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di Michele Paris
Dopo gli ostacoli registrati un paio di settimane fa alla Camera dei Rappresentanti, il Congresso americano ha finalmente approvato una misura fortemente voluta dal presidente Obama per accelerare i negoziati e l’implementazione di vari “trattati di libero scambio” che minacciano di riscrivere le norme del commercio internazionale secondo le regole imposte dal business a stelle e strisce.
Il provvedimento uscito mercoledì dal Senato di Washington assegna all’inquilino della Casa Bianca l’autorità per ottenere l’approvazione di qualsiasi trattato negoziato con paesi esteri nei prossimi cinque anni attraverso una sorta di “corsia preferenziale”.
La cosiddetta “Trade Promotion Authority” (TPA) prevede cioè che un trattato stipulato dal governo non possa essere emendato dal Congresso, il quale avrà invece la possibilità soltanto di approvarlo o respingerlo nella forma in cui viene presentato.
Il via libera alla TPA è stata in ogni caso molto sofferta. Oltre al ritardo con cui è stata portata in aula nonostante le pressioni dell’amministrazione Obama, la legge ha incontrato parecchi contrattempi sulla strada verso l’approvazione.
A maggio, il Senato aveva dato l’OK alla TPA e a un’altra misura connessa, la “Trade Adjustment Assistance” (TAA), ovvero un provvedimento tradizionalmente collegato ai trattati di libero scambio sottoscritti dagli Stati Uniti con altri paesi e che prevede compensazioni economiche e programmi di formazione per quei lavoratori che perdono il loro impiego a causa dell’entrata in vigore degli stessi trattati.
Quest’ultimo provvedimento era però caduto un paio di settimane fa alla Camera, grazie soprattutto all’opposizione della maggior parte della minoranza democratica, impegnata a bloccare l’intera politica commerciale del presidente Obama.
La leadership repubblicana della Camera aveva allora separato le due leggi, ottenendo un voto favorevole alla TPA e congelando la TAA. Martedì, il Senato ha anch’esso approvato la TPA, sia pure con il minimo dei voti necessari - 60 a 37 - per neutralizzare un ostacolo procedurale previsto dalle regole della camera alta del Congresso (“filibuster”). Infine, mercoledì è arrivato il voto sulla misura vera e propria, approvata e inviata al presidente per la ratifica definitiva.
Il salvataggio della legge sui trattati di libero scambio auspicata da Obama è stato possibile solo in seguito alla collaborazione tra il presidente e i vertici della maggioranza repubblicana, di fatto alleati contro la parte del Partito Democratico contraria a iniziative di questo genere. Obama, il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, e lo “speaker” della Camera, John Boehner, hanno infatti disegnato un percorso parlamentare differente da quello previsto originariamente per la TPA, con il presidente e il suo staff che hanno fatto pressioni enormi su deputati e senatori democratici recalcitranti.
Ciononostante, l’esito del voto è apparso incerto fino all’ultimo. In particolare, martedì si è temuto a lungo un nuovo possibile naufragio dopo che uno dei senatori più indecisi - il democratico del Maryland, Ben Cardin - aveva deciso di votare in maniera contraria. A questo punto, il voto decisivo è stato garantito da un altro democratico, il senatore del Nevada, Dean Heller, arrivato in aula quando la votazione era iniziata da tempo. Se Heller non si fosse presentato, i repubblicani erano pronti a prolungare la procedura di voto per attendere che il senatore Bob Corker tornasse a Washington dal Tennessee.
Malgrado le divisioni e i patemi, Obama e i repubblicani sono alla fine riusciti a convincere un numero sufficiente di democratici a dare il proprio consenso alla TPA separata dalla TAA solo in seguito alla promessa di tenere un voto per quest’ultima misura in un secondo momento, cioè probabilmente nel fine settimana, e la garanzia del suo passaggio.
L’unica improbabile arma rimasta ora nelle mani dei democratici per provare a impedire che i trattati abbiano la strada spianata verso l’approvazione appare la bocciatura della TAA, visto che una simile mossa, anche se priverebbe i lavoratori americani di un modesto programma di sostegno, metterebbe in imbarazzo il presidente Obama. Quest’ultimo si ritroverebbe infatti a dover firmare una legge con conseguenze potenzialmente disastrose sui lavoratori senza il tradizionale paravento che accompagna i trattati di libero scambio firmati dal governo USA.
