ogni probabilità, di qualità inferiore.
Attualmente, negli Stati Uniti i lavoratori dell’industria automobilistica pagano di tasca propria circa il 6% delle prestazioni sanitarie di cui usufruiscono, attraverso contributi e franchigie, a fronte dell’11% pagato dai pensionati coperti dal fondo VEBA e del 15% dalla media degli americani assicurati.
In definitiva, i round di negoziati che prenderanno il via nei prossimi giorni tra la UAW e i giganti dell’auto segneranno una nuova tappa nel tentativo della classe dirigente americana di trasformare gli Stati Uniti in un paese dove il costo della manodopera risulti sostanzialmente allineato a quello dei paesi meno avanzati. Con la minaccia della perdita del posto di lavoro e con la complicità del loro stesso sindacato, i lavoratori USA saranno esposti a pressioni enormi per accettare condizioni sempre più difficili e svantaggiose, così da garantire la “competività” e i profitti miliardari delle loro aziende.
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di Fabrizio Casari
Una Europa con il sangue agli occhi e livida di rabbia ha preferito annullare la riunione dei 28 paesi membri e rifugiarsi nell’Eurogruppo per cercare di nascondere il livore contro Atene, che con la sua proposta di piano straordinario di aiuti ha letteralmente messo Bruxelles con le spalle al muro, determinando così un rilancio idrofobo e antigreco per tenere uniti i 28. L’eurovertice di ieri ha certificato, per la prima volta, una spaccatura nel gruppo dirigente della Ue. Slovacchia o Finlandia, o simili, votano con Berlino sapendo che questo eviterà di spulciare nei loro conti, spesso altrettanto disastrosi come e più di quelli greci.
Da un punto di vista numerico, l’appoggio di costoro è relativamente importante, dal momento che alcuni dei paesi più oltranzisti schierati al fianco di Berlino contano meno di quanto votino, ma in sede di Eurogruppo assumono un peso a sostegno dei tedeschi che serve a bilanciare lo smarcamento di Parigi e l’incertezza di Roma. E’ poi chiaro che la rigidità di Berlino con Parigi sia in qualche modo la risposta rabbiosa verso l’Eliseo che ha offerto già da due settimane collaborazione ad Atene. Ovvio comunque che la differenza tra Parigi e Berlino non andrà oltre la contingenza, dal momento che non può assumere valenza prospettica in assenza di leadership francese e italiana degna di nome.
Le proposte di Bruxelles sono decisamente peggiorative rispetto a quelle di Atene e impongono, né più né meno, il commissariamento europeo della Grecia, sotto il nome dell’accettazione del terzo “Memorandum”. A fronte di 86 miliardi di Euro di aiuti si propongono ispezioni degli uomini della Troika, approvazione preventiva da parte di Bruxelles delle leggi che il Parlamento greco dovesse adottare e rinvio a data da destinarsi dell’eventuale rateizzazione - e non ristrutturazione - del debito greco (cosa che, sebbene non a chiare lettere, era visibilmente presente nella proposta di Tsipras).
Nella “proposta” in discussione all’Eurogruppo si ordina ad Atene il trasferimento di 50 miliardi di Euro in beni pubblici ad un fondo straniero e persino la riforma del Codice di Procedura Civile, evidente grimaldello per modifiche sostanziali alla Carta costituzionale greca utili allo smantellamento dei diritti individuali e collettivi nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale su cui calare come falchi. Siamo di fronte ad un delirio imperiale con i tratti della rappresaglia verso un paese che ha deciso di esprimere il suo volere. Un piano quasi impossibile da accettare e comunque contrario agli stessi trattati fondativi della Ue, lanciato con la speranza che sia la Grecia a rifiutarlo e così sfilarsi dll'eurozona.
Il Premier greco gioca una partita difficilissima sotto il waterboarding di Bruxelles. Ma si è già dimostrato abile scacchista e forse anche nell’occasione sorprenderà tutti con la capacità di non alzarsi dal tavolo e portare a casa un risultato, quale che sia, che non comporti l’uscita dall’area euro. Magari anche tornando ad Atene con la lettera di dimissioni e la convocazione di nuove elezioni, forte dei sondaggi che lo danno al 46% dei voti. Intanto potrebbe chiedere un prestito ponte straordinario per scongiurare la chiusura definitiva degli sportelli delle banche greche.
