di Alessandro Iacuelli

Proprio in concomitanza con l'anniversario dell'incidente di Cernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986, una foresta di 320 ettari nelle vicinanze della Zona di esclusione speciale attorno alla centrale, è andata a fuoco. La prima a scriverlo è stata l'agenzia di stampa Interfax, generando situazioni di allarmismo che, come vedremo, è fondato sia in Ucraina che in Bielorussia.

Secondo il Servizio per le situazioni d'emergenza dell'Ucraina, le squadre di pompieri sono riuscite ad impedire che le fiamme si dirigessero verso la centrale distrutta. "Per quanto riguarda il grande incendio nel territorio della Zona d'esclusione, le unità del Servizio di stato per le situazioni d'emergenza sono riuscite a fermare la diffusione del fuoco verso la centrale nucleare di Cernobyl", ha scritto sul suo profilo Facebook il capo dei servizi di soccorso Zorian Shkiriak. La Zona d'esclusione copre un raggio di 30 km dalla centrale distrutta.

"La struttura è fuori pericolo", ha concluso Shkiriak, assicurando che l'incendio non causerà danni al luogo che è stato teatro del più grande disastro della storia del nucleare civile. Frase abbastanza ovvia, considerando che il pericolo maggiore non deriva affatto dalla minaccia da parte delle fiamme nei confronti della centrale, ma dal livello di radioattività che si leva in atmosfera con i fumi dell'incendio e che poi potranno contaminare altre zone a seconda della direzione dei venti. Secondo il corrispondente dall'Ucraina della BBC, sono stati evacuati due insediamenti all'interno della zona di esclusione: Cernobyl e Ivankov. Nello spegnimento del rogo sono impegnati 182 pompieri, 32 mezzi tecnici, due elicotteri e due aerei An-32P.

Purtroppo nei scorsi giorni, per motivi ancora da identificare, l'incendio si è aggravato in concomitanza con un cambio di direzione del vento. Lo ha riferito il ministro dell'Interno ucraino Arsen Avakov: "L'incendio", ha dichiarato il ministro, "si è intensificato nell'area attorno alla centrale nucleare di Cernobyl. Le fiamme hanno raggiunto le cime degli alberi e i forti venti minacciano di espandere l'incendio in una zona a 20 Km dalla centrale. Circa 400 ettari di foresta sono in fiamme". Tre i principali focolai; non sarà un incidente facile da gestire e controllare poiché le fiamme sono alimentate dalla tesa e calda ventilazione dai quadranti meridionali, richiamata dal vasto sistema frontale presente fra la Polonia e il settore più occidentale della Russia europea.

Il premier ucraino, Arseni Iatseniuk, ha convocato una riunione urgente della Commissione per le situazioni di emergenza sull'incendio nella zona di esclusione di Cernobyl e, insieme al personale della protezione civile, "sta lavorando nelle dirette vicinanze della linea del fuoco": lo scrive ancora il ministro dell'interno Arsen Avakov, che sta coordinando la partenze di voli speciali dall'aeroporto di Kiev.

L'incendio boschivo potrebbe essere stato causato da un'azione dolosa o da un comportamento negligente: lo ha affermato il vice presidente del comitato della protezione civile, Mikola Cecotkin, il 28 aprile scorso, ma nella giornata del 29 l'ipotesi di una natura dolosa ha iniziato a prendere il sopravvento, finché è stato lo stesso Ministero dell’Interno dell’Ucraina ad ammettere tramite una nota che si tratti di un più che probabile incendio di natura dolosa; qualcuno insomma, ha volutamente appiccato le fiamme in uno dei posti più pericolosi al mondo.

Al momento in cui si scrive, stando alle informazioni non sempre puntuali provenienti dall'Ucraina, l'incendio non è ancora domato. Fin qui la cronaca, ma restano da fare due tipi di analisi: quella politica e quella ambientale.

L'incendio si è verificato, con un'estrema puntualità, alla vigilia della riunione, a Londra, dei contributori del fondo per il sarcofago di Cernobyl, destinato a mettere in sicurezza la centrale. Si tratta di un incontro promosso dal G7 allo scopo di raccogliere altri fondi per completare la copertura dell'impianto, entro la nuova scadenza di metà 2017. All'appello mancano 615 milioni di euro.