Contro la TPA e gli stessi trattati in fase di negoziazione da parte degli Stati Uniti si sono schierati i sindacati e quei settori dell’economia USA penalizzati dalla competizione con le aziende di altri paesi. Queste pressioni sono state tuttavia decisamente inferiori rispetto a quelle esercitate dai rappresentanti delle corporations che vedono gigantesche possibilità di guadagno nei trattati come la Partnership Trans-Pacifica (TPP) o la Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).
Inoltre, anche i governi che stanno trattando con Washington - a cominciare da Giappone e Australia - avevano espresso preoccupazione per l’iniziale bocciatura della TPA, minacciando più o meno apertamente un possibile stop ai negoziati se la situazione non si fosse sbloccata a favore della Casa Bianca.
L’apparato militare americano era poi intervenuto per favorire l’approvazione dei trattati. Il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva ad esempio incoraggiato il Congresso ad assecondare l’agenda di Obama in ambito commerciale, lasciando intendere come il TPP sia uno strumento complementare della strategia di accerchiamento e contenimento della Cina già in fase di implementazione sul fronte diplomatico e militare.
Il TPP dovrebbe essere il primo trattato a essere approvato secondo la “corsia preferenziale” appena accordata dal Congresso all’amministrazione Obama. Le trattative sono in corso in gran segreto da alcuni anni tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi asiatici, del continente americano e dell’Oceania (Australia, Canada, Cile, Brunei, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore, Vietnam), frequentemente interrotte soprattutto a causa delle condizioni vessatorie imposte da Washington per favorire le proprie imprese anche a discapito della sovranità dei potenziali partner.
Il carattere strategico del TPP è stato più volte confermato anche dallo stesso Obama, il quale in varie interviste ha sollecitato l’approvazione del trattato per consentire al capitalismo americano di “scrivere le regole” del commercio globale per evitare che a farlo sia la Cina.
Significativamente, i paesi asiatici e dell’area Pacifico che dovrebbero aderire al TPP hanno come loro principale partner commerciale proprio la Cina, da qui il tentativo di Washington - la cui riuscita è però tutt’altro che garantita - di riorientare le rispettive economie verso l’orbita statunitense.
Il corrispettivo europeo del TPP è il TTIP, il secondo trattato che potrebbe essere soggetto alle norme di approvazione semplificata previste dal TPA appena licenziato dal Congresso USA.
Con Il TTIP, gli Stati Uniti intendono sostanzialmente cementare la partnership economica con i paesi UE, anche in questo caso secondo le regole dettate dalle corporations americane, così da ostacolare la crescente integrazione euroasiatica e isolare la Russia.
La collaborazione tra la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso sul commercio internazionale, infine, potrebbe inaugurare un’insolita alleanza da qui alla fine del secondo e ultimo mandato di Obama alla presidenza, con possibili punti di intesa identificati nell’ambito dei finanziamenti per le infrastrutture e l’aumento dell’impegno militare americano in Medio Oriente.
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di Michele Paris
L’ennesima strage di massa avvenuta settimana scorsa negli Stati Uniti, oltre a riaccendere il consueto dibattito sul razzismo per molti versi fuorviante, ha riportato alla luce anche i legami imbarazzanti tra il Partito Repubblicano americano e la galassia dell’estrema destra razzista d’oltreoceano. Dylann Roof, il responsabile della sparatoria nella chiesa metodista episcopale di Charleston, in South Carolina, aveva tratto ispirazione da un gruppo suprematista bianco chiamato Consiglio dei Cittadini Conservatori (CofCC), il cui presidente, Earl Holt, nel recente passato ha donato decine di migliaia di dollari in contributi elettorali a svariati politici repubblicani candidati a cariche pubbliche.
Il quotidiano britannico Guardian ha per primo pubblicato i nomi dei beneficiari dei finanziamenti di Holt e tra di essi figurano addirittura alcuni candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Il senatore del Texas, Ted Cruz, ha ricevuto 8.500 dollari, il collega del Kentucky, Rand Paul, 1.750, l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, 1.500, e il governatore del Wisconsin, Scott Walker, 3.500. Tutti i politici, dopo la diffusione della notizia, hanno annunciato la restituzione delle somme o la donazione di esse alle vittime della sparatoria.
Altri importanti repubblicani hanno inoltre goduto della generosità di Holt in passato, come l’ex candidato alla presidenza, Mitt Romney, i senatori rispettivamente di Arkansas, Arizona e Nebraska, Tom Cotton, Jeff Flake e Ben Sasse, il governatore del Texas, Greg Abbott, il deputato dell’Iowa, Steve King, e l’ex deputata del Minnesota, Michele Bachmann.
