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di Michele Paris
Il fragilissimo cessate il fuoco siglato lo scorso mese di febbraio a Minsk e ufficialmente tuttora in vigore in Ucraina appare sempre più in pericolo in questi giorni dopo l’esplosione dei combattimenti più duri da vari mesi a questa parte tra le forze del regime golpista di Kiev e i separatisti filo-russi delle autonominate “repubbliche popolari” nel sud-est del paese.
Le due parti in conflitto si sono scambiate reciproche accuse su chi abbia riaperto per primo le ostilità. Il governo ucraino ha puntato il dito contro i “ribelli” per avere iniziato a bombardare le località di Maryinka e Krasnohorivka - entrambe sotto il controllo di Kiev - nella mattinata di mercoledì. I separatisti, al contrario, hanno denunciato colpi di artiglieria sulla città di Donetsk che hanno causato una decina di vittime e la distruzione di abitazioni ed esercizi commerciali.
Allo stesso modo, da Mosca sono giunte accuse verso il regime ucraino, responsabile di ripetute provocazioni anche nei giorni scorsi. Le violazioni delle norme del cessate il fuoco mediato da Francia, Germania e Russia erano state registrate in realtà da entrambe le parti fin dal mese di febbraio, ma appare comunque evidente la volontà di Kiev di far saltare l’accordo e innescare nuovamente il conflitto armato.
Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno come al solito utilizzato il riesplodere delle violenze in Ucraina orientale per fare pressioni sulla Russia. Rivelatrici dell’attitudine USA ad assegnare meccanicamente le responsabilità al Cremlino sono state le parole della portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf.
Nel corso di una conferenza stampa, quest’ultima ha affermato che “la Russia ha la diretta responsabilità” degli attacchi in corso e delle violazioni del cessate il fuoco, commesse “per la maggior parte” dai separatisti. In realtà, la stessa Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), i cui uomini stanno monitorando il rispetto dell’accordo di Minsk, ha rilevato sostanzialmente lo stesso numero di violazioni da parte delle forze di Kiev e dei “ribelli” negli ultimi due mesi.
Alla nuova escalation di tensioni in Ucraina avevano d’altra parte contribuito varie provocazioni dello stesso governo di Kiev e degli Stati Uniti. Tra di essi va ricordato l’avvio del programma di addestramento di soldati ucraini in seguito all’arrivo nel paese di militari americani, coadiuvati da altri provenienti da Canada e Gran Bretagna.
Inoltre, il presidente Petro Poroshenko ha recentemente nominato governatore della provincia di Odessa l’ex presidente georgiano, Mikhail Saakashvili, dopo avergli conferito la cittadinanza ucraina. La nomina del responsabile dell’esplosione della guerra tra Georgia e Russia nell’estate del 2008 appare decisamente provocatoria, sia perché in questa provincia vive una forte minoranza russofona sia perché nel maggio del 2014 la città di Odessa fu teatro del massacro di 42 manifestanti filo-russi per opera di una milizia neo-fascista sostenitrice del governo di Kiev.
Vari commentatori indipendenti hanno sottolineato come le autorità ucraine abbiano deciso di rilanciare le operazioni militari, sia pure per il momento su scala relativamente ridotta, in concomitanza con i prossimi appuntamenti dei governi occidentali nei quali si dovrà discutere della crisi in atto.
Questo atteggiamento da parte del regime di Poroshenko è tutt’altro che nuovo ed è stato sottolineato ad esempio dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, il quale ha fatto notare come le nuove tensioni siano riesplose a poche settimane dal summit UE di Bruxelles, previsto per il 25 e il 26 giugno.
In quell’occasione, i paesi membri dovranno stabilire se prolungare fino al gennaio 2016 le sanzioni punitive adottate nei confronti della Russia. Prima di questo evento, tra il 7 e l’8 giugno andrà in scena anche un vertice dei G-7 in Baviera.
Se la conferma delle sanzioni non appare in dubbio, come ha rivelato mercoledì il Wall Street Journal citando anonime fonti diplomatiche europee, nondimeno le iniziative ucraine servono a mantenere alto il livello di interesse per l’Ucraina tra i governi in Occidente, da dove era iniziato a trapelare qualche segnale di impazienza nei confronti di Kiev.
