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di Michele Paris
La pubblicazione avvenuta questa settimana dell’annuale “libro bianco” del ministero della Difesa giapponese ha innescato un nuovo scontro diplomatico con il governo cinese in concomitanza con l’approvazione alla camera bassa del parlamento di Tokyo di un pacchetto legislativo volto a liquidare i principi pacifisti fissati dalla Costituzione nipponica.
Il documento che delinea le sfide globali alla sicurezza del Giappone dedica un’insolitamente ampia sezione alla Cina, il cui comportamento sembra suscitare “forti preoccupazioni” a Tokyo. Il tono del “libro bianco” è di forte critica verso il vicino cinese e, in particolare, contiene rimproveri altamente provocatori in merito alle operazioni di Pechino nelle acque contese dei mari Cinese Orientale e Meridionale.
La Cina, secondo il governo ultra-conservatore del premier Shinzo Abe, agirebbe in maniera “aggressiva”, cercando di forzare il cambiamento dello status quo e di promuovere le proprie rivendicazioni “senza scendere a compromessi”.
L’aspetto più controverso del documento giapponese, e maggiormente contestato da parte della Cina, riguarda la richiesta di interrompere la costruzione di piattaforme per l’esplorazione di giacimenti di gas e petrolio nel Mar Cinese Orientale.
A supporto delle proprie critiche, il ministero della Difesa di Tokyo nella giornata di mercoledì ha diffuso una mappa che indica il posizionamento delle strutture “off-shore” installate dalla Cina, in aggiunta a 14 fotografie aeree degli stessi impianti. Per il segretario generale del Gabinetto giapponese, Yoshihide Suga, le piattaforme accertate sarebbero 16, di cui 12 identificate a partire dal giugno 2013.
Lo stesso Suga ha inoltre spiegato quali sarebbero le ragioni della preoccupazione giapponese per le attività di Pechino. Il governo cinese, cioè, avrebbe costruito le strutture utili all’estrazione di gas e petrolio in un’area dove i confini tra i due paesi non sono stati ancora definiti bilateralmente.
Tokyo invita perciò le autorità cinesi a tornare al tavolo delle trattative sulla base di un accordo raggiunto tra i due paesi nel 2008, nel quale avevano concordato in linea di principio di condurre operazioni esplorative congiunte nel Mar Cinese Orientale.
Il carattere tendenzioso delle accuse formulate da Tokyo è apparso chiaro nel momento in cui il governo Abe ha ribadito che, in assenza di un accordo bilaterale, la propria posizione ufficiale in relazione al Mar Cinese Orientale prevede il riconoscimento di una linea di demarcazione che taglia esattamente a metà l’area marittima in questione. Da questo presupposto, il Giappone ha dovuto ammettere che le strutture costruite da Pechino sono situate sul lato cinese della linea mediana di demarcazione.
L’interpretazione giapponese - sia pure provvisoria - dei confini nel Mar Cinese Orientale ha dato così legittimità alle reazioni del ministero degli Esteri di Pechino, da dove è stato ribadito che le attività di esplorazione per gas e petrolio “vengono condotte in acque indisputabilmente sotto la giurisdizione cinese, la quale è pienamente all’interno della sovranità” della Repubblica Popolare.
Il Giappone, in ogni caso, teme che la propria sicurezza possa essere compromessa se le strutture “off-shore” cinesi dovessero essere utilizzate a scopi militari, ad esempio con il posizionamento di “sistemi radar” o con la creazione di “basi operative per elicotteri o droni destinati a condurre pattugliamenti aerei”. Vari commentatori e analisti citati anche dalla stampa giapponese, tuttavia, hanno espresso parecchie perplessità circa il fatto che le piattaforme esistenti possano essere convertite in strutture militari da parte della Cina.Come già anticipato, il “libro bianco” del ministero della Difesa nipponico è stato reso noto pochi giorni dopo l’approvazione in parlamento di un provvedimento fortemente voluto dal primo ministro Abe e che dovrebbe consentire l’impiego delle forze armate del Giappone all’estero con minori vincoli. Tra l’altro, la nuova legislazione prevede la possibilità che i militari giapponesi partecipino alle avventure belliche degli alleati, a cominciare dagli Stati Uniti.
Queste leggi, oltre a essere di molto dubbia costituzionalità, sono estremamente impopolari in Giappone e la loro promozione da parte di Abe ha già provocato un vero e proprio crollo dell’indice di gradimento del premier nel paese. Il ricorso a una retorica aggressiva per demonizzare la Cina intende dunque sollecitare il sentimento nazionalista giapponese, così da contrastare la diffusa opposizione alla svolta militarista impressa dal capo del governo.
Su questo punto ha insistito la reazione cinese alla pubblicazione del documento strategico giapponese. Il ministero della Difesa di Pechino ha affermato che Tokyo “ha maliziosamente ingigantito le questioni riguardanti il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale”, ma anche quelle sulla “sicurezza del web e la trasparenza militare”.