Il CofCC avrebbe illuminato il 21enne Dylann Roof dopo una serie di visite di quest’ultimo sul sito web del gruppo, nel quale sono esposti i programmi politici e i principi che lo caratterizzano. Oltre ai propositi di impedire la “mescolanza delle razze”, di ridurre drasticamente l’immigrazione o di preservare il carattere “europeo” della popolazione americana e del suo governo, il CofCC ha messo a disposizione al giovane del South Carolina statistiche e resoconti relativi alla presunta piaga delle violenze commesse dai neri ai danni dei bianchi.
Roof ha così citato il gruppo razzista guidato da Earl Holt in un suo “manifesto” pubblicato on-line prima di compiere la strage nella quale hanno perso la vita nove persone di colore. Holt, da parte sua, ha escluso qualsiasi legame o affiliazione di Roof al suo gruppo, respingendo anche ogni responsabilità per le “azioni di un individuo disturbato” che pure ha “reperito informazioni accurate sul nostro sito”.
Molti giornali negli Stati Uniti nei giorni scorsi hanno riperscorso la storia del CofCC, dalla sua nascita a metà degli anni Ottanta, “dalle ceneri dei Consigli dei Cittadini Bianchi”, al successo riscosso tra i politici repubblicani nel decennio successivo, fino all’apparente declino negli ultimi anni.
I legami storici mantenuti dal gruppo suprematista bianco con il Partito Repubblicano rendono dunque improbabile che coloro che hanno incassato assegni firmati da Earl Holt non fossero al corrente dei suoi orientamenti.
Il New York Times ha ricordato che negli anni Novanta il CofCC aveva “amici repubblicani influenti dalle sale municipali alle aule del Congresso”. Nomi importanti dell’establishment repubblicano hanno tenuto discorsi di fronte a riunioni del gruppo razzista, come l’ex leader di maggioranza al Senato, Trent Lott, l’ex governatore del Mississippi ed ex presidente del partito, Haley Barbour, e l’ex governatore dell’Arkansas e già candidato alla Casa Bianca, Mike Huckabee.
L’attuale governatrice della South Carolina, Nikki Haley, aveva invece reclutato per dirigere la propria campagna per la rielezione nel 2013 un membro del CofCC, Roan Garcia-Quintana, licenziato solo dopo che i suoi legami con il gruppo erano stati resi pubblici.
Per la pubblicazione Intelligence Report, curata dall’autorevole organizzazione no-profit Southern Poverty Law Center, tra il 2000 e il 2004 almeno 38 politici occupanti cariche elettive avevano parlato nel corso di meeting organizzati dal CofCC. Nell’ultimo decennio, simili apparizioni sono diventate più rare anche se politici locali - non solo repubblicani - hanno continuato a frequentare il gruppo. Sempre il Southern Poverty Law Center segnala ad esempio l’intervento del presidente della sezione del Partito Democratico della Contea di Carroll, nel Mississippi, Bill Lord, durante una “convention” tenuta a Winston Salem, in North Carolina, nel 2013.
Di tanto in tanto, negli Stati Uniti emergono notizie relative ai legami di politici, soprattutto repubblicani, con organizzazioni di estrema destra, razziste e xenofobe, per essere poi dimenticate in fretta.
Solo qualche mese fa, ad esempio, il terzo membro più potente della leadership repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, il deputato della Louisiana Steve Scalise, era finito al centro di una polemica - poi rapidamente svanita - per avere tenuto un discorso nel 2002 davanti a una conferenza del gruppo suprematista bianco EURO (Organizzazione Euro-Americana per l’Unità e i Diritti), fondato dall’attivista di estrema destra ed ex leader del Ku Klux Klan, David Duke.
Storicamente, i legami tra il Partito Repubblicano e le formazioni suprematiste bianche, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, risalgono al periodo della desegregazione razziale e riflettono una strategia che era volta a sottrarre voti al Partito Democratico, fino ad allora punto di riferimento delle élites bianche razziste.
Oggi, in ogni caso, le relazioni tra politici repubblicani e gruppi come il Consiglio dei Cittadini Conservatori denotano una persistente affinità ideologica che contrasta con l’immagine di correttezza e rispettabilità di un partito il cui baricentro si è spostato verso destra in maniera drammatica.