E’ palese come la questione non sia affatto finanziaria, non rappresentando l’ammontare del debito greco (320 miliardi di euro) più del 3 per cento del debito europeo. Ed è bene considerare che l'eventuale default greco costerebbe decisamente di più. Per meglio definire l'ordine di grandezza del problema, si consideri che in due giorni di crisi borsistica cinese di miliardi ne sono stati bruciati 2500. C'è poi da ricordare che i precedenti “aiuti europei” sono stati assegnati ai governanti amici di Bruxelles, che proprio seguendo i “consigli” della Troika hanno ridotto il PIL del 25%, peggiorando quindi tutti i fondamentali dell’economia ellenica e aprendo la più grande crisi umanitaria del vecchio continente. I famosi 250 miliardi di Euro dati alla Grecia sono una barzelletta: quei soldi non sono mai arrivati alla Grecia, sono finiti a ripianare l’esposizione delle banche tedesche, francesi e italiane verso la Grecia. Per questo oggi Tsipras chiede la consegna degli aiuti al governo e non agli istituti di credito.
L’obiettivo immediato dell’Eurogruppo è quello di far cadere il governo Tsipras proponendo una resa incondizionata. L’ordine di avere entro cinque giorni l’approvazione del Parlamento greco ha tre obiettivi. Il primo è quello di spaccare Syriza, cosa fino ad ora non riuscita con i precedenti ricatti, e aprire così ad una nuova maggioranza di governo che riporti gli uomini di Goldman Sachs (come Samaras, nei cui confronti non a caso mai si esercitarono pressioni simili) nello scenario di governo. Il secondo è quello di non offrire subito il sostegno finanziario per impedire che le banche elleniche possano riaprire già da martedì, tentando così di stringere il nodo scorsoio alla gola dei greci e sperare d’innescare una rivolta contro il governo, magari con l’aiuto dell’estrema sinistra, sempre pronta a perdere il senso della sua esistenza di fronte alla storia.
La portata dello scontro tra Europa a guida tedesca e la Grecia è esclusivamente politica e non ha nessun criterio dal punto di vista economico, anche perché non avrebbe nessun senso imporre ad un paese con circa il 180% del debito sul PIL una politica recessiva. In discussione c’è il comando imperiale tedesco. A conferma di ciò, basta ricordare come nei giorni scorsi, i giornalisti da riporto di Bruxelles avevano raccontato di un piano Tsipras non diverso nella sostanza da quello di Junker. Non era ovviamente vero, ma la domanda che tutti dovrebbero porsi è questa: come mai se i piani sono simili quello di Junker va bene e quello greco non va bene?
La risposta è semplice: non si riconosce alla Grecia nemmeno la possibilità di esporre un piano, l’obbedienza è l’unica risposta ammessa. Inoltre, nella sostanza, si vuole determinare con la forza l’illegittimità di un governo di sinistra che agisca come tale, dunque che faccia uso degli strumenti democratici di consultazione del suo popolo e che chieda un deciso cambio di rotta nelle politiche di rigore che, in cinque anni, hanno ridotto il paese in ginocchio e peggiorato tutti i suoi indici finanziari, sociali e politici. La sinistra è prevista solo se agisce come la destra, vedi Francia o Italia.
La Grecia, che tra le altre risorse ha dimostrato di disporre di un Primo Ministro con stoffa da statista, ha proposto un piano che prevede oltre alla ricapitalizzazione delle quattro banche (da accorpare a due) e all’aumento ragionevole dell’Iva, una riforma progressiva in cinque anni del sistema pensionistico.
Atene chiede 74 miliardi di Euro, di cui 14 per la ricapitalizzazione degli istituti di credito e 60 per gli investimenti. Dunque, gli investimenti non sarebbero di fantomatiche mano invisibili del mercato (ovvero banche europee) ma pubblici, voluti e gestiti da un governo sovrano. Intollerabile per Berlino, quindi per Bruxelles.
Perché ove ciò succedesse, è evidente che il governo greco potrebbe operare nella direzione del Programma di Salonicco, ovvero il programma elettorale di Syriza e i risultati in termini di ripresa dell’economia non tarderebbero a manifestarsi. Ma questo diverrebbe la prova provata di quanto siano le politiche ultramonetariste di Bruxelles che impediscono all’Europa di uscire dalla crisi cominciata nel 2010 ed aprirebbero la porta ad una nuova stagione della sinistra in Spagna e forse in Italia, il che comporterebbe l’implosione della guida tedesca del continente.
L’Unione Europea sa benissimo che ormai risulta essere, agli occhi della maggioranza dei cittadini del vecchio continente, una istituzione dannosa, un insulto alla democrazia continentale e un tradimento all’idea federalista che aveva progettato e disegnato l’unione continentale in forma di comunità unitaria e solidale.
