di Fabrizio Casari

Il neoliberista Maurizio Macrì, leader di Cambiemos, ha vinto il ballottaggio elettorale contro Daniel Scioli, rappresentante del centrosinistra argentino. Sebbene non si possa parlare di risultato inaspettato, di sovversione dei pronostici, la vittoria di Macrì, divide nettamente in due il Paese, dato del resto confermato da uno scarso 3% di differenza numerica nell’affermazione elettorale. Macrì, inoltre, non godrà nemmeno di una maggioranza nei due rami del Parlamento, che restano al centrosinistra, e avrà quindi dei margini di manovra limitati, pur essendo ampi i poteri della presidenza.

Figlio di immigrati italiani calabresi, Macrì è l’uomo che c’ha messo la faccia, ma il disegno politico, il denaro e le alleanze che hanno reso possibile la su vittoria vengono dai settori interni ed esteri in nome e per conto dei quali il nuovo presidente di origine italiana dovrà governare. Interessi che hanno nomi e cognomi, a cominciare dagli Stati Uniti, passando per i grandi gruppi editoriali e industriali argentini e le lobbies finanziarie statunitensi.

La vittoria di Macrì, pur se scarna, è per gli Stati Uniti di fondamentale importanza, perché l’Argentina è stata uno dei due giganti latinoamericani (insieme al Brasile) che ha dato vita al rifiuto dell’ALCA, al processo di democratizzazione del continente ed alla fine dell’assoggettamento di esso alla volontà politica della Casa Bianca, divenendo uno dei protagonisti del processo d’integrazione latinoamericana.

Gli Stati Uniti ritengono che possa cominciare da Buenos Aires la rincorsa della destra latinoamericana, che vede nel voto argentino l’inizio della marcia verso il revanscismo continentale, che nei piani di Washington dovrebbe proseguire con la crisi degli organismi comunitari, attori principali dell’integrazione latinoamericana. Obiettivo da perseguirsi attraverso la cacciata dei governi progressisti, dal Brasile alla Bolivia, dall’Ecuador fino al Venezuela.

A breve termine Washington e i suoi alleati ritengono di poter bissare il successo argentino con le prossime elezioni parlamentari in Venezuela, puntando sulle difficoltà economiche del governo di Nicolas Maduro e ritenendo di poter incassare il risultato di due anni di golpismo strisciante, violenza e accaparramento, menzogne e propaganda, paramilitari e speculatori impegnati a distruggere l’opera politica e sociale del governo bolivariano in favore degli ultimi.

Non a caso, per cominciare bene, Macrì ha lanciato minacce alla Bolivia di Evo Morales e al Venezuela di Maduro. Per quest’ultima ha chiesto addirittura l’esclusione dal Mercosur, indicandola colpevole di violare i diritti umani. L’applicazione della “clausola democratica” invocata da Macrì ha bisogno però del voto unanime del Mercosur e già l’Uruguay ha fatto sapere che non se ne parla nemmeno, figuriamoci gli altri membri. Dunque Macrì non ha ancora ricevuto l’investitura ma ha già preso la prima sberla. Non sarà l’unica: l’uomo è tutto meno che un genio della politica.

In una replica più ampia, chiede sanzioni al Venezuela per mancato rispetto dei diritti umani, ma non tiene conto che il governo di Caracas è stato da poco nominato membro del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite con il voto di 131 paesi su 192. Tutti accecati dal chavismo? Del resto, a chiarire meglio l’idea che Macrì ha dei diritti umani, vi è la proposta di chiudere con una generale amnistia nei processi ai militari che si macchiarono di ogni atrocità per tenere in piedi la dittatura genocida guidata da Videla.

A fargli eco, con scarso tempismo, non appena saputo della vittoria di Macrì, un editoriale del quotidiano La Naciòn ha già chiesto di porre fine ai processi, suscitando il ripudio generale ma fornendo, al contempo, un’idea chiara di come i finanziatori occulti del nuovo presidente sono già in fila a chiedere la restituzione del dovuto.

Il fatto è che Macrì riceve indicazioni dagli avanzi del golpismo di mezzo continente, tra cui spiccano i paramilitari colombiani legati ad Uribe e la destra brasiliana, che vedono nel ritorno delle dittature militari l’unica possibilità di resurrezione per una destra xenofoba e mercantilista a chiare tinte nazistoidi. A completare il quadretto degli orrori c’è poi una consigliera particolare, la moglie di Leopoldo Lopez, leader golpista dell’ultra destra venezuelana giudicato e condannato a Caracas per aver organizzato le guarimbas che misero a ferro e fuoco il Venezuela nel Febbraio del 2014 e dove vennero uccisi uomini delle forze dell’ordine e civili.