I politici investiti dal temporaneo clamore di rivelazioni come quella relativa ai finanziamenti elargiti dal CofCC tendono quasi sempre a giustificarsi per avere commesso errori in buona fede, anche se, in realtà, spesso alimentano essi stessi un identico clima di odio e intolleranza, vero e proprio retroterra “culturale” di individui profondamente disorientati come Dylann Roof in un America attraversata da tensioni sociali esplosive.
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di Mario Lombardo
L’arresto nella giornata di sabato a Berlino del giornalista di Al Jazeera, Ahmed Mansour, ha segnato la prima risposta positiva da parte di un governo occidentale a uno dei numerosi mandati di cattura internazionali emessi dal sanguinario regime militare egiziano a partire dalla rimozione del presidente Mohamed Mursi nell’estate del 2013. La vicenda aveva subito scatenato una valanga di critiche sul governo tedesco, il quale ha solo parzialmente rimediato due giorni più tardi, disponendone il rilascio.
Il 52enne giornalista con doppia cittadinanza britannica ed egiziana era stato fermato dalle autorità tedesche all’aeroporto Tegel mentre stava per imbarcarsi su un volo diretto a Doha, nel Qatar, dove ha sede il network panarabo per cui lavora. Mansour era arrivato in Germania cinque giorni prima per motivi di lavoro, atterrando all’aeroporto di Monaco di Baviera, e non è chiara la ragione per cui non era stato arrestato in quell’occasione.
Domenica, un giudice nella capitale tedesca aveva convalidato l’arresto, in attesa di un’udienza per valutare la possibile estradizione verso l’Egitto. La polizia tedesca non aveva nemmeno comunicato quali erano le accuse nei confronti di Mansour, mentre i suoi legali hanno fatto sapere che esse consistono nell’avere danneggiato l’immagine del governo egiziano e torturato un avvocato nel 2011 durante le manifestazioni di piazza Tahrir che portarono al rovesciamento del regime di Hosni Mubarak. Nel paese nord-africano, lo scorso anno il giornalista era stato condannao a 15 anni di carcere in absentia proprio per avere commesso quest’ultimo presunto crimine.
Il procedimento in Germania sembra essere stato accelerato in maniera improvvisa e nel primo pomeriggio di lunedì Mansour ha potuto lasciare il carcere di Moabit per fare ritorno in Qatar. Tuttavia, il fatto che Berlino abbia anche solo dato seguito alla richiesta di arresto proveniente dal Cairo rappresenta un evento di estrema gravità.
Il governo Merkel, attraverso la polizia e il sistema giudiziario tedesco, ha infatti in qualche modo avallato la campagna repressiva volta a soffocare qualsiasi voce dissenziente messa in atto dalla giunta militare egiziana guidata dal generale Abdel Fattah al-Sisi.
Allo stesso tempo, l’arresto non può che essere interpretato come un messaggio inquietante per gli stessi giornalisti tedeschi ed europei in un clima di crescente ostilità nei confronti delle distruttive politiche economiche imposte da Berlino.
Visti i precedenti del regime egiziano circa il trattamento riservato ai giornalisti non disposti a sposare la linea ufficiale, il fermo di Mansour assesta anche un colpo pesantissimo alla credibilità del governo di Berlino, il cui capo, la cancelliera Angela Merkel, meno di sei mesi fa aveva marciato a Parigi per la libertà di stampa subito dopo la strage nella redazione del magazine “satirico” francese, Charlie Hebdo.
L’Egitto di Sisi ha preso di mira, tra gli altri, proprio Al Jazeera, particolarmente critica del regime salito al potere in maniera violenta dopo la deposizione del governo dei Fratelli Musulmani, a sua volta appoggiato dalla famiglia regnante del Qatar, proprietaria del network. Nel dicembre del 2013, ad esempio, tre giornalisti di Al Jazeera erano stati arrestati con l’accusa di avere diffuso notizie false e di avere “danneggiato la sicurezza nazionale” egiziana.
Qualche mese più tardi, pur senza prove significative a loro carico e al termine dell’ennesimo processo-farsa celebrato in Egitto, l’australiano Peter Greste e gli egiziani Mohamed Fahmy e Baher Mohamed sarebbero stati condannati a sette anni di carcere. Dietro le pressioni internazionali, recentemente Greste è stato deportato in Australia, mentre gli altri due giornalisti sono stati liberati su cauzione, ma dovranno sostenere un nuovo processo.
