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di Michele Paris
Nel silenzio quasi assoluto dei governi e dei giornali occidentali che hanno sostenuto il colpo di stato in Ucraina più di un anno fa, in queste settimane una catena di morti estremamente sospette di personalità filo-russe, o comunque critiche del regime di Kiev, sta scuotendo il già travagliato paese dell’Europa orientale.
Gli ultimi assassini sono stati rivendicati da un’organizzazione autodefinitasi Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), la quale venerdì scorso avrebbe recapitato un messagio e-mail a un accademico ucraino sostenendo la propria responsabilità nella morte di un totale di cinque “traditori”. Tra le vittime ci sono Oleh Kalashnykov, ex deputato per il Partito delle Regioni del deposto presidente Yanukovich, e il giornalista Oles Buzyna.
Il corpo del primo è stato rinvenuto senza vita nella sua abitazione di Kiev mercoledì scorso, mentre il secondo è stato ucciso il giorno successivo da due uomini armati che gli hanno sparato da un’auto nei pressi della sua abitazione, sempre nella capitale ucraina.
Entrambe le vittime, secondo quanto affermato dal “consigliere” del ministero dell’Interno di Kiev, Ihor Gerashcenko, facevano parte del movimento “anti-Maidan”, cioè erano critici del regime salito al potere in Ucraina dopo la rivolta anti-Yanukovich manovrata dall’Occidente e che aveva come quartier generale la piazza Maidan.
Prima della sua morte, Kalashnykov aveva parlato pubblicamente delle minacce di morte ricevute, mentre aveva più volte denunciato la creazione in Ucraina di un clima di intimidazione per reprimere ogni forma di dissenso. Buzyna, da parte sia, era un blogger molto attivo e aveva diretto il quotidiano filo-russo Segodnya, appartenente al gruppo editoriale dell’oligarca ucraino Rinat Akhmetov, già sostenitore di Yanukovich e del suo partito. Sia Buzyna che Akhmetov si erano candidati senza successo per un seggio in parlamento nelle elezioni del 2014.
La lettera di rivendicazione dell’UPA conteneva anche la minaccia dell’eliminazione fisica di altri politici e commentatori “anti-ucraini”, invitati a lasciare il paese entro 72 ore. Nella sua forma originale, il famigerato Esercito Insurrezionale Ucraino era stato fondato nel 1942 come braccio armato dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN). L’UPA era una milizia apertamente fascista collaboratrice delle forze di occupazione naziste nella guerra contro l’Unione Sovietica e in operazioni di pulizia etnica ai danni della popolazione ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale.
Oltre a Kalashnykov e a Buzyna, a perdere la vita la settimana scorsa sono stati altri due noti giornalisti, Sergey Sukhobok, anch’egli oppositore del regime del presidente Poroshenko, e Olga Moroz, direttore della testata Neteshinskiy Vestnik.
Il corpo di quest’ultima, trovato nella sua abitazione, presentava segni di violenza anche se la polizia ucraina ha escluso che ci fossero state minacce dovute alla sua attività di giornalista.
Queste morti più recenti vanno poi aggiunte a quelle più che sospette di altri politici legati a Yanukovich registrate tra la fine di gennaio e la metà di marzo. Classificati come suicidi sono stati i decessi di Aleksey Kolesnik, ex presidente del governo regionale di Kharkov, trovato impiccato il 29 gennaio così come, poco meno di un mese dopo, Sergey Valter, sindaco della città di Melitopol, nell’Ucraina sud-orientale.
Sempre catalogati come suicidi sono stati anche quelli di Oleksandr Peklushenko e Mykhaylo Chechetov, entrambi membri del Partito delle Regioni e coinvolti in procedimenti giudiziari, rispettivamente per violenze contro i manifestanti anti-Yanukovich nel 2014 e per abuso d’ufficio.
Nonostante i forti sospetti che almeno alcuni di questi e altri decessi siano veri e propri assassini di matrice politica, in Occidente non si è nemmeno lontanamente assistito al clamore suscitato dai media per la morte, ad esempio, del leader dell’opposizione “liberale” russa Boris Nemtsov, ucciso a Mosca il 27 febbraio scorso non lontano dal Cremlino.
In quell’occasione, pur senza alcuna prova, le accuse lanciate direttamente o indirettamente al presidente russo Putin e alla sua cerchia di potere si erano sprecate sui giornali occidentali, i quali, al contrario, non ritengono evidentemente degne di attenzione le morti violente di politici di opposizione in Ucraina.
Come nel caso della guerra nelle regioni sud-orientali del paese, d’altra parte, i casi descritti rischiano di guastare la propaganda occidentale relativa alla cosiddetta rivoluzione democratica ucraina, risoltasi in realtà in un colpo di stato che ha portato all’installazione di un regime di estrema destra.
Il regime di Kiev si basa infatti su elementi neo-nazisti, osteggiati dalla maggior parte della popolazione ma molto influenti all’interno del governo, alcuni dei quali hanno salutato con entusiasmo tutt’altro che celato l’assassinio di Oleh Kalashnykov e Oles Buzyna.
