di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Bandiere rosse e pugni chiusi, la Germania continua a sorprendere. Alle 16 di sabato 10 ottobre, ancora passavano davanti alla porta di Brandeburgo le migliaia di persone che protestavano contro il Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che l'Unione europea e gli Stati Uniti da tre anni stanno ancora negoziando. E' un patto che non  tutela i diritti umani o il diritto al lavoro o il welfare bensì impone la libertà di commercio e di investimento quali diritti attorno ai quali tutto deve ruotare.

Che è poi quanto vogliono le multinazionali perché il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) serve appunto ad abolire ogni barriera - tariffaria e regolamentare - al libero commercio e alla libertà degli investimenti.

Conseguentemente a questo patto, ogni norma che pone vincoli al commercio ed agli investimenti è considerata illegale. Pertanto il trattato fissa, per le aree geografiche interessate, una sorta di Costituzione generale in cui la libertà di commercio e di investimenti diventano il punto fondamentale a cui qualunque altro diritto e volontà deve piegarsi.

Questo vuol dire che ogni impresa multinazionale potrà denunciare direttamente uno Stato (o una regione, o un Land o un comune o un Rathaus) che venga ritenuto colpevole di aver violato la libertà di commercio e di investimento. Questo vuol dire anche che ogni impresa multinazionale potrà obbligare gli Stati  a cancellare le norme in contrasto con quanto stabilito nel patto, e imporre multe salate nel caso in cui si ritenga che le leggi abbiano danneggiato le multinazionali.

Insomma, il trattato permetterebbe di esportare in Europa prodotti che in America vengono venduti, ma che da noi sarebbero fuori da ogni norma e legge, come "la carne agli antibiotici". Dopo i recenti fatti che hanno coinvolto industrie come la Nestlé e i suoi spaghetti al piombo, ci si chiede chi poi lo voglia questo mercato unico - Obama più di ogni altro lo ama e lo sostiene - che può infliggerci qualunque cosa anche se è micidiale per la salute.

E' per questo che la Confederazione dei Sindacati tedeschi, la Deutscher Gewerkschaftsbund  (Dgb), temendo che l’accordo faciliterebbe l’ingresso di ogm difficili da rintracciare e perdita di occupazione, hanno organizzato la manifestazione di sabato scorso. Era dal 1989, l'anno della caduta del muro, che non  vedevo cortei così imponenti.

Secondo alcune stime, cinquecento mila persone sono passate davanti alla porta di Brandeburgo, reggendo cartelli contro il Ttip e sventolando le bandiere del sindacato, ma anche quelle rosse con la falce e martello e (chi si rivede?) il pugno alzato. 

Simbolo storico della lotta proletaria, dell'unità e della solidarietà, il pugno alzato (o pugno chiuso) nasce tra la fine del 1923 e l'inizio del 1924 come saluto del Rotfrontkämpferbund (RFKB - RFB), i Soldati rossi di prima linea, organizzazione paramilitare del Partito comunista tedesco (KPD).

Siccome il pugno alzato nasce in contrapposizione al saluto dei nazisti che distendevano il braccio fino alla mano, è stato  recuperato in questa sfilata per esaltare la lotta “contro le multinazionali che sono i veri nazisti del ventunesimo secolo”, come mi ha spiegato Beate, giovane infermiera dell'ospedale Martin-Luther-Krankenhaus.

Per la cronaca va precisato pure che con la  manifestazione di ieri si è inaugurata la settimana di mobilitazione europea contro il Ttip che si concluderà - sabato 17 ottobre - a Bruxelles, dove verranno presentati le 3 milioni di firme raccolte nei mesi scorsi contro il trattato e gli altri accordi di libero scambio.

Infatti, l'obiettivo della mobilitazione internazionale è  di intrecciare le molteplici istanze promosse dalla società civile, e di costruire un grande blocco di opinione pubblica contraria ad un sistema di commercio internazionale che - come detto - mette i diritti umani e civili in secondo piano rispetto agli interessi delle grandi multinazionali e dei gruppi finanziari.

La più grande manifestazione era attesa a Berlino, e così è stato: hanno marciato circa 500 mila. Ad essa ha partecipato anche una numerosa presenza italiana poiché l'arrivo del Ttip falcerebbe in modo pesante l'interscambio tra noi e la Germania e viceversa, con un grave danno per entrambi i paesi.