Soprattutto, il regime ucraino aveva acconsentito a sottoscrivere il cessate il fuoco di Minsk solo dietro le pressioni di Francia e Germania, preoccupate per una possibile escalation delle ostilità che avrebbe potuto trascinare direttamente la Russia nel conflitto.
Come ha spiegato giovedì l’analista Alexander Mercouris, infatti, Poroshenko e la sua cerchia di potere continuano a “non essere realmente interessati all’implementazione del Memorandum di Minsk”, poiché ciò “comporterebbe la fine del progetto Maidan”, ovvero del disegno strategico iniziato con il colpo di stato dello scorso anno per sganciare l’Ucraina dalla Russia e riorientarla verso l’Occidente.
Trattare con i “ribelli” e concedere alle loro province un’ampia autonomia significherebbe dunque riconoscere la sostanziale vittoria della Russia, la quale manterrebbe così quella che ritiene una legittima influenza su almeno una parte dell’Ucraina.
Un altro importante fattore da considerare nelle più recenti provocazioni di Kiev è poi il “continuo e rapido declino dell’economia dell’Ucraina, nonché la crescente impopolarità dei suoi leader”, così che l’opzione della guerra sembra essere un modo per recuperare consensi tra la popolazione.
Da questa prospettiva, la retorica russofoba risulta sempre lo strumento preferito dei vertici ucraini, come ha confermato questa settimana Poroshenko in un discorso di fronte al parlamento di Kiev, durante il quale ha messo in guardia da una fantomatica “invasione su vasta scala” da parte della Russia. Il presidente-oligarca ha parlato di una “minaccia colossale” che graverebbe sull’Ucraina e per questa ragione nelle province orientali sono già schierati 50 mila soldati pronti a “difendere il paese”.
La prospettiva di un inasprirsi dello scontro, infine, è apparsa evidente in maniera inquietante anche dall’annuncio fatto in questi giorni da un portavoce dell’organizzazione neo-fascista “Settore Destro” per mobilitare le milizie armate ultra-nazionaliste, già impiegate a fianco dell’esercito di Kiev nella violenta campagna di repressione contro i separatisti filo-russi.
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di Michele Paris
Nella notte tra domenica e lunedì, una controversa sezione del famigerato Patriot Act è scaduta senza che il Congresso americano fosse in grado di rinnovarla, privando teoricamente l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) di uno strumento cruciale per combattere la minaccia terroristica, ovvero per intercettare in maniera indiscriminata le comunicazioni elettroniche di milioni di persone.
A nulla sono servite le suppliche del presidente Obama ai membri del Senato né gli appelli pubblici di vari membri della sua amministrazione che avevano dipinto in toni apocalittici lo scenario che si sarebbe venuto a creare negli Stati Uniti dal primo giorno di giugno con il venir meno dell’autorizzazione della sorveglianza a tappeto assegnata alla NSA.
Il leader di maggioranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell, aveva addirittura convocato una insolita seduta nella giornata di domenica dopo la settimana di stop ai lavori per il Memorial Day, ma le “divisioni” in aula sono risultate insanabili ed è stato impossibile raggiungere un accordo entro la mezzanotte di domenica.
Il desiderio dello stesso McConnell e di altri “falchi” repubblicani era quello di ottenere un’estensione almeno temporanea della cosiddetta “Sezione 215” del Patriot Act, così da evitare lo stop, sia pure molto relativo, alle intercettazioni e avviare nuove trattative su un testo condiviso. Questa soluzione era apparsa sempre più improbabile nei giorni scorsi, dopo che un tribunale federale aveva dichiarato illegale questa parte della legge approvata all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.
I titoli apparsi lunedì mattina sui media americani hanno così annunciato la fine della raccolta dei dati telefonici da parte della NSA. Tuttavia, dietro l’apparenza di un duro scontro tra favorevoli e contrari alle intercettazioni o tra favorevoli e contrari al rispetto della privacy dei cittadini USA, sempre domenica il Senato ha fatto un passo decisivo verso la salvaguardia di gran parte delle facoltà della NSA.