La responsabilità della morte di questi ultimi è da ricercare almeno in parte proprio tra i governi occidentali che hanno appoggiato il golpe contro Yanukovich per ragioni strategiche legate al tentativo di sganciare l’Ucraina dalla Russia. Nel fare ciò, Washington e Berlino hanno foraggiato e continuano ad appoggiare forze russofobe di ultra-destra che da mesi operano nella pressoché completa impunità.
Il clima tossico che si respira a Kiev è alimentato poi dalle stesse formazioni politiche filo-occidentali al potere, protagoniste di recenti iniziative di legge che hanno assecondato le persecuzioni a cui sono esposti da mesi i membri dell’opposizione, dal Partito Comunista Ucraino (KPU) al Partito delle Regioni dell’ex presidente Yanukovich.
Il parlamento ucraino ha cioè messo fuori legge lo stesso KPU ed equiparato il comunismo al nazismo, mentre ha parallelamente riabilitato l’Esercito Insurrezionale Ucraino e l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini.
La tolleranza, se non l’aperta collaborazione con forze violente dell’estrema destra neo-fascista da parte del regime di Kiev, oltre a essere un devastante atto d’acccusa nei confronti delle manovre dei governi occidentali, risponde in definitiva alla necessità di reprimere il crescente dissenso interno, prodotto da una situazione economica esplosiva e da una guerra - contro i “ribelli” filo-russi - a cui si oppone un numero crescente di cittadini ucraini, non solo nelle regioni sud-orientali interessate da mesi di durissimi combattimenti.
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di Michele Paris
Un articolo pubblicato questa settimana dal New York Times ha rivelato il nome di un secondo cittadino americano finito sulla lista nera di presunti terroristi che il governo degli Stati Uniti intende assassinare extra-giudiziariamente dietro ordine personale del presidente Obama. La notizia è stata diffusa pochi giorni dopo l’apparizione dell’uomo di fronte a un tribunale di Brooklyn, a New York, in seguito al suo arresto avvenuto in Pakistan nel 2014.
Il detenuto risponde al nome di Mohanad Mahmoud Al Farekh, nato in Texas e trasferitosi in giovane età in Giordania assieme alla famiglia. Secondo il governo americano, Farekh aveva frequentato un’università in Canada ed era passato attraverso un processo di radicalizzazione “in parte seguendo i sermoni on-line di Anwar Al Awlaki”.
Quest’ultimo, a quanto è dato sapere, è stato il primo cittadino di passaporto americano ucciso da un drone a seguito di una semplice decisione presa dal governo americano, senza cioè essere accusato formalmente di nessun crimine né, tantomeno, essere passato attraverso un normale processo.
Farekh si sarebbe in ogni caso spostato in Pakistan, dove ha rapidamente scalato le gerarchie di al-Qaeda anche grazie al matrimonio con la figlia di un leader dell’organizzazione fondamentalista. I suoi compiti prevedevano, tra l’altro, la progettazione di attentati terroristici al di fuori dei confini pakistani, rendendosi responsabile perciò di operazioni dirette contro le forze americane di occupazione in Afghanistan.
Per il New York Times, le discussioni all’interno dell’amministrazione Obama sulla sorte di Farekh sarebbero iniziate nel 2012 e nei mesi successivi sia il Pentagono sia la CIA avevano incrementato la sorveglianza dell’uomo nei suoi spostamenti nelle aree tribali del Pakistan, spingendo per l’assassinio.
Qualche perplessità era stata manifestata invece dal dipartimento di Giustizia, a cominciare dal ministro Eric Holder, il quale dubitava del fatto che Farekh rappresentasse “una minaccia imminente per gli Stati Uniti” o fosse un esponente di primo piano di al-Qaeda. Holder riteneva cioè che il cittadino americano potesse essere arrestato e processato negli Stati Uniti.
La ricostruzione della vicenda proposta dal giornale newyorchese mostra però come a salvare la vita di Farekh non siano stati gli scrupoli di componenti dell’amministrazione Obama per il rispetto dei principi costituzionali, bensì ragioni di convenienza politica e dissidi tra le varie agenzie governative.
In particolare, il dibattito attorno alla punizione da somministrare a Farekh era stato influenzato dall’eco delle polemiche attorno all’assassinio di Awlaki nel settembre del 2011 in Yemen.
Nel maggio del 2013, poi, Obama aveva parlato per la prima volta pubblicamente del programma di assassini mirati con i droni, ammettendo l’uccisione di Awlaki e di altri tre cittadini americani, tra cui il figlio sedicenne di Awlaki, Abdulrahman. Questi ultimi non erano sulla lista nera di presunti terroristi ma erano da considerarsi “danni collaterali” dei bombardamenti USA.
Nello stesso intervento, il presidente democratico aveva delineato regole apparentemente più stringenti per l’utilizzo dei droni nel programma di assassini mirati, con l’intenzione non tanto di limitarne l’abuso bensì di istituzionalizzarlo come strumento della “guerra al terrore”.