L’arresto di Mansour era stato accolto dalle proteste di numerosi manifestanti a Berlino, mentre giornalisti e personalità della cultura avevano condannato il governo tedesco per la decisione di assecondare la campagna di persecuzioni della dittatura egiziana.
Un portavoce del ministero degli Esteri tedesco aveva cercato di gettare acqua sul fuoco nella giornata di lunedì, assicurando che la Germania non intende estradare nessuno verso un paese nel quale rischierebbe la pena di morte. Il governo dispone infatti del potere di bloccare un eventuale verdetto di estradizione disposto da un giudice.
L’imbarazzo per il governo di Berlino era stato però amplificato dalla conferma che anche l’Interpol aveva respinto una richiesta di arresto a carico di Mansour, con ogni probabilità a causa delle accuse interamente fabbricate e del livello di criminalità che caratterizza il richiedente, cioè il regime di Sisi.
L’arresto di Ahmed Mansour avvenuto sabato a Berlino stride infine con l’arrivo indisturbato in terra di Germania ai primi di giugno dello stesso presidente egiziano Sisi, accolto quasi trionfalmente da buona parte della classe politica tedesca nonostante i crimini commessi dal suo regime negli ultimi due anni siano infinitamente più gravi di quelli attribuiti al giornalista di Al Jazeera.
Sisi, dopo essere stato ricevuto altrettanto calorosamente a Roma e a Parigi nei mesi precedenti, aveva incontrato la cancelliera Merkel e il presidente tedesco, Joachim Gauck, anche se la sua presenza in Germania era risultata talmente tossica che alcune importanti personalità politiche si erano rifiutate di incontrarlo, come il presidente del “Bundestag”, Norbert Lammert.
Gesti come l’accoglienza di Sisi e l’arresto di un giornalista su ordine di quest’ultimo in base ad accuse fabbricate confermano dunque come la Germania e i governi occidentali in genere siano totalmente disponibili a sdoganare e collaborare - sia economicamente sia militarmente - con un regime golpista fondato sulla violenza e la repressione del dissenso.
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di Michele Paris
La Corte Suprema degli Stati Uniti si esprimerà entro fine mese sulla legalità di un aspetto fondamentale della riforma del sistema sanitario voluta dal presidente Obama. Il caso in discussione verte attorno alla legittimità dei sussidi federali garantiti ai cittadini americani obbligati ad acquistare una polizza sanitaria sul mercato delle assicurazioni private, in assenza dei quali l’intera fabbrica della legge approvata dal Congresso nel 2010 rischierebbe seriamente di crollare.
La vicenda legale finita all’attenzione dei nove giudici della Corte Suprema si concentra sul senso di una singola frase all’interno di un provvedimento di oltre 900 pagine. Letteralmente, la legge dice cioè che i sussidi pubblici sono a disposizione di coloro che acquistano un’assicurazione sul mercato on-line delle polizze “creato dagli stati”.
Gli oppositori della riforma sostengono che questa formulazione renderebbe illegale l’assegnazione dei sussidi in quegli stati che non hanno creato un simile mercato virtuale. In questi casi, il governo federale si è fatto carico dell’incombenza, assicurando comunque l’erogazione dei sussidi per i redditi più bassi. Per l’amministrazione Obama, lo spirito della legge prevede che chiunque sia qualificato a ricevere un sussidio lo possa ottenere, indifferentemente dal fatto che abbia acquistato una polizza sul mercato stabilito dagli stati o dal governo federale.
Secondo la riforma (ACA o “Obamacare”), gli americani che non hanno un’assicurazione sanitaria tramite il proprio datore di lavoro o programmi pubblici come Medicare e Medicaid hanno l’obbligo di ottenere una polizza dalle compagnie private, acquistandola appunto sui già citati mercati virtuali (“Exchanges”), per non incorrere in sanzioni economiche.
Ad oggi, solo 16 stati americani e il District of Columbia hanno creato questi mercati, mentre nei rimanenti 34 è stato il governo federale a occuparsene. Circa l’85% di quanti hanno già acquistato una polizza in questo modo ricevono un sussudio e, secondo i dati del ministero della Sanità, 6,4 milioni di persone potrebbero essere interessate da un’eventuale sentenza sfavorevole all’amministrazione Obama.