Nelle ultime 48 ore la stampa tedesca e quella britannica hanno rilanciato le minacce di Schaeuble, che hanno una doppia valenza: nei confronti della Grecia, colpevole di aver consultato i suoi cittadini su ordini provenienti da Berlino e, internamente, nei confronti della Merkel, per tentare il sorpasso interno nel partito.
Agli occhi di Schaeuble la Cancelliera si sarebbe resa disponibile ad un accordo perché avrebbe ceduto alle pressioni di Obama, che gli ha ripetutamente fatto presente come ben prima che della ragioneria degli euroburocrati, la permanenza della Grecia nell’Unione Europea è questione di primaria importanza sotto il profilo geostrategico, con ciò intendendo la NATO e il suo fianco sud. La situazione in Turchia e il nuovo braccio di ferro con Mosca non consigliano gli USA ad un atteggiamento indifferente sulla tenuta della Grecia. La Merkel, che ha una lungimiranza che si misura solo sul suo consenso interno, si è prontamente allineata a Schaeuble, sapendo che risulterà più conveniente, ai fini della politica interna, arrivare ad un accordo non voluto che dirsi favorevole al raggiungimento dello stesso. Meglio dirsi sconfitta che complice.
Intanto, dal documento in discussione è stata cancellata l’ipotesi di uscita temporanea della Grecia dall’Euro causa insostenibilità legale del provvedimento. Sarebbe bene che se un Ministro delle Finanze che vuole comandare sull’Europa propone una mossa illegale ed illegittima proprio per i trattati europei, fosse immediatamente rimosso per manifesta incompatibilità tra il suo personale livore e le norme esistenti. Un dilettante ad alta intensità di crudeltà privo delle caratteristiche necessarie per una funzione così importante.
Mentre scriviamo non è ancora chiaro quale sarà la stesura definitiva del piano dell’eurogruppo, ma conoscendo la forza negoziale di Hollande o Renzi si possono ipotizzare modifiche di non grande sostanza. Emerge però, al di là di come si concluderà la vicenda greca, un fallimento dell’idea di Europa unita ormai visibile a tutti.
Nata per contenere l’espansionismo tedesco, che lungo i secoli ha sempre manifestato l’ansia di dominazione sull’intero continente, ha finito per consegnare al neocolonialismo tedesco le sorti di tutta l’Europa. Una Europa incapace di produrre iniziativa riguardo tutti i dossier più importanti della politica internazionale e non in grado di affrontare i temi della sua identità politica e del senso stesso della sua unità monetaria.
E’ ormai evidente come la forza economica e politica della Germania sia ottenuta a danno del resto d’Europa e come quindi il rafforzamento della guida tedesca sia antagonista allo sviluppo economico e sociale dell’Unione europea. Ridurre le tentazioni egemoniche teutoniche é di nuovo, come in passato, un gesto necessario allo sviluppo della democrazia europea.
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di Mario Lombardo
Il bilancio della Gran Bretagna presentato mercoledì al parlamento di Londra dal Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, conferma sostanzialmente il percorso fatto di durissime misure di austerity seguito negli ultimi cinque anni dal precedente governo di coalizione “Tory-Libdem”. La prima proposta di budget stilata da un gabinetto interamente conservatore dal 1996 prospetta ancora una volta una serie di pesanti tagli al welfare e la riduzione del carico fiscale per le imprese, il tutto a fronte dell’introduzione di una modesta tassa a carico delle banche e di un nuovo quanto inefficace salario minimo per i lavoratori.
Svariati commenti sui giornali britannici hanno sottolineato come l’inaspettata vittoria elettorale dei Conservatori lo scorso mese di maggio, che ha permesso al primo ministro Cameron di creare un governo monocolore a Londra, avrebbe potuto spingere Osborne a proporre un bilancio ancora più radicale rispetto a quelli degli ultimi anni.
Invece, secondo questa interpretazione, il Cancelliere - o ministro delle Finanze - avrebbe deciso di muoversi verso il “centro” nell’ambito della politica economica, visto anche il fatto che nel bilancio sono finite molte delle proposte elettorali dei laburisti. In realtà, le misure che si prospettano per la Gran Bretagna minacciano di gettare nella povertà altri milioni di lavoratori.
Facendo riferimento alla situazione della Grecia, Osborne ha ricordato come sia necessario “vivere con i mezzi che si hanno a disposizione” e, quindi, ridurre il peso del debito pubblico e trasformare la Gran Bretagna in un paese con “stipendi più alti, tasse più basse e meno stato sociale”.
