di Mario Lombardo

La resa dei conti nel partito conservatore di governo australiano ha portato questa settimana alla rimozione del primo ministro, Tony Abbott, in seguito a un voto di sfiducia interno che era nell’aria da tempo. Da mesi, infatti, Abbott, è sotto il fuoco degli ambienti finanziari e del business indigeni e internazionali per non essere stato in grado di mettere in atto le misure promesse di liberalizzazione dell’economia in un momento di crescente affanno del sistema australiano basato sull’export delle risorse del sottosuolo.

A richiedere un voto sulla leadership del Partito Liberale, come è relativa consuetudine per le formazioni politiche australiane, era stato nella mattinata di lunedì l’ex ministro delle Comunicazioni, Malcolm Turnbull, evidentemente dopo essersi assicurato il sostegno della maggioranza dei colleghi parlamentari.

Pressoché contemporaneamente, il ministro degli Esteri e numero due dei Liberali, Julie Bishop, aveva di fatto sottratto il proprio appoggio al premier, costringendo quest’ultimo a scegliere tra rassegnare le dimissioni e indire un voto sulla mozione presentata da Turnbull.

Alla fine, Abbott ha annunciato il voto per la serata di lunedì e Turnbull ha prevalso con 54 voti a favore e 44 contrari, diventando poche ore più tardi il 29esimo primo ministro della storia australiana e il quinto in poco più di cinque anni. Il cambio al vertice del partito di governo è solo l’ultimo di una lunga serie in questi ultimi anni e testimonia della profonda instabilità del sistema parlamentare australiano.

Nel 2010, il primo ministro laburista, Kevin Rudd, era stato estromesso dopo una mozione interna al partito presentata da uno dei suoi ministri, Julia Gillard, in collaborazione con un’amministrazione Obama preoccupata per le timide “aperture” del premier alla Cina. Tre anni più tardi, per cercare di arginare il crollo dei consensi dei laburisti, la leadership del partito avrebbe invece reinstallato Rudd con un nuovo colpo di mano a spese della stessa Gillard.

Se Turnbull nella sua prima apparizione al Parlamento di Canberra ha avuto parole di elogio per il suo predecessore, dopo il voto di sfiducia Abbott ha denunciato le manovre di “destabilizzazione messe in atto per molti, molti mesi” ai danni del suo governo. L’ex primo ministro, pur non facendo nomi, aveva in mente i media e i membri del suo partito preoccupati per la persistente paralisi dell’attività di governo.

In particolare, un piano di bilancio all’insegna dei tagli alla spesa pubblica è fermo da tempo in Parlamento a causa dell’impopolarità delle misure previste. Le iniziative già adottate dal governo di coalizione - formato dal Partito Liberale e dal Partito Nazionale Australiano - e la crisi economica hanno nel frattempo fatto lievitare l’ostilità della maggioranza della popolazione verso l’esecutivo, come hanno testimoniato nel recente passato alcuni test elettorali a livello locale.

A gettare sull’orlo della recessione un’economia come quella australiana che aveva superato in maniera relativamente indenne la crisi mondiale scoppiata nel 2008 è stato sostanzialmente il rallentamento della Cina, di gran lunga il primo mercato delle esportazioni derivanti da un’attività estrattiva fino a poco tempo fa in piena espansione.

Come accaduto in praticamente ogni altro paese del pianeta interessato dalla crisi economica, anche in Australia la classe dirigente e i grandi interessi economico-finanziari hanno iniziato a chiedere interventi efficaci per far fronte alla nuova situazione, in primo luogo attraverso misure gravemente penalizzanti per lavoratori e classe media.

Sui principali giornali australiani, soprattutto quelli detenuti da Rupert Murdoch, la frustrazione delle élite domestiche è evidente da tempo. In molti chiedevano infatti una scossa al governo o elezioni anticipate. Lo scorso febbraio, d’altra parte, Abbott era sopravvissuto a un’altra mozione di sfiducia interna al Partito Liberale, anche se già allora era chiaro il crescere dell’opposizione alla gestione del primo ministro, in carica solo dal settembre 2013.