Il governo e i sostenitori della legge ritengono che lo stop ai sussidi farebbe aumentare considerevolmente l’importo dei premi pagati dai sottoscrittori di polizze meno abbienti, provocando una cancellazione di massa delle assicurazioni già stipulate, con effetti rovinosi per tutto il sistema creato con l’ACA.
Secondo un esempio degli effetti di una possibile sentenza contraria al governo descritto recentemente dal Washington Post, una residente 56enne della North Carolina con varie patologie e un reddito annuo di 25 mila dollari, senza sussidi vedrebbe schizzare il premio mensile pagato di tasca propria da 66 a 578 dollari.
Il caso all’attenzione della Corte Suprema è chiamato “King contro Burwell”, dai nomi rispettivamente di uno dei querelanti e del ministro della Sanità di Obama. L’ACA era già passata attraverso due sentenze del più altro tribunale americano. La prima volta, nel 2012, i giudici avevano sancito la costituzionalità dell’obbligo individuale dell’acquisto di una polizza sanitaria. Lo scorso anno, invece, un verdetto profondamente reazionario aveva stabilito che le aziende private che offrono l’assicurazione sanitaria ai propri dipendenti possono negare la copertura relativa ai contraccettivi, in teoria prevista dall’ACA, se ciò va contro le proprie credenze religiose.
Una decisione della Corte Suprema che mettesse fine ai sussidi innescherebbe una nuova probabile crisi politica a Washington. Per evitare il contraccolpo su milioni di sottoscrittori di polizze, il Congresso o la Casa Bianca dovrebbero infatti agire tempestivamente, cosa non facile vista la differenza di vedute sulla riforma.
La soluzione più semplice sarebbe l’aggiunta al testo dell’ACA di una singola frase che estenda esplicitamente l’erogazione dei sussidi a tutti gli stati, indifferentemente dal fatto che il mercato delle polizze sanitarie sia creato da questi ultimi o dal governo federale.
I repubblicani che detengono la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, tuttavia, non accetterebbero una modifica di questo genere, dal momento che rafforzerebbe una legge che da cinque anni cercano di smantellare.
Lasciare semplicemente crollare la riforma di Obama senza agire sarebbe però politicamente difficile per i repubblicani, visto che, malgrado la natura essenzialmente reazionaria dell’ACA, milioni di americani hanno per la prima volta una copertura sanitaria, sia pure privata e di qualità relativa, a un costo ragionevole grazie ai sussidi. In vista delle elezioni del 2016, essere identificati come il partito che ha fatto aumentare vertiginosamente i premi delle polizze assicurative non è esattamente auspicabile per i repubblicani.
Deputati e senatori di maggioranza si stanno dando perciò da fare per predisporre misure volte a limitare i danni di una sentenza contro il governo. Tra di esse ci sarebbero iniziative per garantire i sussidi per uno o due anni a coloro che già posseggono una polizza ma escludendoli per i nuovi sottoscrittori. In questo modo, sostiene la Casa Bianca, la morte della riforma verrebbe però solo rinviata.
Alcuni dei 34 stati che hanno delegato la creazione del mercato delle assicurazioni private al governo potrebbero invece fare marcia indietro e decidere di istituirne di propri, magari ottenendo condizioni meno vincolanti, ma molti di essi sostengono di non avere le risorse per farlo o, comunque, sono governati da republicani e non intendono agire in un modo che finisca per salvare la riforma di Obama.
Le udienze delle scorse settimane di fronte alla Corte Suprema hanno fornito pochi indizi sull’orientamento dei giudici il cui voto potrebbe risultare decisivo. Le attese maggiori erano per il giudice centrista, Anthony Kennedy, tradizionalmente l’ago della bilancia nelle sentenze più sofferte della Corte, e per il presidente, John Roberts, il quale era stato decisivo nel caso del 2012 su “Obamacare”.
Il primo ha espresso dubbi circa le posizioni dei querelanti ma ha allo stesso tempo mostrato qualche riserva sull’implementazione della legge da parte del governo. Roberts, invece, è intervenuto in rari casi durante le discussioni, lasciando intatti tutti i dubbi sulle sue intenzioni.
Se, infine, gli ultra-conservatori Antonin Scalia, Samuel Alito e Clarence Thomas dovrebbero votare quasi certamente contro i sussidi, i quattro giudici “liberal” - Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan - sono apparsi più che persuasi dalle tesi dell’amministrazione Obama.
