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di Michele Paris
Uno dei senatori più noti e influenti del Congresso americano è stato incriminato formalmente questa settimana dal Dipartimento di Giustizia per corruzione e una serie di altre gravi accuse. Il democratico Robert Menendez è oggetto di un’indagine dell’FBI durata due anni e i suoi guai giudiziari si incrociano con delicate questioni di politica estera al centro del dibattito politico negli Stati Uniti, come il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba e l’accordo sul programma nucleare dell’Iran.
Il 61enne senatore del New Jersey deve fronteggiare 14 capi d’accusa fondamentalmente per avere favorito gli interessi economici dell’amico e medico oftalmologo multimilionario della Florida, Salomon Melgen, in cambio di regali e contributi alla propria attività politica.
Menendez è stato eletto per la prima volta alla Camera dei Rappresentanti di Washington nel 1993 e dal 2006 occupa un seggio al Senato. Nella camera alta del Congresso USA, il senatore cubano-americano è stato alla guida della commissione Affari Esteri tra il febbraio 2013 e il gennaio di quest’anno, per diventarne poi il membro democratico più importante dopo la conquista della maggioranza da parte dei repubblicani.
Dalle carte del procedimento emerge come Menendez abbia fatto pressioni sui vertici dell’agenzia federale che gestisce i programmi di assistenza pubblici Medicare e Medicaid per ottenere clemenza nei confronti di Melgen. Quest’ultimo era accusato di avere gonfiato per quasi 9 milioni di dollari le richieste di rimborso per prestazioni mediche da lui fornite nell’ambito del programma Medicare.
Melgen ha raggiunto una certa notorietà in Florida e ha visto i propri redditi salire vertiginosamente grazie a una catena di cliniche di sua proprietà convenzionate con Medicare e specializzate nel trattamento della degenerazione maculare, una grave malattia dell’occhio. Nel 2012, il dottor Melgen era al primo posto della graduatoria dei medici americani che avevano ricevuto i rimborsi più sostanziosi dal governo federale.
Menendez ha comunque respinto seccamente tutte le accuse, sostenendo che il Dipartimento di Giustizia “non conosce la differenza tra amicizia e corruzione”. Il senatore e Melgen si frequentano da due decenni e i loro rapporti di amicizia, a detta di Menendez, si sovrapporrebbero in maniera legittima agli affari del medico.
Oltre che per la risoluzione della questione delle fatturazioni gonfiate, Menendez si sarebbe adoperato anche con il Dipartimento per la Sicurezza Interna nel tentativo di far naufragare un progetto di fornitura gratuita al governo della Repubblica Dominicana di strumenti di controllo destinati alle dogane. Se la fornitura fosse andata in porto, un’azienda di proprietà di Melgen sarebbe stata danneggiata economicamente, visto che aveva in essere un contratto di vendita dello stesso materiale con il governo dell’isola caraibica.
Inoltre, il senatore avrebbe favorito l’emissione di visti per l’ingresso negli Stati Uniti a favore di “amiche” del dottor Melgen provenienti da vari paesi, tra cui Repubblica Dominicana, Brasile e Ucraina.
In cambio di questi servizi, Menendez avrebbe ricevuto dall’amico centinaia di migliaia di dollari in contributi elettorali. Inoltre, Melgen ha ospitato in parecchie occasioni il senatore democratico, assieme ad amici e parenti, nella sua villa presso il resort esclusivo Casa de Campo, in Repubblica Dominicana. Melgen, tra l’altro, avrebbe anche saldato il conto di un viaggio di Menendez a Parigi, di cui solo le tre notti in hotel erano costate quasi 5 mila dollari.
Secondo la legge americana, i regali ricevuti dai membri del Congresso devono essere dichiarati ed eventualmente rimborsati. Menendez, però, ha restituito a Melgen un totale di 58.500 dollari per rimborsare soltanto due voli con jet privati pagati dal medico su un totale di 12. Il denaro è stato oltretutto versato tardivamente e fino al 2013 il senatore non aveva dichiarato nessuno dei benefit goduti grazie alla generosità dell’amico.
Se le circostanze della vicenda che riguarda Menendez appaiono piuttosto compromettenti, in molti sui giornali americani si sono interrogati circa l’effettiva possibilità del Dipartimento di Giustizia di riuscire a dimostrare la sua colpevolezza. Per fare ciò, come ha spiegato il Wall Street Journal, è indispensabile che l’accusa presenti prove inconfutabili del fatto che Melgen abbia fatto regali e donazioni al senatore in cambio di favori specifici e non soltanto che si sia adoperato per aiutare un vecchio amico.
Il precedente più recente di un’incriminazione di un senatore in carica finita nel nulla risale al 2008. In quell’occasione, il repubblicano dell’Alaska Ted Stevens era stato indagato e condannato per corruzione ma l’anno successivo il verdetto sarebbe stato annullato per negligenza dell’accusa nella raccolta e presentazione delle prove.