Tutto ciò, secondo quanto affermato giovedì dall’ambasciatore cinese a Tokyo, Cheng Yonghua, allo scopo di “alimentare la minaccia cinese” e favorire l’implementazione del controverso pacchetto legislativo sulla sicurezza. Lo stesso ambasciatore ha poi aggiunto che trasformare la Cina in un “nemico immaginario” non può che ostacolare il miglioramento dei rapporti tra i due paesi.
La strumentalizzazione del “libro bianco” giapponese e delle accuse alla Cina in esso contenute è stata confermata da quanto ha scritto giovedì il quotidiano nipponico conservatore Yomiuri Shimbun, secondo il quale il governo di Tokyo ha chiesto almeno dal 2013 lo stop delle operazioni esplorative di Pechino nel Mar Cinese Orientale, ma ha atteso solo ora - in contemporanea con il voto in parlamento sulla legislazione militarista - per pubblicare le immagini e la mappa delle installazioni “off-shore”.
Con la mossa di questi ultimi giorni, il governo giapponese ha aggiunto quindi un nuovo motivo di scontro con la Cina, facendo salire ulteriormente le tensioni in Estremo Oriente. L’aggravamento di conflitti territoriali considerati relativamente trascurabili per decenni nel continente asiatico è legato principalmente al ritorno ad aggressive politiche all’insegna del militarismo da parte di Tokyo.Allo stesso tempo, queste stesse politiche sono in parte il riflesso del riassetto strategico in fase di elaborazione degli Stati Uniti, a sua volta determinato dall’espansione dell’influenza cinese in un’area del globo strategicamente ed economicamente sempre più importante.
Washington, nel tentativo di invertire il proprio declino, ha lanciato un ambizioso quanto pericoloso piano di riposizionamento delle proprie forze navali in Asia orientale, perseguendo in parallelo legami diplomatici e militari più profondi con vari paesi, molti dei quali da qualche tempo nell’orbita economica di Pechino.
In questo processo, dal Giappone alle Filippine al Vietnam, gli USA hanno incoraggiato rivendicazioni territoriali e atteggiamenti provocatori nei confronti della Cina, in una strategia di accerchiamento che rischia seriamente di portare le tensioni fino al punto di rottura.
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di Michele Paris
Nel corso di una recente intervista televisiva al network americano MSNBC, uno degli ex alti ufficiali più autorevoli e influenti degli Stati Uniti ha apertamente invocato misure di controllo e repressione del dissenso tipiche del regime nazista. Il generale in pensione Wesley Clark, già due volte brevemente candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca, ha infatti prospettato la detenzione in campi di internamento per coloro che ha definito come “americani sleali”.
L’inquietante proposta è stata illustrata nel corso di un intervento seguito alla recente sparatoria in un centro di reclutamento delle forze armate USA a Chattanooga, nel Tennessee, per mano di un giovane di origine kuwaitiana che avrebbe manifestato simpatie fondamentaliste.
Per trovare una soluzione alla presunta minaccia terroristica che incomberebbe sugli Stati Uniti, Clark ha fatto riferimento al periodo della Seconda Guerra Mondiale. Durante il conflitto, cioè, “se qualcuno appoggiava la Germania nazista a spese degli Stati Uniti”, ha spiegato l’ex generale, “veniva rinchiuso in un campo come prigioniero di guerra”, visto che questa opinione non era considerata come una manifestazione della libertà di espressione.
Allo stesso modo, nella situazione odierna, per queste persone con tendenze fondamentaliste, “diventare radicalizzate, non appoggiare gli Stati Uniti ed essere sleali verso gli Stati Uniti, in linea di principio è un loro diritto”, secondo Clark. Tuttavia, “è nostro diritto e obbligo di isolarli dalla comunità per la durata del conflitto” in corso contro il terrorismo internazionale.
Ancora più sbalorditiva è stata la tesi successiva dell’ex comandante NATO in Europa, per il quale il rischio rappresentato dai musulmani “radicalizzati” autorizzerebbe misure preventive. Il governo dovrebbe così “identificare le persone che hanno maggiori probabilità di seguire un percorso di radicalizzazione”, in modo da “interromperlo precocemente”. Il consiglio di Clark non è indirizzato infine soltanto alle autorità americane, ma anche ai “paesi alleati come Regno Unito, Germania e Francia”, i quali dovrebbero “rivedere le loro procedure legali”, ovvero procedere con lo smantellamento delle più fondamentali garanzie democratiche.
In sostanza, il consiglio avanzato da Clark implica che il governo dovrebbe prendere di mira individui non solo che non hanno commesso alcun crimine ma che non hanno nemmeno manifestato l’intenzione di commettere qualche atto vagamente illegale. Un’iniziativa di questo genere – evidentemente adeguata a uno stato di polizia – dovrebbe comportare un’ulteriore espansione della sorveglianza di massa ai danni della popolazione americana, così da identificare potenziali “terroristi” sulla base delle loro idee o, ancora peggio, delle loro ipotetiche tendenze o inclinazioni.La gravità delle parole di Wesley Clark è difficile da sopravvalutare. Com’è evidente, il concetto di “slealtà” verso gli Stati Uniti evocato dall’ex generale, nonostante sia stato collegato da egli stesso alla minaccia del terrorismo islamista, è sufficientemente indefinito da includere virtualmente ogni genere di opposizione alle politiche repressive, imperialiste e al servizio dei grandi interessi economici del governo americano.