Proprio l'altro ieri, durante il vertice Ucraina-Ue a Kiev, il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker ha annunciato che Bruxelles stanzierà altri 70 milioni di euro, mentre la banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo intende contribuire con altri 350 milioni di euro.

La politica non finisce qui. L'incendio è scoppiato in un'area inaccessibile alla popolazione e quindi risulta strano che sia scoppiato proprio nella Zona di esclusione speciale, visto che tutta l’area è presidiata affinché nessuno entri sia per motivi di sicurezza delle persone e sia per la delicatezza del luogo. A svelare che si tratti di un'azione proditoria, è l'agenzia di stampa Interfax che scrive: "C’è un ragionevole sospetto che sia un attacco incendiario, visto che è scoppiato in diversi punti sui due lati del fiume”.

Poi c'è la situazione ambientale. Il livello di radiazioni a Kiev è normale, l'ha affermato il Servizio per le emergenze della capitale ucraina, che dista circa 126 chilometeri da Cernobyl, e invece come stanno le cose nelle zone più vicine all'area colpita?

Come accade sempre in questi casi, immediata è stata la corsa allo spegnere non l'incendio, ma ogni allarmismo e probabilmente ogni verità. Puntuale infatti la dichiarazione: "Il fumo provocato dall'incendio intorno a Cernobyl non è radioattivo". A rassicurare è stato in primis Vyachslav Vodolagin, un ufficiale in servizio dal servizio meteo russo Rushydromet: secondo lui “l'incendio intorno all'impianto non pone alcun pericolo" di radioattività "per la popolazione. È semplicemente fuoco" ha detto.

Anche questa è una frase incredibilmente scontata e banale. E' evidente che si tratta semplicemente di fuoco, che non costituisce un problema ambientale sulla lunga distanza temporale; quel che semmai è un problema serio è che quel fuoco trasforma in fumo e particelle fini dei terreni e materiali altamente contaminati e radioattivi.

A farlo notare, per ora unica voce fuori dal coro, è l'organizzazione ambientalista Greenpeace, che in un comunicato fa notare che una stima approssimativa degli incendi in corso indica con chiarezza il rischio di "causare una notevole dispersione di radioattività. A causa della notevole contaminazione delle foreste e dei terreni attorno alla centrale, i quantitativi totali di materiali radioattivi rilasciati da questi incendi potrebbero essere potenzialmente equivalenti a quelli di un incidente nucleare rilevante".

Ventinove anni dopo l’esplosione della centrale, l’incidente a Cernobyl non è ancora un capitolo chiuso. Sulle foreste e sui terreni attorno alla centrale si sono depositati, infatti, quantitativi notevoli di sostanze radioattive molto pericolose come il cesio 137, lo stronzio 90 e il plutonio 239. Gli incendi del 2010 hanno già disperso in atmosfera radioattività dal suolo, dagli alberi e dalle altre piante, questo nuovo incendio sta facendo il resto.

I primi incendi nell’area sono stati segnalati il 26 aprile, giorno dell’anniversario del disastro avvenuto nel 1986. La radioattività è rilasciata in atmosfera dai fumi dell’incendio e dispersa a seconda dell’andamento dei venti, dell’altezza del pennacchio di fumo e altri fattori meteorologici.

In incendi precedenti la radioattività è arrivata fino alla Turchia. Sulla base di dati satellitari, gli esperti di Greenpeace stimano che gli incendi, e soprattutto i loro fumi, abbiano interessato un’area complessiva di circa 13.300 ettari.

Solo all’inizio di quest’anno, era stata presentata un’analisi dettagliata sui rischi da incendio a Cernobyl: la conclusione fu che nel caso peggiore il rilascio di radioattività in atmosfera potrebbe equivalere a un incidente di livello 6 della scala INES (International Nuclear Events Scale). Sia l’incidente di Cernobyl che quello di Fukushima sono stati collocati al livello 7 della scala INES, parliamo quindi di incidenti gravissimi.