Tra le norme stabilite da Obama vi era l’assegnazione al Pentagono invece che alla CIA dell’incarico delle operazioni con i droni dirette contro cittadini americani, ufficialmente per consentire agli esponenti del governo di discuterne pubblicamente.
I militari americani non potevano però condurre bombardamenti con i droni in Pakistan, dal momento che questo paese aveva chiesto a Washington di incaricare la CIA, in modo che il governo di Islamabad avrebbe potuto negare di essere a conoscenza delle operazioni che, allo stesso modo, gli USA non avrebbero commentato né smentito.
Il Times riferisce inoltre di parecchio “nervosismo” all’interno dell’amministrazione Obama dopo l’assassinio di Awlaki, a conferma della consapevolezza di molti a Washington che il programma di omicidi mirati di cittadini americani era palesemente illegale e che esso avrebbe potuto giustificare in futuro un’incriminazione per i responsabili, incluso il presidente e il suo ministro della Giustizia.
Ancora più inquietante è il resoconto di un’audizione a porte chiuse al Congresso di esponenti delle forze armate e dell’intelligence nel luglio del 2013. In quell’occasione, vari membri della commissione della Camera dei Rappresentanti per i Servizi Segreti si erano lamentati per il mancato assassinio di Farekh.
Le circostanze che hanno determinato la sorte di Farekh dimostrano così ancora una volta la sostanziale assenza nel panorama politico americano di qualsiasi traccia di impegno per il rispetto dei diritti democratici e costituzionali, minati seriamente dall’implementazione delle misure volte ufficialmente a combattere la “guerra al terrore”.
Le stesse parole pronunciate da Obama circa la necessità di garantire anche ai cittadini americani sospettati di terrorismo un giusto processo sono a dir poco fuorvianti. Questa tesi del presidente si basa infatti su una tristemente nota dichiarazione di Eric Holder del 2012, nella quale il ministro della Giustizia di Obama aveva spazzato via due secoli di interpretazioni dei principi costituzionali, sostenendo che il diritto a un “giusto processo” non corrisponde necessariamente alla garanzia di un “processo giudiziario”.
In questo modo, secondo l’amministrazione democratica guidata da un ex docente di diritto costituzionale, il requisito del “giusto processo” per i cittadini americani nel mirino dei droni sarebbe soddisfatto semplicemente dal processo decisionale che avviene all’interno dell’esecutivo, condotto oltretutto in totale segretezza.
Evidentemente, questa interpretazione è accettata anche dal New York Times, così come da tutti i media ufficiali americani, visto che nell’articolo relativo a Farekh non vi è traccia di un qualche commento critico dei metodi criminali dell’amministrazione Obama, se non nella citazione di un opinione espressa dal vice-direttore legale dell’associazione a difesa dei diritti civili ACLU (American Civil Liberties Union).
L’arresto di Farekh e il fatto che la sua vita sia stata incidentalmente risparmiata non devono dunque illudere sulla predisposizione democratica della classe dirigente d’oltreoceano. Il governo americano continua a operare il proprio programma di assassini mirati in Pakistan, così come in Yemen, in Afghanistan e in Somalia, contro chiunque ritenga necessario eliminare senza alcuna restrizione.
Anzi, lo stesso ministro Holder un paio di anni fa aveva indirizzato una comunicazione al Senato di Washington, ammettendo che, “in circostanze straordinarie”, il presidente avrebbe facoltà di ordinare l’assassinio extra-giudiziario di propri connazionali anche “sul territorio degli Stati Uniti”.
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di Michele Paris
La decisione annunciata questa settimana dal presidente russo, Vladimir Putin, di sbloccare la fornitura all’Iran di un sistema di difesa missilistico relativamente avanzato, ha provocato non pochi malumori in Occidente e in Israele. L’iniziativa del Cremlino giunge d’altra parte a pochi giorni dalla ripresa dei negoziati sul nucleare della Repubblica Islamica per il raggiungimento di un accordo definitivo con la comunità internazionale e sembra gettare le basi per una sorta di asse Mosca-Teheran che potrebbe influire significativamente sugli assetti strategici mediorientali del prossimo futuro.
La consegna della batteria di missili terra-aria S-300 era stata volontariamente fermata dal governo russo nel 2010, durante la presidenza di Dmitrij Medvedev, in seguito alle pressioni di USA e Israele e nel quadro del fallito processo di distensione allora in atto tra Washington e Mosca.
Il mancato adempimento di un contratto del valore di 800 milioni di dollari, siglato nel 2007 con la compagnia pubblica russa Rosoboronexport, aveva spinto l’Iran ad aprire una causa legale presso l’arbitrato di Ginevra per ottenere un rimborso da 4 miliardi di dollari.