Al di fuori di ogni vincolo legale, Clark auspica inoltre la detenzione in campi di internamento per l’intera durata della “guerra” senza fine che gli USA starebbero combattendo contro il terrorismo, risultando di fatto in una prigionia indefinita.
La sua citazione del clima di paranoia durante la Seconda Guerra Mondiale è poi ulteriormente allarmante per i musulmani, visto che fa riferimento alle decine di migliaia di americani di origine tedesca e, soprattutto, giapponese, internati praticamente soltanto a causa del loro paese di provenienza, in quello che viene ormai comunemente riconosciuto come un crimine commesso dal governo USA.
Il cenno alle simpatie naziste che avrebbero giustificato in passato la detenzione di civili innocenti in suolo americano è inoltre tristemente ironico, poiché la proposta avanzata settimana scorsa da Clark è perfettamente in linea con i provvedimenti adottati proprio da Adolf Hitler a partire dal 1933 contro i suoi oppositori con la scusa di combattere un’inesistente minaccia “terroristica” che gravava sul Reich.
Sconcertante quasi come le parole dell’ex generale Clark è stato il quasi completo silenzio della stampa ufficiale negli Stati Uniti. I suoi commenti sui campi di internamento non sono stati riportati dalle principali pubblicazioni, nemmeno quelle teoricamente “liberal” come New York Times e Washington Post.
I pochi media, soprattutto alternativi, che ne hanno dato notizia hanno spesso ricordato come questa proposta non sia giunta da una delle varie figure di agitatori della galassia dell’estrema destra americana, bensì da un ex alto ufficiale che, secondo la testata on-line The Intercept, “si è fatto un nome all’interno dei circoli politici progressisti”.
Affiliato al Partito Democratico, per il quale, come già ricordato, ha corso in due occasioni senza successo per la Casa Bianca, Clark è un sostenitore della candidatura alla presidenza di Hillary Clinton. Nel passato più o meno recente, inoltre, l’ex generale era stato molto critico degli abusi dell’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre.
La maschera “progressista” di Clark è però caduta definitivamente, assieme a quella della classe dirigente americana, dal momento che il pensiero dell’ex generale è con ogni probabilità condiviso da molti nelle stanze del potere a Washington.
Già sul finire degli anni Ottanta, nell’ambito dello scandalo Iran-Contras gli americani erano venuti a conoscenza della cosiddetta “Operazione Rex 84” che prevedeva, in una situazione di crisi, la sospensione della Costituzione, l’entrata in vigore della legge marziale, l’assegnazione dei compiti di governo ai militari e il trasferimento forzato in campi di detenzione di coloro che erano considerati una minaccia alla sicurezza nazionale.
Più recentemente, la questione dei campi di internamento è tornata a circolare negli Stati Uniti. Lo scorso anno, ad esempio, il giudice ultra-reazionario della Corte Suprema, Antonin Scalia, nel corso di un discorso pubblico aveva citato una sentenza del 1944 che autorizzava le detenzioni di massa in campi di internamento sul territorio americano, avvertendo i suoi ascoltatori che si sarebbero “auto-ingannati se avessero pensato che la stessa cosa non potrebbe succedere ancora”.Senza evocare teorie cospirazioniste, è dunque tutt’altro che improbabile che all’interno dell’apparato politico-militare americano da qualche tempo si sia tornati a discutere di misure estreme come la detenzione di massa di individui “radicalizzati” o semplicemente di oppositori del governo.
Una misura di questo genere è d’altra parte in linea con molte altre adottate nell’ultimo decennio per rafforzare i poteri di controllo dell’apparato della sicurezza nazionale, dal Patriot Act ai provvedimenti pseudo-legali che autorizzano il monitoraggio di massa delle comunicazioni elettroniche.
Vista la reale entità della minaccia del terrorismo islamista, di gran lunga inferiore ad esempio a quella rappresentata dalle forze di polizia USA, responsabili in media di più di mille uccisioni di civili ogni anno, le ragioni della creazione delle fondamenta di uno stato di polizia sono da ricercare altrove.
La classe dirigente americana è attraversata cioè dal timore quotidiano per una possibile esplosione sociale, alimentata da politiche destabilizzanti e distruttive sul fronte internazionale e, su quello domestico, da disuguaglianze economiche gigantesche e sempre meno compatibili con sistemi di governo anche solo apparentemente democratici.
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di Mario Lombardo
Quando nell’estate del 2013 il Parlamento di Londra fu chiamato a esprimersi sulla richiesta del governo Cameron di autorizzare l’aggressione militare contro il regime di Bashar al-Assad in Siria, il voto si risolse in una clamorosa sconfitta per il gabinetto conservatore-liberaldemocratico. I deputati britannici, riflettendo il diffusissimo sentimento anti-bellico nel paese, contribuirono di fatto a impedire un nuovo conflitto in Medio Oriente.
