di Emy Muzzi

Londra. L’alba grigia che annuncia la vittoria dei Conservatori dopo la lunga notte elettorale in Gran Bretagna, ha una luce ambigua che dissimula nell’apparente continuità del governo Tory un cambiamento sostanziale: un punto di non ritorno. Nel segreto dell’urna i sudditi di sua Maestà hanno dato una batosta ai Laburisti e particolarmente a Ed Miliband, il quale - saggiamente - si è subito dimesso. I Conservatori di Cameron disporranno della maggioranza assoluta, risultato che nessuno aveva previsto, nè nelle stanze dei partiti, nè dagli istituti di rilevamento.

Il voto ha spaccato in due il Regno Unito portando l’indipendentista Scottish National Party ad una vittoria schiacciante che ha spazzato via il Labour ed umiliato i Liberal Democratici. E’ un colpo al cuore al bipartitismo come sistema e come idea politica che va oltre il timore del ‘Brexit’ e di un possibile ‘scisma scozzese’.

I dati non sono ancora definitivi, ma la tornata elettorale 2015 riconferma Cameron per altri cinque anni con un margine di vantaggio ampio; il risultato provvisorio, infatti, assegna 321 seggi contro 228 dei Labour. I blu di Cameron guadagnano 21 poltrone, i rossi Lab ne perdono 26. Distanza ampia, incolmabile. Un risultato che è la rivincita politica di un referendum indipendentista fallito solo per poco, ma evidentemente non per pochi. Nel 2010, infatti, i Labour avevano 41 seggi mentre oggi ne hanno solo uno.

I 40 seggi di differenza sono andati ad un SNP che sostiene, ad esempio, che andare all’Università debba dipendere dall’abilità e potenzialità di una persona e non dal suo conto in banca. Anche i Labour, da parte loro, avevano un programma di sostegno agli studi universitari, come del resto anche altri aspetti e programmi della politica SNP e Lab non sono poi così distanti. Allora cos’è che fa la differenza, che sposta i voti così radicalmente? Qual’era in questo caso la vera discriminante?

E’ la parola ‘national’ che ha una forza determinante a livello ideologico e politico (nel senso pragmatico del termine) in un contesto regionale, perché di regione si tratta ancora per il momento. Il bisogno di un governo in cui i cittadini si possano identificare, attraverso il quale possano definire la propria identità e questo avviene attraverso la definizione delle politiche locali, se la politica non è abbastanza forte, inclusiva o equa, anche attraverso la definizione del territorio stesso e dei propri confini.

La Scozia degli indipendentisti riproverà il coup referendario? Saremo a vedere. Ma una tale prospettiva dipende dagli assetti di maggioranza o minoranza in Parlamento, a Londra. Secondo gli analisti della London school of Economics, lo scenario (triste) sarebbe il seguente: i Conservatives indicono il Brexit, la Scozia è contraria all’uscita dal’Unione Europea e, pertanto, potrebbe indire un nuovo referendum, che qui chiameremo per assonanza ‘Scotxit’.

Uscite a parte, la verità di questo andamento del voto chiarisce un’insofferenza per il tradizionale bipartitismo del quale, a certi livelli, non si distinguono neanche le differenze: cosa distinge Laburisti e Conservatori nella politica estera? La risposta è: i primi predicano un’uscita dall’Europa i secondi no. Cos’altro? Niente. Sono d’accordo anche sul TTIP, uno scempio multinazionale che dovrebbe essere eletto a bandiera d’opposizione da chi è di sinistra o anche solo democratico.

Questo offre un’idea chiara sul fatto che le spinte nazional-referendarie definiscono differenze che in sostanza non ci sono. Sono in verità definizioni differenziali in funzione elettorale e di mantenimento (o conquista) del potere. L’euroscetticismo, infatti, è stata la finta discriminante tra UKIP (il partito indipendentista di Nigel Farage) e Conservatives, in questa elezione in diretta competizione. In questo caso i Tories hanno risolto il problema includendo l’euroscetticismo in quanto tale ed escludendone (o attenuandone) i contenuti razzisti e xenofobi relativi ai flussi migratori.