Vista la situazione, non è una sorpresa che il neo-premier Turnbull abbia subito dichiarato di volere dedicarsi principalmente alle questioni economiche, minacciando “riforme” che, nel linguaggio orwelliano tipico dei leader politici occidentali, dovrebbero “assicurare la nostra prosperità negli anni a venire”.

Nonostante la composizione del nuovo governo sarà decisa solo nei prossimi giorni, non è un caso nemmeno che la stampa australiana stia dando per scontata la sostituzione del ministro delle Finanze, Joe Hockey, da molti identificato come il principale responsabile, oltre al primo ministro, della mancata implementazione delle misure di austerity.

Nella giornata di martedì, Turnbull si è comunque assicurato il continuo sostegno del Partito Nazionale e, secondo i media locali, starebbe studiando alcune misure populiste di facciata rivolte alle famiglie coi redditi più bassi e agli studenti.

Il tempo a disposizione del nuovo governo di Canberra è tuttavia molto limitato, visto che la legislatura in corso scadrà tra un anno e i numeri del Partito Liberale appaiono tutt’altro che incoraggianti.

Allo stesso tempo, l’opposizione del Partito Laburista, al potere dal 2007 al 2013, è ancora largamente screditata, così che parecchi tra i Liberali si augurano che una figura come Turbnull possa riuscire a invertire la rotta per il partito.

Il neo-premier, ex giornalista e banchiere d’investimenti multimilionario, è accreditato di posizioni relativamente progressiste su alcune questioni diverse dall’economia. Turnbull, al contrario di Abbott, non è ad esempio negazionista in merito al cambiamento climatico ed è favorevole ai matrimoni gay.

Anche per questa ragione, perciò, il nuovo primo ministro australiano potrebbe essere stato scelto dai poteri forti del paese dell’Oceania per far digerire le misure di ristrutturazione economica che essi reputano inevitabili e che Abbott non ha avuto la forza politica di mettere in atto in questi due anni di governo.

di Michele Paris

La vittoria di Jeremy Corbyn nella corsa alla leadership laburista in Gran Bretagna, anche se prevista nelle ultime settimane, è giunta come una valanga sulla maggioranza “centrista” e vicina a Tony Blair dei vertici del partito. I risultati della sfida, annunciati ufficialmente qualche giorno fa, hanno rivelato in maniera incontrovertibile il profondissimo senso di alienazione dal sistema politico d’oltremanica sentito dalla gran parte della popolazione.

Allo stesso tempo, i tentativi di leader e burocrati del partito di provare a impedire un esito praticamente mai in discussione con tattiche di dubbia legalità e di sicura inopportunità democratica hanno mostrato ancora una volta il divario incolmabile tra la politica ufficiale e i bisogni e le aspirazioni dei lavoratori e della classe media britannica.

L’improbabile ascesa di un relativamente oscuro deputato laburista alla guida di uno dei due principali partiti della Gran Bretagna è stata resa materialmente possibile in primo luogo da una recente modifica delle norme che regolano le procedure di voto e da un colossale errore di valutazione di alcuni suoi leader.

Allo scopo di rinvigorire un partito screditato da decenni di costante spostamento a destra e scosso dalla sconfitta elettorale del mese di maggio, il Partito Laburista aveva deciso di garantire la possibilità di votare per il proprio nuovo leader a chiunque avesse pagato la somma simbolica di tre sterline. Così facendo, centinaia di migliaia di persone hanno intravisto e colto al volo la possibilità di mandare un chiarissimo messaggio a una leadership fissata sul perseguimento di politiche “centriste”, pro-business e, in politica estera, irrimediabilmente appiattite sulle posizioni dell’imperialismo americano.

La candidatura di Corbyn, poi, era scaturita dall’appoggio ottenuto da 36 deputati laburisti, cioè appena uno in più del numero necessario a consentire a un membro del partito di correre per la leadership, la metà dei quali non faceva parte dell’ala sinistra del partito. La loro decisione era stata determinata da considerazioni di opportunità, poiché essi ritenevano che la partecipazione di Corbyn alla competizione interna per il ruolo di leader avrebbe potuto beneficiare il “Labour”, dando cioè l’impressione dell’apertura del partito a tutti gli orientamenti.