Nonostante questi rischi, nei prossimi giorni plausibilmente, come avvenuto pochi anni fa a Fukushima, sentiremo a raffica le dichiarazioni che "tutto va bene", che "non è successo nulla", che "tutto è al sicuro". Con buona pace per la verità, che rischia ancora una volta di essere anche lei sepolta nel sarcofago di cemento armato della centrale.

di Michele Paris

Il sovrano saudita Salman bin Abdulaziz, salito al trono tre mesi fa dopo la morte del fratellastro Abdullah, ha decretato questa settimana un importante cambiamento nella linea di successione alla guida della monarchia, aprendo la strada a una nuova generazione di principi pur ancorando il regno del Golfo Persico all’alleanza strategica con Washington e alla tradizione oscurantista che lo contraddistingue.

Il 79enne Salman ha escluso dalla discendenza al trono l’ormai ex principe ereditario, il fratellastro 69enne Muqrin bin Abdulaziz, sostituendolo con colui che doveva essere il successore di quest’ultimo, ovvero il nipote Mohammed bin Nayef. Per gli standard della casa regnante dell’Arabia Saudita, con i suoi 55 anni Nayef è decisamente giovane e rappresenta il primo erede al trono che non sia un figlio - bensì nipote - del fondatore del regno nel 1932, Abdulaziz ibn Saud.

Nayef ricopre un ruolo cruciale nell’apparato della sicurezza nazionale saudita, essendo ministro dell’Interno dal 2012, quando prese il posto del defunto padre, Nayef bin Abdulaziz. All’interno del sistema di potere di Riyadh, il neo-principe ereditario è tra i più accesi sostenitori di una politica estera aggressiva, mentre ben noti sono i suoi legami con gli Stati Uniti.

A conferma della volontà di re Salman di rinsaldare i legami della casa regnante con le forze di sicurezza saudite vi è anche la nomina, potenzialmente ancora più importante, del vice-principe ereditario, il figlio Mohammed bin Salman, ministro della Difesa dallo scorso mese di gennaio dopo l’ascesa al trono del padre.

Mohammed ha una trentina d’anni e ricopre anche l’incarico di segretario della corte reale, essendo così in contatto continuo con il sovrano. Nella sua veste di ministro della Difesa, Mohammed ha la responsabilità dell’aggressione militare in corso contro lo Yemen, ma anche delle operazioni saudite negli altri teatri di guerra mediorientali, a cominciare da quello in Siria e in Iraq, ufficialmente per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS) a fianco di Washington.

Mohammed viene considerato da molti analisti come “l’uomo degli Stati Uniti” negli ambienti della sicurezza di Riyadh, così come profondi legami con il governo americano vanta un altro beneficiario delle recentissime nomine fatte dal sovrano, l’ex ambasciatore saudita a Washington, Adel al-Jubeir.

Quest’ultimo è diventato il nuovo ministro degli Esteri dopo la rimozione del 75enne Saud Al Faisal, il quale ha mantenuto il suo incarico addirittura per quattro decenni. Jubeir era stato protagonista poco più di un mese fa dell’annuncio pubblico dell’inizio delle operazioni belliche in Yemen nel corso di una insolita conferenza stampa negli USA e sarà il primo ministro degli Esteri saudita non appartenente alla famiglia reale dal 1962.

Le nomine di re Salman sembrano riflettere dunque il tentativo di far fronte alla crisi del regno con il consolidamento del potere nelle mani di personalità dall’orientamento ultra-reazionario, sia sul piano domestico che regionale. Nel primo caso, anche le modestissime “riforme” politiche e sociali intraprese o abbozzate da re Abdullah saranno messe da parte in nome del rafforzamento dei principi religiosi medievali wahhabiti.

Sul fronte internazionale, invece, i cambiamenti registrati a Riyadh segneranno un ulteriore intensificarsi dello scontro tra i regimi sunniti, come quello saudita, e l’arco della resistenza sciita mediorientale, in particolare l’Iran. Il tutto, come conferma la vicinanza a Washington dei prescelti dal sovrano, in sintonia con l’alleato americano.