In ogni caso, in molte occasioni durante la sua carriera politica Robert Menendez è stato sfiorato da controversie e scandali per avere utilizzato il proprio potere a beneficio di amici o finanziatori, uscendone però sempre indenne.
Il New Jersey, poi, è tradizionalmente noto per i legami più che sospetti tra il business e la politica, soprattutto di parte democratica. Solo negli ultimi tre decenni, altri due senatori democratici di questo stato hanno visto finire le proprie carriere politiche per accuse di corruzione: Harrison Williams negli anni Ottanta, la cui vicenda è stata raccontata dal film del 2013 American Hustle, e Robert Torricelli nel 2002.
Poche settimane fa, invece, il governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, era finito al centro di un’accesa polemica per avere negoziato con il gigante petrolifero ExxonMobil il pagamento di una penale pari a solo il 3% di quanto richiesto dalla pubblica accusa in tribunale nell’ambito di un processo per disastro ecologico.
Al di là dell’esito dell’indagine a carico di Menendez, le ripercussioni politiche della sua incriminazione potrebbero farsi sentire a breve. Il senatore del New Jersey è annoverato tra i “falchi” sulle questioni di politica estera e si è scontrato varie volte con lo stesso presidente Obama.
In particolare, l’ex presidente della commissione Esteri del Senato aveva promesso battaglia contro l’iniziativa dell’ammnistrazione Obama per normalizzare i rapporti con Cuba. Sulla crisi del nucleare iraniano, Menendez intendeva poi utilizzare la sua posizione influente nella commissione per ostacolare l’eventuale accordo che potrebbe uscire dai negoziati in corso in Svizzera, visto che risulta essere co-firmatario di un provvedimento - osteggiato dalla Casa Bianca - che impone la ratifica da parte del Senato di qualsiasi intesa sottoscritta con Teheran.
Menendez ha già annunciato di volere abbandonare temporaneamente l’incarico di numero uno della delegazione democratica nella commissione Esteri del Senato, lasciando così ad altri colleghi del suo partito il compito di stabilire l’agenda dell’opposizione, con possibili effetti positivi per l’amministrazione Obama.
I potenziali sostituti di Menendez indicati dai media americani - tra i favoriti spiccano Barbara Boxer (California), Ben Cardin (Maryland) e Jeanne Shaheen (New Hampshire) - sono accreditati infatti di posizioni decisamente più moderate in materia di politica estera.
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di Michele Paris
Con un annuncio congiunto della numero uno della politica estera UE, Federica Mogherini, e del ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, giovedì è stato finalmente confermato il raggiungimento di una bozza di accordo preliminare per la risoluzione della questione del programma nucleare della Repubblica Islamica.
L’intesa è stata siglata quasi due giorni dopo il superamento della data limite del 31 marzo, auto-imposta dalle parti in trattativa, a indicare sia la serietà delle questioni ancora da risolvere sia il fatto che un punto di incontro era comunque a portata di mano. Nelle ore precedenti l’accordo erano iniziate a circolare voci di un possibile naufragio dei negoziati, anche se l’esito finale ha chiarito che queste indicazioni erano prevalentemente di natura tattica per esercitare pressioni sulla delegazione iraniana.
I toni dei commenti dei rappresentanti dei governi occidentali a Losanna nel pomeriggio di giovedì sono stati in alcuni casi addirittura euforici, come ad esempio quello del ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, secondo il quale l’accordo è andato “al di là di quanto molti di noi credevano possibile 18 mesi fa”. Il documento sottoscritto giovedì, ha aggiunto Hammond, “è una buona base per quello che, credo, potrebbe essere un accordo molto positivo”. Il presidente Obama ha a sua volta salutato una “storica intesa” che potrebbe rendere “il mondo più sicuro”
L’entusiasmo occidentale è facilmente comprensibile alla luce del testo dell’accordo diffuso alla stampa. I punti principali indicano infatti ampie concessioni da parte iraniana, a cominciare dall’accettazione di ispezioni intrusive del proprio programma nucleare da parte degli ispettori internazionali.
Inoltre, Teheran limiterà le attività di arricchimento dell’uranio a un solo impianto – Natanz – dove rimarranno operative appena 5 mila centrifughe, sulle 19 mila attualmente installate, e oltretutto di prima generazione, non quelle più moderne già a disposizione. Se le richieste trapelate dagli Stati Uniti in passato indicavano un numero non superiore a mille, alcuni mesi fa lo stesso ayatollah Khamenei aveva affermato l’intenzione di mantenere attive tutte e 19 mila le centrifughe disponibili.
Sulla controversa struttura di Fordow, invece, l’Iran ha acconsentito a trasformarla da un centro di arricchimento a un impianto per la ricerca, dove non sarà presente “materiale fissile”. Fordow risultava molto controverso, in quanto costruito all’interno di una montagna nei pressi della località di Qom e quindi non raggiungibile da eventuali bombardamenti americani o di Israele.