Soprattutto, per alcuni, la presenza di un candidato di “estrema sinistra” come Corbyn, e la sicura sconfitta a cui sarebbe dovuto andare incontro, sarebbero state utili a dimostrare l’esiguità di un elettorato “radicale” in Gran Bretagna, così da giustificare la prosecuzione di politiche neo-liberiste da parte del partito.

Questa previsione è stata però completamente demolita dalla realtà di un voto che ha registrato un sostegno massiccio per l’agenda progressista e anti-austerity di Corbyn, il quale ha ottenuto quasi il 60% dei consensi, vale a dire più di quanto raccolto complessivamente dai suoi tre sfidanti. L’umiliazione più pesante è stata inflitta alla candidata maggiormente identificata con la corrente facente capo a Blair, Liz Kendall, finita ultima con appena il 4,5% dei voti, dietro a Andy Burnham (19%) e Yvette Cooper (17%), entrambi ex membri del governo di Gordon Brown (2007-2010).

Questo risultato ha anche smentito clamorosamente l’interpretazione condivisa da media e commentatori “mainstream” sulle sfortune del Labour, sconfitto sonoramente nelle ultime elezioni a causa delle posizioni eccessivamente di “sinistra” promosse dall’ormai ex leader, Ed Miliband.

Da questo singolare punto di vista, dopo cinque anni di devastazione sociale imposta dal governo Cameron gli elettori avrebbero punito i laburisti per non avere incluso nel loro programma, tra l’altro, ulteriori tagli alla spesa pubblica e una politica estera ancora più aggressiva. Come appare evidente, una simile logica manca di spiegare come l’agenda di Corbyn abbia potuto avere un tale successo tra coloro che hanno votato per la leadership del Partito Laburista.

Con lo stesso atteggiamento, i giornali anglo-sassoni in questi giorni hanno in gran parte giudicato un grave errore l’elezione di Corbyn, visto che un leader che promuova politiche anti-austerity e relativamente pacifiste non può che trascinare nel baratro il Labour.

Dai media vicini ai laburisti come il Guardian a quelli filo-conservatori, come il Financial Times che ha definito “disastrosa” la scelta del Labour, il panorama britannico ha visto un coro di critiche più o meno velate al nuovo numero uno del partito, la cui vittoria lascerebbe presagire una lunga permanenza dei conservatori al governo.

Parallelamente, il Labour potrebbe andare incontro a una vera e propria spaccatura, come confermerebbero i malumori espressi dall’ala moderata del partito e le rinunce da parte di alcuni leader a occupare cariche nel nascente governo ombra di Corbyn.

Ciò che risulta interessante nel valutare le reazioni della stampa ufficiale è l’indifferenza nei confronti dei sentimenti degli elettori. Infatti, nonostante tre votanti su cinque abbiano espresso il proprio appoggio a politiche progressiste e la loro contrarietà alla deriva conservatrice del Labour, l’esito dell’elezione non rispecchierebbe la vera disposizione del paese, fissato piuttosto, come la sua leadership, su misure ultra-liberiste o poco meno.

In realtà, molte delle proposte su cui Corbyn ha fatto campagna elettorale sono condivise dalla maggioranza della popolazione e, per moltissimi, non risultano affatto “radicali”: dalla nazionalizzazione delle ferrovie all’opposizione della privatizzazione del sistema sanitario, dall’ostilità alla NATO all’aumento della spesa per il welfare.

Anche per un giornale di tendenze teoricamente progressiste come il Guardian, le idee promosse da Corbyn sarebbero però residuati degli anni Settanta, a conferma di come ciò che passa per dibattito politico ufficiale in Gran Bretagna come altrove sia dominato dagli interessi di una classe ben precisa e di quanto sia difficile tracciare un percorso alternativo all’austerità, allo smantellamento dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori.