Sicché pure in Italia sono previsti presidi in decine di centri urbani. Alla protesta nelle strade verrà affiancata una massiva campagna di pressione istituzionale, con valanghe di tweet ed e-mail che affolleranno gli account dei parlamentari italiani troppo "distratti" in merito a un tema che riguarda da vicino la vita di ciascun cittadino.

Anche per questo, ripeto,  davanti a Brandeburgo e lungo la Under der Linden c'erano molti giovani italiani che sfilavano con i loro coetanei tedeschi. Insieme, come quelli di ventisei anni fa. Naturalmente, nel 1989 quei volti erano sorridenti, il Muro crollò nella serenità. Quando si dovrà aspettare perché “crollino” le multinazionali?

di Michele Paris

L’aggressione dell’Arabia Saudita e di una manciata di altri regimi arabi contro lo Yemen dura ormai dai più di sei mesi nel tentativo di reinstallare al potere il presidente-fantoccio, Abd Rabbu Mansour Hadi, e di piegare la resistenza dei guerriglieri sciiti Houthi. Il conflitto continua a far segnare atroci episodi di violenza e stragi deliberate di civili da parte dei paesi aggressori, come ha confermato questa settimana un nuovo rapporto diffuso da Amnesty International.

L’indagine giunge a poche settimane da una precedente ricerca che aveva assegnato la responsabilità di crimini di guerra a entrambe le parti in conflitto e ha riguardato in particolare 13 incursioni aeree operate tra maggio e luglio da parte della coalizione guidata da Riyadh nelle regioni nord-orientali dello Yemen. Durante questi raid sono stati uccisi circa 100 civili, di cui 59 bambini, in conseguenza della decisione saudita di dichiarare obiettivi militari le città di Saada e Marran.

Per Donatella Rovera di Amnesty International, le “forze della coalizione” sono responsabili di non avere adottato “sufficienti precauzioni per evitare morti civili, come richiesto dal diritto internazionale”. Questa dichiarazione è a dir poco un eufemismo, dal momento che le forze armate della monarchia saudita sembrano voler prendere di mira deliberatamente gli obiettivi civili in Yemen per terrorizzare la popolazione e piegare la resistenza all’aggressione.

Ciò è confermato dall’elevato numero di stragi commesse dall’inizio degli attacchi lo scorso mese di marzo. Che le bombe su edifici civili non siano dovute a “errori”, spiega Amnesty, è testimoniato anche dal fatto che in alcuni casi gli obiettivi non-militari sono stati bombardati più volte.

Gli elicotteri e gli aerei da guerra dei sauditi e dei loro partner hanno ridotto in macerie, tra l’altro, fabbriche, moschee, scuole, ospedali, mercati, strutture portuali e edifici in quartieri residenziali. Particolare sconcerto aveva provocato a fine settembre un bombardamento durante una festa di matrimonio in un villaggio sul Mar Rosso.

Le vittime in quello che è stato finora il più grave singolo massacro della guerra erano state più di 130, comprese 80 donne. Solo il giorno precedente, inoltre, altri 30 civili erano stati uccisi dai raid di elicotteri sauditi nella provincia nord-occidentale di Hajjah.

Complessivamente, secondo i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, alla fine di settembre le vittime civili nel conflitto in corso in Yemen erano più di 2.300, mentre i feriti ammontavano a quasi 5 mila. Non solo, la situazione umanitaria nel paese più povero del mondo arabo sta ormai precipitando. Alcuni dati rendono a sufficienza l’idea della catastrofe provocata dall’aggressione saudita.

Secondo il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU, 10 delle 22 provincie che compongono lo Yemen stanno fronteggiando situazioni di emergenza per quanto riguarda l’accesso al cibo dei suoi abitanti.

La gravità della situazione è dovuta in particolare al blocco navale imposto dall’Arabia Saudita, in collaborazione con la marina militare americana, visto che il fabbisogno alimentare dello Yemen è assicurato per il 90% da importazioni.

Sempre per l’ONU, almeno 20 milioni di yemeniti, ovvero l’80% della popolazione totale, necessita di una qualche forma di aiuto umanitario. Poco meno di due milioni di persone, infine, sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e a fuggire in altre parti del paese o all’estero a causa della guerra.