Se gli ultimi due obiettivi, in seguito alle politiche economiche rovinose perseguite in questi anni, appaiono a portata di mano, il primo rimane un miraggio per i lavoratori del Regno. Come già anticipato, il nuovo bilancio “Tory” prevede l’aumento del salario minino, ma solo per coloro che hanno più di 25 anni, da 6,5 a 7,2 sterline l’ora a partire dall’aprile del prossimo anno, per poi salire a 9 sterline entro il 2020.
Questi aumenti sono però virtualmente neutralizzati dai tagli al welfare previsti e che riguardano, in particolare, gli assegni famigliari, gli aiuti destinati agli studenti, i sussidi e i crediti d’imposta per le abitazioni. Secondo studi indipendenti, per compensare i maggiori oneri derivanti dalle riduzioni decise per questi e altri benefit sarebbe necessario portare il salario di sopravvivenza in Gran Bretagna a oltre 11 sterline l’ora.
Complessivamente, il welfare britannico subirà una nuova emorragia di fondi pari a 12 miliardi di sterline, anche se spalmati sui prossimi quattro anni invece dei due inizialmente previsti. Il rinvio comporterà anche lo spostamento di un anno del pareggio di bilancio, previsto ora dal governo per l’esercizio 2018-2019.
Ad ogni modo, l’incremento del salario minimo dovrebbe essere una sorta di provvedimento di redistribuzione della ricchezza imposto alle aziende, alle quali verrà regalata una nuova riduzione dell’aliquota fiscale, già una delle più basse in Europa. La “corporate tax” scenderà così dall’attuale 20% al 19% nel 2017 e addirittura al 18% nel 2020.
Quello che Osborne ha assurdamente definito un “bilancio per i lavoratori” include inoltre un tetto dell’1% agli aumenti dei salari dei dipendenti pubblici per i prossimi quattro anni, in aggiunta al blocco che dura già da cinque anni. I crediti d’imposta per le famiglie dal 2017 saranno poi limitati ai primi due figli, così che saranno gravemente penalizzate le famiglie numerose.
Il totale dei benefici erogati dal welfare britannico sarà anche limitato annualmente a un massimo di 23 mila sterline, dalle 26 mila attuali, per quanto riguarda Londra e a 20 mila nel resto del paese. Ancora, gli aiuti per coprire le spese abitative verranno cancellati per i minori di 21 anni, i canoni di affitto “sociale” aumenteranno dell’1% e le borse di studio per gli studenti saranno sostituite da prestiti, da ripagare una volta che il reddito dei beneficiari raggiungerà le 20 mila sterline.
Per Osborne, in definitiva, “la spesa sociale non è più sostenibile”, anche perché le risorse per finanziarla vengono dirottate altrove e lungo precise linee di classe. Infatti, il bilancio conservatore ha ad esempio esentato dalla tassa di successione i beni trasmessi agli eredi fino a un valore di 1 milione di sterline.
Il settore bancario vedrà poi sparire entro il 2021 un balzello sul bilancio globale degli istituti di credito, sostituito con una sovratassa dell’8% sugli utili che, in maniera discutibile, Osborne ha sostenuto genererà maggiori entrate per le casse pubbliche. La prima decisione è secondo molti rivolta al colosso bancario HSBC, il quale aveva recentemente minacciato di lasciare Londra per trasferire il proprio quartier generale a Hong Kong proprio per evitare l’odiata imposta. Complessivamente, i cambiamenti fiscali riguardanti le banche consentiranno al governo di raccogliere in questo settore appena 1,7 miliardi di sterline in più.
Modesta è anche la previsione delle entrate provenienti dalla lotta alle varie forme di evasione fiscale, pari cioè a 5 miliardi di sterline. Ampiamente discussa sui giornali d’oltremanica è ad esempio la trascurabile misura che rende relativamente più severo il regime fiscale per i “non-residenti”, i quali potranno godere di agevolazioni solo per 15 anni e non più indefinitamente.
La pretesa della mancanza di denaro per sostenere le fasce più deboli della popolazione stride però soprattutto con la promessa fatta mercoledì da Osborne di mantenere le spese militari al 2% del PIL britannico fino alla fine del decennio. Questo è il target di spesa teoricamente previsto per tutti i membri della NATO e Londra era stata recentemente esposta alle pressioni del governo americano per prendere una decisione in questo senso, soprattutto per dare l’esempio a quei paesi che si trovano abbondantemente al di sotto di questa soglia.