Questo approccio generale ha determinato la fine dell’opposizione frontale e di sostanza della destra e della sinistra in Gran Bretagna. E questo è dovuto alle mancate scelte di fondo di questi due soggetti politici rispetto ai poteri veri che muovono gli interessi del Regno Unito come potenza economica, politica e finanziaria globale, come ad esempio le banche e lo Stock Exchange. Quali saranno le dinamiche future della politica britannica sarà il parlamento britannico a dirlo; oppure l’andamento dell’FTSE.

di Michele Paris

La vittoria relativamente a sorpresa del Likud del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, nelle elezioni anticipate del 17 marzo scorso sembrava avere spianato la strada all’agevole formazione di un solido governo di coalizione a Tel Aviv. Dopo 42 giorni di negoziati, invece, il premier è riuscito a mettere assieme il suo quarto esecutivo letteralmente a pochi minuti dalla scadenza del mandato esplorativo assegnatogli dal presidente di Israele, oltretutto con una maggioranza nella nuova Knesset (Parlamento) di un solo seggio.

I guai per Netanyahu erano arrivati ad inizio settimana, quando il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, del partito ultra-nazionalista Yisrael Beitenu, aveva annunciato l’intenzione di non far parte del nascente governo.

Se il primo ministro sembrava fino ad allora poter contare su una coalizione che gli garantiva una maggioranza di 67 seggi, sui 120 totali, dopo la rottura con Lieberman si è ritrovato con sei seggi in meno su cui fare affidamento e la prospettiva di creare un gabinetto estremamente debole.

La decisione di Lieberman è stata probabilmente presa in maniera calibrata per infliggere il maggior danno possibile a Netanyahu, il quale, a nemmeno due giorni dall’ultima data utile per la formazione del governo, non ha potuto far altro che ripiegare sulla risicata maggioranza rimastagli.

Fin dalla chiusura delle urne a marzo, in realtà, molti avevano ipotizzato la possibilità di un governo di “unità nazionale” con l’Unione Sionista di centro-sinistra, nonostante le ripetute smentite del suo leader, Isaac Herzog, ma i tempi ristrettissimi a disposizione di Netanyahu per avviare eventuali trattative hanno escluso questa ipotesi. L’Unione Sionista è un’alleanza politica formata alla vigilia del voto tra il Partito Laburista e Hatnuah (“Il Movimento”) del più volte ministro Tzipi Livni.

Con l’uscita di scena di Lieberman, l’unica forza politica in grado di scongiurare una clamorosa rinuncia al mandato per la formazione del governo da parte di Netanyahu è diventata HaBayit HaYehudi (“Casa Ebraica”), il partito religioso di estrema destra del ministro dell’Economia, Naftali Bennett.

In precedenza, Netanyahu aveva già siglato un accordo di governo con il partito di centro-destra Kulanu (“Tutti Noi”) dell’ex compagno di partito, Moshe Kahlon, e con due formazioni ultra-ortodosse, Shas e Giudaismo Unito della Torah. Oltre ai 30 seggi del Likud, questi tre partiti ne portano in dote a Netanyahu altri 23 che, con gli 8 di HaBayit HaYehudi, fanno appunto registrare un totale di 61.

Bennet ha puntualmente sfruttato la situazione di emergenza in cui si è venuto a trovare Netanyahu per estrarre importanti concessioni in cambio del sostegno al governo. Il suo partito avrà il ministero dell’Educazione, che andrà allo stesso Bennett, e quello della Giustizia, occupato dal suo vice, Ayelet Shaked.

“Casa Ebraica” otterrà inoltre la posizione di vice-ministro della Difesa, carica che presiede alle operazioni in Cisgiordania, con prospettive ben poco incoraggianti viste le attitudini di un partito che chiede un’ulteriore espansione degli insediamenti illegali e si dichiara contrario alla creazione di uno stato palestinese.

Il carattere reazionario di un governo che molti commentatori hanno definito come il più a destra della storia di Israele è confermato poi dalle concessioni già fatte da Netanyahu a Shas e Giudaismo Unito della Torah, come l’abrogazione dell’obbligo di leva per gli ultra-ortodossi e di altre iniziative di legge di impronta secolare che erano state adottate dal precedente gabinetto su impulso del partito centrista Yesh Atid dell’ex ministro delle Finanze, Yair Lapid.

A rappresentare la componente moderata del nuovo governo dovrebbe essere il partito Kulanu, ma il suo leader, che avrà l’incarico di ministro delle Finanze, ha promesso di concentrare i propri sforzi in ambito economico, mentre vari esponenti di spicco di questo movimento fondato lo scorso novembre sono ascrivibili alla fazione dei “falchi” per quanto riguarda le politiche relative alla “sicurezza” di Israele.