Una legge approvata qualche settimana fa dalla Camera dei Rappresentanti, il cosiddetto Freedom Act, ha superato senza problemi un ostacolo procedurale (“filibuster”), trovandosi la strada spianata verso il voto in aula nel corso della settimana. Un voto finale prima della scadenza della Sezione 215 del Patriot Act nella serata di domenica era risultato impossibile a causa dell’opposizione manifestata dal senatore di tendenze libertarie, nonché candidato alla nomination repubblicana, Rand Paul.
Il Freedom Act è una riforma cosmetica della NSA che toglie a quest’ultima agenzia l’autorità per raccogliere e archiviare direttamente i dati telefonici, i quali verranno invece conservati dalle compagnie di telecomunicazioni. La NSA o l’FBI potranno comunque continuare ad avere accesso alle informazioni ma solo dopo avere ricevuto l’approvazione del docilissimo Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) e sulla base di richieste circostanziate, legate cioè a ipotetiche minacce “terroristiche”.
Il percorso del Freedom Act al Senato potrebbe però non essere così semplice. Alcuni repubblicani hanno infatti intenzione di adottare emendamenti alla versione della Camera, ad esempio per portare da sei mesi a un anno il periodo di tempo a disposizione della NSA per passare al nuovo regime. Eventuali cambiamenti al testo attuale richiederebbero un ulteriore passaggio in aula alla Camera, dove nuovi malumori potrebbero emergere allungando i tempi per l’approvazione definitiva.
Ad ogni modo, gli scenari catastrofici dipinti dalla Casa Bianca e dai “falchi” del Congresso sono pura fantascienza. Per cominciare, come hanno confermato ai giornali vari esperti di intelligence, uno stop di pochi giorni alle intercettazioni non avrà conseguenze particolari, visto che la NSA potrà continuare a raccogliere informazioni su individui al centro di indagini già avviate entro il 31 maggio.
Inoltre, anche secondo una speciale commissione istituita da Obama nel 2013, il programma autorizzato dal Patriot Act non ha avuto alcun ruolo nel prevenire attacchi terroristici, mentre altri programmi previsti dalla stessa Sezione 215 sono stati raramente usati in questi anni.
La NSA dispone infine di almeno altri due strumenti pseudo-legali per continuare le proprie operazioni di sorveglianza, come la Sezione 702 del “FISA Amendments Act” del 2008 e l’oscuro Ordine Esecutivo 12333 del 1981. Secondo il primo provvedimento, il governo USA può intercettare le comunicazioni elettroniche di cittadini non americani che si trovano in un paese diverso dagli Stati Uniti anche in assenza di un ragionevole sospetto, ma anche di americani se essi finiscono nella rete della NSA in maniera “accidentale”.
Il secondo consente invece intercettazioni virtualmente illimitate ai danni di chiunque si trovi all’estero ma, anche in questo caso, nella rete possono finire i cittadini americani, poiché i loro dati che transitano sui server delle compagnie private si trovano spesso fisicamente in un paese straniero.
Alla luce della disposizione alla legalità e del rispetto dei principi costituzionali della NSA e dell’intero apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti è comunque inverosimile che possa essere adottata qualsiasi limitazione significativa dei poteri invasivi attuali. La stessa raccolta di informazioni telefoniche sulla base del Patriot Act, come ha stabilito la già ricordata sentenza di una corte federale, è ad esempio avvenuta nella completa illegalità per quasi 14 anni.
Visti i formidabili strumenti comunque nelle mani della NSA e la sostanziale inutilità delle norme appena prescritte ai fini della lotta al terrorismo, appare evidente che lo sforzo messo in atto dalla classe politica americana per salvare le prerogative fissate nel Patriot Act nasconda ben altri fini.
La raccolta di massa dei dati relativi al traffico telefonico e internet di virtualmente tutta la popolazione americana serve cioè al governo USA per creare un archivio illimitato di informazioni, utili non tanto al controllo di attività di natura terroristica bensì del dissenso politico.