La Gran Bretagna, in realtà, attualmente spende già più del 2% del PIL in ambito militare ma in molti avevano previsto una consistente riduzione per i prossimi anni, vista la portata dei tagli alla spesa pubblica decisi dal governo Cameron.
Il carattere di classe del nuovo bilancio conservatore risulta dunque evidente, anche se svariati commentatori hanno cercato di farlo passare come un provvedimento “equilibrato” per via della presenza di varie inziative. Oltre al già citato aumento del salario minimo, Osborne ha ad esempio portato da 10.600 a 11 mila sterline il reddito esente da tassazione. Per i possesori di auto costose ci sarà inoltre una tassa annua pari a 450 sterline per finanziare la costruzione di strade, mentre dovrebbero aumentare leggermente le imposte sui dividenti per i redditi più alti.
I piani di bilancio presentati da Osborne hanno in parte spiazzato l’opposizione laburista, costretta ad ammettere che più di una misura in esso contenuta avrebbe potuto essere adottata dal partito sconfitto nelle elezioni di maggio. Esponenti del “Labour” hanno affermato di condividere alcuni “principi” fissati nel bilancio conservatore, come ad esempio il tetto ai benefici garantiti annualmente dal welfare britannico, pur criticandone le modalità di implementazione.
Ciò non promette nulla di buono per la maggior parte della popolazione britannica, scesa nelle piazze qualche settimana fa per protestare contro l’austerity imposta dal governo Cameron. Anche l’opposizione laburista, come ha dimostrato negli anni di governo Blair e Brown, propone infatti un’idea di società non troppo diversa da quella dei conservatori, fondata sul dominio di banche e grandi imprese e sulla sostanziale distruzione dei diritti sociali conquistati dai lavoratori.
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di Michele Paris
La storica visita di questa settimana negli Stati Uniti del segretario del Partito Comunista del Vietnam, Nguyen Phu Trong, ha segnato un passo avanti forse fondamentale nell’evoluzione dei rapporti tra i due paesi, esattamente a vent’anni dalla normalizzazione delle relazioni bilaterali avvenuta durante la presidenza Clinton. Significativamente, Obama ha ricevuto il leader vietnamita nello Studio Ovale, di solito riservato per discussioni con personalità straniere che ricoprono ufficialmente la carica di Capo di stato.
Al centro del faccia a faccia di martedì ci sarebbero state principalmente due questioni, entrambe legate al riallineamento strategico in Asia degli Stati Uniti in funzione di contenimento della Cina. La prima è quella del trattato di libero scambio denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP), a cui il Vietnam dovrebbe aderire assieme a una decina di altri paesi asiatici e del continente americano.
Obama ha da poco ottenuto dal Congresso di Washington il via libera a una sorta di corsia preferenziale per l’approvazione del TPP, dando un impulso decisivo alle trattative con gli altri paesi coinvolti. Le difficoltà principali dei negoziati con il Vietnam riguardano non tanto aspetti come il diritto dei lavoratori a creare associazioni sindacali indipendenti, quanto lo smantellamento - o, per lo meno, il ridimensionamento - delle aziende di proprietà dello stato e altre delicate questioni legate al commercio.
Ad esempio, in cambio dell’ulteriore apertura del mercato americano ai prodotti “made in Vietnam”, gli Stati Uniti avrebbero chiesto al regime, una volta entrato in vigore il TPP, di interrompere l’importazione di materie prime tessili dalla Cina, con tutte le difficoltà logistiche che ne deriverebbero. Gli approvvigionamenti destinati a un settore cruciale dell’economia del Vietnam dovrebbero giungere invece da altri paesi facenti parte del TPP.
L’altro tema di rilievo trattato a Washington è legato poi alle dispute territoriali in atto nel Mar Cinese Meridionale, dove Cina e Vietnam sono sembrate essere ai ferri corti nella primavera del 2014 in seguito al posizionamento da parte di Pechino di una piattaforma petrolifera in un’area rivendicata da Hanoi.
Se la Cina non è mai stata citata esplicitamente durante la conferenza stampa di Obama e Trong, l’obiettivo di alcune dichiarazioni di entrambi i leader è apparso sufficientemente chiaro. Il presidente americano ha così invitato i paesi del sud-est asiatico a risolvere le dispute all’interno di “accordi internazionali”, laddove la Cina ha sempre sostenuto di volere chiarire le divergenze con i propri vicini sul piano bilaterale e senza interferenze.