Vista la fragilità delle fondamenta su cui poggerà il quarto governo Netanyahu, la stampa israeliana e internazionale ha osservato che l’unica possibilità per evitare nuove elezioni nel breve periodo sarà tentare di allargare l’attuale maggioranza.

Lo stesso Netanyahu, nell’annunciare la nuova coalizione nella tarda serata di mercoledì, ha lasciato intendere che i suoi sforzi andranno precisamente in questa direzione. “Ho detto che 61 è un buon numero”, ha affermato il premier, prima di aggiungere però che “61 è soltanto l’inizio”.

I media di Israele sembrano essere certi che un serio tentativo per ampliare la maggioranza di governo verrà fatto dopo l’approvazione del bilancio per il 2016, prevista per la fine dell’estate. Il quotidiano Haaretz ha poi citato fonti anonime secondo le quali avrebbero già avuto luogo incontri tra esponenti del Likud e dell’Unione Sionista che vedono con favore la nascita di un governo di “unità nazionale”.

La principale formazione di opposizione, che vanta 24 seggi nella Knesset, avrebbe fissato alcuni paletti per garantire il proprio sostegno a Netanyahu, tra cui la ripresa dei negoziati con i palestinesi, l’estromissione di Naftali Bennett e del suo partito dalla coalizione e la creazione di un meccanismo per una leadership condivisa tra l’attuale primo ministro e Isaac Herzog.

Quest’ultimo e il suo entourage continuano però a escludere un accordo di questo genere, visto che rappresenterebbe un clamoroso voltafaccia rispetto a quanto sostenuto in campagna elettorale, con possibili ripercussioni negative al prossimo appuntamento con le urne.

Le circostanze della nascita del prossimo governo di Tel Aviv rivelano in ogni caso il profondo stato di crisi del sistema politico israeliano e, in particolare, della destra, nonostante la presunta forza di un Netanyahu che si appresta a diventare il primo ministro più longevo nella storia del suo paese.

Ciò appare tanto più evidente se si considera che lo stesso Netanyahu aveva sciolto anticipatamente il Parlamento lo scorso dicembre per mettere fine a un governo considerato cronicamente instabile e ottenere un mandato elettorale per crearne uno più solido.

La rottura di Avigdor Lieberman ha contribuito così a evidenziare la fragilità di Netanyahu e le difficoltà in cui si dibatte la classe politica israeliana. Come ha sostenuto qualche giorno fa l’editorialista israeliano Ben Caspit, lo schiaffo dell’ex ministro degli Esteri a Netanyahu potrebbe essere motivato dalla tradizionale rivalità tra i due leader o da ragioni più o meno personali.

Come ad esempio il desiderio di Lieberman di vendicarsi sul premier per il presunto ruolo avuto da quest’ultimo nel favorire un’indagine su alcuni membri del partito Yisrael Beitenu, accusati di corruzione poco prima delle elezioni.

Tuttavia, dietro alla mossa di Lieberman sembra esserci un preciso calcolo politico, legato proprio alla crisi della governance in Israele, accentuata dalle esplosive disuguaglianze sociali e dal crescente isolamento di un paese che agisce regolarmente al di fuori delle norme del diritto internazionale.

Lieberman, le cui ambizioni a diventare prima o poi capo del governo sono note da tempo, ha in definitiva scelto di sganciarsi da Netanyahu, assestandogli nel contempo un grave colpo politico, per evitare di essere trascinato nel declino della destra dominata dal Likud, di cui lo stesso primo ministro è il primo responsabile, e costruirsi un percorso autonomo verso il potere, sia pure sulle stesse fondamenta ideologiche che hanno guidato il suo ormai ex alleato.

di Mario Lombardo

Il tour dell’Africa orientale di questa settimana del segretario di Stato americano, John Kerry, ha incluso martedì una brevissima quanto inedita visita in Somalia dove ha assicurato le autorità del paese, devastato da oltre due decenni di conflitti, circa il “ritorno” degli Stati Uniti per sostenere il processo di transizione in atto.

La delicatezza della situazione somala è apparsa più che evidente dalle eccezionali misure di sicurezza che hanno accompagnato la visita di Kerry, notificata al governo locale con un solo giorno di anticipo. L’ex senatore democratico non è nemmeno uscito dall’aeroporto di Mogadiscio, dove è rimasto per circa tre ore durante le quali ha incontrato il presidente, Hassan Sheikh Mohamud, e il primo ministro, Omar Abdirashid Ali Sharmarke.