Il successo di Jeremy Corbyn rappresenta ad ogni modo una tendenza non limitata alla Gran Bretagna. Il trionfo di Syriza nelle elezioni di inizio anno in Grecia, l’ascesa nei sondaggi di Podemos in Spagna e l’entusiasmo generato dal senatore indipendente Bernie Sanders in vista delle primarie democratiche negli Stati Uniti indicano una repulsione generalizzata per le politiche a senso unico perseguite dalla classe politica occidentale e propagandate come le uniche percorribili da parte dei media ufficiali.

Che vi sia un appetito diffusissimo tra le popolazioni di tutti i paesi per una politica svincolata dai poteri forti, quando non addirittura alternativa al capitalismo in crisi terminale, non signifca però che il cambiamento possa giungere attraverso movimenti relativamente nuovi e senza esperienza di governo - come conferma il voltafaccia di Syriza sull’austerity nell’ambito della trattativa con l’Unione Europea - o per mezzo di organi ampiamente screditati e del tutto allineati al neo-liberismo e all’imperialismo di Londra e Washington come il Partito Laburista in Gran Bretagna e il Partito Democratico negli Stati Uniti.

Anzi, candidature o successi come nel caso di Corbyn o di Sanders possono nascondere manovre delle classi dirigenti per impedire una mobilitazione indipendente su diverse basi ideologiche e veicolare il malcontento popolare e le tensioni sociali verso un canale sicuro, rappresentato da partiti che, in fin dei conti, hanno come riferimento quelle stesse élites il cui dominio sulla società si vorrebbe vedere allentato.

di Fabrizio Casari

Un altro muro, a completare la recinzione della fortezza ariana nella sua versione magiara, sembra dipingere con pennellate di vergogna l’ultimo quadro del Vecchio Continente. Qui non si tratta più di politiche inclusive o esclusive nei confronti dei migranti, nemmeno di governance obbligata per quanto difficile. Si tratta di una concezione xenofoba che sull'identità religiosa e su una (presunta) identità etnica costruisce un programma pericoloso per la convivenza europea.

L’odio razziale che la sottocultura del fascista Orban eleva a linea politica, apre interrogativi non più rinviabili nel seno europeo. L’Europa che ci viene proposta nella sua rappresentazione giuridica e politica, ovvero l’Unione Europea, non è certo uno spettacolo che scalda i cuori.

La prematura scomparsa degli elementi culturali che l’avevano disegnata - dall’identità politica al modello socioeconomico - è da tempo evidente e la riduzione dell’Europa ad un consorzio finanziario a guida tedesca è un fatto difficilmente contestabile. Ma nella gestione dei flussi migratori emerge però prepotentemente una Europa che dimostra come il sistema di valori, l’identità e persino l’anima culturale sulla quale era stata concepita sono ormai alla deriva.

S’avanza una Europa nera, che dipinge gli equilibri politici e la stessa identità continentale a tinte fosche. E il paradosso della vicenda profughi ed immigrati è che i paesi dell’Est, in particolare Polonia e Bulgaria, hanno letteralmente invaso il resto d’Europa con centinaia di migliaia di migranti.

Allora chiedevano, giustamente, aiuti e comprensione; oggi, che pensano di essere diventati paesi autosufficienti, offrono marchiature e muri a chi fugge dai rispettivi inferni. L’Ungheria governata dal fascista Orban, cui è addirittura toccato un semestre di presidenza Ue appena prima dell’impalabile semestre italiano, non rappresenta però un caso isolato, una sorta di unicità negativa che l’insieme dei 28 paesi che compongono la Ue può permettersi di giudicare alla stregua di un fenomeno locale o temporaneo.

Certo la storia dell’Ungheria è nera come il carbone ed è certamente diversa da quella polacca o Ceka, ma il propagarsi rapido dell’ideologia totalitaria in tutta l’Europa dell’Est rende impossibile sottovalutare o circoscrivere il problema. Alla rivendicazione di una improbabile razza magiara, Budapest fa seguire i fatti. Lo spaccio di oltre 800.000 passaporti ungheresi in quelli che considera territori perduti in Slovacchia, Romania e Ucraina, crea allerta.