A livello immediato, il ripristino del contratto relativo al sistema S-300 sembra rappresentare una mossa da parte russa per anticipare i paesi occidentali nell’accaparrarsi quote importanti del mercato delle armi in Iran, visto che, come ha spiegato un’analisi apparsa martedì sul Moscow Times, la Repubblica Islamica dovrà spendere circa 40 miliardi di dollari per rimodernare le proprie forze armate nel caso venissero abolite le sanzioni attualmente in essere.
Questa necesità è accentuata dal fatto che i rivali regionali di Teheran - le monarchie assolute sunnite del Golfo Persico, impegnate in una guerra indiretta contro l’Iran sul territorio yemenita - stanno spendendo decine di miliardi di dollari in armamenti, come conferma negli ultimi anni la presenza di paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi in cima alla lista dei clienti delle compagnie produttrici, soprattutto americane.
Il sistema anti-missile S-300 risponde poi all’esigenza iraniana di difendersi dalla costante minaccia di aggressione militare di Stati Uniti e Israele. Da Tel Aviv e Washington sono infatti giunte critiche alla Russia per lo sblocco della fornitura, visto che essa mette a rischio i piani di entrambi i governi - tuttora “sul tavolo” nonostante il possibile accordo con Teheran - per bombardare le installazioni nucleari iraniane.
Secondo le notizie riportate dai media, il primo ministro israeliano Netanyahu avrebbe espresso direttamente a Putin il proprio disappunto per la decisione presa questa settimana. Il Dipartimento di Stato americano ha invece manifestato perplessità al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ma la portavoce, Marie Harf, nel corso di un incontro con i giornalisti ha dovuto ammettere che la vendita non viola alcuna delle sanzioni internazionali che gravano sull’Iran.
Lavrov, da parte sua, ha correttamente ribattuto che il sistema S-300 non rappresenta alcuna minaccia per nessun paese, vista la sua natura esclusivamente difensiva. Il numero uno della diplomazia russa non ha risparmiato anche qualche stoccata nei confronti degli Stati Uniti, affermando che il precedente stop alla fornitura era stata una decisione presa autonomamente da Mosca e che, quindi, lo sblocco della vendita annunciato questa settimana non deve essere soggetto a indebite interferenze esterne.
Il riferimento degli USA a un possibile ostacolo al raggiungimento di un accordo finale sul nucleare con Teheran a causa degli S-300 è stato ugualmente respinto dallo stesso Lavrov, il quale ha anzi assicurato che la decisione russa intende “stimolare un processo costruttivo” all’interno dei negoziati in corso.
Qualche critica a Putin è giunta anche dalla Germania, con la cancelliera Merkel che ha ricordato come “i paesi che hanno concordato le sanzioni contro Teheran dovrebbero, per quanto possibile, deciderne la rimozione in maniera collettiva”. Il messaggio proveniente da Berlino rivela principalmente i timori da parte degli ambienti del business tedesco di essere sopravanzati dalla Russia nella corsa al mercato iraniano.
Mosca, in ogni caso, parallelamente all’annuncio dello sblocco della fornitura del sistema anti-missile S-300, ha fatto sapere di volere inaugurare un programma di scambio del valore di alcune decine di miliardi di dollari con la Repubblica Islamica. Il programma prevede l’invio all’Iran di cibo ed equipaggiamenti vari prodotti in Russia in cambio di petrolio.
La decisione di Putin ha però un risvolto soprattutto strategico e smentisce tutti quegli osservatori che presagivano una certa resistenza da parte russa ad approvare lo sdoganamento dell’Iran tramite un accordo sul nucleare con la comunità internazionale, poiché un simile passo avrebbe favorito il riavvicinamento di Teheran all’Occidente a discapito dei rapporti con Mosca. Entrambi i paesi, al contrario, hanno indicato chiaramente nei giorni scorsi come la partnership russo-iraniana abbia solide basi e potenzialità di crescita.
Un commento dell’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar pubblicato martedì sulla testata on-line Asia Times, ha ricordato la fondamentale visita al Cremlino a fine gennaio dell’ex ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Velayati, stretto consigliere della guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei.
Il vertice avrebbe dato un impulso decisivo alla ridefinizione dei rapporti strategici tra Russia e Iran, visto che, come aveva commentato l’agenzia di stampa ufficiale iraniana IRNA, la missione di Velayati aveva due obiettivi, verosimilmente raggiunti: “Preparare la traiettoria delle politiche dell’Iran in uno scenario segnato dal possibile stallo dei negoziati con le potenze mondiali attorno alla questione del nucleare” e “convincere la Russia che la distensione con l’Occidente non avverrà mai a spese delle relazioni” con Mosca.
Recepito il messaggio proveniente direttamente da Khamenei, Putin ha agito di conseguenza, ritenendo con ogni probabilità anche necessario contrastare i calcoli strategici di Washington nel cercare un’intesa con la leadership iraniana. L’impegno diplomatico degli USA sulla questione del nucleare è dettato infatti dal desiderio di trovare un accomodamento con Teheran, sia pure secondo i termini dettati da Washington, in vista di una stabilizzazione del Medio Oriente, così da concentrare l’attenzione su minacce ben maggiori alla propria declinante egemonia, come appunto la Russia o la Cina.