“Ho visitato oggi la Somalia perché il vostro paese è a un punto di svolta” ha affemato Kerry in un discorso teoricamente indirizzato alla popolazione somala. “Sono passati tre anni dall’adozione di una nuova Costituzione provvisoria e dall’insediamento di un Parlamento”, ha poi aggiunto il segretario di Stato USA, ricordando come, “con l’aiuto delle forze dell’Unione Africana, i soldati somali hanno spinto [i militanti integralisti di] al-Shabaab fuori dai principali centri abitati”.

Il quadro relativamente roseo della società somala dipinto da Kerry si è ovviamente scontrato con la decisione della delegazione americana di non avventurarsi al di fuori dei confini dell’aeroporto della capitale. Al-Shabaab sembra avere in effetti perso il controllo su buona parte del territorio somalo ma la persistente minaccia di questo gruppo fondamentalista è sottolineata da ricorrenti e sanguinosi attentati condotti nel paese, a cominciare dalla stessa città di Mogadiscio.

La stampa americana e internazionale ha comunque celebrato martedì la prima visita in assoluto di un segretario di Stato USA in Somalia e quella dell’esponente più importante del governo di Washington dal tracollo delle istituzioni statali di questo paese all’inizio degli anni Novanta in seguito alla caduta della dittatura di Siad Barre.

Truppe americane erano state inviate in Somalia nel 1992 per una missione di “peacekeeping” ma due anni più tardi avrebbero lasciato il paese africano dopo l’umiliante abbattimento di due elicotteri da parte di miliziani somali e la morte di 18 soldati.

L’annuncio del presunto “ritorno” degli Stati Uniti in Somalia suggellato dalla visita di John Kerry è però decisamente fuorviante, visto che Washington non ha mai smesso di interferire nelle vicende di questo paese, promuovendo tra l’altro la disastrosa invasione dell’esercito etiope nel 2006 per ristabilire il cosiddetto Governo Federale di Transizione, minacciato dall’Unione delle Corti Islamiche.

Gli USA hanno poi sostenuto economicamente e militarmente la missione multinazionale dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM), cioè la forza militare che da allora ha permesso la sopravvivenza del Governo Federale di Transizione e, dalla fine del suo mandato nel 2012, del primo governo permanente istituito in questo paese a partire dall’inizio della guerra civile.

L’interesse degli Stati Uniti per la Somalia è legato soprattutto alla sua posizione strategica in Africa orientale, dal momento che si affaccia sul Golfo di Aden, da dove transitano importantissime rotte commerciali che collegano l’Europa e il Golfo Persico con l’Oceano Indiano e l’Asia sud-orientale.

Il nemico da combattere in Somalia che consente la presenza più o meno diretta degli USA nel paese era e resta la milizia al-Shabaab, presa di mira in questi anni con svariate incursioni operate dai droni. Nel settembre scorso, ad esempio, era stata annunciata l’uccisione con un raid aereo americano del suo leader, Ahmed Abdi Godane.

Con la parvenza di un governo relativamente stabile a Mogadiscio, gli Stati Uniti cercano ora di integrare la Somalia nei propri piani per l’Africa orientale, principalmente attraverso la creazione di un esercito e di una forza di polizia efficaci. Di questo ha appunto discusso martedì Kerry con le autorità locali, oltre che della questione delle elezioni, previste in Somalia per il 2016, le quali verranno con ogni probabilità “coordinate” proprio da Washington.

La Somalia, in definitiva, è parte a tutti gli effetti dell’agenda americana in l’Africa orientale, basata in primo luogo sulla militarizzazione di questa porzione di continente, non da ultimo per contrastare la crescente influenza cinese in ambito economico.

Il giorno prima dell’arrivo a sorpresa a Mogadiscio, Kerry aveva promesso un pacchetto da 100 milioni di dollari per sostenere lo sforzo “anti-terrorismo” del vicino Kenya, paese profondamente coinvolto nel conflitto somalo.

Il governo kenyano del presidente Uhuru Kenyatta, già incriminato dal Tribunale Penale Internazionale per le violenze seguite alle elezioni del 2007, è stato d’altronde sdoganato da Washington dopo avere ottenuto la garanzia dell’allineamento del paese africano agli interessi americani nella regione.