La terza struttura presa in considerazione è infine quella di Arak. Qui, il reattore nucleare sarà modificato in modo da rendere impossibile la produzione di plutonio utilizzabile per la costruzione di armi nucleari.
Per quanto riguarda le tempistiche, il periodo teoricamente necessario all’Iran per mettere assieme abbastanza materiale fissile da utilizzare per la realizzazione di un’arma (“breakout time”) sarà di un anno - come voluto da Washington - e le condizioni perché rimanga tale saranno valide per almeno dieci anni.
Dalle notizie diffuse nelle prime ore dopo l’annuncio dell’accordo non sembra esserci completa sintonia sulla questione forse più delicata, cioè le modalità della revoca delle sanzioni economiche che pesano sull’Iran.
Secondo i governi occidentali le misure punitive verranno sospese ma potrebbero essere riapplicate se Teheran non dovesse rispettare i termini dell’accordo. Zarif ha invece sostenuto di fronte alla stampa che le sanzioni approvate negli anni scorsi dalle Nazioni Unite, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea saranno cancellate a seguito dell’implementazione dei contenuti dell’accordo.
Come previsto dal piano delle trattative, e come hanno ricordato le parti coinvolte, quella siglata giovedì è solo un’intesa preliminare che fissa le questioni fondamentali su cui dovranno basarsi le trattative dei prossimi tre mesi per la definizione dei dettagli tecnici e non solo.
Entro il 30 giugno prossimo dovrà essere approvata una versione definitiva dell’accordo, per giungere al quale ci sarà ancora molto lavoro da fare anche su temi delicati. Ad esempio, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dovrà stabilire quali saranno le modalità delle ispezioni nelle strutture nucleari iraniane, mentre ancora nulla sarebbe stato deciso sulla spinosa questione delle possibili “dimensioni militari” che il programma nucleare iraniano avrebbe avuto in passato, almeno a detta degli Stati Uniti.
Le prossime settimane dovrebbero in ogni caso registrare un allentamento delle pressioni esercitate dagli ambienti contrari all’accordo e allo sviluppo più che legittimo del programma nucleare civile dell’Iran. Allo stesso tempo, tuttavia, i “falchi” del Congresso USA e il governo Netanyahu in Israele potrebbero sfruttare qualsiasi frizione durante la fase finale delle trattative per ostacolare ulteriormente il processo di distensione.
Già giovedì, infatti, da Washington e Tel Aviv sono giunte condanne per quella che il premier israeliano ha definito, assurdamente, l’autorizzazione concessa “al regime criminale iraniano di un percorso verso la costruzione di armi atomiche”.
Il reale percorso della Repubblica Islamica verso il nucleare, ratificato da un eventuale accordo definitivo con i P5+1, dipenderà piuttosto da quanto la sua leadership sarà disposta ad accettare le condizioni dettate da Washington, non tanto per il rispetto di ciò che è stato sottoscritto a Losanna bensì per desistere dal rappresentare una qualsiasi minaccia agli interessi strategici americani in Medio Oriente.
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di Michele Paris
Dopo tre tentativi falliti di conquistare la presidenza della Nigeria, l’ex dittatore e generale in pensione, Muhammadu Buhari, ha sconfitto nelle elezioni di sabato scorso il presidente in carica, Goodluck Jonathan, grazie soprattutto al processo di deterioramento del clima economico e sociale nella prima economia del continente africano durante la gestione dell’amministrazione uscente.
La vittoria di Buhari e del suo partito - Congresso di Tutti i Progressisti (APC) - ha segnato la prima transizione favorevole a un esponente dell’opposizione sanzionata dalle urne da quando, nel 1999, la Nigeria si è liberata della dittatura militare.
L’esito del voto riporta anche alla guida di questo paese un presidente musulmano, dopo che il cristiano Jonathan nel 2011 si era presentato alle elezioni, vincendole, in violazione del tacito accordo tra le élites nigeriane che prevede l’alternanza tra un leader musulmano e uno cristiano.
Jonathan, in qualità di vice-presidente, aveva preso il posto del presidente musulmano Umaru Yar’Adua al momento del decesso di quest’ultimo nel 2010, mentre l’anno successivo aveva sconfitto proprio Buhari. Anche nelle elezioni del 2003 e del 2007, l’ex generale aveva ceduto molto nettamente ai candidati del Partito Popolare Democratico – rispettivamente Olusegun Obasanjo e Yar’Adua – al potere ininterrottamente in Nigeria dal 1999.