Che l’annuncio di dare il via libera alla fornitura del sistema S-300 sia da inserire in un quadro strategico più ampio è confermato poi dal fatto che Putin ne ha dato notizia ufficiale poche ore prima di ospitare lunedì a Mosca i rappresentanti dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), un blocco politico, economico e militare che include, oltre alla Russia, la Cina e quattro repubbliche centro-asiatiche.
L’SCO è uno strumento ideato in primo luogo per contrastare l’influenza americana in Asia e, all’interno di esso, l’Iran è accreditato dello status di osservatore. Secondo molti analisti, l’evoluzione dei rapporti tra Mosca e Teheran potrebbe portare a breve all’ammissione a tutti gli effetti della Repubblica Islamica nell’SCO.
La Russia, infine, promette di essere un punto di riferimento per l’Iran in caso di naufragio delle trattative sul nucleare o, quanto meno, se l’amministrazione Obama non dovesse rispondere alla concessione fondamentale richiesta da Teheran, vale a dire l’abrogazione di tutte le sanzioni economiche dopo la firma di un eventuale accordo.
Qualche nube sull’esito dei negoziati si è infatti addensata martedì, quando la commissione Esteri del Senato di Washington ha approvato in maniera bipartisan un provvedimento che, contro la volontà della Casa Bianca, assegna al Congresso americano la facoltà di esprimersi su qualsiasi accordo sul nucleare iraniano dovesse essere raggiunto entro il 30 giugno prossimo.
La versione votata questa settimana è stata in realtà ammorbidita in seguito a negoziati tra senatori e Casa Bianca, così che Obama dovrebbe conservare ampia discrezione sull’implementazione dell’eventuale accordo. Tuttavia, la vicenda ricorda come rimangano intatti i possibili ostacoli alla finalizzazione dell’intesa provvisoria sottoscritta il 2 aprile, tanto più che il dibattito in aula potrebbe portare all’inclusione di pericolosi emendamenti da parte dei “falchi” repubblicani, con il rischio concreto di mettere a repentaglio il lavoro svolto nei mesi scorsi dalla diplomazia internazionale.
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di Michele Paris
L’annuncio del lancio ufficiale della campagna per la presidenza degli Stati Uniti da parte di Hillary Clinton è giunto nel pomeriggio di domenica con la diffusione in rete di un breve e piuttosto insolito filmato. L’ex first lady è di gran lunga la favorita per la conquista della “nomination” in casa democratica, essendosi assicurata da tempo l’appoggio più importante per qualsiasi candidato americano, quello dei ricchi finanziatori del proprio partito.
Mentre tra i repubblicani gli equilibri appaiono decisamente più fluidi, nonostante la posizione di relativo vantaggio da cui sembra partire Jeb Bush, Hillary non ha al momento rivali nel suo partito. Non solo nessun altro democratico ha ancora annunciato la propria candidatura in maniera ufficiale, ma anche i possibili ipotetici sfidanti indicati dalla stampa - l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, l’ex senatore della Virginia, Jim Webb, il senatore nominalmente indipendente del Vermont, Bernie Sanders, l’ex governatore del Rhode Island ed ex repubblicano, Lincoln Chafee - sono poco più che sconosciuti al grande pubblico negli USA.
Gli unici nomi di un certo peso in un eventuale confronto con la Clinton potrebbero essere l’attuale vice-presidente, Joe Biden, o la senatrice “liberal” del Massachusetts, Elizabeth Warren, ma, per motivi diversi, dovrebbero entrambi rinunciare pur avendo accarezzato l’idea di correre per la Casa Bianca. Biden, al di là della tendenza a collezionare clamorose gaffes in pubblico, dal 2009 a oggi ha ricoperto un ruolo ancora più secondario rispetto a quello già tutt’altro che di primo piano normalmente previsto dal suo incarico, non essendo riuscito dunque a costruirsi un’immagine presidenziale come fece, ad esempio, Al Gore nel 2000.
La senatrice Warren, invece, è considerata una sorta di paladina del progressismo d’oltreoceano e raccoglie un certo seguito negli ambienti democratici frustrati dall’inclinazione eccessivamente pro-business del partito. Alcuni dei temi moderatamente progressisti in campo economico della Warren saranno però sfruttati dalla stessa Hillary, così che la senatrice del Massachusetts verrebbe con buone probabilità travolta dalla “front-runner” democratica, molto meglio finanziata e appoggiata dall’establishment del partito.
Il team Clinton è in ogni caso ben cosciente che a quasi nove mesi dal primo appuntamento delle primarie la propria candidata non può pensare di avere la nomination in tasca, soprattutto alla luce della clamorosa sconfitta del 2008 per mano di Obama. Tanto più che il curriculum di Hillary e del marito, assieme all’avversione suscitata dalla sua candidatura in ampie fasce della popolazione, comporta non pochi rischi e possibili sorprese.