La Nato ritiene che Orban provi a insediare quinte colonne etniche nei paesi Baltici per chiedere domani modifiche alle frontiere. Basterebbe che la Commissione Europea si rivolgesse al Comando Nato nella stessa Bruxelles per avere valutazioni circa la pericolosità del premier fascista ungherese.

E nell’opera di revisione di quanto fatto finora sarebbe bene anche considerare finalmente con uno sguardo diverso lo stesso governo ucraino, certo non privo d’identità nazistoidi al suo interno, invece che di proseguire nelle sanzioni contro Mosca che, pur con tutti i suoi errori e crimini, come già in altri passaggi storici - dall’Afghanistan alla Siria - si oppone sola alle derive iperpoliticiste dell’Occidente, che per interessi geostrategici crea e difende milizie e governi orrendi che successivamente gli si rivoltano contro con tutta la loro pericolosità.

A meno di non voler sostenere che l’unica condizione per la presenza nella Ue sia l’applicazione delle dottrine monetariste, la Polonia in mano a Duda, la Repubblica Ceka dell’antieuropeista ad alto tasso etilico Zeman, la Slovacchia di Fico (che ha l‘ardire di definirsi socialista), come la Bulgaria del corrotto Ponta, rappresentano un problema di natura politico - e dunque sistemico - che Bruxelles non può fingere d’ignorare.

Vi è insomma una parte consistente dell’Europa dell’Est dai tratti xenofobi e fascisti che non può più essere considerata compatibile con ll’Unione Europea. La cosiddetta “svolta” del 1989 è ora chiara a tutti. La comune caratteristica degli ex paesi del blocco orientale a guida sovietica sembra, a posteriori, voler dare ragione a chi la vedeva come una minaccia più che una promessa.

Non bastano certo le minacce di procedure d’infrazione, ovvero multe che non verranno mai riscosse, ad affrontare con la giusta determinazione il problema. E nemmeno la minaccia di sanzioni semplici da aggirare e che nessuno rispetterebbe, servirebbero a lavare la coscienza dell’Ue, che ama spacciarsi come centro della cultura multietnica e baluardo della democrazia internazionale.

Il blocco dell’ultradestra europea si caratterizza infatti per l’odio razziale contro l’immigrazione e per la repressione spietata verso le opposizioni interne, che quasi ovunque vede anche la versione giuridica nell’impedimento legale alla formazione di partiti comunisti o di sinistra che dir si voglia.

Non sono fascisti perché marchiano gli immigrati: marchiano gli immigrati perché sono fascisti e, in quanto tali, per passato e presente, incompatibili con il consesso civile. L’Unione Europea deve aprire una fase nuova, cominciando a dire con chiarezza che non può far parte della UE chi applica politiche razziste e repressive al suo interno.

Che non può continuare a partecipare ad una identità politica europea chi nega i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta Internazionale delle Nazioni Unite e dalla Carta dei Diritti dell’Uomo, oltre che dallo statuti fondativi della stessa Unione Europea.

Sarebbe un buon sistema per inviare un messaggio anche alle forze più reazionarie che, accucciate come avvoltoi in attesa dell’occasione giusta, minacciano anche dall’interno l’identità democratica degli stessi paesi fondatori dell’Unione.

Diceva Bertold Brecht che la sconfitta del nazismo non doveva generare illusioni, perché “sebbene la bestia sia stata annientata, il ventre che la concepì è ancora gravido”. Parole profetiche quelle del grande drammaturgo.

La minaccia dell’onda nera appesta di nuovo il centro del Vecchio Continente e l’affermarsi in molti paesi delle destre xenofobe, nostalgiche del nazismo, rischia di trasformare di nuovo l’Europa da soluzione del problema a problema senza soluzione. Già una volta la storia ha dimostrato che ad esitare la si paga cara. La conoscenza dei corsi e ricorsi vichiani dovrebbero spingere a non ripetere l’errore.


di Michele Paris

Il governo islamista turco del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) sta intensificando le operazioni militari nel sud-est del paese contro i guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). L’escalation registrata in questi giorni è la conseguenza di almeno due attentati condotti dal PKK a inizio settimana che avevano provocato la morte di una trentina tra soldati e poliziotti turchi.