Il recentissimo rapporto di Amnesty denuncia poi l’utilizzo delle distruttive “cluster bombs”, o “bombe a grappolo”, da parte della “coalizione”, nonostante siano proibite a livello internazionale. Singolarmente, molti in Occidente e nel mondo arabo che ora non muovono un dito nei confronti dell’Arabia Saudita avevano più volte denunciato il regime di Assad nei mesi scorsi e, più recentemente, anche la Russia per avere fatto uso di questi stessi ordigni in Siria.

Come afferma l’organizzazione britannica a difesa dei diritti umani, in questi mesi vi sono stati numerosissimi episodi che potrebbero portare vari esponenti della monarchia medievale sul banco degli imputati in un processo per crimini di guerra.

A far loro compagnia per le stragi in Yemen dovrebbero esserci anche i vertici del Pentagono e dell’amministrazione Obama, poiché quest’ultima, nonostante i dubbi sull’aggressione per ragioni di opportunità, è totalmente complice del massacro in atto.

Non solo Washington condivide gli obiettivi strategici di Riyadh, legati al contenimento dell’influenza iraniana nella penisola arabica attraverso la reimposizione di Hadi come presidente dello Yemen e la sconfitta degli Houthi sciiti, ma gli Stati Uniti forniscono ai sauditi fin dall’inizio della guerra informazioni sugli obiettivi da colpire e assistenza logistica.

Consiglieri militari americani sono impegnati assieme ai loro colleghi del regno in un centro di comando congiunto predisposto in Arabia Saudita, da dove vengono gestite le operazioni militari in Yemen.

Soprattutto, poi, gli USA assicurano l’adeguato mantenimento delle scorte di armi saudite. Dopo i contratti da record per svariate decine di miliardi di dollari firmati nei mesi scorsi per la fornitura di armi all’Arabia Saudita e alle altre monarchie del Golfo Persico, a settembre era stato annunciato un nuovo accordo da un miliardo con Riyadh in concomitanza con la visita a Washington del sovrano saudita, Salman, accolto a braccia aperte da Obama.

Per Amnesty, anche le “cluster bombs” usate dall’Arabia Saudita sono state fornite dagli Stati Uniti, i quali continuano evidentemente a considerare queste armi come uno strumento legittimo, nonché un ottimo affare, visto che sono tra i paesi che non hanno sottoscritto la convenzione per la loro messa al bando.

di Fabrizio Casari

Senza nessuna preoccupazione per la decenza pubblica, mentre l’Isis finisce di distruggere Palmira, la Nato ha intimato a Mosca di cessare i bombardamenti sulle organizzazioni terroristiche islamiche che combattono contro il regime di Assad. Sconfinati sabato (“per errore”) nei cieli turchi, i caccia di Mosca hanno duramente colpito in questi giorni le postazioni islamiste. Il che, evidentemente, irrita non poco la Nato, che invece continua ad avere come unico bersaglio il regime di Assad e sostiene i combattenti islamici aiutati dal regime turco di Erdogan.

C’è da sottolineare come la Turchia scopra il valore dello spazio aereo nazionale solo quando è il suo, dal momento che sin dall’inizio del conflitto in Siria ha organizzato il supporto militare e logistico alle retrovie degli islamisti e, con particolare pervicacia, ha bombardato i Peshmerga kurdi, eroici difensori di Kobane. Insomma, con la scusa della guerra siriana, Ankara ha cercato di eliminare - senza peraltro riuscirci - i kurdi, intrecciando così l’impegno sunnita contro la Siria ai suoi desiderata di politica interna.

Mosca, dal canto suo, oltre ad essersi scusata per la violazione dello spazio aereo turco, respinge le accuse di voler bombardare l’Esercito libero siriano, con il quale anzi ha proposto un accordo di tipo militare, senza però ricevere risposta. Come ha sottolineato il Ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, “si tratta di un esercito fantasma di cui non si sa niente. Ho chiesto al Segretario di Stato USA John Kerry – ha continuato perfidamente il ministro russo – di sapere dov’è l’esercito libero siriano e chi lo comanda per aprire un canale di comunicazione, ma non sono arrivate risposte”.

L’iniziativa di Mosca sta comunque scoperchiando il pentolone siriano, dove lo schieramento occidentale si compone soprattutto di una sostanziale doppiezza, con Turchia e Arabia Saudita che rappresentano la parte militare e finanziaria del sostegno agli islamisti pur essendo, in teoria, alleati della Nato che si dice in missione contro l’Isis, che degli islamisti è la fazione principale.