Le nomine di re Salman potrebbero in ogni caso essere state accolte non senza malumori all’interno della famiglia reale. Il principe Muqrin, ad esempio, prima di essere brevemente nominato primo erede al trono nel mese di gennaio, era stato scelto come secondo in linea di successione nel 2013 da un decreto di re Abdullah che avrebbe dovuto essere sostanzialmente irrevocabile.

Ciononostante, Salman ha liquidato Muqrin senza troppi scrupoli nei confronti del suo predecessore, anche se per salvare le apparenze da Riyadh è subito circolata la notizia che sarebbe stato lo stesso Muqrin a chiedere al sovrano di venire escluso dalla linea di successione al trono.

Molto più probabile, tuttavia, è che Muqrin - ritenuto un fedelissimo del defunto re Abdullah - sia stato messo da parte a causa delle sue posizioni relativamente “liberali”, con ogni probabilità condivise da una parte dei membri della sterminata famiglia Al Saud. Muqrin, inoltre, secondo alcuni aveva espresso un certo scetticismo per l’avventura militare in Yemen, rendendolo immediatamente sgradito alla cerchia di potere promossa dal nuovo sovrano.

Gli intrighi e i rapporti di forza all’interno della corte di Riyadh si sovrappongo così agli orientamenti politici e strategici del regno. La marginalizzazione di Muqrin comporta infatti il ristabilimento del cosiddetto clan dei Sudairi in una posizione dominante in Arabia Saudita.

Questa potente fazione è formata dai discendenti di Abdulaziz ibn Saud e Hassa bint Ahmed Al Sudairi, una delle 22 mogli del fondatore del regno. Di questo clan fanno parte, oltre a re Salman, sia il neo-principe ereditario, Mohammed bin Nayef, sia il secondo in linea di successione al trono, Mohammed bin Salman.

Secondo un esperto della realtà saudita citato dalla testata on-line Middle East Eye, il consolidamento della fazione Sudairi è un passo decisivo nello “smantellamento delle disposizioni per la successione decise da re Abdullah” che, da ultimo, avrebbero dovuto portare sul trono il figlio Mutaib.

In definitiva, le nomine di re Salman intendono suggellare il riallineameto strategico tra Riyadh e Washington dopo le relative frizioni registrate negli ultimi anni del regno di Abdullah con l’amministrazione Obama. Ancor più, la nuova linea di successione al trono conferma il ruolo del regime saudita in Medio Oriente come baluardo della reazione e del fronte ultra-settario sunnita, messo in crisi dal progressivo ritorno dell’Iran sciita sulla scena internazionale.

di Michele Paris

L’ennesimo omicidio di un cittadino americano per mano della polizia è stato seguito nei giorni scorsi da una nuova ondata di proteste popolari in una città degli Stati Uniti e dalla massiccia mobilitazione delle forze di sicurezza in uno scenario di fatto da legge marziale. La rabbia esplosa a inizio settimana a Baltimora, nel Maryland, è stata scatenata dalla morte del 25enne di colore Freddie Gray dopo che era stato preso in custodia dalla polizia il 12 aprile scorso in seguito all’arresto perché in possesso di un coltello a scatto. Gray era deceduto sette giorni più tardi a causa di gravi lesioni subite alla spina dorsale.

Le proteste contro la brutalità della polizia si erano intensificate dopo i funerali di Gray e nella notte di lunedì si sono verificati gli scontri più gravi, con alcuni edifici pubblici ed esercizi commerciali assaltati e dati alle fiamme. Questi episodi hanno spinto le autorità di Baltimora a dichiarare il coprifuoco a partire dalla serata di martedì, nonché a dispiegare nella città ben duemila uomini della Guardia Nazionale e altre centinaia di agenti dello stato e dei dipartimenti di polizia di località limitrofe.

Inizialmente, centinaia di manifestanti hanno sfidato il coprifuoco e l’intervento della polizia, dotata di veicoli e mezzi da guerra come previsto dal programma di trasferimento di equipaggiamenti militari dal Pentagono ai dipartimenti americani, ma in seguito la situazione è tornata relativamente sotto controllo.

Il dispiegamento di forze visto a Baltimora ricorda quello avvenuto lo scorso novembre a Ferguson, nel Missouri, dopo l’esplosione della rabbia popolare a causa dell’annuncio della decisione di un Grand Jury di non incriminare il poliziotto reponsabile della morte del 18enne di colore, Michael Brown.