Significativamente, questi ultimi hanno però talvolta mostrato preoccupazione non tanto per la sorte dei sottoscrittori di polizze bensì per le compagnie assicurative che operano sui mercati on-line istituiti dal governo, a rischio di veder svanire milioni di clienti e miliardi di dollari incassati sotto forma di sussidi pubblici.
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di Mario Lombardo
La conferma della condanna a morte emessa questa settimana da un tribunale egiziano contro l’ex presidente Mohamed Mursi è l’ennesima sentenza politica registrata nel paese nord-africano a partire dalla deposizione dello stesso leader dei Fratelli Musulmani nell’estate del 2013 per mano dei militari attualmente al potere.
La più recente farsa mandata in scena dalla giustizia egiziana si è risolta in nuove condanne di massa alla pena capitale che hanno interessato, oltre all’ex presidente, altri 98 imputati, di cui 93 in absentia. Il verdetto ribadisce in maniera sostanziale quanto era stato preliminarmente deciso dalla stessa corte nel mese di maggio, quando i condannati a morte erano stati 106.
Come previsto dalla legge in Egitto, dopo la sentenza il tribunale aveva chiesto consulto al Gran Mufti, la principale autorità religiosa del paese, il quale ha stabilito che le pene erano appropriate. Il parere del Gran Mufti non è in ogni caso vincolante per i giudici.
Assieme a Mursi sono stati condannati a morte anche altri esponenti di spicco dei Fratelli Musulmani, come la “guida suprema”, Mohamed Badie, il leader del partito politico affiliato al gruppo, Mohamed el-Beltagy, l’ex candidato alle elezioni presidenziali del 2012, Khairat el-Shater, e il predicatore Safwat Hegazy.
Le condanne si riferiscono ai fatti legati all’evasione dal carcere di Wadi Natroun nel febbraio del 2011 durante la rivoluzione che portò alla cacciata del presidente Hosni Mubarak. Gli imputati erano accusati di omicidio e tentato omicidio, di avere favorito la fuga di altri detenuti, di avere dato fuoco alla prigione e di essersi appropriati delle armi in essa custodite.
Secondo l’assurdo impianto accusatorio, Mursi e gli altri leader islamisti avrebbero orchestrato un complesso progetto cospirativo con l’aiuto di militanti di Hezbollah - un’organizzazione sciita, a differenza dei Fratelli Musulmani sunniti - e di Hamas. L’inconsistenza delle accuse era evidente ad esempio dal fatto che alcuni presunti complici nella fuga citati dall’accusa, secondo Hamas, al momento degli eventi erano detenuti nelle carceri israeliane.
A Mursi e ad altri 35 imputati sono state inoltre inflitte condanne all’ergastolo, ovvero a 25 anni, come previsto dal codice penale egiziano, per un altro capo d’accusa, cioè di avere complottato con “forze straniere” per destabilizzare il paese. Lo stesso ex presidente nel mese di aprile era stato anche condannato a 20 anni di carcere per incitazione alla violenza nell’ambito degli scontri avvenuti nel dicembre del 2012 di fronte al palazzo presidenziale di Ittihadiya.
Tutte le sentenze finora emesse contro Mursi saranno soggette ad appello, mentre tuttora in attesa di verdetto restano due ulteriori processi a carico dell’ex presidente. Nel primo, Mursi è accusato di oltraggio nei confronti del sistema giudiziario egiziano e nel secondo di avere passato documenti riservati al Qatar, il cui regime era stato tra i principali sostenitori del governo dei Fratelli Musulmani.
La natura dell’autorità giudiziaria che ha condannato a morte Mohamed Mursi è apparsa chiara dalle parole del giudice Shaaban el-Shami durante la lettura della sentenza. Quest’ultimo ha denunciato le mire “diaboliche” dei Fratelli Musulmani, elogiando invece il regime militare ora al potere.
Secondo Shami, l’organizzazione islamista avrebbe una storia fatta di tentativi di “conquista del potere con ogni mezzo” e si sarebbe adoperata per deporre Mubarak e “legalizzare il versamento di sangue tra i figli della nazione”. I militari, al contrario, nel deporre un presidente democraticamente eletto avrebbero garantito la “sovranità del popolo”, il quale chiedeva “la creazione di una società forte e coesa”. Simili dichiarazioni giungono da un giudice che appoggia in pieno un regime militare repressivo e violento, responsabile del colpo di stato del 2013 e di innumerevoli massacri, torture e arresti arbitrari ai danni dei suoi oppositori.