Basti ricordare come la Turchia, bastione della Nato, abbia ripetutamente agito contro le volontà dichiarate della stessa Alleanza, supportando i ribelli siriani in cambio della libertà di attaccare i kurdi, che pure a Kobane erano formalmente sostenuti dalla Nato stessa. Un ginepraio apparentemente incomprensibile se si cerca la coerenza tra schieramenti dichiarati e atti compiuti, ma perfettamente chiaro se si prova a vedere la questione siriana nella gigantesca partita che contrappone l’islam sunnita a quello sciita, con l’Occidente a spingere sull’acceleratore della guerra permanente quale volano principale per il ridisegno strategico dell’area e per il rafforzamento della centralità della Nato nello scacchiere internazionale.

Sul piano militare, non c’è dubbio che i russi possono cambiare rapidamente la situazione sul campo. Non dovendo solo far finta di attaccare in favore di opinione pubblica, i caccia russi colpiscono i bastioni dell’Isis e di Al-Nusra, offrendo così respiro ai Peshmerga, Hezbollah e forze armate siriane, e mettendo in crisi l’intenzione chiara della Nato di continuare a sostenere militarmente quelli che fa finta di considerare nemici pubblicamente.

Sul piano politico la proposta di Mosca, di formare una coalizione internazionale per combattere i macellai dell’Isis e le bande terroristiche islamiste, unita a quella di trovare una soluzione politica alla guerra, mette davvero la Nato nell’angolo.

Fino ad ora l’Alleanza atlantica ha sostenuto in ogni modo le forze anti Assad senza guardare tanto per il sottile, ma la possibilità di sedersi a un tavolo con il governo siriano per concordare una via d’uscita politico-diplomatica, risulta eccessivamente imbarazzante per Obama, Cameron e Hollande.

Lo scenario libico era e resta ancora l’auspicio di Washington e alleati, ma proprio aver considerato la composizione sociale e il valore delle forze armate in Siria simili a quelli libiche è stato l’errore più clamoroso degli Stranamore dell’Alleanza.

Dal momento che, per ovvie esigenze d’immagine internazionale, la Nato non può permettersi di rifiutare la proposta russa, sia perché ufficialmente anche la Nato è in guerra con l’Isis, sia a maggior ragione perché lo stesso Assad si è detto pronto a lasciare in un contesto di accordo internazionale, sono stati sguinzagliati gli jiahidisti per cercare di rendere impossibile l’idea di una soluzione politica al conflitto. E’ quindi puntualmente arrivato il documento redatto ieri da 41 dei maggiori gruppi islamisti che combattono nel ginepraio siriano.

Firmato dalle due organizzazioni più importanti della galassia jiahidista in Siria, Jaish Al Islam e Ahrar al Sham, il documento dichiara l’impossibilità di arrivare ad un accordo con i russi e Assad e, anzi, sollecita la creazione di una alleanza regionale per combattere contro Assad, la Russia e l’Iran. A questo piano aderirebbero anche Al-Nusra, emanazione siriana di Al-Queda, e altri gruppuscoli minori.

Inutile del resto cercare distinguo che hanno poco senso: l’Isis, infatti, è solo una fazione diversa da quella delle truppe dei cosiddetti oppositori, di cui l’Esercito libero siriano è solo il volto moderato. Tra costoro e l’Isis è in corso una disputa tesa a stabilire il comando delle operazioni militari e il futuro assetto della Siria; uno scontro di matrice politica e religiosa interno al jiahidismo, ma non certo una differenza nell’obiettivo immediato di spodestare Assad, trasformando la Siria in una nuova Libia.

L’evidente proiezione onirica del documento che invita alla coalizione contro Russia e Iran non deve trarre in inganno: lo scopo è solo quello di consentire alla Nato di poter dire che non c’è accordo sul terreno con tutti gli interlocutori e poter così respingere la proposta di soluzione politica di Mosca, riparandosi però dietro i terroristi-oppositori. Anche perché accettare la proposta russa di una coalizione militare e di un successivo piano di pace per la Siria, riporterebbe Mosca al centro della governance globale e, nello scacchiere mediorientale, riproporrebbe anche il ruolo strategico dell’Iran che sta progressivamente invertendo le sorti del conflitto in Iraq.

Fumo negli occhi per una Nato incapace di trovare una soluzione militare in Siria e ormai ostaggio della volontà degli Emirati per i cui sogni di dominio politico e religioso, le cosiddette primavere arabe sono state rapidamente trasformate da processi democratici a guerra intestina all’Islam.