L’ex segretario di Stato ha infatti già dovuto fronteggiare almeno un paio di controversie nelle scorse settimane, ancor prima cioè di lanciare in maniera ufficiale la propria campagna per la Casa Bianca. La prima ha riguardato le donazioni fatte da governi stranieri all’organizzazione filantropica fondata da Bill durante la permanenza di Hillary al Dipartimento di Stato, mentre la seconda l’utilizzo di un account privato di posta elettronica tra il 2009 e il 2013 laddove le norme federali impongono l’uso esclusivo di uno governativo.
Il suo staff, formato da svariati professionisti che lavorarono per la campagna di Obama nel 2008, appare comunque molto agguerrito e intenzionato a evitare gli errori del passato, primo fra tutti quello di far apparire da subito Hillary come la vincitrice obbligata nel partito Democratico.
Secondo quanto riportato dai media americani, l’ex senatrice di New York intende concentrarsi sugli stati che tradizionalmente inaugurano la stagione delle primarie: Iowa, New Hampshire, South Carolina e Nevada. Quando all’interno di un partito vi è un chiaro favorito per la nomination, infatti, eventuali successi a catena in questi primi stati determinano quasi sempre la rinuncia da parte degli sfidanti a proseguire lunghe e dispendiose campagne, nonostante in essi vengano assegnati solo un numero minimo di delegati alla convention.
Nel video in cui ha annunciato la sua candidatura, Hillary non ha citato nemmeno sommariamente una piattaforma politica o un punto programmatico su cui baserà la campagna dei prossimi mesi. Vista la situazione precaria in cui versa buona parte degli americani, è tuttavia estremamente probabile che farà ricorso alla retorica progressista, promettendo ad esempio l’aumento delle retribuzioni minime o, più in generale, la riduzione delle disparità di reddito, pur avendo fatto parte di un’amministrazione che ha ingigantito queste problematiche negli ultimi anni.
Come ha evidenziato un commento di Bloomberg News, inoltre, non mancheranno occasionali tirate contro i “super-ricchi” d’America, così come gli sforzi per togliersi di dosso l’etichetta di “candidata di Wall Street”, che le aderisce peraltro in maniera pressochè perfetta.
Sui temi di politica estera e della sicurezza nazionale si annuncia invece una gara tra i candidati sia nelle primarie sia nelle presidenziali vere e proprie per mostrare le rispettive credenziali da “falco”. Hillary, da parte sua, è posizionata ancora più a destra di Obama in questo ambito, facendo quindi intravedere, da un lato, una linea ancora più dura nei confronti di Russia e Cina, e dall’altro un atteggiamento più conciliante verso Israele.
Prevedibilmente, però, Hillary punterà soprattutto sul fatto che, se eletta, sarà la prima donna a entrare alla Casa Bianca da “comandante in capo”. Le questioni di genere, assieme a quelle razziali e dei diritti degli omosessuali, sono l’arma rimasta ai democratici per accendere un qualche entusiasmo tra l’elettorato - soprattutto della classe media - avendo da tempo abbandonato qualsiasi velleità di riforma economica in senso progressista.
L’interesse della stampa americana e internazionale per la candidatura di Hillary Clinton non può comunque dare particolare credibilità democratica al processo di selezione del potere negli Stati Uniti. I candidati tra cui gli elettori americani si trovano a dover scegliere sono di fatto vagliati esclusivamente da un gruppo ristretto di ricchi e potenti che controllano la politica e i media grazie al loro denaro.
Molti mesi prima delle elezioni primarie e della stessa inaugurazione ufficiale delle varie campagne elettorali, i candidati di entrambi i partiti operano dietro le quinte per assicurarsi l’appoggio e i dollari dei grandi finanziatori. Il primo candidato repubblicano ad aveve annunciato la corsa alla Casa Bianca era stato un paio di settimane fa il senatore di estrema destra del Texas, Ted Cruz, il quale dispone già di oltre 30 milioni di dollari per la propria campagna.
Jeb Bush, pur non essendo ancora formalmente in lizza per la nomination, intende toccare addirittura i 100 milioni di dollari raccolti entro il primo semestre dell’anno, mentre la stessa Hillary potrebbe sfondare tutti i record, mettendo assieme una somma complessiva stimata tra 1,5 e 2 miliardi di dollari in contributi per le primarie e le presidenziali.
La raccolta di somme di questa importanza comporta necessariamente che i candidati garantiscano di essere totalmente al servizio dei propri finanziatori una volta raggiunta la posizione di potere. Soprattutto, uno scenario di questo genere esclude a priori la presenza di candidati che mettano in discussione il sistema del capitalismo americano o, in altre parole, che sostengano misure fortemente popolari tra la vasta maggioranza degli americani: dall’aumento delle tasse per i redditi più elevati all’adeguato finanziamento dei programmi pubblici di assistenza o del sistema scolastico, dalla fine delle guerre allo stop ai programmi di sorveglianza condotti dall’apparato da stato polizia creato in questi anni.