Kerry ha così prospettato anche un finanziamento di 45 milioni di dollari per evitare la chiusura del gigantesco campo profughi di Dadaab, nel nord del Kenya, minacciata dal governo di Nairobi nell’ambito dell’isteria anti-somala diffusasi dopo l’attentato del 2 aprile scorso presso l’università di Garissa che ha fatto 148 morti e attribuito ad al-Shabaab.

Nello stesso disegno strategico degli Stati Uniti rientra infine anche il terzo e ultimo stop della trasferta africana di John Kerry, sbarcato mercoledì nel piccolo stato di Gibuti. Questo paese ospita la base USA di Camp Lemonnier, quartier generale delle operazioni militari americane nel continente ma anche nel vicino Yemen.

Il numero uno della diplomazia statunitense ha ringraziato le autorità di Gibuti per l’ospitalità garantita a centinaia di cittadini americani fuggiti dalla guerra in Yemen, mentre ha significativamente discusso delle modalità per contrastare in maniera “più efficace la minaccia di al-Shabaab” nella regione.

di Michele Paris

Da qualche giorno a questa parte, la super-favorita del Partito Democratico, Hillary Clinton, ha conosciuto il primo sfidante ufficiale nella corsa alla nomination per la Casa Bianca che si aprirà il prossimo mese di gennaio negli Stati Uniti con il tradizionale appuntamento delle primarie. A lanciare la propria candidatura è stato il senatore in carica del Vermont, Bernard “Bernie” Sanders, veterano della politica del suo stato in qualità di “indipendente” e talvolta auto-definitosi “democratico socialista”.

L’annuncio di Sanders è stato dato dai giardini del Congresso di Washington e ciò che avrebbe motivato il neo-candidato alla presidenza è soprattutto il livello assurdo e insostenibile di disparità economiche che continua a caratterizzare la realtà del suo paese. Pescando nel consueto repertorio dell’ala progressista del Partito Democratico, Sanders ha poi lamentato l’eccessiva influenza del denaro sulla politica USA e i pericoli per il pianeta causati dal cambiamento climatico.

In un’intervista televisiva alla ABC trasmessa nel fine settimana, Sanders ha inoltre parlato della necessità di una “rivoluzione politica fatta da milioni di persone”, da realizzare, evidentemente, attraverso il Partito Democratico, ovvero uno degli strumenti - assieme a quello Repubblicano - del dominio dei grandi interessi economici e finanziari sul sistema politico e sociale americano.

Il modello a cui si ispira il 73enne senatore del Vermont è comunque decisamente meno minaccioso di un non ben definito esperimento rivoluzionario, cioè i paesi scandinavi e il loro sistema basato su un welfare generoso, peraltro intaccato seriamente negli anni seguiti alla crisi economica globale.

Il presunto status di politico “indipendente” vantato da Bernie Sanders, per non parlare delle sue sfumatissime inclinazioni “socialiste”, appare difficilmente rilevabile dalla sua attività al Congresso negli ultimi due decenni. Dal suo ingresso alla Camera dei Rappresentanti nel 1991, Sanders ha infatti seguito un percorso che lo ha portato a integrarsi pressoché completamente nel Partito Democratico, diventandone di fatto un esponente della sempre più ristretta fazione “liberal”.

Dopo avere più volte sconfitto candidati democratici nelle elezioni per conservare il suo seggio alla Camera, nel 2006 corse per il Senato ottenendo l’appoggio di tutti i leader democratici, i quali manovrarono per non candidare un membro del proprio partito in opposizione a Sanders. Identico scenario si è ripetuto in occasione della rielezione di quest’ultimo nel 2012, quando lo stesso presidente Obama fece campagna elettorale in suo favore.

Al Congresso, Sanders fa dunque parte del gruppo dei democratici e grazie a ciò ha ottenuto incarichi prestigiosi in importanti commissioni. Tra il 2013 e il 2015 è stato ad esempio presidente della commissione del Senato per gli Affari relativi ai Reduci, mentre con il passaggio dei democratici all’opposizione dopo la sconfitta elettorale del 2014 è diventato il membro di minoranza più influente nella commissione Bilancio.

Durante i 16 anni trascorsi alla Camera ha votato il 98% delle volte con i democratici, appoggiando, tra l’altro, l’aggressione americana della Serbia nel 1999 e la cosiddetta Autorizzazione all’Uso della Forza Militare dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che ha consentito l’invasione dell’Afghanistan e l’inaugurazione della “guerra al terrore”.

