di Michele Paris

L’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha finalmente diffuso qualche giorno fa a Ginevra il rapporto d’indagine sui crimini collegati alla guerra civile in Sri Lanka tra le forze governative e i separatisti delle Tigri Tamil (LTTE). Se il rapporto assegna responsabilità a entrambe le parti, l’intera operazione appare manipolata dalle grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’India, impegnate a sfruttare le violazioni dei diritti umani per avanzare i propri interessi strategici nel paese dell’Oceano Indiano.

Il conflitto in Sri Lanka era iniziato nel 1983 e, fino alla sanguinosa offensiva finale dell’esercito di Colombo nel 2009, ha fatto secondo alcune stime almeno 200 mila vittime, in buona parte appartenenti alla minoranza Tamil. Le fasi più cruente della guerra civile, a cui il rapporto dell’ONU ha dato ampio spazio, sono state quelle finali, soprattutto in relazione al massacro da parte delle forze armate di guerriglieri e leader Tamil, nonché civili, nonostante questi ultimi si fossero chiaramente arresi.

Il 28 maggio del 2009, ad esempio, alcuni comandanti Tamil e il numero uno dell’ufficio politico del movimento, Balasingham Nadesa, inviarono messaggi al governo dell’allora presidente, Mahinda Rajapaksa, per manifestare la loro intenzione di consegnarsi pacificamente alle autorità. La Croce Rossa e vari rappresentanti di governi stranieri si erano offerti di agire da osservatori per garantire la resa, ma Colombo rifiutò categoricamente.

Il governo ordinò allora ai guerriglieri Tamil di consegnarsi a un reparto dell’esercito non lontano dal villaggio di Vellimullivaikkal, nel nord dello Sri Lanka, dove si erano radunati. Secondo testimoni interrogati dagli investigatori ONU, i militanti separatisti avevano seguito le istruzioni, dirigendosi nel luogo indicato in abiti civili e mostrando una bandiera bianca.

Poco più tardi, tuttavia, il governo avrebbe fatto sapere che Nadesa e altri guerriglieri Tamil erano stati uccisi in combattimento. Il rapporto ONU conferma invece quanto si sospettava da tempo, cioè che i leader Tamil arresisi  erano stati vittime di una vera e propria esecuzione.

Nonostante questi e altri crimini che hanno segnato i 26 anni di guerra civile in Sri Lanka, l’interesse di molti governi stranieri non è legato a questioni di giustizia, bensì di puro calcolo strategico.

A sponsorizzare un’indagine sullo Sri Lanka erano stati, tra gli altri, gli Stati Uniti nel corso di una sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) nel marzo del 2014. Come avrebbero confermato gli sviluppi dei mesi successivi, tuttavia, le intenzioni di Washington, come al solito, avevano a che fare non tanto con scrupoli per i diritti umani ma con le preoccupazioni per gli orientamenti strategici del governo di Rajapaksa. Quest’ultimo aveva infatti iniziato a stabilire profondi legami politici, economici e militari con la Cina, suscitando le apprensioni di USA e India.

Washington ha così utilizzato la questione dei crimini di guerra per esercitare pressioni sull’amministrazione Rajapaksa, mentre parallelamente e in collaborazione con Delhi e sezioni filo-americane della classe politica cingalese alla fine dello scorso anno è stato orchestrato un avvicendamento “democratico” alla guida del paese in vista delle elezioni presidenziali nel mese di gennaio.

Con questo appoggio esterno, il Partito Nazionale Unito (UNP) all’opposizione e la ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, legata alla famiglia Clinton e appartenente al partito di Rajapkse (SLFP), avevano promosso la candidatura a presidente di Maithiripala Sirisena, a sua volta dimessosi da ministro della Sanità nel governo di Rajapaksa.

Cavalcando l’impopolarità del presidente, Sirisena sarebbe così riuscito a prevalere nel voto di gennaio e, fin dal suo insediamento, ha iniziato un riallineamento strategico verso gli Stati Uniti e l’India, cercando allo stesso tempo di emarginare Rajapakse e i suoi seguaci all’interno del partito.

Gli USA, in ogni caso, consapevoli sia delle difficoltà per Colombo di sganciarsi da Pechino sia del pericolo di un ritorno da protagonista di Rajapaksa sulla scena politica cingalese, hanno per mesi continuato a tenere aperta l’ipotesi di un’indagine criminale internazionale sui fatti della guerra civile.

Le elezioni parlamentari di agosto hanno però rappresentato un momento di svolta, visto che le velleità di conquistare la carica di primo ministro di Rajapaksa sono state frustrate con il successo dell’UNP dell’attuale premier, Ranil Wickremesinghe.

Il cambiamento di attitudine degli USA è stato sancito dall’assistente al segretario di Stato per l’Asia meridionale, Nisha Biswal, la quale alla fine del mese scorso a Colombo ha annunciato l’appoggio dell’amministrazione Obama a un progetto di inchiesta interna sui crimini di guerra, preferito dal presidente Sirisena e dal primo ministro Wickremesinghe.

Questa opzione consentirebbe alla fazione cingalese attualmente al potere e ai suoi sponsor a Washington e a Delhi di promuovere i rispettivi interessi. Al contrario di un’indagine criminale internazionale, teoricamente indipendente, un’inchiesta interna sarà esposta alle manipolazioni delle autorità, così che le responsabilità nel conflitto di coloro che sono al governo potranno essere occultate. Ugualmente, l’indagine interna servirà a perseguire Rajapaksa e i suoi alleati, in modo da rendere sempre più complicato un loro possibile percorso verso il ritorno al potere.

Il rapporto ONU appena pubblicato auspica in ogni caso la creazione di un “tribunale speciale ibrido” formato anche da “giudici, procuratori, avvocati e investigatori internazionali”, anche se il governo di Colombo, verosimilmente con l’appoggio di USA e India, sembra intenzionato a battersi per l’istituzione di un tribunale senza “interferenze” esterne.

La presunta imparzialità del commissario per i Diritti Umani è comunque smentita dalle considerazioni relative alla situazione interna. Il principe giordano, a ben vedere, nel suo rapporto asseconda le posizioni degli Stati Uniti nel momento in cui sottolinea il nuovo “contesto politico” cingalese, dal quale emergerebbe una “storica opportunità di autentico cambiamento”.

Hussein fa riferimento alla sconfitta elettorale di Rajapaksa e alla formazione di un governo di unità nazionale, composto da “tutte le comunità”, che ha preso iniziative come la limitazione dei poteri del presidente, la reimposizione dei limiti al numero di mandati presidenziali e la “riapertura degli spazi per la libertà di espressione”.

Una serie di elogi, quelli indirizzati al nuovo governo dello Sri Lanka che manca però di ricordare, oltre alle responsabilità nella guerra civile di svariati suoi membri, le ragioni strategiche e di opportunità politica che hanno dettato il cambiamento registrato negli ultimi mesi a Colombo.

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