Difficile credere che Mosca accetti i diktat Nato. La posta in gioco per Putin è troppo alta per abbandonare il campo senza prima aver dimostrato di fronte all’opinione pubblica internazionale che la possibilità di sconfiggere i macellai dell’Isis dipende solo dalla volontà politica. Se l’Occidente pensa d’intimidire la Russia non considera che ormai il Cremlino è andato troppo avanti per tornare indietro. Se pensa che Putin si limiti a fare il lavoro che loro non vogliono fare si rivela ingenuo.

E se ora crede di convincere Mosca a sacrificare Assad, per poi sostituirlo con chi vuole la guerra santa contro Mosca e Teheran, significa che la sua capacità di analisi e valutazione politica è seriamente compromessa. Washington dovrebbe invece cogliere l’opportunità politica di sganciarsi dalla Siria e lasciare Parigi alle prese con il guaio che ha generato.

Né Mosca, né Teheran, né i siriani sono disposti ad arrendersi agli sceicchi e, soprattutto, sono consci dell’estrema debolezza di Obama e Hollande e anche dell’impossibilità da parte loro di ottenere un pronunciamento dell’Onu. E sanno che una nuova guerra lanciata dalla coalizione internazionale, ancor prima che le truppe russe vedrebbe il primo, poderoso ostacolo, nel Congresso USA.



di Michele Paris

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha inaugurato lunedì il suo nuovo anno giudiziario, durante il quale una serie di casi delicati saranno ancora una volta sottoposti all’attenzione dei nove giudici. L’apertura dei lavori del tribunale costituzionale americano giunge nel pieno di una discussione interna al Partito Repubblicano decisamente insolita nell’ultimo decennio, relativa cioè alle credenziali conservatrici del presidente della Corte (“Chief Justice”), John Roberts, nominato da George W. Bush nel 2005.

La polemica su Roberts è sintomatica del consolidarsi delle posizioni di estrema destra tra i repubblicani, con riflessi preoccupanti su tutto il panorama politico USA. Il malcontento nei confronti del presidente della Corte Suprema è stato espresso in maniera particolare da vari candidati alla nomination repubblicana, tra cui soprattutto il senatore del Texas, Ted Cruz, e l’ex governatore dell’Arkansas, nonché fondamentalista cristiano, Mike Huckabee.

Inoltre, decine di attivisti conservatori hanno recentemente sottoscritto una lettera aperta del giurista Edwin Meese, già ministro della Giustizia durante la presidenza Reagan, per invitare il prossimo presidente degli Stati Uniti a nominare giudici della Corte Suprema con un orientamento ideologico simile a quello che caratterizza gli attuali membri più a destra della Corte, tra i quali non figura il presidente Roberts.

Per una parte della destra americana, la colpa di quest’ultimo consiste nell’avere votato assieme alla maggioranza della Corte in un caso del 2012 che aveva sostanzialmente confermato la costituzionalità della riforma sanitaria di Obama (ACA). Per il resto, comunque, Roberts può vantare un curriculum all’insegna della reazione, visto che, come ha scritto domenica il Washington Post, negli anni scorsi “ha votato per restringere il diritto all’aborto, smantellare le restrizioni ai finanziamenti delle campagne elettorali, garantire il diritto al possesso di armi…”.

In quella che può essere considerata una Corte Suprema tra le più reazionarie della storia americana, nonostante qualche “successo” attribuito alla minoranza progressista, Roberts “ha mostrato di essere uno dei giudici moderni più impegnati nella difesa dei diritti del business”, mentre è considerato un fermo sostenitore della pena di morte.

Il suo voto a favore della riforma sanitaria non ha in ogni caso rappresentato un gesto progressista o una qualche conversione, ma è stato semplicemente una presa d’atto della natura in gran parte regressiva della legge, salvata perché sostanzialmente gradita a una parte dei grandi interessi economici. Grazie a Obamacare, compagnie assicurative e grandi aziende private possono infatti contare rispettivamente su milioni di nuovi clienti e su una drastica riduzione delle spese sanitarie per i loro dipendenti.