La propensione alla repressione è d’altra parte documentata quotidianamente negli Stati Uniti, dal numero esorbitante di omicidi commessi dalla polizia alla risposta puntuale in assetto da guerra alle manifestazioni di protesta, esplose negli ultimi mesi proprio contro la brutalità delle forze dell’ordine.
Con la sempre più difficile sostenibilità di alcune norme che assegnano poteri vastissimi alla NSA, sia per la crescente opposizione popolare sia a seguito di opinioni espresse dai tribunali, il governo e il Congresso di Washington stanno tentando di apportare cambiamenti di facciata alle leggi approvate dopo il 2001.
Il Freedom Act su cui si appresta ad esprimersi il Senato, quindi, serve per ridare basi pseudo-legali ai crimini della NSA, consentendo alla propaganda ufficiale di dichiarare - assurdamente - ormai finita l’era delle intercettazioni extra-giudiziarie ai danni dei cittadini americani.
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di Mario Lombardo
Per la prima volta da oltre quarant’anni, questa settimana uno stato americano considerato di orientamento conservatore ha abolito in maniera formale la pena di morte. A prendere questa decisione è stato il parlamento statale unicamerale del Nebraska, al termine di un lungo processo legislativo e sulla spinta di motivazioni diverse, tra cui quelle di ordine morale sono apparse minoritarie.
Nel corso del 2015, la legge che abroga la pena capitale era stata approvata a larga maggioranza per ben tre volte dall’assemblea del Nebraska, come previsto dalle regole dello stato. Il provvedimento era poi finito sul tavolo del governatore repubblicano, Pete Ricketts, il quale aveva posto il proprio veto dopo avere condotto una durissima battaglia a favore della pena di morte nel suo stato.
Nonostante il parlamento del Nebraska – nominalmente composto da deputati indipendenti – sia anch’esso a maggioranza repubblicana, una coalizione bipartisan composta dai tre quinti dei membri ha annullato il veto nella giornata di mercoledì con un voto decisivo di 30 favorevoli e 19 contrari. Mentre una maggioranza a prova di veto era considerata sicura da tempo, nei momenti che hanno preceduto il voto due deputati che avevano sostenuto l’abolizione hanno deciso a sorpresa di appoggiare il governatore, rischiando di far naufragare la legge.
Il Nebraska è diventato in ogni caso il 19esimo stato americano - più il District of Columbia - a non prevedere nel proprio ordinamento l’estrema punizione, sostituita dal carcere a vita. L’ultimo stato conservatore a prendere una simile decisione era stato il North Dakota nel 1973. Prevedibilmente, in uno stato rurale come il Nebraska le pressioni per mantenere la pena di morte sono state notevoli, alimentate dai politici più reazionari, impegnati a incitare nella popolazione sentimenti retrogradi di vendetta.
Lo stesso governatore Ricketts aveva rilasciato svariate interviste per denunciare l’abrogazione e durante la cerimonia della firma del veto nella giornata di martedì era apparso assieme ad alcuni familiari di una donna uccisa nel corso di una rapina nel 2002. Mercoledì, poi, Ricketts ha commentato il voto dell’assemblea statale con toni apocalittici, dichiarandosi “sconvolto” da una decisione che avrebbe sottratto “uno strumento cruciale per la protezione delle famiglie del Nebraska”.
Come in vari altri stati americani che prevedono la pena di morte, anche nel Nebraska non viene eseguita nessuna condanna da anni. L’ultimo caso risale al 1997 e dalla reintroduzione della pena capitale negli Stati Uniti nel 1976 le esecuzioni in questo stato sono state solo tre, tutte con il metodo della sedia elettrica, mentre i condannati detenuti nel braccio della morte sono dieci.
La legge appena approvata è stata possibile grazie all’accordo trovato tra esponenti politici di diverso orientamento, tra i quali hanno prevalso, soprattutto nello schieramento repubblicano, coloro che appoggiano l’abolizione della pena di morte perché troppo costosa e vincolata a lunghi procedimenti burocratici.