L’apparente neutralità di Washington sulle dispute nel Mar Cinese Meridionale nasconde in realtà una posizione decisamente anti-cinese. Contese che si trascinano da tempo senza particolari conseguenze si sono riaccese in questi ultimi anni proprio in concomitanza con la cosiddetta “svolta” asiatica degli USA, i quali hanno più o meno apertamente incoraggiato paesi come Vietnam o Filippine a promuovere le rispettive rivendicazioni.
Nel 2014, le Filippine avevano sottoposto una richiesta di arbitrato a un tribunale internazionale a L’Aia per contestare le rivendicazioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale. Il tribunale ha tenuto la sua prima udienza sul caso proprio questa settimana e, nel decidere se esprimersi sulla vicenda, si baserà anche su un parere legale presentato a dicembre dal Vietnam in appoggio all’istanza filippina.
La posizione vietnamita è stata d’altra parte ribadita martedì a Washington, quando il segretario Trong ha affermato, avendo in mente la Cina, che “attività recenti nel Mar Cinese Meridonale sono essere in disaccordo con il diritto internazionale” e “possono complicare la situazione”.
Lo stesso leader del Partito Comunista del Vietnam ha poi definito “cordiale, costruttiva, positiva e franca” la discussione avuta con Obama, sottolineando l’estrema importanza dell’evoluzione dei rapporti tra i due paesi, passati da “ex nemici ad amici e partner”, anzi “partner a tutto tondo”. Trong ha inoltre invitato il presidente americano a visitare il suo paese, cosa che quest’ultimo sembra avere accettato di buon grado.
Obama, da parte sua, ha parlato di un rapporto di “mutuo rispetto” con il Vietnam, anche se persistono diversità di vedute riguardo “la filosofia politica” e “il sistema politico” dei due paesi. Come hanno ricordato i media e vari esponenti politici americani, il Vietnam continua a essere carente sul fronte dei diritti umani e della libertà di religione.
La questione dei diritti umani viene però come al solito usata da Washington come una delle armi a disposizione della propria politica estera per mascherare la persecuzione pura e semplice dei propri interessi strategici. Nel caso del Vietnam, la necessità di creare una partnership con l’obiettivo di limitare l’influenza della Cina ha finito per avere la precedenza su qualsiasi scrupolo democratico e umanitario.
Il governo USA ha ritenuto sufficiente citare presunti “miglioramenti” della situazione interna in Vietnam e, ad ogni modo, soprattutto in relazione a questo paese, devastato dal tragico incontro con l’imperialismo americano, Washington non è nella posizione di dare lezioni su democrazia o diritti umani.
La visita di Trong di questa settimana è comunque il coronamento di un percorso che ha portato alla costruzione di un rapporto tra Vietnam e Stati Uniti impensabile due decenni fa. Solo negli ultimi mesi, i due ex rivali hanno siglato importanti intese, soprattutto in ambito militare. Ai primi di ottobre dello scorso anno, ad esempio, gli USA avevano eliminato parzialmente l’embargo sulla vendita di armi al Vietnam.
Questa proibizione era stata introdotta ufficialmente dall’amministrazione Reagan nel 1984 e un decennio più tardi, con la normalizzazione dei rapporti bilaterali, Washington avrebbe iniziato a utilizzarla come leva per ottenere dapprima l’apertura dell’economia vietnamita al capitale americano e più recentemente per attrarre il paese del sud-est asiatico nella propria orbita strategica.
Il via libera alla vendita di armi “letali” ha riguardato in primo luogo quelle da impiegare nella “sicurezza marittima”, inequivocabilmente legata alla “minaccia” cinese. Allo stesso tempo, la fine dell’embargo è utile agli Stati Uniti per provare a insidiare il ruolo della Russia di tradizionale primo fornitore di armi del Vietnam.
Poco più di un mese fa, il ministro della Difesa di Hanoi, Phung Quang Thanh, e il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, avevano poi sottoscritto nella capitale vietnamita una dichiarazione congiunta sui rapporti bilaterali in ambito militare, sulla base di un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore della “difesa” già firmato nel 2011.
Il più recente vertice di Washington e gli sviluppi delle relazioni tra USA e Vietnam non sembrano però comportare un allineamento esclusivo di Hanoi all’ex nemico, almeno per il momento. La politica estera vietnamita appare da tempo come una sorta di esercizio di equilibrismo, dettato dalla necessità storica di mantenere una certa indipendenza dall’ingombrante vicino cinese, con il quale questo paese ha tra l’altro combattuto una breve guerra nel 1979.