Per la prima volta da due anni a questa parte, truppe di terra dell’esercito di Ankara sono entrate anche in territorio iracheno per colpire i militanti curdi sui monti Qandil. L’intervento di oltre 200 membri delle forze speciali turche e i bombardamenti dei velivoli militari F-4 e F-16 hanno ucciso almeno 40 combattenti del PKK martedì e, secondo l’agenzia di stampa ufficiale Anadolu, altri 100 sarebbero stati eliminati nella sola giornata di mercoledì.

La ripresa delle ostilità dopo più di due anni di tregua tra il governo e il PKK è dovuta al tracollo del processo di pace in seguito a un attentato curdo contro la polizia turca nel mese di luglio. La decisione dei vertici del PKK di riprendere le armi era stata adottata come rappresaglia per un altro attentato nella città di Suruç, avvenuto qualche giorno prima, nel quale furono uccisi 33 simpatizzanti della causa curda. L’atto terroristico era stato attribuito allo Stato Islamico (ISIS) ma per il PKK la strage era stata quanto meno favorita dal governo di Ankara.

Il riesplodere del conflitto ha così gettato la Turchia nel caos. In molti ritengono che il presidente, Recep Tayyip Erdogan, abbia alimentato deliberatamente le tensioni nel paese dopo la delusione elettorale patita dal suo partito nel mese di giugno. In quell’occasione, l’AKP aveva perso la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento e i leader dei vari partiti non sono riusciti a dare vita a un governo di coalizione.

Erdogan ha allora indetto un’altra tornata elettorale per il prossimo primo novembre, nel tentativo di recuperare i consensi perduti a beneficio soprattutto del Partito Democratico Popolare curdo (HDP), entrato per la prima volta nel Parlamento di Ankara.

Mettendo ancora una volta gli interessi del suo partito e delle classi che lo sostengono al primo posto, Erdogan ha cercato di stimolare i sentimenti nazionalisti e anti-curdi nella popolazione dopo avere sostanzialmente provocato la ripresa della guerra con il PKK, così da convincere gli elettori della necessità di un governo forte monocolore dell’AKP per stabilizzare la Turchia in un momento di crisi domestica e regionale.

La strategia del presidente, oltre a mettere a ferro e fuoco le regioni sud-orientali della Turchia, ha provocato il risveglio di forze reazionarie talvolta violente, come confermano le recenti manifestazioni in varie località del paese che hanno preso di mira cittadini curdi e organi di stampa non allineati al governo.

In particolare, martedì un gruppo di dimostranti ha preso d’assalto il quartier generale dell’HDP ad Ankara prima di essere disperso dalla polizia, mentre per due notti consecutive a inizio settimana a finire sotto attacco era stato un edificio che ospita il quotidiano Hurriyet, sempre nella capitale. Una di queste ultime incursioni era stata guidata dal parlamentare dell’AKP, Abdürrahim Boynukalin, presidente della sezione giovanile del partito di Erdogan.

Lo stesso presidente aveva indicato indirettamente Hurriyet come un possibile bersaglio delle proteste nel corso di un intervento pubblico. Erdogan aveva cioè denunciato un articolo del giornale di tendenze secolari che riportava in maniera critica una dichiarazione del presidente nella quale sosteneva che, se l’AKP avesse ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni di giugno, la Turchia sarebbe stata risparmiata dall’attuale ondata di violenze.

Un giro di vite sulla libertà di stampa è inoltre un’altra delle conseguenze delle manovre promosse da Erdogan. A parte Hurriyet, le testate più colpite sono quelle che fanno parte del gruppo Akin Ipek, vicino al predicatore auto-esiliato negli USA, Fethullah Gülen, ex alleato e ora nemico giurato di Erdogan.