L’appello dei leader religiosi dello stato ha inoltre avuto un qualche peso. In particolare, la Chiesa cattolica aveva preso una posizione netta contro la pena di morte, con i vescovi del Nebraska che erano giunti a criticare apertamente il governatore per avere esercitato il proprio diritto di veto.
A influire sull’abolizione è stata infine probabilmente anche la controversia in atto negli Stati Uniti relativa ai farmaci da impiegare nella procedura dell’iniezione letale. Da qualche anno, le scorte dei prodotti tradizionalmente usati si sono ridotte sensibilmente o risultano esaurite. Ciò è dovuto allo stop alle forniture deciso dai produttori, soprattutto europei, che non desiderano legare il proprio nome alla pena di morte, principalmente per motivi d’immagine.
I farmaci alternativi testati dalle autorità in molti stati hanno spesso prodotto scenari raccapriccianti durante le esecuzioni, con i condannati non sufficientemente anestetizzati e quindi sottoposti ad atroci sofferenze.
La stessa Corte Suprema del Nebraska nel 2011 aveva imposto una moratoria alle condanne capitali, accogliendo un ricorso che ipotizzava il mancato rispetto delle norme farmaceutiche americane dell’anestetico “tiopental sodico”, acquistato dallo stato in India.
Se gli ostacoli legali e quelli relativi all’approvvigionamento dei farmaci hanno contribuito all’abolizione della pena di morte in Nebraska, appare improbabile che questo esempio possa essere seguito a breve da altri stati conservatori. Anzi, in molti di essi dove le condanne vengono eseguite con regolarità a dominare continuano a essere politici e giudici reazionari che incoraggiano un giustizialismo dai connotati brutali.
Uno degli esempi più evidenti è rappresentato dalle autorità dello stato meridionale dell’Alabama. Qui, le caratteristiche della macchina della morte sanzionata dalla legge sono emerse da un recente articolo apparso sul magazine The Atlantic. Dopo avere esaurito le scorte di tiopental sodico, lo stato dell’Alabama a partire dal 2010 aveva addirittura acquistato questo e altri anestetici da usare nelle escuzioni sul mercato nero.
Nel 2011, era poi intervenuta l’agenzia federale per i farmaci e gli alimenti (FDA) che aveva sequestrato le riserve di tiopental sodico reperite illegalmente dall’Alabama. Le autorità dello stato avevano allora deciso di optare per un prodotto dall’effetto più blando, il midazolam, responsabile infatti di alcune esecuzioni finite male. La compagnia produttrice del midazolam - Akorn - aveva tuttavia negato di avere venduto questo prodotto allo stato dell’Alabama, facendo riesplodere le polemiche sulla provenienza dei farmaci usati per mettere a morte i condannati.
L’intera vicenda ha determinato un irrigidimento dei membri del parlamento statale dell’Alabama, tanto che nuove leggi sono state presentate per espandere il numero di reati punibili con la condanna a morte e per mantenere il segreto sui dettagli dei metodi di esecuzione impiegati.
L’Alabama, d’altra parte, giustizia un numero più alto di condannati di qualsiasi altro stato americano in proporzione ai propri abitanti e ciò grazie a una legislazione che rende estremamente facili le sentenze capitali. In più di un’occasione negli ultimi anni, ad esempio, i tribunali dell’Alabama - dove vivono nemmeno cinque milioni di abitanti - hanno emesso più condanne a morte del Texas, la cui popolazione sfiora i 28 milioni.
Se la pena di morte è stata abolita da sei stati USA dal 2007 a oggi - Maryland, Connecticut, Illinois, New Mexico, New Jersey e, appunto, Nebraska - e la percentuale di americani che la sostiene è in costante calo, i recenti sviluppi registrati in altri stati non sono incoraggianti.
La carenza di medicinali adeguati per l’iniezione letale ha infatti in molti casi portato alla reintroduzione di sistemi barbari per le esecuzioni capitali, almeno come metodi alternativi. Nei mesi scorsi, lo stato dello Utah ha reintrodotto nel proprio ordinamento la fucilazione, metodo a cui potrebbero ricorrere a breve anche l’Arkansas, l’Idaho e il Wyoming.