Sanders aveva invece votato contro le risoluzioni relative alle guerre in Iraq nel 1991 e nel 2003, ma ha regolarmente appoggiato gli stanziamenti per le operazioni militari in questo paese e in Afghanistan.

Questa simbiosi con i democratici ha fatto in modo che la decisione di Sanders di correre per la Casa Bianca sia stata accolta con favore dal partito, così come dai media che gravitano attorno ad esso, nonostante le sue stesse regole impongano ai candidati che partecipano a elezioni sotto le proprie insegne di esserne membri a tutti gli effetti.

La candidatura di Sanders risponde d’altra parte a impulsi più che evidenti nel Partito Democratico, non solo tra coloro che sono appunto attestati su posizioni “liberal”, ma anche tra la grande maggioranza centrista che vede con apprensione il costante spostamento a sinistra di ciò che rimane del proprio elettorato di riferimento in parallelo alla deriva destrorsa del partito stesso.

Per far digerire agli elettori le politiche pro-business del Partito Democratico è necessario cioè mettere a disposizione almeno un’opzione che dia l’illusione di rappresentare un’alternativa di “sinistra”, soprattutto in presenza di una candidata favorita come Hillary Clinton, non esattamente ascrivibile all’annacquata galassia pseudo-progressista d’oltreoceano.

Questo è appunto il ruolo che si appresta a giocare nella campagna del 2016 Bernie Sanders, verosimilmente sull’esempio di Al Sharpton e Dennis Kucinich nel 2004 e ancora di quest’ultimo nel 2008. Sanders andrà così a cercare consensi tra i sostenitori democratici della senatrice del Massachusetts al primo mandato, Elizabeth Warren, vero e proprio idolo della “sinistra” del Partito Democratico, la quale ha per ora escluso una propria candidatura.

L’integrazione di Sanders nel Partito Democratico in vista delle primarie appare con ogni probabilità concordata con gli stessi vertici del partito, almeno a giudicare da alcune dichiarazioni di uno dei suoi principali consiglieri, Tad Devine.

Già membro in passato dei team di altri candidati democratici perdenti come Michael Dukakis, Al Gore e John Kerry, Devine ha sostenuto che Sanders non intende essere un altro Ralph Nader, candidatosi per la Casa Bianca varie volte da indipendente o da membro del Partito dei Verdi. Nader viene generalmente visto con astio dai democratici, in quanto ritenuto responsabile di avere sottratto voti ad Al Gore nelle presidenziali del 2000, perse contro George W. Bush in seguito a una scandalosa decisione della Corte Suprema.

Correndo per i democratici, durante le primarie Sanders potrà rappresentare una sorta di valvola di sfogo per la fazione “liberal” e gli elettori che chiedono una svolta a sinistra negli Stati Uniti, consentendo ai leader del partito allineati alla candidatura di Hillary Clinton di neutralizzare il rischio di perdere consensi decisivi nel voto di novembre.

Se pure risulterà alla fine inoffensiva, la candidatura di Sanders ha generato un certo entusiasmo tra una parte dei potenziali elettori, a conferma del diffusissimo desiderio anche tra la popolazione degli Stati Uniti di una piattaforma politica autenticamente progressista. Nel solo giorno in cui ha lanciato la sua candidatura, il senatore del Vermont ha raccolto 1,5 milioni di dollari da circa 35 mila donatori. Nei primi tre giorni, poi, le donazioni sono salite a 2,1 milioni e quasi 150 mila persone si sono registrate sul suo sito ufficiale come sostenitori della campagna per la Casa Bianca.

Proprio la questione dei finanziamenti elettorali è stata citata da Sanders per giustificare la sua scelta di candidarsi per il Partito Democratico. Non essendo “miliardario”, ha affermato il senatore, gli sarebbe stato impossibile correre per la Casa Bianca da “indipendente” o per un terzo partito, visto che il sistema americano impone di avere a disposizione enormi somme di denaro da spendere in campagna elettorale.

Per risolvere l’ostacolo, Sanders ha deciso curiosamente di affiliarsi a uno dei due partiti USA controllati dai miliardari pur promettendo di condurre una campagna contro le disuguaglianze e l’influenza indebita del denaro nella vita politica americana.

Viste le circostanze della sua candidatura, non è una sorpresa che Sanders non abbia rivolto critiche dirette né al presidente Obama né, in larga misura, a Hillary Clinton, malgrado entrambi abbiano gravi responsabilità nella creazione della situazione economica e sociale denunciata dal senatore del Vermont.