Mentre la giustizia egiziana si occupa di decimare i vertici dei Fratelli Musulmani, i militari e il governo operano nella completa impunità per soffocare qualsiasi forma di dissenso. Varie organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno denunciato i crimini del regime, a cominciare dalla strage di circa 800 manifestanti avvenuta il 14 agosto del 2013, per la quale non è stata avviata nemmeno un’indagine a carico delle forze di sicurezza.
Nei tribunali, processi manipolati in maniera macroscopica hanno portato a condanne a morte di massa e vari attivisti parlano di centinaia se non migliaia di persone sparite nel nulla dopo essere state rapite dai servizi di sicurezza.
Parallelamente alla persecuzione dei Fratelli Musulmani e degli altri esponenti dell’opposizione, Sisi e il suo regime stanno garantendo il proscioglimento di politici e uomini d’affari dell’era Mubarak, finiti agli arresti o sotto inchiesta dopo la rivoluzione del 2011. Lo stesso ex presidente ha visto svanire molte accuse nei suoi confronti, mentre il processo per l’uccisione di centinaia di manifestanti al Cairo prima delle sue dimissioni dovrà essere ripetuto.
La notizia della conferma della pena capitale per Mursi è stata seguita dalle dichiarazioni di condanna, sia pure di circostanza, dei governi occidentali. Qualche pressione il regime deve averla percepita, così che nella giornata di mercoledì Al Sisi ha annunciato un decreto di amnistia per 165 persone, quasi tutti studenti, condannate principalmente per avere violato la legge ultra-repressiva sulle manifestazioni di piazza.
L’amministrazione Obama si è detta ad ogni modo “profondamente turbata per le sentenze motivate politicamente” che “danneggiano la stabilità” dell’Egitto. I più recenti abusi giudiziari, così come i precedenti crimini di cui si è macchiato il regime di Al Sisi, non implicheranno tuttavia cambiamenti sostanziali nella politica estera di Washington, da dove l’Egitto è considerato un alleato strategico troppo importante per comprometterne i legami. Anzi, recentemente il governo americano ha deciso lo sblocco degli aiuti destinati ai militari egiziani, pari a 1,3 miliardi di dollari l’anno.
Per motivi di convenienza politica, gli USA hanno talvolta assunto atteggiamenti critici verso il Cairo, come era accaduto nel maggio scorso, quando la Casa Bianca aveva sottoposto un rapporto al Congresso, ammettendo che l’Egitto si “sta allontanando dalla democrazia, sta comprimendo la libertà di espressione e sta arrestando migliaia di dissidenti politici”, senza incriminare le forze di sicurezza responsabili di “omicidi arbitrari o extra-giudiziari”.
L’amministrazione Obama aveva però elogiato il regime per avere messo in atto una serie di “riforme” volte a migliorare “il clima economico” in Egitto attraverso provvedimenti come la riduzione dei sussidi ai beni di prima necessità che ha colpito in maniera pesante le fasce più povere della popolazione.
Nonostante il carattere dittatoriale e violento del regime instaurato al Cairo dopo la rimozione di Mursi, insomma, l’Occidente continua a essere ben disposto a chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani e civili.
Dopo gli sconvolgimenti del 2011 seguiti alla fine di Mubarak, il regime di Sisi garantisce infatti, da un lato, la difesa degli interessi strategici occidentali nella regione mediorientale/nordafricana e, dall’altro, la stabilità interna richiesta dagli investitori internazionali.
La misura della disposizione dei governi in Occidente verso lo stesso dittatore con le mani sporche di sangue è risultata così evidente dall’accoglienza ricevuta nel corso di recenti tour europei che lo hanno portato in Francia, in Italia e, solo un paio di settimane fa, in Germania.
Per quanto riguarda la condanna di Mursi, appare al momento improbabile che possa essere eseguita, se non altro per le pressioni internazionali e il pericolo di trasformare l’ex presidente in un martire. Molto più probabile sembra piuttosto l’ipotesi che Mursi possa essere tenuto in carcere e che il regime utilizzi un’eventuale revoca della pena di morte come leva per ottenere qualcosa in cambio dai governi occidentali.
I Fratelli Musulmani, intanto, hanno lanciato un appello per scatenare una “rivolta popolare” pacifica per la giornata di venerdì, anche se sono in molti a credere che la mano pesante del regime nei loro confronti possa innescare nel prossimo futuro una qualche forma di resistenza armata.