La Cina è però anche il primo partner commerciale del Vietnam e di questa realtà la leadership stalinista al potere a Hanoi è ovviamente cosciente. Prima della visita a Washington, infatti, lo scorso aprile il segretario del Partito Comunista si era recato a Pechino su invito del presidente, Xi Jinping, in occasione dei festeggiamenti per i 65 anni di relazioni diplonatiche tra i due paesi vicini.
Il Vietnam ha poi intensificato i legami con altri paesi della regione alleati di Washington, come il Giappone e le Filippine, anche se, come già ricordato, il rapporto con la Russia, che dura dai tempi della Guerra Fredda, continua a essere piuttosto solido.
Ciononostante, è innegabile che l’avvicinamento agli Stati Uniti sia il dato più significativo della politica estera vietnamita di questi anni. All’interno del regime ci sono sezioni che spingono indubbiamente per una rottura ancora più netta con la Cina e per riorientare il paese verso gli Stati Uniti e i loro obiettivi strategici in Asia orientale, con la conseguente accelerazione delle “riforme” di libero mercato sul fronte interno.
Un’altra fazione, al contrario, auspica scelte più prudenti ed equilibrate, invitando a mantenere rapporti amichevoli sia con Washington sia con Pechino, vista soprattutto l’importanza della Cina per l’economia domestica.
Come per altri paesi asiatici che si trovano a fare i conti con un dilemma simile, tuttavia, anche per il Vietnam sarà sempre più problematico conservare l’equilibrio attuale in un quadro segnato dalla crescente aggressività degli USA nei confronti della Cina. Di questa difficoltà sembra essere ben consapevole la leadership di Hanoi, tanto che la cordialissima vista appena conclusa di Nguyen Phu Trong a Washington potrebbe avere segnato la strada per le future scelte di politica estera del regime vietnamita.
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di Michele Paris
L’aggressione militare contro lo Yemen da parte della coalizione araba guidata dall’Arabia Sadita ha fatto registrare negli ultimi giorni una drammatica impennata del numero di vittime civili in seguito all’intensificarsi dei bombardamenti aerei, condotti da oltre tre mesi a questa parte per piegare i “ribelli” Houthi e le milizie loro alleate. La giornata di lunedì è stata in particolare la più sanguinosa dall’inizio del conflitto, secondo la Reuters con quasi 180 morti civili. Incursioni nella provincia settentrionale di Amran hanno ucciso 63 persone, tra cui una trentina a causa di una bomba caduta su un mercato.
Un altro mercato di bestiame si è trasformato in una scena raccapricciante nella città meridionale di al-Foyoush, dove hanno perso la vita altre 60 persone. Sempre nella provincia di Amran, invece, circa 20 tra civili e militanti Houthi sono stati uccisi nei pressi di un check-point a 50 chilometri dalla capitale, Sanaa.
Una postazione dei “ribelli” sciiti è stata presa di mira anche poco lontano da Aden, la seconda città yemenita per importanza, e nel raid sono state massacrate 30 persone, di cui 10 militanti.
Gli scontri tra gli Houthi e i guerriglieri appartenenti ai clan che a questi ultimi si oppongono proseguono poi senza sosta. Nella provincia desertica centrale di Marib, ad esempio, i combattimenti e altre incursioni aeree saudite sono costati la vita a 20 membri delle forze “ribelli”.
Nonostante la sostanziale indifferenza dei media e della “comunità internazionale” per la sorte della popolazione yemenita, la situazione nel più povero dei paesi arabi appare talmente disastrosa da avere spinto negli ultimi giorni vari esponenti del regime saudita e membri del governo “in esilio” a Riyadh del deposto presidente, Abd Rabbu Mansour Hadi, a riconoscere apertamente l’opportunità di un cessate il fuoco.
La coalizione guidata dall’Arabia Saudita non intende tuttavia fermare la propria offensiva senza una sostanziale resa degli Houthi, dopo avere fallito nel raggiungimento di questo obiettivo con le armi. Gli Houthi, da parte loro, non sono disposti ad accettare alcuna condizione se non verrà riconosciuta la loro integrazione nel sistema politico dello Yemen, teoricamente in rappresentanza della minoranza sciita prevalente nel nord del paese.
In questo clima, le trattative per un possibile stop temporaneo ai bombardamenti nel corso del Ramadan erano crollate precocemente, mentre sarebbero ancora in corso le discussioni per implementare una tregua umanitaria a partire dal 17 luglio, in concomitanza con la festività islamica di Eid al-Fitr che segna la fine del periodo di digiuno. Una precedente interruzione delle ostilità era avvenuta nel mese di maggio, consentendo l’ingresso in Yemen di aiuti di vario genere ma senza alleviare significativamente la crisi in atto.