Allo stesso modo, Sanders non ha chiarito in quale modo e con quali politiche, all’interno dei confini imposti dal Partito Democratico, intende invertire una tendenza che ha portato, ad esempio, l’1% degli americani più benestanti a possedere la stessa ricchezza detenuta complessivamente dal 90% della popolazione più povera.

di Michele Paris

Alcune notizie contraddittorie circolate negli ultimi giorni hanno prospettato l’inizio di una nuova fase della guerra lanciata dall’Arabia Saudita a fine marzo contro lo Yemen e i “ribelli” Houthi sciiti. Riyadh avrebbe cioè inviato le prime truppe di terra per combattere sul fronte yemenita, anche se gli uomini che nel fine settimana sarebbero sbarcati nella citta meridionale di Aden non sarebbero delle forze armate saudite ma proverrebbero da altri paesi arabi o dallo stesso Yemen.

La notizia di una mini-invasione guidata dalla monarchia saudita è stata diffusa da network come Al Jazeera ed è stata confermata da autorità yemenite alla stampa internazionale. La AFP, ad esempio, ha parlato domenica di un numero “limitato” di soldati della coalizione guidata dall’Arabia Saudita giunti a Aden, mentre altre truppe di terra sarebbero pronte ad essere impiegate.

Un portavoce della cosiddetta “Resistenza Popolare” anti-Houthi nel sud del paese ha sostenuto in un’intervista alla Reuters che i nuovi combattenti risultano essere tutti di nazionalità yemenita. Altre testimonianze citate dalla stampa raccontano di soldati sudanesi e degli Emirati Arabi, impegnati in particolare nel tentativo di riprendere il controllo dell’aeroporto di Aden, conquistato settimana scorsa dagli Houthi.

Le forze di terra inviate da Riyadh hanno sostenuto un periodo di addestramento nel regno e sarebbero arrivate nella città portuale dello Yemen via mare dal vicino Gibuti, il piccolo paese africano affacciato sul Golfo di Aden che ospita svariate basi militari di paesi occidentali e dei loro alleati.

Dal regime saudita sono giunte in ogni caso smentite, con il generale Ahmed al-Asiri che ha escluso ci siano forze straniere a Aden, ribadendo però la volontà della “coalizione di contribuire alla lotta contro la milizia Houthi” e reinsediare al potere in Yemen il presidente-fantoccio, Abd Rabbu Manosur Hadi.

Nella giornata di lunedì, inoltre, il neo-ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha fatto sapere che la coalizione starebbe valutando la possibilità di dichiarare una tregua in alcune “aree specifiche” dello Yemen, così da consentire l’ingresso di “forniture umanitarie”.

In ogni caso, se la notizia dell’invio delle prime truppe di terra in Yemen fosse confermata segnerebbe una svolta significativa nell’aggressione saudita in atto dalla fine di marzo per fermare l’avanza dei “ribelli” sciiti e il tracollo delle istituzioni dello stato nel paese più povero del mondo arabo.

Di fronte al sostanziale fallimento di settimane di bombardamenti aerei, l’Arabia Saudita sembra essere ora sul punto di intensificare il proprio impegno in Yemen, nonostante le conseguenze già catastrofiche per la popolazione civile dopo la prima fase delle operazioni.

L’evoluzione della campagna militare smentisce anche quanto annunciato un paio di settimana fa da Riyadh, quando venne proclamata la fine dell’operazione “Tempesta Decisiva” e l’avvio di quella denominata “Restituzione della Speranza”, teoricamente per iniziare a ricostruire lo Yemen e rilanciare un qualche processo politico.

Un’eventuale operazione di terra rischia anche di far salire ulteriormente le tensioni tra i regimi sunniti che fanno parte della coalizione promossa dall’Arabia Saudita e l’Iran, accusato di essere dietro i successi militari degli Houthi in Yemen.

Proprio nel fine settimana, Teheran ha collegato per la prima volta la crisi in quest’ultimo paese alla propria sicurezza nazionale, lasciando presagire possibili iniziative dirette anche verso gli Stati Uniti, i quali continuano ad approvare più o meno tacitamente le azioni saudite e a fornire supporto logistico alle operazioni in territorio yemenita.

