di Mario Lombardo

La resa dei conti nel partito conservatore di governo australiano ha portato questa settimana alla rimozione del primo ministro, Tony Abbott, in seguito a un voto di sfiducia interno che era nell’aria da tempo. Da mesi, infatti, Abbott, è sotto il fuoco degli ambienti finanziari e del business indigeni e internazionali per non essere stato in grado di mettere in atto le misure promesse di liberalizzazione dell’economia in un momento di crescente affanno del sistema australiano basato sull’export delle risorse del sottosuolo.

A richiedere un voto sulla leadership del Partito Liberale, come è relativa consuetudine per le formazioni politiche australiane, era stato nella mattinata di lunedì l’ex ministro delle Comunicazioni, Malcolm Turnbull, evidentemente dopo essersi assicurato il sostegno della maggioranza dei colleghi parlamentari.

Pressoché contemporaneamente, il ministro degli Esteri e numero due dei Liberali, Julie Bishop, aveva di fatto sottratto il proprio appoggio al premier, costringendo quest’ultimo a scegliere tra rassegnare le dimissioni e indire un voto sulla mozione presentata da Turnbull.

Alla fine, Abbott ha annunciato il voto per la serata di lunedì e Turnbull ha prevalso con 54 voti a favore e 44 contrari, diventando poche ore più tardi il 29esimo primo ministro della storia australiana e il quinto in poco più di cinque anni. Il cambio al vertice del partito di governo è solo l’ultimo di una lunga serie in questi ultimi anni e testimonia della profonda instabilità del sistema parlamentare australiano.

Nel 2010, il primo ministro laburista, Kevin Rudd, era stato estromesso dopo una mozione interna al partito presentata da uno dei suoi ministri, Julia Gillard, in collaborazione con un’amministrazione Obama preoccupata per le timide “aperture” del premier alla Cina. Tre anni più tardi, per cercare di arginare il crollo dei consensi dei laburisti, la leadership del partito avrebbe invece reinstallato Rudd con un nuovo colpo di mano a spese della stessa Gillard.

Se Turnbull nella sua prima apparizione al Parlamento di Canberra ha avuto parole di elogio per il suo predecessore, dopo il voto di sfiducia Abbott ha denunciato le manovre di “destabilizzazione messe in atto per molti, molti mesi” ai danni del suo governo. L’ex primo ministro, pur non facendo nomi, aveva in mente i media e i membri del suo partito preoccupati per la persistente paralisi dell’attività di governo.

In particolare, un piano di bilancio all’insegna dei tagli alla spesa pubblica è fermo da tempo in Parlamento a causa dell’impopolarità delle misure previste. Le iniziative già adottate dal governo di coalizione - formato dal Partito Liberale e dal Partito Nazionale Australiano - e la crisi economica hanno nel frattempo fatto lievitare l’ostilità della maggioranza della popolazione verso l’esecutivo, come hanno testimoniato nel recente passato alcuni test elettorali a livello locale.

A gettare sull’orlo della recessione un’economia come quella australiana che aveva superato in maniera relativamente indenne la crisi mondiale scoppiata nel 2008 è stato sostanzialmente il rallentamento della Cina, di gran lunga il primo mercato delle esportazioni derivanti da un’attività estrattiva fino a poco tempo fa in piena espansione.

Come accaduto in praticamente ogni altro paese del pianeta interessato dalla crisi economica, anche in Australia la classe dirigente e i grandi interessi economico-finanziari hanno iniziato a chiedere interventi efficaci per far fronte alla nuova situazione, in primo luogo attraverso misure gravemente penalizzanti per lavoratori e classe media.

Sui principali giornali australiani, soprattutto quelli detenuti da Rupert Murdoch, la frustrazione delle élite domestiche è evidente da tempo. In molti chiedevano infatti una scossa al governo o elezioni anticipate. Lo scorso febbraio, d’altra parte, Abbott era sopravvissuto a un’altra mozione di sfiducia interna al Partito Liberale, anche se già allora era chiaro il crescere dell’opposizione alla gestione del primo ministro, in carica solo dal settembre 2013.

Vista la situazione, non è una sorpresa che il neo-premier Turnbull abbia subito dichiarato di volere dedicarsi principalmente alle questioni economiche, minacciando “riforme” che, nel linguaggio orwelliano tipico dei leader politici occidentali, dovrebbero “assicurare la nostra prosperità negli anni a venire”.

Nonostante la composizione del nuovo governo sarà decisa solo nei prossimi giorni, non è un caso nemmeno che la stampa australiana stia dando per scontata la sostituzione del ministro delle Finanze, Joe Hockey, da molti identificato come il principale responsabile, oltre al primo ministro, della mancata implementazione delle misure di austerity.

Nella giornata di martedì, Turnbull si è comunque assicurato il continuo sostegno del Partito Nazionale e, secondo i media locali, starebbe studiando alcune misure populiste di facciata rivolte alle famiglie coi redditi più bassi e agli studenti.

Il tempo a disposizione del nuovo governo di Canberra è tuttavia molto limitato, visto che la legislatura in corso scadrà tra un anno e i numeri del Partito Liberale appaiono tutt’altro che incoraggianti.

Allo stesso tempo, l’opposizione del Partito Laburista, al potere dal 2007 al 2013, è ancora largamente screditata, così che parecchi tra i Liberali si augurano che una figura come Turbnull possa riuscire a invertire la rotta per il partito.

Il neo-premier, ex giornalista e banchiere d’investimenti multimilionario, è accreditato di posizioni relativamente progressiste su alcune questioni diverse dall’economia. Turnbull, al contrario di Abbott, non è ad esempio negazionista in merito al cambiamento climatico ed è favorevole ai matrimoni gay.

Anche per questa ragione, perciò, il nuovo primo ministro australiano potrebbe essere stato scelto dai poteri forti del paese dell’Oceania per far digerire le misure di ristrutturazione economica che essi reputano inevitabili e che Abbott non ha avuto la forza politica di mettere in atto in questi due anni di governo.

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