Solo negli ultimi mesi, d’altronde, la Corte Suprema di John Roberts, pur avendo dichiarato legale in tutti gli Stati Uniti i matrimoni gay, ha dato prova della propria natura reazionaria. A partire da giugno, ad esempio, è stata confermata la costituzionalità delle condanne a morte per iniezione letale tramite un sedativo di dubbia efficacia, ha invalidato le regolamentazioni sulle emissioni inquinanti delle fabbriche stabilite dall’Agenzia federale per la Protezione dell’Ambiente (EPA) e ha garantito al governo la possibilità di negare arbitrariamente il permesso di residenza per ragioni di “sicurezza nazionale” a individui che ne avrebbero tutto il diritto, come i coniugi di cittadini americani.

La Corte Suprema guidata da Roberts e da una maggioranza composta di altri tre giudici ultra-conservatori – Samuel Alito, Antonin Scalia, Clarence Thomas – e da Anthony Kennedy, teoricamente centrista ma spesso in sintonia con i colleghi di estrema destra, si appresta così a iniziare un altro anno giudiziario che minaccia di essere segnato da nuovi gravi attacchi ai diritti democratici negli Stati Uniti.

Per cominciare, un nuovo colpo alla separazione tra stato e fede religiosa appare pressoché scontato. Una sentenza del 2014 della stessa Corte Suprema nel caso “Burwell contro Hobby Lobby” ha infatti generato quasi automaticamente un nuovo caso relativo al diritto dei lavoratori dipendenti di ricevere strumenti contraccettivi nell’ambito dell’assistenza sanitaria fornita dai loro datori di lavoro.

Con il parere espresso lo scorso anno, i giudici del supremo tribunale USA avevano ribaltato il principio della libertà religiosa, garantendo a un’azienda privata la facoltà di non rispettare l’obbligo di fornire contraccettivi ai propri dipendenti nel caso in cui i proprietari di essa affermino che ciò vada contro i principi della loro fede.

Il nuovo caso che verrà discusso nei prossimi mesi riguarda organizzazioni e istituti affiliati a una chiesa o a una fede religiosa, come ospedali o università, i quali, grazie alla disposizione dell’amministrazione Obama a piegarsi di fronte al fondamentalismo religioso, possono già negare l’accesso ai contraccettivi per i loro dipendenti, ma sono tenuti a notificare al governo il loro rifiuto. Assurdamente, questa sola condizione violerebbe i loro principi religiosi, anche perché in tal caso sarebbe il governo stesso a garantire il diritto dei lavoratori a una copertura sanitaria completa.

Una questione collegata in parte a quest’ultima che la Corte Suprema prenderà probabilmente in considerazione riguarda poi il diritto all’aborto, ugualmente minato in maniera sensibile negli ultimi anni in America. Una sentenza della Corte Suprema del 1973 (“Roe contro Wade”) riconosce la legalità dell’interruzione di gravidanza come libera scelta finché il feto non sia in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero o, anche di là di questo limite, nel caso in cui sia in pericolo la salute della madre.

Di fronte a questo ostacolo legale, gli oppositori dell’aborto stanno mettendo in atto da qualche tempo una strategia diversa, adottando cioè in vari stati regolamentazioni eccessivamente stringenti che rendono quasi impossibili le attività delle cliniche che praticano le interruzioni di gravidanza.

Molte strutture hanno infatti già cessato le operazioni negli ultimi anni, costringendo soprattutto le donne a basso reddito a rinunciare all’aborto, viste le difficoltà nel sostenere ingenti spese per raggiungere cliniche molto lontane, spesso al di fuori dei confini del loro stato.

La costituzionalità di queste leggi potrebbe essere così giudicata dalla Corte Suprema, la quale dovrebbe discutere quelle approvate in Texas nel 2013. Da allora, in questo stato più grande della Francia quasi la metà delle strutture che praticano aborti ha chiuso i battenti, causando quello che la legge USA considera “un onere eccessivo” per le donne che intendono valersi di un diritto fondamentale riconosciuto.

In un altro ambito, la Corte Suprema potrebbe prendere nuovamente di mira i sindacati, già al centro di attacchi anche in molti stati a maggioranza repubblicana. Nel caso “Friedrichs contro California Teachers Association” verrà messa in discussione una pratica comune fin dal 1977 negli Stati Uniti, secondo la quale, una volta che la maggioranza dei lavororatori del settore pubblico in una determinata categoria o realtà locale scelga di essere rappresentata da un sindacato, quest’ultimo può esigere il pagamento di una quota anche dai non iscritti come riconoscimento dei benefici che essi godono grazie alle trattive contrattuali.