Ma a distanza di due anni è emerso come il governo abbia deciso di agire in maniera illegale e nella quasi totale segretezza, autorizzando la partecipazione delle proprie forze aeree alla campagna di bombardamenti guidata dagli Stati Uniti in territorio siriano.
Com’è noto, meno di un anno dopo la marcia indietro di Obama sulla guerra in Siria, il cui lancio doveva basarsi su accuse infondate rivolte a Damasco di avere utilizzato armi chimiche contro i “ribelli”, Washington avrebbe ugualmente avviato la propria offensiva nel paese mediorientale. La giustificazione, in questo caso, era stata il dilagare dello Stato Islamico (ISIS).
Nel settembre del 2014, il Parlamento britannico avrebbe dato a sua volta il via libera alla partecipazione delle proprie forze armate alla guerra aerea, ma solo ed esclusivamente in territorio iracheno. Il provvedimento approvato a Londra affermava, in maniera difficilmente equivocabile, che non veniva concessa alcuna autorizzazione a bombardare la Siria ma, per fare ciò, il governo avrebbe dovuto passare attraverso “un voto separato del Parlamento”.
La rivelazione che un certo numero di piloti britannici sono stati e continuano a essere coinvolti nella campagna di bombardamenti in Siria è giunta in seguito all’accoglimento di un’istanza presentata dall’organizzazione umanitaria Reprieve in base alla legge sulla libertà di informazione. Il Ministero della Difesa di Londra ha dovuto così ammettere che i propri uomini fin dall’autunno dello scorso anno avevano iniziato a partecipare a missioni di guerra ufficialmente proibite per le forze britanniche.
Inizialmente, una portavoce del premier aveva cercato di minimizzare la vicenda, sostenendo che fin dagli anni Cinquanta è “pratica comune” per il personale militare britannico partecipare a operazioni di guerra con paesi alleati. Dopo queste dichiarazioni era giunta però la conferma che Cameron era a conoscenza del fatto che soldati del Regno erano impegnati segretamente in operazioni aeree in Siria.Lunedì, poi, il ministro della Difesa conservatore, Michael Fallon, è apparso alla Camera dei Comuni per rispondere alle domande dell’opposizione sulla questione dell’impiego di militari britannici in Siria. Nonostante le azioni del governo siano state palesemente ingannevoli nei confronti del Parlamento e dei cittadini, non solo Fallon ha potuto chiudere il suo intervento senza troppe difficoltà, ma ha rilanciato le intenzioni del suo gabinetto di intensificare l’impegno in Siria.
Il ministro ha ammesso che cinque piloti britannici hanno partecipato ai bombardamenti aerei in Siria contro l’ISIS e altri 75 soldati hanno preso parte a diverse operazioni militari in questo paese assieme agli alleati.
Fallon ha assicurato che le operazioni erano state preventivamente approvate dal governo e che sono rimaste regrete per “ragioni di sicurezza”. Se, però, al governo fossero state chieste informazioni in proposito da parte dei membri del Parlamento, ha aggiunto Fallon, “ogni dettaglio sarebbe stato certamente fornito”.
Le ragioni suggerite dal ministro della Difesa per avere preso una decisione illegale di estrema gravità sono state molteplici nel corso del suo intervento di lunedì, anche se nessuna legittima. Ad esempio, Fallon ha sostenuto che il voto contrario al governo nell’agosto del 2013 si riferiva a operazioni belliche contro le forze di Assad e non contro l’ISIS.
La campagna contro quest’ultima organizzazione sarebbe inoltre un altro motivo dell’impiego segreto di piloti britannici in Siria, visto che la Gran Bretagna - in questo caso con un voto favorevole del Parlamento - è parte integrante della coalizione messa assieme dagli Stati Uniti per combattere un nemico che opera in buona parte in questo paese.
Inevitabile è stato anche il riferimento alla recente strage in una località turistica della Tunisia, commessa da seguaci dell’ISIS, nella quale sono stati uccisi una trentina di cittadini britannici. Il colpo di genio di Fallon e del governo Cameron, però, è stato la giustificazione che le operazioni aeree a cui hanno partecipato i propri piloti non erano di iniziativa britannica, bensì delle forze alleate americane o canadesi, e ciò non comportava quindi la necessità di un’autorizzazione parlamentare.
Nonostante il fatto di avere agito in contravvenzione di ben due risoluzioni del Parlamento, né Fallon né tantomeno Cameron sono stati sfiorati da ipotesi di dimissioni. Gli stessi membri dell’opposizione, pur avendo espresso critiche più o meno deboli nei confronti del governo, non hanno sostanzialmente messo in discussione la posizione del ministro della Difesa.
La docilità dell’opposizione ha così contribuito al contrattacco del governo, intenzionato a non fare nessuna marcia indietro. Quando lunedì alla Camera è stato chiesto ad esempio a Fallon se la Difesa intendeva sospendere la partecipazione dei piloti britannici alle operazioni militari in Siria finché il governo non avesse ottenuto un voto favorevole del Parlamento, il ministro ha escluso categoricamente questa possibilità.