La sedia elettrica, tuttora teoricamente prevista in alcune giurisdizioni, era stata infine presa in considerazione dalla Virginia come prima alternativa all’iniezione letale, cosa che ha effettivamente fatto nel 2014 lo stato del Tennessee.
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di Michele Paris
Le attività della Cina in un’area contesa del Mar Cinese Meridionale continuano a incoraggiare aperte provocazioni da parte degli Stati Uniti, con il risultato di far salire pericolosamente le tensioni tra le prime due potenze economiche del pianeta. A Washington è in corso infatti un’incessante campagna di denunce nei confronti del regime di Pechino, accusato di voler mettere a rischio la stabilità dell’Asia sud-orientale a fronte dei presunti sforzi americani per mantenere intatta la libertà di navigazione e favorire una risoluzione pacifica dei conflitti territoriali.
Tutte le azioni intraprese dall’amministrazione Obama rispondono in realtà a una logica provocatoria nei confronti della Cina, le cui iniziative in un’area strategicamente cruciale per i propri interessi vengono sfruttate per accelerare i piani di militarizzazione e accerchiamento del gigante asiatico nell’ambito del confronto in atto per l’egemonia sull’intero continente.
Da qualche settimana, la Cina sta costruendo una serie di isole artificiali nei pressi dell’arcipelago delle Spratly che il suo governo controlla pur essendo rivendicato da vari paesi, tra cui le Filippine e il Vietnam. Sui nuovi terreni strappati alle acque, Pechino sta realizzando opere civili e militari che hanno provocato non solo la condanna degli USA e dei loro alleati ma anche azioni eclatanti che rischiano di creare episodi in grado di innescare un conflitto di ampia portata.
Settimana scorsa, ad esempio, il Pentagono aveva inviato un aereo militare da ricognizione non lontano da un atollo delle Spratly, dove erano in corso lavori da parte cinese. Anche se il velivolo non era entrato nelle acque territoriali della Cina, l’azione aveva un chiaro intento provocatorio e così è stato interpretato da Pechino.
Le forze armate cinesi avevano ripetutamente ordinato all’aereo americano di lasciare l’area e, successivamente, un portavoce del ministero degli Esteri ha avuto parole molto dure nei confronti del governo USA, bollando l’iniziativa come “pericolosa e irresponsabile”.
L’amministrazione Obama, tuttavia, tramite il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva fatto sapere di essere sul punto di andare oltre, annunciando come sia già allo studio il possibile stazionamento di navi da guerra nelle vicinanze delle Spratly, con un aumento sensibile delle possibilità di una risposta concreta da parte cinese.
Lunedì, in ogni caso, Pechino ha presentato una protesta formale nei confronti degli USA per avere inviato un aereo da ricognizione nel Mar Cinese Meridionale, ma il malcontento espresso dal regime non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco del dibattito negli ambienti di potere e sui giornali ufficiali negli Stati Uniti.
A ciò ha contribuito poi anche la notizia, diffusa martedì, che la Cina starebbe costruendo sulle Spratly altri edifici a uso civile, come ad esempio due fari, ufficialmente per favorire future operazioni di salvataggio in mare.
Ogni annuncio o rivelazione di una nuova iniziativa cinese nelle isole contese serve in definitiva agli Stati Uniti per alimentare la propria campagna di propaganda, finalizzata a dipingere Pechino come una minaccia senza precedenti alla stabilità dei paesi dell’Asia sud-orientale e delle importanti rotte commerciali che vi transitano.
La Cina, da parte sua, continua a rispondere in maniera ferma alle denunce americane. Un portavoce delle forze armate di Pechino ha ad esempio puntato il dito contro “potenze straniere” che cercano di “infangare la reputazione dei militari cinesi e di creare un’atmosfera fatta di tensioni spropositate”.
Altri esponenti del governo hanno inoltre ricordato come le provocazioni USA possano “causare equivoci e incidenti problematici in mare e nello spazio aereo”. Ancora più esplicito è stato infine un recente editoriale della testata governativa Global Times, secondo la quale “se l’obiettivo degli Stati Uniti è convincere la Cina a fermare le proprie attività” nelle isole Spratly, “allora una guerra tra USA e Cina nel Mar Cinese Meridionale appare inevitabile”.