Il risultato è così la presenza sulle schede elettorali di due candidati virtualmente identici che si battono per la Casa Bianca, entrambi legati ai grandi interessi economico-finanziari del paese e essi stessi appartenenti alla cerchia dei milionari, se non addirittura miliardari, come nel caso di Mitt Romney nel 2012.
Ironicamente, perciò, come confermerà anche la candidatura di Hillary Clinton, l’infusione di denaro in proporzioni sempre maggiori per conquistare incarichi di rilievo riflette la necessità di alimentare una macchina della propaganda tale da sottrarre al dibattito politico e, per quanto possibile, agli occhi degli elettori le condizioni reali del sistema politico e sociale degli Stati Uniti.
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di Fabrizio Casari
Con cinquantacinque anni di ritardo, un presidente degli Stati Uniti ha accettato d’incontrare un presidente Cubano. Le strette di mano e i colloqui intercorsi tra Barak Obama e Raul Castro sono un fatto storico che, sebbene non cancellino responsabilità e memoria, possono preludere ad un futuro diverso. Obama si è impegnato a togliere il nome di Cuba dalla lista dei paesi che patrocinano il terrorismo e questo è certamente un passo importante; oltre a rimuovere una idiozia assoluta, permette la rimozione di una serie di misure ad esso legate, fondamentali per proseguire il dialogo e per aprire il cammino a nuove aperture, che vedranno il ristabilimento pieno delle relazioni diplomatiche con le rispettive sedi. Relazioni che dovranno essere improntate al pieno rispetto della Convenzione di Vienna e non alla Dottrina Monroe.
Cuba chiedeva l’apertura di un dialogo alla pari e senza inibizioni, da decenni, erano gli USA che rifiutavano, ponendo come precondizione la fine del sistema politico. Adesso, invece, Obama non chiede niente a Cuba che l’isola non abbia già deciso di fare per proprio conto e ascoltare Obama ammettere che non è possibile continuare con l’ingerenza diretta negli affari interni degli altri paesi è ovviamente una novità positiva, per quanto al momento risulti ancora un espediente retorico.
L’apertura di quella che con ogni evidenza appare una fase nuova nella relazione tra i due paesi, è certamente un risultato della determinazione di entrambe le leadership. La stampa internazionale sottolinea il coraggio (indiscutibile nella circostanza) di Obama a rompere con un errore lungo 55 anni ed accettare la sfida con Congresso e Senato a maggioranza repubblicana. Peraltro, molti dei senatori e deputati democratici hanno verso Cuba identica posizione dei falchi repubblicani, il che complica ulteriormente le cose.
Quindi, in assenza di pressioni importanti da parte delle aziende USA, che vedono in Cuba un possibile nuovo mercato, è difficile ipotizzare una legge a breve per l’abolizione del blocco. Sia appunto per quanto produrrebbe nel seno dell’establishment statunitense sia anche sotto il profilo della rottura del vincolo con il terrorismo cubano americano dei fuoriusciti, serbatoio elettorale in due stati chiave per la presidenza. In questo senso, anche se alla fine del suo secondo mandato, Obama ha dimostrato oggettivamente coraggio. Ma è giusto sottolineare come sia Cuba a potersi assumere gran parte del merito di questo cambiamento profondo nella politica statunitense.
Se Obama oggi ammette la necessità di voltare pagina, se riconosce l’inutilità di una linea fallimentare, è perché la resistenza di Cuba ha condotto al fallimento quella linea. Quelle strette di mano, quel colloquio a due, la serie d’incontri tra le rispettive delegazioni per affrontare i distinti temi e problemi che l’apertura di una relazione politica comporta dopo 55 anni di scontro, sono il risultato di una resistenza tenace dell’isola che non ha mai ceduto a ricatti e minacce, al terrorismo che ha dovuto subire per 5 decadi.
Quando Obama afferma che non ha interesse a proseguire politiche fallimentari cominciate quando lui non era ancora nato, altro non certifica che la definitiva presa d’atto di una linea annessionista che non ha vinto perché non poteva vincere, dal momento che Cuba, di fronte allo scorrere degli eventi, non ha mai nemmeno ipotizzato compiere passi indietro sul piano della sua sovranità nazionale.
La scelta di costruire un sistema socialista, ribadita anche ieri nel discorso tenuto da Raul, conferma quanto la richiesta di apertura di un dialogo diretto e di porre fine all’ostilità statunitense verso Cuba, non possa essere intesa come un disarmo ideologico.
La costruzione del socialismo cubano, che pure nel corso di cinquantasei anni ha visto nell’applicazione del suo modello modificazioni, rettifiche ed assestamenti, d’accordo ai cambiamenti intervenuti sul piano internazionale le cui ripercussioni, ovviamente, sono state avvertite sull’isola, hanno portato l'isola alla ricerca (tutt'ora in corso) di un modello funzionale alle peculiarità del Paese, ma non si sono trasformate nella rinuncia alla costruzione di un sistema sociopolitico a carattere socialista.