Se le bombe della coalizione anti-Houthi poco o nulla hanno fatto per fermare i “ribelli” sciiti e le forze fedeli all’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, che li sostengono, le operazioni militari hanno fatto diventare ben presto drammatica la situazione umanitaria nello Yemen. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la guerra ha fatto finora più di 1.200 vittime, di cui almeno la metà civili.

Centinaia di migliaia di yemeniti sono stati poi costretti a lasciare il paese o le loro abitazioni, mentre le infrastrutture interne sono sull’orlo del collasso. Un portavoce delle Nazioni Unite ha affermato che “i servizi ancora disponibili relativi all’assistenza sanitaria, alla fornitura di cibo e acqua stanno sparendo velocemente”, soprattutto a causa dell’impossiblità di importare carburante e altro materiale di prima necessità in seguito al blocco imposto dall’Arabia Saudita.

Non solo la campagna saudita contro lo Yemen appare a tutti gli effetti un’aggressione contraria al diritto internazionale ma le forze del regime di Riyadh continuano a fare ricorso a metodi criminali che prendono di mira i civili in maniera deliberata.

Dopo i numerosi casi di bombardamenti aerei diretti contro edifici civili segnalati nelle scorse settimane, l’Arabia Saudita è stata accusata nel fine settimana da Human Rights Watch (HRW) di avere utilizzato “cluster bombs”, ovvero “bombe a grappolo” bandite dalla gran parte dei paesi del pianeta per il loro potenziale distruttivo indiscriminato.

Queste armi contengono, all’interno dell’ordigno principale, delle “sub-munizioni” di misura inferiore che si diffondono in un’area più o meno ampia dal punto in cui vengono lanciate o sganciate. Le “cluster bombs” sono considerate particolarmente pericolose anche perché le “sub-munizioni” che le compongono spesso non esplodono immediatamente, ma possono rimanere innescate per anni, con le prevedibili conseguenze sulla popolazione civile.

Più di 100 paesi hanno firmato una convenzione per mettere al bando le “cluster bombs” nel 2008, ma tra di essi non figurano né l’Arabia Saudita o le altre monarchie del Golfo Persico né gli Stati Uniti. Gli USA prevedono tuttavia che la vendita di questi ordigni a paesi esteri sia consentita solo se essi non vengono usati contro obiettivi civili.

Il rapporto diffuso da HRW si basa sul racconto di testimoni, ma anche su materiale fotografico e filmati, relativo all’impiego di “cluster bombs” da parte saudita nel corso di bombardamenti contro le postazioni degli Houthi. In una circostanza, gli ordigni sarebbero caduti in un’area a poche centinaia di metri da decine di edifici civili, anche se l’organizzazione statunitense non è stata in grado di stabilire con certezza eventuali danni o vittime dovuti agli attacchi.

Le armi in questioni usate in Yemen sono state vendute all’Arabia Saudita dalla compagnia americana Textron Systems in base a un contratto di fornitura siglato nel 2013. Per HRW, anche gli Emirati Arabi nel 2010 avevano ricevuto un numero imprecisato di “cluster bombs” dalla stessa azienda in seguito alla stipula di un contratto datato 2007.

Il governo americano, d’altra parte, mostra tradizionalmente ben pochi scrupoli nel fornire armamenti letali e al limite della legalità a regimi dittatoriali che ne fanno ampio uso contro le popolazioni civili. Ciò non impedisce a Washington di puntare il dito contro governi poco graditi quando emergono indizi sull’utilizzo da parte di questi ultimi di queste stesse armi.

Nel 2012, ad esempio, il regime di Assad venne accusato di avere sganciato proprio “cluster bombs” sui civili in Siria, provocando dure condanne che ora stridono con il silenzio dei governi occidentali sulle recenti rivelazioni di HRW.

L’Arabia Saudita non è peraltro nuova a questi metodi di guerra, visto che varie organizzazioni a difesa dei diritti umani avevano accusato le forze del regno di avere impiegato “cluster bombs” nel 2009 sempre in Yemen e sempre nel corso di attacchi aerei contro gli Houthi nel governatorato settentrionale di Saada.

Gli stessi Stati Uniti non hanno nulla da invidiare ai loro alleati quando si tratta di crimini di guerra. Per limitarsi alle “cluster bombs” e allo Yemen, le forze navali americane sempre nel 2009 avevano lanciato questi ordigni su un’area che ospitava un campo di addestramento di Al-Qaeda. Per le autorità yemenite, in quell’occasione furono uccisi 14 militanti assieme a decine di civili innocenti.


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