Se più di un membro della Corte vanta un’attitudine marcatamente anti-sindacale, giudici come Roberts o Kennedy potrebbero allinearsi in questo caso con i quattro colleghi “liberal” – Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg, Elena Kagan, Sonya Sotomayor – e assicurare il flusso di denaro a organizzazioni che svolgono sempre più il ruolo di sicuri alleati dei vertici aziendali o, nel caso del settore pubblico, della classe politica.

Molto dibattute in America, infine, sono altre due questioni su cui con ogni probabilità si esprimeranno i giudici. La prima riguarda le modalità con cui delimitare i distretti elettorali. Secondo la pratica corrente, i vari distretti devono avere grosso modo lo stesso numero di abitanti, ma una causa in corso ha messo in discussione questo principio, ipotizzando invece una suddivisione basata sul numero di coloro a cui è riconosciuto il diritto di voto.

La diatriba appare del tutto politica, poiché una revisione delle regole favorirebbe il Partito Repubblicano. Infatti, in questo modo verrebbero penalizzati i distretti più urbanizzati, generalmente più propensi a votare per il Partito Democratico e popolati da un numero consistente di immigrati senza residenza e diritto di voto.

L’altro caso è “Fisher contro University of Texas at Austin”, già considerato nel 2013 dalla Corte Suprema e rinviato ai tribunali inferiori. Qui, a essere messa in discussione è la cosiddetta “affirmative action” in ambito accademico, ovvero quell’insieme di pratiche adottate dalle università per garantire un equilibrio razziale tra i loro iscritti.

Lo scorso anno, una corte d’appello aveva confermato la legittimità dei metodi con cui l’università di Austin, nel Texas, considera la razza come uno dei fattori per decidere l’ammissione di un certo numero di candidati. Il fatto che la Corte abbia deciso di accettare nuovamente il caso potrebbe indicare una volontà di liquidare la “affirmative action”.

A complicare gli scenari, tuttavia, vi è il fatto che tale pratica non ha a che fare soltanto con il razzismo, visto che essa dagli anni Sessanta viene utilizzata dalla classe dirigente americana per cooptare al proprio interno un certo numero di individui soprattutto di colore, così da creare l’apparenza di un sistema che offre chances di successo a chiunque, contenendo di conseguenza le tensioni sociali provocate da una segregazione di fatto ancora presente in molte parti degli Stati Uniti.

di Michele Paris

L’ennesimo gravissimo “danno collaterale” dell’occupazione statunitense dell’Afghanistan è stato registrato nelle primissime ore di sabato contro un ospedale gestito da Medici Senza Frontiere nella località di Kunduz. Nella città settentrionale del paese centro-asiatico da oltre una settimana sono in corso duri combattimenti tra l’esercito di Kabul, le forze di occupazione NATO e i Talebani, i quali erano riusciti a conquistare questo importante centro urbano, il primo dall’invasione del 2001.

In uno scenario raccapricciante che ha ricordato le stragi dell’alleato israeliano a Gaza durante l’aggressione militare dell’estate 2014, l’attacco dell’aviazione militare USA ha assassinato 19 persone presenti nella struttura. 12 vittime risultano essere membri dello staff dell’ospedale, mentre sette sono i morti tra i pazienti, di cui tre bambini. I feriti a seguito del bombardamento, trasferiti in volo a Kabul, sono invece una quarantina.

Di fronte gravità dell’accaduto, i vertici militari americani hanno dovuto subito ammettere la loro responsabilità. Il Pentagono ha fatto però ricorso alle consuete dichiarazioni di circostanza, parlando appunto di “danno collaterale”, avvenuto nel corso di un’operazione che aveva come obiettivo combattenti talebani che “stavano minacciando” l’esercito afghano e le Forze Speciali USA dispiegate a Kunduz.

L’orrore descritto dai sopravvissuti è simile a quello provocato innumerevoli volte dalle azioni contro la popolazione civile da parte delle forze americane e degli altri paesi NATO impegnati in Afghanistan. Alcuni infermieri che prestavano servizio nell’ospedale hanno raccontato di colleghi e pazienti bruciati vivi in seguito agli incendi scatenati dalle bombe.

A sottolineare la criminalità dell’azione americana c’è poi il fatto, riferito da Medici Senza Frontiere, che il bombardamento è continuato per una mezz’ora dopo che le forze armate di Afghanistan e Stati Uniti erano state informate che l’attacco aveva preso di mira un ospedale. Inoltre, la stessa organizzazione umanitaria francese aveva chiaramente fornito le coordinate satellitari relative alla precisa collocazione dell’ospedale e delle strutture annesse.

