di Michele Paris

Con l’approvazione da parte della camera alta del parlamento giapponese (Dieta) nel fine settimana, un nuovo pacchetto di misure di impronta militarista volute dal governo ultra-conservatore del primo ministro, Shinzo Abe, è diventato definitivamente legge nel paese dell’Estremo Oriente. L’iniziativa fa seguito alla “reinterpretazione” della Costituzione marcatamente pacifista del Giappone e, in sostanza, consentirà alle forze armate - o, ufficialmente, di “auto-difesa” - di perseguire più liberamente gli interessi della classe dirigente nipponica all’estero e di partecipare alle iniziative militari promosse dagli Stati Uniti.

Abe ha spinto fortemente per le nuove leggi nonostante la profonda opposizione manifestata dalla grande maggioranza della popolazione del suo paese. Il trucco della “reinterpretazione” era stato ideato lo scorso anno dallo stesso governo per giungere al sostanziale svincolo dell’impiego dei militari dai limiti piuttosto severi previsti dalla Costituzione.

Per cambiare quest’ultima sarebbe stato necessario il voto di una supermaggioranza dei due rami della Dieta e, successivamente, un referendum popolare che non sarebbe mai stato ratificato, visti i sentimenti pacifisti diffusi nel paese. Abe aveva allora escogitato una nuova “interpretazione” della Costituzione, in modo da modellare su di essa le leggi appena approvate.

In realtà, la manovra del primo ministro, come ritengono anche molti esperti giapponesi, è un’aperta violazione della Costituzione e, in particolare, dell’Articolo 9 che stabilisce come il Giappone rinunci per sempre alla guerra e al mantenimento di forze armate di terra, aria o mare.

La legislazione era stata approvata dalla camera bassa dei Rappresentanti il 16 luglio, mentre la camera alta dei “Consiglieri” ha dato il definitivo via libera nella mattinata di sabato. Quest’ultimo voto è stato segnato non solo da numerose manifestazioni di protesta, che per parecchi giorni a Tokyo e in altre località hanno coinvolto svariate migliaia di persone, ma anche da un percorso in aula relativamente complicato.

Tra forti tensioni e scontri non solo verbali, la maggioranza del Partito Liberal Democratico (LDP) e del Partito buddista Komeito ha dovuto far fronte all’ostruzionismo dell’opposizione. Il Partito Democratico Giapponese (DPJ) ha infatti presentato una serie di mozioni di sfiducia, puntualmente bocciate, tra cui contro il presidente della camera dei Consiglieri, ritardando l’approvazione del pacchetto di legge.

Dopo il voto, Abe ha comunque dichiarato che le misure erano necessarie per “proteggere la vita delle persone e lo stile di vita pacifico” del suo popolo, nonché per “prevenire le guerre”, rendendo il Giappone “un paese normale”. Al contrario, l’impronta militarista impressa da Abe rende più probabile il rischio di guerra in Asia orientale, mentre l’evoluzione verso un paese “normale” consiste nella possibilità a disposizione dell’esecutivo di utilizzare liberamente le forze armate per perseguire i propri interessi strategici ed economici.

La legislazione prevede sostanzialmente due misure. La prima consente l’invio di soldati delle “forze di auto-difesa” giapponesi in qualsiasi angolo del pianeta in seguito a un semplice voto del Parlamento e senza l’approvazione preventiva di una legge speciale, come attualmente previsto.

La seconda modifica invece alcune leggi esistenti e renderà possibile la fornitura di supporto logistico e in termini di personale militare a paesi alleati virtualmente senza restrizioni. La partnership militare che beneficerà quasi esclusivamente dei cambiamenti sarà quella con gli Stati Uniti.

Come ha spiegato un’analisi del quotidiano nipponico Yomiuri Shimbun, le nuove leggi renderanno ad esempio possibile per i due alleati “fronteggiare in maniera congiunta i conflitti lungo le rotte marittime in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano”, mentre in precedenza “era generalmente previsto che le forze di auto-difesa potessero assistere le truppe USA di stanza in Giappone in caso di emergenza nella penisola di Corea”.

Inoltre, i militari di Tokyo potranno svolgere “attività di sorveglianza e raccolta informazioni; prendere inziative in caso di lanci di missili balistici; mettere in salvo cittadini giapponesi all’estero” in situazioni di pericolo.

In definitiva, l’utilizzo dei soldati giapponesi sarà possibile non più solo in casi di emergenza o di minaccia alla sicurezza nazionale, ma in situazioni di relativa normalità, con l’obiettivo di avanzare gli interessi strategici di Tokyo e di Washington. Soprattutto, le nuove misure rientrano nel processo di integrazione del Giappone nella svolta strategica adottata dall’amministrazione Obama in Asia orientale per contrastare l’allargamento dell’influenza della Cina nel continente e l’evoluzione di questo paese verso uno status di potenza economica e militare.

Il coordinamento dell’iniziativa militarista di Abe con gli Stati Uniti è stato confermato da un altro articolo pubblicato lunedì sempre dal giornale Yomiuri Shimbun. Nel quadro della revisione dei principi che regolano l’alleanza strategica tra i due alleati, entrambe le amministrazioni avevano concordato misure come l’abolizione delle restrizioni per i militari giapponesi ben prima che iniziasse il dibattito politico su questo argomento a Tokyo.

Numerosi incontri tra alti ufficiali giapponesi ed esponenti del Pentagono si erano conclusi precisamente con un accordo su questo punto. Anzi, a conferma del fatto che il ritorno al militarismo del Giappone è dovuto a fattori oggettivi legati all’evolversi della situazione internazionale e non alla disposizione di un singolo uomo politico, le basi per la rimozione dei divieti al dispiegameno delle forze armate giapponesi erano state gettate durante il governo del Partito Democratico (DPJ) che precedette il ritorno di Abe alla guida del paese.

L’escalation delle tensioni con la Cina era inziata d’altra parte sotto il governo del DPJ, il quale nel 2012 aveva tra l’altro deciso provocatoriamente di nazionalizzare le isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale al centro di una disputa con Pechino, tramite l’acquisto dal loro proprietario privato.

Il carattere anti-democratico del pacchetto legislativo fatto approvare dal primo ministro Abe è confermato anche da parecchi sondaggi di opinione che chiariscono l’ostilità della gran parte dei giapponesi alla deriva militarista a cui stanno assistendo.

Il quotidiano Asahi Shimbun ha ad esempio diffuso lunedì i risultati di un’indagine condotta proprio all’indomani dell’approvazione definitiva delle nuove leggi. A favore di esse sarebbe solo il 30% degli interpellati, mentre il 51% si dice contrario. Ancora più marcata appare poi la disapprovazione dei metodi con cui i provvedimenti sono stati implementati, con il 67% che ha manifestato il proprio disappunto, contro il 16% che si è espresso a favore.

L’intera vicenda potrebbe infine danneggiare un esecutivo che negli ultimi anni ha ampiamente beneficiato dell’impopolarità del Partito Democratico, in grado di rimangiarsi tutte le principali promesse elettorali in tre anni di governo (2009-2012). Lo stesso Asahi Shimbun ha rilevato infatti un costante crollo nel gradimento del governo Abe, sceso in questi giorni al 35%, ovvero il dato più basso dalla riconquista da parte di quest’ultimo della carica di primo ministro dopo le elezioni del dicembre 2012.

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