Al voto di sabato, il paese più popoloso dell’Africa era giunto tra gravi difficoltà e crisi crescenti. La stessa regolarità dell’appuntamento con le urne era stata messa in dubbio da molti, in particolare dopo la decisione presa dal presidente Jonathan di posporre di sei settimane le elezioni, inizialmente previste per il mese di febbraio, su “suggerimento” delle forze di sicurezza a causa della precaria situazione in molte aree del paese in seguito al dilagare dei guerriglieri fondamentalisti di Boko Haram.
Durante le operazioni di voto sono state segnalate irregolarità ed episodi di violenza ma, alla fine, il margine tra i due principali candidati è apparso nettissimo e le organizzazioni internazionali e i governi stranieri hanno dato il proprio sigillo di legittimità alle elezioni.
Buhari ha ottenuto il 54% dei suffragi contro il 45% di Jonathan. Una differenza quantificabile cioè in oltre due milioni di voti: 15,4 milioni per il presidente-eletto e 13,3 milioni per il suo rivale. Buhari ha avuto la meglio non solo negli stati settentrionali a maggioranza musulmana, ma è stato il più votato anche nel sud-ovest e nel centro del paese, così come nella megalopoli Lagos, capitale commerciale della Nigeria.
Secondo la Costituzione della Nigeria, il candidato vincente al primo turno può evitare il ballottaggio se, oltre a ottenere complessivamente il maggior numero di voti, riceve almeno un quarto dei voti in almeno i due terzi dei 36 stati in cui è suddiviso amministrativamente il paese.
Oltre ai risultati ufficiali presumibilmente inequivocabili, a convincere il presidente uscente a riconoscere la sconfitta e a congratularsi con Buhari è stata con ogni probabilità la velata ma chiarissima preferenza per il suo avversario manifestata dai paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’ex potenza coloniale, la Gran Bretagna.
Il segretario di Stato USA, John Kerry, e il ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, lunedì avevano emesso un insolito comunicato congiunto, nel quale si sosteneva che, pur “non avendo finora osservato una sistematica manipolazione del processo” di voto, vi erano “preoccupanti segnali” di possibili “deliberate interferenze politiche” sul conteggio finale dei voti.
Ambienti diplomatici degli stessi paesi avevano in seguito rivelato l’esistenza di presunte richieste fatte “dal partito di governo e dal presidente” alle forze armate per “intimidire” gli addetti alle operazioni di conteggio.
Come sempre accade con Washington, simili prese di posizioni non sono il sintomo di scrupoli democratici da parte del governo americano, bensì segnali del proprio orientamento in merito all’evoluzione politica di un determinato paese. Le indicazioni della preferenza per l’ex generale Buhari da parte degli USA erano d’altra parte evidenti.
Per la campagna elettorale del vincitore, ad esempio, aveva lavorato la società di consulenze americana di David Axelrod, strettissimo consigliere di Obama per il quale aveva curato le operazioni strategiche durante la corsa alla Casa Bianca del 2008.
Il livello di gradimento di Buhari nei circoli di potere d’oltreoceano era apparso poi chiaro dall’invito ricevuto da parte dell’influente think tank di Washington, Center for Strategic and International Studies, a tenere un discorso - poi cancellato - in una conferenza nel mese di gennaio. Buhari ha anche un passato di studi negli Stati Uniti, visto che tra il 1979 e il 1980 ha frequentato il College dell’Esercito di Carlisle, in Pennsylvania, conseguendo un Master in “studi strategici”.
I suoi trascorsi da dittatore non sono inoltre un ostacolo all’ottenimento del sostegno americano. Anzi, la repressione del dissenso e dell’opposizione al regime durante gli anni alla guida della giunta militare è un precedente utile agli occhi dei governi e delle compagnie petrolifere occidentali, in caso Buhari, nonostante la “conversione” alla democrazia, fosse chiamato a fronteggiare rivolte interne che minaccino il flusso di greggio prodotto dal suo paese.
Buhari era stato uno degli ufficiali protagonisti del colpo di stato messo in atto nel dicembre del 1983 contro il governo del presidente democraticamente eletto Shehu Shagari. Prima di essere a sua volta deposto nell’agosto del 1985 da un golpe militare, guidato dal generale Ibrahim Babangida, Buhari aveva condotto una campagna di arresti ai danni di intellettuali, politici, giornalisti e studenti, mentre sul fronte economico si era distinto per l’adozione di misure ancora più rigorose di quelle raccomandate dal Fondo Monetario Internazionale.
Il favore manifestato dagli USA nei confronti di Buhari è la diretta conseguenza del precipitare delle relazioni tra Washington e l’amministrazione del presidente Jonathan. Quest’ultimo lo scorso anno era giunto a cancellare un programma di addestramento di nuove unità militari nigeriane operato da istruttori americani.
La mossa di Jonathan intendeva essere una protesta contro il mancato impegno di Washington in appoggio alle forze armate della Nigeria nella guerra a Boko Haram.