In risposta al clima creatosi alle proprie frontiere, il governo cinese questa settimana ha presentato un nuovo “Libro Bianco” relativo alle strategie di difesa nazionale. Significativamente, con un chiaro riferimento agli Stati Uniti, il documento mette in guardia dalle minacce rappresentate dalle politiche egemoniche e “neo-interventiste”, in parallelo con l’intensificarsi della “competizione internazionale per la redistribuzione del potere, dei diritti e degli interessi”.
I pericoli principali per Pechino sono identificati nell’escalation militare e diplomatica americana nel continente asiatico e nel nuovo impulso al militarismo giapponese registrato con l’ascesa al potere a Tokyo del primo ministro ultra-conservatore, Shinzo Abe.
La sezione del “Libro Bianco” più discussa dai media e commentatori americani è stata quella riguardante le strategie di difesa navale, soprattutto alla luce dell’impegno cinese di aumentare le “protezioni in mare aperto” e di passare dalle predisposizioni per la sola “difesa” aerea a quelle per “difesa e attacco”.
Questi nuovi obiettivi, come evidenzia lo stesso documento diffuso dal governo - o Consiglio di Stato - cinese, sono in gran parte la conseguenza delle tensioni crescenti nel Mar Cinese Meridionale, provocate dalle iniziative di paesi vicini - a cominciare dalle Filippine - su istigazione americana. Per fronteggiare efficacemente le sfide attuali, dunque, sarebbe “necessario per la Cina sviluppare una moderna forza militare marittima commisurata ai propri interessi di sicurezza nazionale e di sviluppo”.
In Occidente e nei paesi alleati di Washington, il documento strategico cinese ha sollevato un coro di commenti allarmati, poiché esso indicherebbe la chiara volontà da parte di Pechino di ricorrere a politiche egemoniche a discapito dell’indipendenza e della sicurezza dei propri vicini e, soprattutto, degli interessi degli Stati Uniti.
A ben vedere, però, l’atteggiamento cinese non è che un riflesso di quello tenuto in questi anni dagli USA, nel tentativo di impedire un accerchiamento che, in caso di conflitto, comporterebbe un blocco rovinoso delle rotte commerciali marittime vitali per Pechino. La Cina, d’altra parte, dipende ancora in larga misura da queste vie d’acque contese ed esposte alla minaccia statunitense per gli approvvigionamenti di energia e materie prime, nonché per le proprie esportazioni.
La strategia americana è invece precisamente quella di esercitare pressioni crescenti sulla Cina, così da provocare risposte sempre più aggressive e disporre della giustificazione per proseguire con i propri piani militari e diplomatici in Asia sud-orientale, anche a rischio di far precipitare la situazione in uno scenario di guerra aperta tra potenze nucleari.
Per il momento, il conflitto tra Washington e Pechino dovrebbe continuare a svolgersi sul piano retorico. Il prossimo teatro dei rimproveri americani alla Cina sarà con ogni probabilità l’appuntamento di venerdì a Singapore, dove andrà in scena l’annuale conferenza sulla sicurezza in Asia (“Dialogo Shangri-La”), a cui parteciperanno, tra gli altri, il numero uno del Pentagono e una delegazione di alti ufficiali delle forze armate di Pechino.
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di Carlo Musilli
La cattolicissima Irlanda ha detto sì alle nozze gay. Anzi, lo ha strillato. Il referendum sull'introduzione del matrimonio omosessuale è passato con il 62,1% di voti favorevoli. I contrari, con il loro 37,9%, sono stati quasi doppiati nel conteggio delle schede: 1,2 milioni contro 734mila (su una popolazione totale di 5 milioni di persone, con 3,2 milioni iscritti al voto). A livello nazionale, l'affluenza è stata del 60,5%, con una punta del 71% di sì nella circoscrizione di Dublino sud.