Dipendenti di Medici Senza Frontiere hanno anche affermato che nell’ospedale non erano presenti Talebani, né avevano notato combattimenti nelle immediate vicinanze. Per un portavoce della polizia di Kunduz, al contrario, alcuni combattenti talebani erano entrati nell’ospedale, utilizzato come postazione di fuoco. Il New York Times, tuttavia, ha riferito che le forze di sicurezza afghane nutrivano da tempo del risentimento nei confronti di Medici Senza Frontiere, poiché nella struttura della città e altrove l’organizzazione presta assistenza ai feriti che combattono da entrambe le parti del conflitto.

Della strage ha dovuto parlare nel fine settimana anche il presidente Obama, il quale ha presentato le proprie condoglianze alle vittime e ha definito l’accaduto un “tragico incidente”. In realtà, l’unico scrupolo è rappresentato dai riflessi negativi tra l’opinione pubblica in Afghanistan e nel resto del mondo per il nuovo massacro indiscriminato di civili condotto da una forza che dovrebbe ufficialmente combattere la barbarie fondamentalista.

Più aderente all’attitudine dei vertici politici e militari americani è stata la reazione del comandante delle forze di occupazione USA in Afghanistan, generale John Campbell. In un comunicato ufficiale, quest’ultimo ha di fatto giustificato l’attacco, poiché portato a termine nel quadro di un’offensiva contro gli “insorti” che, nei pressi dell’ospedale, stavano prendendo di mira soldati americani e afghani.

Episodi come quello registrato sabato a Kunduz non rappresentano semplici “errori”, “incidenti” o tragiche “fatalità” di una guerra giusta. La morte violenta di migliaia di civili provocata direttamente dal fuoco di forze armate che dovrebbero proteggerli o liberarli dalla minaccia dell’insurrezione talebana è invece la logica conseguenza di un’occupazione illegale e di una guerra criminale condotta per motivi riconducibili soltanto agli interessi strategici di Washington.

Allo stesso modo, i livelli di violenza generati dalle politiche legate alla proiezione del potere della classe dirigente USA, sia sul fronte estero ma anche domestico, come dimostra l’ennesima strage in una scuola americana solo poche ore prima dei bombardamenti sull’ospedale di Kunduz, sono inestricabilmente connessi al declino dell’influenza internazionale di questo paese e del suo sistema economico.

L’evoluzione del pianeta verso il multipolarismo comporta una reazione sempre più aggressiva da parte della potenza americana declinante, la quale ricorre in maniera drammaticamente frequente alla forza militare per conservare la propria supremazia nelle aree strategicamente più delicate del globo. Da qui, il ripetersi di interventi militari, con le annesse inevitabili violenze e stragi di civili, condotti in maniera diretta o per procura, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria.

Ciò trova conferma soprattutto in Afghanistan, dove in questi anni si sono susseguiti gli annunci dei ritardi e dei rinvii del ritiro del contingente di occupazione. Le operazioni di combattimento da parte delle forze NATO sono ufficialmente terminate il 31 dicembre 2014, anche se la battaglia in corso per Kunduz sembra smentirlo, mentre il ritiro delle truppe di occupazione americane – a tutt’oggi poco meno di 10 mila – potrebbe slittare addirittura alla fine del 2017.

Alla strage dell’ospedale di Medici Senza Frontiere sono comunque seguite le consuete condanne delle Nazioni Unite, con il Segretario Generale, Ban Ki-moon, che ha peraltro sollevato questioni di opportunità non molto diverse da quelle che stanno con ogni probabilità discutendo i vertici politici e militari americani. L’ex diplomatico sudcoreano ha invitato Washington a valutare come le vittime civili provochino “l’ostilità della popolazione afghana” e mettano a repentaglio “le relazioni con il governo” di Kabul.

Sia Ban Ki-moon che l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, il principe giordano Zeid Ra’ad al-Hussein, hanno chiesto una “indagine imparziale” sulla strage, così come Obama ha fatto riferimento a quella in corso all’interno del Dipartimento della Difesa nel suo intervento pubblico di sabato. In entrambi i casi, come è accaduto puntualmente in passato, qualsiasi sforzo in questo senso risulterà inutile, se non nella misura in cui garantirà, come sempre, l’occultamento delle responsabilità dell’imperialismo a stelle e strisce.


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