Ad alimentare i sospetti di Jonathan erano stati probabilmente anche i ripetuti interventi sul territorio nigeriano per combattere i ribelli integralisti da parte degli eserciti di paesi confinanti, primo fra tutti il Ciad, il cui regime è uno dei più fedeli alleati dell’Occidente.
In questo modo, il governo della Nigeria è apparso ulteriormente screditato agli occhi della popolazione, già provata sia dall’incapacità di frenare le violenze di Boko Haram sia dai massacri indiscriminati commessi dalle stesse forze di sicurezza nel corso delle operazioni di “anti-terrorismo” nel nord del paese.
La transizione “democratica” tra Goodluck Jonathan e Muhammadu Buhari si inserisce soprattutto nel quadro delle manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati europei per assicurarsi una presenza permanente in Africa occidentale. Qui come in Medio Oriente, il pretesto dell’interventismo occidentale è rappresentanto dalla necessità della lotta al terrorismo islamista, nel caso della Nigeria incarnato appunto in Boko Haram.
L’importanza della Nigeria per gli USA è dettata poi principalmente dalle ingenti risorse petrolifere di cui dispone e che sono in larga misura sfruttate da compagnie occidentali. Inevitabilmente, l’offensiva di Washington in Africa è legata anche al tentativo di contrastare l’influenza della Cina nel continente, cresciuta a livelli esponenziali nell’ultimo decennio.
Anche la Nigeria di Jonathan ha infatti stabilito solidi legami economici con Pechino nel recente passato. Nel luglio del 2013, ad esempio, una visita del presidente in Cina aveva portato alla firma di accordi per prestiti da oltre un miliardo di dollari destinati alla realizzazione di varie infrastrutture.
Compagnie cinesi sono peraltro già ampiamente presenti in Nigeria e operano anche nel settore petrolifero, mentre la solidità dei rapporti bilaterali era stata ribadita lo scorso mese di maggio con la visita nella capitale, Abuja, del premier cinese, Li Keqiang.
La sconfitta patita da Jonathan alle urne è però dovuta anche e soprattutto all’aggravamento durante la sua amministrazione delle piaghe che affliggono la Nigeria. Oltre alle attività di Boko Haram, gli elettori nigeriani avevano in mente i numerosi casi di corruzione registrati negli ultimi tempi e, ancor più, le esplosive e crescenti disuguaglianze sociali.
Scalpore aveva fatto qualche mese fa il licenziamento del governatore della Banca Centrale dopo che aveva denunciato al Senato nigeriano la sottrazione al Tesoro di fondi per svariati miliardi di dollari provenienti dalle attività petrolifere.
Sempre in questo settore, il governo viene inoltre costantemente accusato di coltivare rapporti clientelistici con intermediari che realizzano profitti enormi sulle vendite di greggio. Simili pratiche hanno contribuito alla formazione di una ristretta cerchia di super-ricchi e a fare della Nigeria uno dei paesi più iniqui del continente.
Come ha messo in luce una recente analisi del britannico Guardian, nonostante il recente crollo delle quotazioni del petrolio, l’economia nigeriana nell’ultimo decennio ha fatto segnare tassi di crescita costantemente vicini al 7% annuo. Tuttavia, mentre il numero dei milionari nel paese è cresciuto in sei anni del 44%, salendo a 16 mila, il livello di povertà assoluta è passato dal 55% nel 2004 al 61% nel 2014.
Al di là del relativamente pacifico passaggio di consegne celebrato dalla stampa internazionale, dunque, la nuova leadership politica non avrà nulla da offrire per alleviare la miseria totale in cui versa la maggior parte dei nigeriani. Il processo “democratico” a cui si è assisito nei giorni scorsi non è infatti che un avvicendamento tra due sezioni della classe dirigente del paese africano, ugualmente ostili alle masse impoverite della popolazione e legate invece, per le proprie fortune, al capitale internazionale.
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di Mario Lombardo
La quasi completa immunità legale di cui godono i militari americani durante le loro “missioni” all’estero è ampiamente risaputa e confermata da numerosi casi di crimini impuniti nel corso degli anni. Uno di questi ha a che fare con la Colombia, dove un recente rapporto stilato da una speciale commissione d’indagine ha documentato raccapriccianti episodi di violenza nel paese latino-americano ai danni di decine di ragazzine per mano di soldati e “contractor” provenienti dagli Stati Uniti.
L’indagine di 800 pagine è il frutto del lavoro della commissione sul Conflitto Armato e le sue Vittime in Colombia, composta da rappresentanti dei guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e del governo di Bogotà nel quadro dei negoziati di pace in corso a L’Avana per mettere fine a decenni di guerra civile. Il rapporto in questione dovrebbe documentare le cause, le responsabilità e gli effetti di un conflitto che ha coinvolto più di sette milioni di persone tra morti, feriti, vittime di abusi e costretti a fuggire dalle proprie abitazioni.