In un recente discorso pubblico, il presidente si è scagliato esplicitamente contro i mezzi di stampa critici del governo, accusandoli di “demoralizzare e confondere” la popolazione e di “favorire il terrorismo” in un momento in cui le “forze di sicurezza stanno combattendo con sacrificio”.

A motivare le operazioni contro il PKK non sono però soltanto considerazioni elettorali, bensì anche altre legate alla situazione mediorientale. Erdogan e il primo ministro, Ahmet Davutoglu, vedono con estrema apprensione gli sviluppi della guerra in Siria, soprattutto in relazione all’avanzata delle formazioni curde, in grado di creare una zona autonoma de facto nel nord di questo paese.

Ankara teme che ciò possa favorire le spinte autonomiste o, peggio ancora, indipendentiste dei curdi in territorio turco. Da qui la necessità di colpire il PKK. Le operazioni contro i curdi sono state avallate dagli Stati Uniti, dopo che Washington ha ottenuto dalla Turchia la possibilità di accedere alle proprie basi militari e l’impegno - sia pure più nominale che effettivo - di partecipare alla guerra contro l’ISIS in Siria e in Iraq.

Sul fronte interno, il progetto politico di Erodgan prevede invece la trasformazione dell’attuale sistema parlamentare in un presidenzialismo con egli stesso alla guida per un lungo periodo senza troppi vincoli costituzionali. Su questo progetto Erdogan aveva scommesso tutto lo scorso anno, lasciando la guida del governo per candidarsi alla presidenza.

Per cambiare la Costituzione, l’AKP deve però tornare a disporre di un’ampia maggioranza in Parlamento. Anche a questo scopo, come aveva fatto prima delle elezioni di giugno, Erdogan sta partecipando attivamente alla campagna elettorale del suo partito, nonostante il ruolo super partes attribuito all’ufficio del presidente in Turchia.

I calcoli di Erdogan potrebbero però saltare completamente visto il rapido deteriorarsi della situazione nel paese. Alcuni sondaggi diffusi nei giorni scorsi indicano infatti un ulteriore calo dei consensi per l’AKP, mentre l’HDP, che Erdogan vorrebbe ricacciare al di sotto dell’assurda soglia di sbarramento del 10% prevista dalla legge elettorale turca, appare in ascesa.

Con l’economia ugualmente in caduta libera, le opzioni per Erdogan e il governo islamista potrebbero perciò ridursi a un ulteriore deliberato inasprimento del conflitto con il PKK e un maggiore impegno per rovesciare il regime di Assad in Siria, oppure a un colpo di mano per cancellare o rimandare il delicatissimo appuntamento con le urne.

di Jacopo Risdonne

La rivincita della solidarietà. Una scintilla di umanità illumina il cielo d’Europa. 12mila islandesi (a fronte di una popolazione di 330mila) scavalcano il muro dell’indifferenza europea e chiedono al governo di rivedere la disponibilità ad ospitare solo un massimo di 50 rifugiati siriani. I cittadini aderiscono ad una petizione lanciata su Facebook e spalancano le porte delle proprie case ai “futuri amici, sposi, colleghi”. La solidarietà, spesso assopita negli angoli più remoti del Vecchio Continente, sembra dunque risvegliarsi da un lungo sonno. Ancora in letargo quella della Lega.

È una guerra umanitaria. Non una di quelle che si combattono a suon di colpi di mitragliatrice, per una pace insaguinata. Ma una di quelle che distruggono barriere - invisibili e non - erette tra popoli, tra esseri umani. Il primo mattone è stato buttato giù dalla scrittrice e professoressa Bryndis Bjorgvinsdottir. Il suo appello, lanciato su Facebook sottoforma di una lettera aperta indirizzata al Ministro del Welfare islandese, è stato accolto da migliaia di famiglie. E gli altri mattoni del muro son venuti giù da soli, al grido di “solo perchè non sta accadendo qui, non significa che non stia accadendo.”