E’ proprio di queste differenze profonde che parla Raul quando ricorda come il dialogo può e deve affrontare ogni ambito, ma che questo avrà bisogno di molta pazienza e potrà darsi solo con il reciproco rispetto delle diverse identità politiche e culturali. Cuba, che attraversa una fondamentale processo di modernizzazione del suo sistema economico e sociale, continuerà come nei 56 anni precedenti a determinare in piena sovranità presente e futuro del Paese.
Del resto, pur riconoscendo onestà e correttezza al presidente statunitense, pur lodandone il coraggio e le buone intenzioni, Raul ha ricordato come dalla vittoria del 1959 ad oggi, nel contenzioso tra Stati Uniti e Cuba c’è un aggressore e un aggredito. E, che se per Obama il blocco è una scelta decisa quando lui non era ancora nato, lo stesso possono dire il 77% dei cubani, che sono nati con il blocco vigente. Dunque sarà la fine di quel sistema di crimini intrecciati ed anacronismo, di guerra ideologica e business illegale il momento decisivo per chiudere una ferita che è costata a Cuba sviluppo, pace e sacrifici immensi.
Vi è poi un altro aspetto, di valore assoluto, che ha concorso a dare il via al cambio di politica statunitense verso l’isola. Se la posizione ferma di tutta la comunità internazionale che, anno dopo anno, in sede ONU ha isolato e sconfitto con numeri schiaccianti il blocco USA, è in particolare l’unità dei paesi latinoamericani, ulteriormente rafforzata dalle sue istituzioni nate negli ultimi anni come CELAC e UNASUR, che ha rappresentato un potente asset per l'isola socialista.
Istituzioni che hanno messo fine alla esclusiva relazione bilaterale che caratterizzava la debolezza di ciascun paese latino con gli Stati Uniti; con esse si è assunta una dimensione collettiva rilevatasi un autentico muro di protezione per l’indipendenza di ogni paese latinoamericano. Uno scenario di cui Cuba si è certamente giovata, potendo chiudere con i decenni nei quali a fronteggiare l’aggressione imperiale era sola.
Questa stessa unità ha permesso al Venezuela, oggetto di una campagna mediatica e politica con finalità sovversive orchestrata dagli Stati Uniti, di ottenere il sostegno di tutta l’America Latina nella richiesta di abrogazione del Decreto presidenziale USA de 9 Marzo scorso, nel quale Washington definiva Caracas una “minaccia alla sicurezza nazionale USA”.
Sebbene Obama nei giorni scorsi abbia parzialmente rettificato quanto affermato dal portavoce che illustrò il Decreto, sostenendo che “Il Venezuela non minaccia gli USA e gli USA non minacciano il Venezuela”, a scanso di equivoci e per chiedere a Obama, in coerenza con quanto affermato, il ritiro di quel Decreto, tutti i paesi latinoamericani hanno chiesto al presidente USA di cancellare il Decreto e la politica che lo ha espresso.
Proprio la consapevolezza del significato intrinseco delle parole contenute nel Decreto, storicamente premessa formale per l’avvio di attività sovversive ed invasioni da parte degli USA verso paesi terzi, aveva già prodotto una roboante reazione politica in Venezuela e nel resto del subcontinente.
Reazione culminata sul piano formale proprio a Panama, con la consegna a John Kerry di oltre 10 milioni di firme che chiedono agli USA il ritiro di quel Decreto, accompagnato dal pronunciamento diretto di 33 paesi su 35 presenti al Vertice delle Americhe, che hanno isolato così Stati Uniti e Canada.
L’assenza di una dichiarazione finale al Vertice è stato purtroppo un epilogo inevitabile. Sarebbe stato certo un grande risultato impegnare tutto il continente in una dichiarazione d'intenti, ma non c'erano le condizioni oggettive.
Non sono certo possibili, all'oggi, dichiarazioni comuni sul Venezuela o sulla richiesta di cambiare radicalmente metodi e obiettivi nella politica di sicurezza e di guerra al narcotraffico, così come sulla necessità di porre fine alle scorribande delle multinazionali estrattive che distruggono l’ambiente. Sono questi tutti temi sollevati con forza dal blocco democratico latinoamericano ai quali però gli USA e il Canada, con il codazzo del Messico, non sono certo in grado di dare risposte che non siano un'autoaccusa.
Ma come già a Mar del Plata nel 2005, proprio l’impossibilità di ricondurre la comunità latinoamericana alla compatibilità politica con gli interessi statunitensi conferma un ulteriore rafforzamento del blocco democratico latinoamericano, che è ben lungi dalla crisi che alcuni media occidentali dipingono e semmai più risoluto nel costruire il suo futuro a prescindere dal Washington Consensus. Finiti i tempi in cui si pensava in inglese ciò che andava accettato in spagnolo. Il Sud adesso parla chiaro, con molte voci ma in una sola lingua. Tocca al Nord imparare ad ascoltare.