Sul risultato finale ha pesato in modo decisivo il voto dei giovani fra i 18 e i 25 anni, ovvero 400mila elettori cresciuti in un Paese lontanissimo da quello dei loro genitori. Pur continuando a essere una delle popolazioni più cattoliche d'Europa, oggi gli irlandesi sperimentano un livello di secolarizzazione impensabile anche solo negli anni Novanta.
L'allontanamento delle nuove generazioni dal bigottismo oscurantista del recente passato è stato alimentato dagli scandali a ripetizione legati alla pedofilia nel clero irlandese, ma ha anche a vedere con il ritorno ad una massiccia emigrazione.
Fra il 2006 e il 2012 il 70% degli irlandesi espatriati erano giovani, una massa di persone costretta a cercare fortuna oltreconfine dall'esplosione della bolla speculativa che ha prostrato l'economia irlandese e soprattutto dalla successiva cura d'austerità inflitta dalla Troika. Lo scorso finesettimana quegli stessi giovani sono tornati a casa per votare sì, intonando su Twitter l'urlo di battaglia #hometovote.
In termini di civiltà, hanno concesso all'Irlanda un riscatto di proporzioni storiche, considerando che il reato di omosessualità - o meglio, di sodomia - è stato cancellato dal codice penale soltanto nel 1993, quando ormai l'età vittoriana era finita da un'era geologica.
L'entusiasmo per la clamorosa sterzata progressista dell'Irlanda non deve però trasformarsi in facile venerazione. Dublino non è la nuova El Dorado dell'uguaglianza e della modernità. Sul piano dei diritti civili, ad esempio, le donne irlandesi non sono ancora libere di abortire, a meno che non si trovino in pericolo di vita.
Quanto al modello economico, l'Irlanda è da anni complice spudorata di colossi globali come Google e Apple, che per eludere il fisco in tutta Europa sfruttano proprio gli espedienti legislativi concessi da Dublino (il più noto è il "Double Irish", abolito quest'anno su pressioni internazionali e prontamente sostituito con un trucco equivalente).
Ce n'è abbastanza per non essere d'accordo con il ministro della Sanità irlandese, Leo Varadkar, che nel post voto si è lasciato andare all'esaltazione: "Questo risultato ci rende un faro - ha detto - una luce di libertà ed eguaglianza per il resto del mondo".
Non è così, gli irlandesi non sono un modello da seguire in tutto, ma è innegabile che stavolta abbiano aperto una via. E non perché hanno legalizzato il matrimonio omosessuale, ma per come lo hanno fatto. Prima dell'Irlanda, le nozze gay erano un diritto riconosciuto già in 21 Paesi nel mondo, di cui 14 in Europa.
La vera novità quindi non è la legge in sé, ma il referendum. Quello irlandese è il primo in assoluto su questo tema, il che può sembrare strano, visto che parliamo di applicare a un diritto civile il principale strumento di democrazia diretta.
E nel nostro Paese? "Dall’Irlanda una spinta in più. È tempo che anche l’Italia abbia una legge sulle unioni civili. Essere europei significa riconoscere i diritti", ha twittato la presidente della Camera, Laura Boldrini.
Il governo sembra sulla stessa linea: "Nel mio partito, su questo tema c'è chi vorrebbe di più - avrebbe detto in privato il premier Matteo Renzi, secondo alcune fonti stampa, alludendo alla possibilità d'istituire il matrimonio omosessuale -, ma le unioni civili non sono più rinviabili".
Da Maria Elena Boschi è arrivato poi un chiarimento: "Stiamo lavorando in Parlamento a una proposta di legge che riconoscendo le unioni civili tra persone dello stesso sesso riconosca i diritti di tutti - ha detto il ministro delle Riforme -, siamo a buon punto, sono già stati presentati gli emendamenti e c'è la volontà di arrivare fino in fondo".
Almeno per il momento, quindi, in Italia il matrimonio gay è irraggiungibile, ma le unioni civili sembrano a portata di mano, visto che anche il centrodestra afferma di essere d'accordo. Alla fine qualcuno si dirà soddisfatto, qualcuno si accontenterà, qualcuno sarà deluso, qualcuno protesterà. L'importante però è iniziare a riempire il vuoto attuale, che di civile non ha nulla.