Martedì, in ogni caso, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, è giunto a Sanaa per cercare di riportare le parti in conflitto al tavolo delle trattative e gettare le basi almeno per un cessate il fuoco. Un portavoce degli Houthi ha però già annunciato che gli attacchi sauditi di lunedì hanno assestato un colpo molto pesante agli sforzi diplomatici.
La popolazione dello Yemen sta pagando a carissimo prezzo la guerra criminale scatenata dall’Arabia Saudita per cercare di mantenere la propria influenza sul paese vicino. Le vittime totali di questi mesi di bombardamenti, secondo i dati ONU, sarebbero più di tremila, anche se il numero reale è probabilmente molto più alto.
I civili sono puntualmente presi di mira malgrado l’obiettivo dichiarato di Riyadh e della coalizione sia quello di “liberare” lo Yemen dalla minaccia degli Houthi. Varie organizzazioni a difesa dei diritti umani nelle scorse settimane avevano pubblicato rapporti che documentavano come le bombe saudite avessero frequentemente colpito siti e abitazioni civili senza alcun legame con possibili attività militari degli Houthi.
Oltre ai bombardamenti, lo Yemen continua a patire anche il blocco navale e aereo quasi totale imposto dall’Arabia Saudita che limita drasticamente l’ingresso di aiuti e beni di prima necessità come cibo, medicinali e carburante. Prima dell’inizio della guerra, lo Yemen importava il 90% dei beni alimentari consumati e l’80% dei farmaci.
Secondo le Nazioni Unite, a giugno quattro quinti della popolazione yemenita - su un totale di circa 25 milioni di abitanti - necessitava di una qualche forma di assistenza umanitaria. Il già fragile sistema sanitario del paese è inoltre allo sbando, con casi di febbre dengue e malaria in rapido aumento, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha messo in guardia dal pericolo del ritorno della polio, malattia dichiarata ufficialmente debellata in questo paese nel 2006.
La guerra in Yemen è stata lanciata dall’Arabia Saudita per fermare l’avanzata dei “ribelli” Houthi dopo che dall’autunno dello scorso anno avevano iniziato una marcia inarrestabile nel paese, fino a determinare la rimozione del governo-fantoccio dell’Occidente e di Riyadh presieduto dal presidente Hadi. Ad appoggiare le milizie sciite sono anche una parte delle forze armate yemenite fedeli all’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, costretto alle dimissioni nel 2012 in seguito alle proteste esplose l’anno prima nel paese e al piano di transizione mediato da USA e Arabia Saudita.
Per la monarchia saudita, gli Houthi sarebbero sotenuti finanziariamente e militarmente dall’Iran, anche se Teheran continua a negare di avere stretti rapporti con i “ribelli” sciiti in Yemen. La guerra contro gli Houthi è ritenuta perciò di importanza vitale dall’Arabia Saudita, per la quale l’eventuale perdita dello Yemen a favore dell’Iran rappresenterebbe un rovescio letale per i propri interessi.
Tale minaccia - reale o percepita - appare a Riyadh tanto più concreta alla luce dell’inquietudine della stessa minoranza sciita che vive entro i confini del regno e dell’eventualità che la Repubblica Islamica torni a giocare un ruolo di spicco nelle vicende regionali in seguito al probabile accordo sul nucleare nelle fasi finali di negoziazione.
L’intervento dell’Arabia Saudita, oltre a provocare la devastazione in Yemen, ha favorito anche l’espansione di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), da tempo propagandata in Occidente come la più pericolosa emanazione dell’organizzazione fondamentalista creata da Osama bin Laden e contro la quale fino a pochi mesi fa avevano combattuto strenuamente proprio gli Houthi.
La guerra in corso in Yemen, infine, è sostanzialmente appoggiata dagli Stati Uniti. Se a Washington sembrano sussistere non pochi malumori per l’avventura bellica saudita, soprattutto a causa delle conseguenze negative sulle relazioni con l’Iran, l’amministrazione Obama continua a fornire un supporto logistico e d’intelligence cruciale all’alleato saudita.
I militari USA hanno così creato un centro di comando congiunto a Riyadh per coordinare le incursioni aeree, per le quali gli americani forniscono informazioni sugli obiettivi da colpire, mentre le forniture di armamenti sono state intensificate in modo da sopperire alla diminuzione delle scorte di materiale bellico impiegato nelle ripetute stragi tra la popolazione yemenita.