Il ruolo giocato dalle forze armate americane in questa tragedia è la conseguenza dell’intervento diretto di Washington nell’ambito del cosiddetto Plan Colombia, in base al quale gli USA hanno garantito svariati miliardi di dollari a Bogotà, in larga misura sotto forma di aiuti militari, ufficialmente per combattere il narco-traffico e i gruppi armati ribelli di “estrema sinistra”.
La presenza dei militari USA in Colombia, comunque, non è solo un problema per la sovranità nazionale del paese e la stabilità della regione ma, come evidenzia il rapporto, rappresenta una minaccia costante anche per chi, come alcune ragazze colombiane, è vittima dell’aggressività dei militari statunitensi e delle norme che gli assicurano impunità totale.
Proprio quest’ultimo aspetto è stato affrontato dal docente di storia presso l’Università di Pedagogia di Bogotà, Renan Vega. In una delle sezioni più raccapriccianti del rapporto, autore ha citato i casi di almeno 54 minori vittime di violenza sessuale tra il 2003 e il 2007 ad opera di militari americani o mercenari al servizio degli Stati Uniti.
In particolare, 53 stupri sarebbero avvenuti nella città di Melgar, situata a un centinaio di chilometri a sud-ovest della capitale e dove si trova un’importante base dell’aeronautica militare frequentata da “consiglieri” americani. Qui, i responsabili delle violenze avrebbero anche girato filmati degli stupri per poi venderli come video pornografici.
Le vittime e i loro famigliari sono stati in molti casi anche minacciati di morte, trovandosi costretti a trasferirsi in altre località. I militari e i “contractor” USA responsabili non sono mai stati nemmeno sottoposti a indagini, in virtù dell’accordo bilaterale per l’immunità siglato da Washington con il governo colombiano.
Accordi di questo genere gli Stati Uniti li hanno sottoscritti o, meglio, imposti a più di cento governi nel mondo e prevedono appunto l’immunità dalle leggi locali per i militari e i “contractor” che commettono crimini in paesi sotto occupazione o dove svolgono compiti di supporto alle forze armate indigene, come in Colombia.
Washington richiede anche l’impegno a non inviare propri connazionali al Tribunale Penale Internazionale, mentre coloro che si macchiano di crimini vengono rapidamente rimpatriati e possono essere formalmente incriminati solo dalla giustizia americana, cosa che non accade praticamente mai.
Il rapporto colombiano descrive nel dettaglio la vicenda di una ragazzina di appena 12 anni che nel 2007 era stata drogata, rapita e ripetutamente violentata da un sergente dell’esercito americano e da un “contractor” a Melgar. La vittima era stata avvicinata in un ristorante della città e in seguito portata in una caserma della base di Tolemaida, per essere infine abbandonata in un parco pubblico la mattina seguente.
La madre della giovane era riuscita a individuare i due responsabili - Michael Coen e Cesar Ruiz - i quali avevano però irriso e aggredito verbalmente la donna, dicendole chiaramente che entrambi godevano dell’immunità dalla legge colombiana.
La ricerca di giustizia della donna, prima presso il comando dell’aeronautica colombiana e poi attraverso il sistema legale del suo paese, non aveva dato alcun risultato. Anzi, madre e figlia sarebbero state vittime di minacce da parte di membri delle forze di sicurezza colombiane, così da essere costrette a trasferirsi di città in città.
Il sergente Coen è alla fine tornato negli Stati Uniti, mentre Ruiz è rimasto in Colombia. Nessuno dei due è stato incriminato, né in Colombia né negli Stati Uniti, nonostante nel 2009 il Miami Herald avesse riportato la vicenda sostenendo che il governo USA stava valutando la possibilità di riaprire il caso.
I casi documentati dalla commissione colombiana non esauriscono comunque i crimini commessi o di cui sono complici i militari americani in Colombia, nemmeno per quanto riguarda i soli casi di violenza sessuale su minori.
Secondo il sito web colombiano di informazione El Turbion, ad esempio, nel solo 2006 sarebbero stati denunciati 23 casi simili e altri 14 l’anno successivo. Considerando però l’impunità garantita agli americani e le ritorsioni minacciate o messe in atto nei confronti delle vittime e dei loro famigliari, è praticamente certo che gli episodi non denunciati siano ancora più numerosi.
La notizia degli stupri commessi dai soldati americani ha trovato ampia eco sulla stampa colombiana ma non è stata praticamente menzionata da quella USA. Una ricerca sul web ha restituito una manciata di articoli apparsi su testate alternative ma, a parte il britannico Daily Mail, letteralmente nessuno su quelle “mainstream”.
L’auto-censura praticata dalla liberissima stampa americana, inclusi giornali “progressisti” come il New York Times e il Washington Post o network come la CNN, è altamente significativa, tanto più che il rapporto è stato redatto non dal Venezuela, l’Ecuador o la Bolivia, bensì con il beneplacito del governo colombiano, probabilmente il più vicino a Washington in America Latina.