Anzi, il governo appare “determinato a impiegare tutte le forze a disposizione per fare ancora di più per combattere l’ISIS” in Siria. Secondo i media britannici, Cameron e Fallon potrebbero chiedere al Parlamento già in autunno l’autorizzazione per condurre incursioni militari “dirette” – ovvero interamente sotto il comando di Londra – contro l’ISIS anche in Siria.
Il primo ministro, parlando domenica al network americano NBC, ha ribadito la necessità di “distruggere il Califfato” in Iraq e in Siria ma, per quanto riguarda le operazioni in quest’ultimo paese, con l’accordo del Parlamento.Il gabinetto conservatore è ben consapevole di avere agito nella completa illegalità e, pur affrontando la vicenda con un mix di arroganza e ostentata sicurezza, intende ricomporre la relativa frattura creatasi con il Parlamento per timore che altre decisioni unilaterali nell’ambito della guerra in Medio Oriente alimentino ulteriori sentimenti anti-bellici nella popolazione.
Il vero obiettivo del governo Cameron, in ogni caso, coincide con quello degli alleati americani in Iraq e in Siria, vale a dire l’intensificazione dello sforzo militare per rovesciare il regime di Assad, anche se dietro il paravento della lotta all’ISIS.
La classe dirigente di Londra, così come quella di Washington, non intende perciò accettare vincoli legali né l’opinione della popolazione nell’avanzamento dei propri interessi, tanto che alcune voci all’interno dell’establishment della sicurezza in Gran Bretagna già prospettano un’ulteriore escalation del conflitto in atto.
L’ex comandante delle forze armate del Regno, Lord Richards, solo qualche giorno fa ha ad esempio affermato in un’intervista alla BBC che una strategia efficace per sconfiggere l’ISIS dovrà prima poi includere il dispiegamento di truppe di terra.
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di Michele Paris
Uno dei riflessi dell’accordo sul nucleare iraniano, siglato la scorsa settimana a Vienna e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU lunedì, è stata la reazione più o meno accesa degli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, preoccupati per le conseguenze strategiche vere o presunte del riavvicinamento tra Washington e Teheran. Israele e Arabia Saudita, in particolare, continuano a nutrire serie preoccupazioni sul ruolo da protagonista che la Repubblica Islamica potrebbe tornare a giocare nella regione, costringendo l’amministrazione Obama a intervenire con iniziative volte a placare le ansie degli inquieti alleati.
Non solo il fronte interno americano è apparso subito caldo all’indomani della firma dell’intesa nella capitale austriaca, con la maggioranza repubblicana al Congresso e parte dei democratici pronti a bocciare il testo dell’accordo, ma soprattutto il governo israeliano ha sparato a zero su quello che i giornali d’oltreoceano hanno definito come il principale successo in politica estera del presidente Obama.
Note sono ormai le sfuriate del premier Netanyahu, intervenuto più volte pubblicamente per condannare l’accordo di Vienna, bollandolo come uno “storico errore” e assicurando di essere pronto a morire pur di bloccarne l’implementazione. Lo stesso primo ministro è apparso anche in alcuni show domenicali negli Stati Uniti nel fine settimana, ribadendo le sue dichiarazioni deliranti circa il pericolo rappresentato dalla “macchina del terrore iraniana”.
Secondo Israele, l’accordo sottoscritto con il gruppo dei P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) dopo quasi due anni di negoziati consentirebbe alla Repubblica Islamica di proseguire i progetti per la costruzione di ordigni nucleari e di mettere le mani su oltre 100 miliardi di dollari congelati all’estero a causa delle sanzioni, con i quali potrebbe finanziare e armare forze nemiche di Tel Aviv, come Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza.
Decisamente più sommesse sono state al contrario le reazioni pubbliche della monarchia saudita, con poche voci che hanno esplicitamente criticato gli USA. Una di queste è stata quella dell’ex potente capo dei servizi segreti sauditi, Bandar bin Sultan, per il quale l’accordo sul nucleare permetterà all’Iran di “seminare il caos nella regione”.
Sia Israele sia l’Arabia Saudita sono evidentemente impegnati in un esercizio di rovesciamento della realtà mediorientale, dove a destabilizzare la regione e a generare caos e morte sarebbe Teheran e non i governi di questi due stessi paesi, alternativamente responsabili - assieme agli Stati Uniti - del massacro indiscriminato di civili palestinesi, della dissoluzione dello stato siriano, dell’aggressione contro lo Yemen e del proliferare di organizzazioni fondamentaliste.
Nel caso di Israele, oltretutto, l’iprocrisia sfiora l’incredibile, poiché questo paese, oltre ad agire regolarmente in violazione del diritto internazionale, possiede un numero imprecisato di armi nucleari non dichiarate e, a differenza dell’Iran, non ha mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione.