Ma dietro a questi comprimari c’è, come sempre c’è stata, la politica statunitense. A ben vedere, nella scelta di utilizzare alleati impresentabili, Obama non si dimostra diverso dai suoi predecessori. Pur avendo avuto l’occasione storica di aprire una nuova stagione nelle relazioni continentali, ha preferito associare come sempre gli USA a una destra fascistoide e razzista, che addirittura attraverso alcuni suoi esponenti europei come Aznar, gli ha dettato l’agenda politica nel continente.

L’obiettivo finale è ambizioso: sconfiggere i governi progressisti e riportare così le lancette della storia indietro di 12 anni, per chiudere con la stagione dell’integrazione latinoamericana, con le politiche economiche e sociali che hanno ridotto enormemente la forbice sociale nel continente e che grazie alle politiche keynesiane lo hanno tenuto al riparo dalla spaventosa crisi finanziaria che ha colpito USA ed Europa. Un continente con meno fame e molta più uguaglianza, infatti, non produce la disperazione e l’obbedienza utile a mercati di riserva.

Va quindi ridisegnato in chiave di sottomissione se si vogliono ripristinare le politiche turbo-liberiste, soddisfacendo così le ansie speculative della finanza internazionale e la sete di potere delle combriccole della destra continentale, che per compiacere i suoi padroni statunitensi e raccogliere le briciole che cadono dalle loro tavole, prepara le condizioni per la ripresa di un mercato nel quale scaricare le eccedenze di mercato statunitensi che hanno bisogno di difendersi dalle conseguenze finanziarie di una nuova crisi finanziaria globale alle porte.

L’Argentina è il laboratorio per eccellenza del ritorno al passato, simbolicamente incarnato dalla postura golpista delle formazioni di destra che, dentro l’Argentina e nel resto del continente, vedono la vittoria di Macrì come una loro vittoria, l’inizio della loro vendetta. Ciononostante Macrì non avrà un cammino facile. L’intenzione di abbandonare l’Alba e Unasur per consentire l’ingresso nell’Alleanza del Pacifico e riportare il Mercosur sotto l’influenza della UE sarà un processo complesso il cui esito è tutt’altro che certo, visti i rapporti di forza parlamentari.

E anche sul piano interno le cose non appaiono semplici. Il tentativo di rimettere l’economia in mano alle lobbies che, internamente ed esternamente sono pronte a divorarsi di nuovo il Paese, sarà irto di difficoltà. L’intenzione annunciata di sostanziale rivisitazione delle riforme sociali impulsate dal kirchnerismo, che hanno portato innumerevoli benefici agli strati più umili della popolazione, troverà certamente un dura opposizione dalla metà del paese che non vuol vedere rientrare dalla finestra il darwinismo sociale uscito dalla porta.

Macrì non potrà eliminare le politiche di assistenza senza pagare un duro prezzo, così come non potrà regalare agli speculatori le imprese strategiche nazionalizzate dal peronismo kirchnerista. Proprio pochi giorni fa, prudentemente, è stata approvata una legge che prevede la cessione di rami strategici dell’economia nazionale ai privati solo con il voto favorevole dei due rami del Parlamento, nessuno dei quali Macrì controlla.

Certo, si deve riconoscere che il Paese esprimeva segnali evidenti di stanchezza. Ci si aspettava una sconfitta persino più ampia del centrosinistra. Non solo le difficoltà della congiuntura mondiale e il carico di problemi economici strutturali del Paese, ma anche le scelte di politiche progressiste in economia, hanno contribuito all’identificazione con la destra delle classi medie e alte; che vivono sognando il modello americano e rimpiangendo di non essere nati al nord del Rio Bravo e vedono le politiche sociali come la peggiore delle minacce ai loro privilegi.

Le politiche d’inclusione sociale, del resto, drenano risorse pubbliche importanti sottraendole ai potenziali bacini di business, colpendo così la media e grande imprenditoria, che quindi scatena tutto l’odio sociale ed ideologico di cui dispone trasformando la vita politica del Paese in un ring dove sferra l’offensiva senza esclusione di colpi.

Finisce, comunque, l’era del kirchnerismo. Che, nonostante il susseguirsi di governi che hanno incontrato il favore della maggioranza degli argentini, non è stato in grado di proiettare la sua opera politica otre il limite dei mandati presidenziali esercitati da Cristina, di incarnare un progetto di trasformazione che andasse più in là della sua leadership. Questo è stato certamente un limite strutturale del kirchnerismo, come del resto lo fu del peronismo. Per ora, quindi, la destra purulenta e golpista festeggia. Si tratta di capire se e quanto durerà.

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