Migliaia di braccia aperte sono pronte ad accogliere chi ne ha bisogno e brancola nel buio dell’indifferenza; chi non cerca caritá ma vita. Migliaia di chilometri, quelli che separano Reykjavik da Damasco, si sgretolano sotto i colpi dei messaggi che gli abitanti della remota isola hanno trasmesso: “Sono una madre single. Possiamo prendere in casa un bambino che ha bisogno. Sono un’insegnante e vorrei insegnare al bambino a parlare, leggere e scrivere islandese, ed aiutarlo ad inserirsi qui. Abbiamo vestiti, un letto, giocattoli e tutto ciò di cui un bambino ha bisogno. Naturalmente vorrei pagare il biglietto aereo”; “ho una stanza in più in un appartamento spazioso e sono più che contenta di condividerlo. Insieme al mio tempo e al mio sostegno”.

Il vento islandese soffia contrario. L’onda xenofoba, quella malcelata dalla retorica degli alti ranghi della politica europea, si infrange sul muro della solidarietà. “I rifugiati sono risorse umane, esperienza e capacità. I rifugiati sono i nostri prossimi sposi, migliori amici, anime gemelle, o i batteristi della band dei nostri figli, i nostri colleghi o miss Islanda 2022, l’idraulico che ci sistemerà il bagno o il pompiere”.

Le parole recitate dalla petizione fanno breccia nel governo di Reykjavik e smuovono le coscienze del gabinetto. Il ministro del Welfare, Eyglò Harðardòttir, ha intenzione di richiedere una revisione al rialzo della propia quota umanitaria, che ad ora vorrebbe arrivassero al massimo 50 rifugiati. “Percorreremo ogni strada possibile per accogliere più rifugiati”, ha detto alla televisione pubblica islandese. Anche il Premier David Gunnlaugsson ha risposto con lo stesso tono alla sollecitazione dei concittadini, navigando sulla stessa lunghezza d’onda: “Penso che ci sia grande consenso sul fare di più nel rispondere al problema: dobbiamo solo trovare come farlo al meglio.”

Le generose offerte stonano con le timide e sobrie reazioni che pullulano sul palcoscenico europeo, dove l’asta al ribasso è ormai un istinto naturale, intrinseco. La ripartizione vorrebbe che a Londra arrivassero 216 rifuggiati siriani: non abbastanza nemmeno per riempire un treno della metropolitana londinese, hanno fatto notare. Meno di mille sono quelli ospitati negli Stati Uniti.

Ma non serve spostarsi molti paralleli più in là per navigare in acque ben più mosse. Le scorie della solidarietà islandese si sono schiantate contro le Alpi. O almeno, non hanno raggiunto il leader della Lega, Matteo Salvini, che è di tutt’altro avviso rispetto alle migliaia di famiglie islandesi. In un messaggio pubblicato in rete, il cui pensiero è stato condiviso da più di 20mila persone, ne ha approfittato per esprmersi a proposito del tema: “Il governo Renzi sta cercando altri 20.000 APPARTAMENTI, posti letto in albergo, residence, campeggi e villaggi vacanze, per ospitare i CLANDESTINI che sbarcheranno in Italia.  Ovviamente, a spese degli italiani. Una VERGOGNA, contro cui la Lega si opporrà in ogni maniera. Se servirà, anche occupando quegli appartamenti. Non ci sono 20.000 italiani in difficoltà da aiutare???"

Quella islandese non è l’unica storia di solidarietà che colora ed illumina le buie pagine dell’Europa degli ultimi tempi. Vi sono comuni cittadini che con passo felpato si muovono e si organizzano per restituire un senso al concetto di Europa. Che colmano i vuoti lasciati dai governi. Che aprono porte sbattute in faccia a chi è figlio di un destino ingeneroso. Che tentano di strappare le vesti dell’indifferenza ad un’Europa più volte immortalata in una posa menefreghista. Vesti, quelle, che talvolta hanno indossato i governi, ma non i cittadini. Gli esseri umani hanno infatti spesso dimostrato di essere più solidali dei loro governi.



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