L’atteggiamento di Tel Aviv e Riyadh rischia dunque di ostacolare l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare ma, dal momento che per molti versi i disegni strategici dei due paesi coincidono sostanzialmente con quelli americani, gli Stati Uniti non possono che provare a ricucire gli strappi con entrambi. A questo scopo, lunedì ha preso il via la trasferta in Medio Oriente del segretario alla Difesa, Ashton Carter. La prima tappa di quest’ultimo è Israele, da dove raggiungerà la Giordania e, infine, l’Arabia Saudita.
Il viaggio di Carter è accompagnato dalle voci di un’offerta, fatta probabilmente dallo stesso Obama a Netanyahu nel corso di un colloquio telefonico la scorsa settimana, di consolidare la partnership tra i due alleati nell’ambito della sicurezza. In concreto, Washington intende placare la rabbia di Netanyahu con maggiori aiuti militari, secondo alcuni passando dagli attuali 3 miliardi di dollari all’anno a 4,5 miliardi.
L’amministrazione Obama teme che le manovre del governo di estrema destra di Tel Aviv possano riuscire a far naufragare l’accordo sul nucleare ora all’esame del Congresso americano, i cui membri saranno chiamati a votarlo entro 60 giorni. Inoltre, non del tutto da escludere continua a essere una possibile iniziativa militare unilaterale da parte di Israele contro le installazioni nucleari iraniane, con conseguenze difficili da calcolare.
Ad ogni modo, secondo quanto riportato dai giornali americani nei giorni scorsi, Netanyahu non appare ancora pronto a discutere i nuovi “aiuti” militari con gli alleati americani, ma preferisce appunto attendere l’esito del voto al Congresso sull’accordo con l’Iran.
Apparentemente più malleabili sembrano essere invece i vertici sauditi, forse non convinti dell’opportunità della soluzione pacifica della vicenda del nucleare iraniano ma ben disposti verso il rafforzamento dei legami militari con Washington. Già a maggio, infatti, Obama aveva ospitato a Camp David un summit con i rappresentanti delle monarchie assolute del Golfo Persico, confermando l’impegno americano per la sicurezza di queste ultime.La settimana scorsa, poi, il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, si era recato a Washington per altre discussioni su questi argomenti che, prevedibilmente, saranno sull’agenda del numero uno del Pentagono nella sua imminente visita a Riyadh. Carter, da parte sua, alla vigilia della partenza per il Medio Oriente ha ricordato come “nelle 100 pagine [dell’accordo sul nucleare] non ci sia nulla che limiti gli Stati Uniti nella difesa dei propri alleati, incluso Israele”.
Come ha spiegato domenica il Wall Street Journal, infatti, gli USA starebbero valutando di accelerare “le forniture di armi ai paesi arabi del Golfo Persico”, nonché i “piani per sviluppare un sistema regionale integrato di difesa missilistica”.
A ciò vanno aggiunte anche le decine di miliardi di dollari spesi negli ultimi anni da questi stessi regimi per acquistare nuovi armamenti letali dagli Stati Uniti. Una vera e propria corsa al riarmo, quella in atto in Medio Oriente con il beneplacito di Washington, che stride fortemente sia con le intenzioni di pace manifestate dall’amministrazione Obama all’indomani della firma sull’accordo con l’Iran sia con l’ostinazione con cui gli USA e i loro alleati nei P5+1 hanno perseguito a Vienna il mantenimento dell’embargo sulle armi che pesa sulla Repubblica Islamica.
L’importanza assegnata dalla Casa Bianca ai rapporti con Israele e le monarchie del Golfo, in funzione della necessità di vedere ratificato l’accordo sul nucleare, è comunque evidente dagli sforzi diplomatici in atto. Dopo la trasferta di Carter, ai primi di agosto toccherà al segretario di Stato, John Kerry, fare visita agli alleati arabi, in preparazione dei probabili colloqui che il presidente Obama terrà a settembre con alcuni esponenti di questi ultimi – e forse con lo stesso Netanyahu – a margine dell’annuale Assemblea Generale dell’ONU.
Paesi come Israele e Arabia Saudita, come gli Stati Uniti e gli altri paesi impegnati nei negoziati di Vienna, sono perfettamente a conoscenza del fatto che l’Iran non stia sviluppando alcun programma nucleare a scopi militari, così che il loro agitarsi per far fallire l’accordo nasconde apprensioni di diversa natura.
Entrambi, cioè, paventano la scelta strategica americana in questo ambito perché un’eventuale distensione tra Teheran e Washington potrebbe determinare un ridimensionamento della loro posizione di principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, con tutte le conseguenze sfavorevoli che ne deriverebbero in termini di equilibri militari, politici e strategici.L’amministrazione Obama è però determinata a mandare in porto l’accordo appena firmato, visto che l’esplorazione di un processo di allentamento delle tensioni con l’Iran è strettamente legata alle sfide immediate e future alla posizione dominante degli USA nel pianeta rappresentate da Cina e Russia e, ancor più, da una possibile integrazione economico-politica euroasiatica.