D’altra parte, con gli Stati Uniti impegnati in una nuovissima guerra illegale di aggressione in Yemen a sostegno di paesi non esattamente modelli di democrazia, come le monarchie assolute del Golfo Persico, far conoscere agli americani le violenze commesse dai propri militari contro decine di minorenni in un paese amico avrebbe potuto provocare qualche imbarazzo all’amministrazione Obama e ai suoi organi di propaganda.
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di Michele Paris
La crisi in cui si dibatte da tempo lo Yemen è sfociata ufficialmente in un nuovo conflitto regionale in Medio Oriente nella mattinata di giovedì in seguito ai bombardamenti aerei condotti dall’Arabia Saudita e dalle altre monarchie assolute del Golfo Persico nel più povero dei paesi arabi. L’obiettivo della “coalizione”, messa assieme dai sauditi e appoggiata dagli USA, sono i “ribelli” sciiti Houthi che dallo scorso autunno hanno progressivamente preso il controllo delle istituzioni dello stato yemenita, estromettendo dal potere il burattino di Washington e Riyadh, ovvero il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi.
La portata dell’impegno militare in Yemen è stata descritta dal network saudita Al Arabiya. La campagna di Riyadh conta su 100 velivoli da guerra, ben 150 mila soldati e altre unità navali. Le incursioni nelle prime ore di giovedì avrebbero già fatto alcune vittime tra i leader Houthi. Lo Yemen, intanto, ha chiuso i principali aeroporti sul proprio territorio e lo spazio aereo del paese è sotto il completo controllo saudita.
Della “coalizione” fanno parte i paesi dell’ultra-reazionario Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) - tranne l’Oman - cioè Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar, più l’Egitto, la Giordania, il Marocco, il Pakistan e il Sudan. Alcuni di questi ultimi paesi avrebbero già manifestato la disponibilità a inviare truppe di terra in Yemen.
Poco dopo l’annuncio dell’avvio delle manovre belliche da parte dell’ambasciatore saudita a Washington, Adel al-Jubeir, l’amministrazione Obama ha comunicato il proprio sostegno all’alleato saudita, con la portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Bernadette Meehan, che ha confermato come il presidente abbia “autorizzato il supporto logistico e d’intelligence alle operazioni militari” dirette dal GCC.
L’aggressione dello Yemen dovebbe essere il tentativo di fermare l’avanzata degli Houthi, ritenuti una forza al servizio degli obiettivi strategici dell’Iran. La giustificazione formale dell’attacco sarebbe la richiesta presentata qualche giorno fa dal presidente yemenita Hadi alle Nazioni Unite per intervenire a favore della “legittima autorità” del suo paese e respingere la minaccia degli Houthi, minacciosamente vicini alla città di Aden, sulla costa meridionale. Qui, lo stesso presidente, costretto ad annunciare le dimissioni nel mese di gennaio, si era rifugiato dopo la fuga dalla capitale, Sanaa, dove era tenuto in stato di semi-prigionia dagli Houthi.
L’ennesima guerra esplosa in Medio Oriente rappresenta in primo luogo una nuova débacle per gli Stati Uniti e la loro sconsiderata strategia per il dominio del mondo arabo sotto forma di “guerra al terrore”. La disintegrazione della società di questo paese della penisola arabica appare tanto più eclatante alla luce del fatto che, solo pochi mesi fa, il presidente Obama aveva celebrato pubblicamente la validità del modello yemenita nell’esecuzione della strategia anti-terroristica americana.
Nelle ultime settimane si è assistito piuttosto all’avanzata di una marea che ha travolto il regime del presidente Hadi e, con esso, i piani degli USA per lo Yemen. La stessa presenza della rappresentanza diplomatica americana, delle forze speciali e della CIA in questo paese è stata spazzata via con una serie di umilianti ordini di ritiro, culminati con la recente conquista da parte degli Houthi della base di Al Anad, quartier generale delle missioni di morte con i droni condotte dagli Stati Uniti ufficialmente contro i membri di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).
Proprio l’intervento americano in Yemen ha causato l’aggravamento delle tensioni settarie e il risentimento di ampie fasce della popolazione nei confronti di un regime percepito correttamente al servizio dell’imperialismo a stelle e strisce. Secondo varie fonti, i droni americani avrebbero fatto più di mille vittime in Yemen, tra cui un numero imprecisato di civili innocenti.
La guerra appena iniziata rischia così di infiammare ancor più il Medio Oriente, in considerazione soprattutto della possibile reazione dell’Iran. Il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica ha condannato giovedì l’iniziativa saudita, con la portavoce Marziyeh Afkham che ha ricordato la necessità di implementare gli accordi mediati dalle Nazioni Unite per giungere a una risoluzione pacifica del conflitto interno allo Yemen.