Una qualche riconciliazione con la Repubblica Islamica potrebbe comportare per il governo americano anche la neutralizzazione di un rivale importante, favorita dagli orientamenti relativamente filo-occidentali della leadership moderata del presidente Hassan Rouhani e del suo ministro degli Esteri, Mohammad Javaz Zarif, e il tentativo quanto meno di rallentare lo spostamento definitivo di questo stesso paese verso l’asse Mosca-Pechino in fase di formazione.
Per perseguire questo obiettivo, tuttavia, Washington dovrà muoversi con estrema cautela per non danneggiare in maniera irreparabile i rapporti con i propri alleati mediorientali, come ha già in qualche modo avvertito l’Arabia Saudita attraverso recenti accordi economico-militari negoziati con Mosca. Questo equilibrio precario ancora tutto da raggiungere, perciò, rende già da ora estremamente complicata la scommessa americana suggellata con il neonato accordo sul nucleare iraniano.
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di Michele Paris
I più recenti dati sullo stato dei finanziamenti delle campagne elettorali dei candidati alle presidenziali negli Stati Uniti per il 2016 hanno confermato il netto dominio dei grandi donatori assieme al ruolo decisivo svolto da organizzazioni che appoggiano “esternamente” i singoli aspiranti alla nomination dei due partiti. La competizione per succedere a Barack Obama sarà così con ogni probabilità la più costosa della storia americana, con un livello di spesa complessivo stimato dai media d’oltreoceano pari a non meno di dieci miliardi di dollari, ovvero circa il 40% in più rispetto al ciclo elettorale del 2012.
La candidata che, al secondo trimestre dell’anno, ha incassato la cifra maggiore in donazioni è stata Hillary Clinton con 45 milioni di dollari. Il primato dell’ex segretario di Stato è però limitato al denaro raccolto dalla sua organizzazione, mentre se si considerano sia i fondi raccolti direttamente dai candidati sia quelli che affluiscono alle cosiddette “Super PACs”, ovvero strutture nominalmente indipendenti ma che operano in favore di un determinato candidato, gli equilibri appaiono differenti.
In questo caso, a dominare la scena è il favorito repubblicano, Jeb Bush, il quale ha attualmente in dotazione più di 114 milioni di dollari, dei quali ben 103 raccolti dalla Super PAC che lo appoggia, “Right to Rise USA”. Nel caso di Hillary, la Super PAC affiliata alla sua candidatura - “Priorities USA Action” - ha finora raccolto “solo” 15,6 milioni, anche se, a detta del suo staff, la previsione è di mettere assieme una cifra tra i 200 e i 300 milioni di dollari.
Il predominio di Jeb Bush e Hillary Clinton nella raccolta fondi è dovuto principalmente ai legami familiari e politici delle due dinastie a cui i candidati appartengono con le élites economiche americane. I candidati in casa democratica e repubblicana che seguono i due “front-runner” risultano infatti molto lontani in termini di finanziamenti ottenuti. Nel primo caso, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha in mano 15 milioni di dollari e il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, poco più di 52 milioni.
Il divario tra il denaro raccolto direttamente dalle proprie organizzazioni e dalle rispettive Super PACs risulta cruciale per delineare il profilo dei candidati. Secondo le norme che regolano i finanziamenti elettorali negli Stati Uniti, durante il ciclo delle primarie ogni singolo donatore può versare un massimo di 2.700 dollari direttamente a un candidato, ma le Super PACs possono raccogliere donazioni virtualmente illimitate. Il vantaggio delle Super PACs nella raccolta fondi evidenzia dunque la prevalenza di finanziatori benestanti che possono staccare sostanziosi assegni praticamente senza limiti.
Ciò è il risultato della decisiva sentenza della Corte Suprema USA del 2010 nel caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” che ha cancellato ogni limite alle donazioni di privati e corporation alle Super PACs dei candidati a pubblici uffici. Questa decisione ha determinato un ulteriore aumento dell’influenza dei poteri forti sul processo politico negli Stati Uniti ed è stata seguita nell’aprile del 2014 da un’altra sentenza che va in questa direzione, poiché ha abolito il limite complessivo di 123 mila dollari che ogni donatore può destinare a candidati e partiti durante ogni ciclo elettorale.
Per quanto riguarda Jeb Bush, perciò, il suo successo nella raccolta fondi è dovuto in larga misura alla generosità di un numero relativamente ristretto di milionari e miliardari che hanno donato cifre enormi. La stessa Hillary Clinton, peraltro, nonostante la sua campagna prosegua la tendenza dei candidati democratici nel fare meno affidamento sulle Super PACs rispetto a quelli repubblicani, non sembra poter contare su una mobilitazione massiccia di piccoli donatori.
Del denaro finora elargito direttamente alla campagna della favorita democratica, solo il 17% è venuto da sostenitori che hanno donato un massimo di 200 dollari, mentre il 65% è giunto da potenziali elettori, evidentemente facoltosi, che hanno donato il massimo previsto per legge di 2.700 dollari.
Ancora più irrisoria è la quota di denaro ottenuta da Jeb Bush dai piccoli donatori che si possono permettere meno di 200 dollari, ovvero il 3%, contro oltre l’80% di sostenitori che hanno già raggiunto il limite federale.Per Hillary Clinton e, soprattutto, per Jeb Bush, il profilo dei donatori appare tutt’altro che sorprendente. Entrambi appartengono a dinastie politiche ampiamente screditate, se non apertamente disprezzate, tra lavoratori e classe media negli Stati Uniti. Il loro status di favoriti e il successo nell’ambito della raccolta fondi a meno di sei mesi dall’inizio delle primarie è determinato perciò dalla possibilità di ottenere valanghe di denaro da pochi donatori con cui essi stessi o i loro familiari hanno stabilito proficui rapporti nel corso degli anni.
A fare affidamento su una manciata di ricchi finanziatori, quando non addirittura su un singolo benefattore, sono in ogni caso quasi tutti i numerosi candidati alla nomination, in particolare nel Partito Repubblicano.
Oscuri e spesso impopolari personaggi politici hanno così a disposizione decine di milioni di dollari per correre teoricamente per la Casa Bianca e ottenere ampio spazio sui media nazionali. Tra i repubblicani, dopo Jeb Bush, il candidato con il maggiore successo nel “fundraising” al 30 giugno scorso è Ted Cruz, con in mano un totale di 52,2 milioni, di cui 38 milioni (73%) raccolti dalla sua Super PAC.
A seguire c’è un altro senatore cubano-americano ma della Florida, Marco Rubio, il quale ha basato la sua corsa alla nomination, come praticamente tutta la sua carriera politica, sul sostegno dell’imprenditore miliardario Norman Braman. Rubio ha attualmente in mano quasi 44 milioni di dollari, 32 dei quali (73%) a disposizione della sua Super PAC e di una organizzazione “no-profit” che lo appoggia.
Ancora più eclatante è il modo in cui risultano determinanti i ricchi donatori per Rick Perry, l’ex governatore ultra-reazionario del Texas, già candidato alla Casa Bianca nel 2012, quando fu costretto ad abbandonare miseramente la corsa in seguito a una serie di gaffe e al sostegno praticamente nullo riscontrato anche tra le frange più estreme del Partito Repubblicano.
Perry ha raccolto direttamente per la sua campagna appena 1,1 milioni di dollari, ma tre Super PACs a lui affiliate hanno messo assieme quasi 17 milioni, cioè il 94% del totale dei contributi ottenuti finora.
Gli unici casi di candidati che hanno ottenuto almeno un limitato successo tra gli elettori comuni sono il democratico Bernie Sanders e, in misura minore, i repubblicani Rand Paul e Ben Carson. L’entusiasmo generato dal primo, veterano del Congresso nominalmente indipendente e talvolta auto-definitosi “democratico-socialista”, testimonia del desiderio tra la popolazione americana di un’alternativa realmente progressista all’attuale sistema politico dominato dai grandi interessi economico-finanziari.
Sanders, tuttavia, oltre ai suoi orientamenti non esattamente rivoluzionari, ha scelto di incanalare la voglia di cambiamento diffusa negli Stati Uniti verso il vicolo cieco del Partito Democratico. Ad ogni modo, l’unico vero rivale di Hillary non ha per il momento nessuna Super PAC che lo appoggia e i 15 milioni a sua disposizione sono giunti da piccole donazioni indirizzate direttamente all’organizzazione coordinata dal suo staff.Il poco conosciuto Ben Carson ha un qualche seguito on-line tra i repubblicani, anche perché si presenta come una sorta di outsider, essendo un neurochirurgo e non un politico di professione. Nonostante ottenga attenzioni decisamente minori dai media nazionali, Carson ha raccolto in maniera diretta più di 10 milioni di dollari, praticamente la stessa cifra ottenuta senza l’aiuto delle Super PACs dal favorito Jeb Bush.
Il senatore del Kentucky di tendenze libertarie Rand Paul, infine, è attestato a 7 milioni di dollari dopo il secondo trimestre del 2015. Paul ha in realtà due Super PACs che lo sostengono ma non hanno ancora presentato i loro bilanci alla Commissione Elettorale Federale. A suo vantaggio ci sono soprattutto le campagne condotte negli ultimi anni contro l’invadenza dell’apparato di governo nella privacy degli americani, anche se gli attacchi al sistema portati da Paul vengono in gran parte da destra.
I numeri provvisori relativi ai finanziamenti elettorali negli Stati Uniti confermano dunque la realtà di un sistema politico totalmente bloccato, imperniato sullo strapotere dei ricchi americani, in grado di decidere successi e insuccessi dei candidati di entrambi gli schieramenti.
In questo scenario, è poco sorprendente che la metà o più degli americani non si rechi alle urne nemmeno in occasione di elezioni che attraggono un interesse smisurato da parte dei media, come le presidenziali. A determinare l’identità dei contendenti è infatti quasi sempre soltanto il denaro, mentre la scelta degli elettori, alla fine, si riduce a essere tra candidati virtualmente indistinguibili e al servizio dei poteri che hanno promosso e reso vincenti le loro costosissime campagne elettorali.