I negoziati tra le parti in lotta erano di fatto saltati nel mese di gennaio, a detta degli Houthi a causa della mancata accettazione da parte del governo dei termini concordati per attuare un piano di integrazione nelle istituzioni dei leader del movimento che rappresenta le tribù sciite del nord dello Yemen dopo decenni di repressione e marginalizzazione.
Riguardo all’Iran, è significativo e con ogni probabilità tutt’altro che casuale che l’operazione militare saudita prenda le mosse a pochissimi giorni dall’ultima data utile per il raggiungimento di un accordo internazionale preliminare sul nucleare di Teheran. Riyadh, assieme a Israele e alle altre monarchie medievali del Golfo Persico, si oppone fermamente alla risoluzione della crisi sul nucleare iraniano, temendo che una certa rappacificazione tra Teheran e Washington possa consentire alla Repubblica Islamica - vale a dire il proprio rivale storico - di giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente, riducendo l’influenza saudita.
Trascinando l’Iran in una guerra aperta nello Yemen, secondo la propaganda ufficiale in appoggio a una milizia sciita “ribelle” che intende rovesciare un governo e un presidente legittimi, l’Arabia Saudita spera di assestare un colpo mortale alle trattative in atto sul nucleare e di mantenere Teheran nello stato di isolamento in cui si è trovato in questi anni.
Proprio la vicinanza di un accordo con le potenze internazionali per risolvere l’annosa questione del proprio programma nucleare, però, dovrebbe convincere l’Iran a mantenere un atteggiamento prudente sullo Yemen, per lo meno nel breve periodo, nonostante il relativo appoggio garantito finora agli Houthi.
Le potenzialità esplosive del nuovo conflitto rischiano però seriamente di allargare il fronte delle ostilità, tanto più in presenza di altri gravissimi scenari di crisi in Medio Oriente. Gli stessi militanti Houthi hanno già fatto sapere di avere radunato i propri uomini nel governatorato di Saada, lungo il confine con l’Arabia Saudita, e di avere intenzione di valutare una “risposta adeguata” all’aggressione dei paesi del Golfo.
Un membro del politburo della milizia sciita, denominata ufficialmente “Ansarullah”, ha definito l’attacco saudita come una “dichiarazione di guerra contro il popolo yemenita”. Secondo quanto riportato dai media, i primi bombardamenti avrebbero già fatto una ventina di morti e decine di feriti.
Nella crisi dello Yemen è impossibile non rilevare infine alcune contraddizioni e intrecci apparentemente anomali che caratterizzano la “guerra al terrore” e le manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Ad esempio, l’ascesa degli Houthi sarebbe stata favorita da fazioni nelle forze armate yemenite che continuano a fare riferimento all’ex presidente Saleh, per decenni fedele alleato di USA e Arabia Saudita. Saleh era stato deposto nel 2012 in seguito a un piano mediato da Riyadh per mettere fine ai disordini provocati dalla “Primavera Araba” che minacciavano la totale destabilizzazione dello Yemen.
Saleh era stato costretto a farsi da parte per lasciare spazio al suo vice - l’attuale presidente Hadi - in seguito a un’elezione-farsa nella quale quest’ultimo appariva come l’unico candidato. Avendo mantenuto una certa influenza nel paese pur essendo in esilio in Etiopia, Saleh ha fin dall’inizio manovrato contro il nuovo regime, finendo per appoggiare la campagna degli Houthi.
Singolarmente, Stati Uniti e Arabia Saudita continuano inoltre a indicare come obiettivo del proprio intervento in Yemen, oltre e ancor più degli Houthi, la presenza di al-Qaeda.
Tuttavia, com’è accaduto in Siria con la campagna anti-Assad, anche nella penisola arabica a essere combattuti sono ora coloro che conducono la battaglia più intensa ed efficace contro il fondamentalismo sunnita. Violenti scontri armati tra Houthi e al-Qaeda, infatti, sono stati frequentemente registrati negli ultimi mesi in Yemen.
A determinare il nuovo intervento militare unilaterale sul territorio di un paese sovrano da parte degli USA o dei loro alleati è in sostanza la prospettiva di uno Yemen nel caos totale o, ancora peggio, sotto l’influenza iraniana attraverso il predominio di una formazione settaria (sciita) come gli Houthi.
A fronte della povertà estrema della propria popolazione e della devastazione sociale che lo caratterizza, questo paese rappresenta uno snodo strategico fondamentale per le potenze regionali e non solo. Lo Yemen, oltre a condividere una lunghissima linea di confine con l’Arabia Saudita, a sua volta costretta a fare i conti con un’irrequieta minoranza sciita nel proprio territorio, si affaccia sullo stretto di Bab el-Mandeb che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden e, quindi, l’Oceano Indiano, da dove transitano importanti rotte commerciali che consentono il trasporto del petrolio nordafricano e dell’export europeo e americano verso i paesi del continente asiatico.