A distanza di pochi mesi, la polizia americana ha ucciso altre 500 persone e, soprattutto, è stata registrata una nuova clamorosa esplosione del gravissimo malessere sociale che attraversa gli Stati Uniti, accolta ancora una volta con metodi repressivi e violenti da una classe dirigente sempre più lontana dai problemi della grande maggioranza della popolazione.

Di fronte alle manifestazioni di rabbia non solo per la condotta della polizia e l’impunità di cui godono i suoi membri, ma anche e soprattutto per le condizioni di povertà e degrado sociale con cui milioni di persone sono costrette a fare i conti, i vertici politici della città di Baltimora, dello stato del Maryland e dello stesso governo federale hanno fatto quadrato, riservando denunce e disprezzo verso coloro che sono scesi nelle strade per protestare.

Il sindaco democratico e di colore della città, Stephanie Rawlings-Blake, nel corso di una conferenza stampa tenuta lunedì aveva bollato come “teppisti” i manifestanti, salvo poi pentirsi e chiedere scusa ai suoi concittadini. La stessa definizione di “teppisti” è stata però utilizzata da molti in questi giorni, non solo tra i politici, come il governatore repubblicano del Maryland Larry Hogan, ma anche tra i commentatori dei media “mainstream”.

Lo stesso presidente Obama, nel corso di un vertice con il premier giapponese Abe all’insegna del militarismo, ha avuto soltanto parole di condanna per gli abitanti di Baltimora che protestavano contro la polizia. Obama ha affermato che coloro che hanno fatto ricorso a metodi violenti “non hanno scuse” per un comportamento che “sottrae lavoro e opportunità agli abitanti di quest’area”.

La reazione dei politici americani ai fatti di Baltimora è dunque prevedibilmente caratterizzata dal completo disinteresse per le condizioni di forte disagio e sopraffazione in cui sono costretti a vivere ampi strati della popolazione negli Stati Uniti.

Le manifestazioni di Baltimora, così come quelle di Ferguson, sono il sintomo di una realtà sociale pronta a esplodere sotto le pressioni di un processo che da decenni ha prodotto regressione e povertà, frutto di dinamiche economiche, favorite dalla classe al potere, che hanno fatto della società americana una delle più inique tra i paesi sviluppati.

La deindustrializzazione forzata che ha interessato vaste aree degli Stati Uniti si è accompagnata alla finanziarizzazione dell’economia, con il conseguente trasferimento della ricchezza dai lavoratori e dalla classe media a una ristretta élite parassitaria. A questa evoluzione ha contribuito in maniera decisiva l’amministrazione Obama, dal momento che negli anni seguiti alla crisi del 2008 praticamente tutto l’aumento di ricchezza prodotto negli USA è andato a beneficio dell’1% situato al vertice della piramide sociale.

Il quartiere di Baltimora in cui è cresciuto Freddie Gray - Sandtown-Winchester - è una sorta di emblema del dramma vissuto da intere comunità nelle ex aree industriali degli Stati Uniti. Qui, più della metà della popolazione tra i 16 e i 64 anni risulta senza lavoro e il reddito medio annuo pro-capite è al di sotto della soglia ufficiale di povertà. Inoltre, il livello di degrado è confermato dal fatto che tra un quarto e un terzo degli edifici di Sandtown è a tutt’oggi disabitato.

Nonostante queste condizioni, per Obama e il resto della classe politica USA non esistono “scuse” o “ragioni” dietro all’esplosione della rabbia degli abitanti di Baltimora. La loro indifferenza è tanto più spietata alla luce del fatto che, al contrario, le “scuse” continuano ad abbondare per le politiche repressive e violente del governo e delle forze di polizia.

Solo pochi giorni prima degli scontri a Baltimora, Obama si era ad esempio presentato in pubblico ammettendo la sua responsabilità nell’assassinio con un missile lanciato da un drone di due operatori umanitari in Pakistan ostaggi di al-Qaeda. La “scusa”, in questo caso, è legata alla farsa della “guerra al terrore”, la quale ha fornito e continua a fornire la giustificazione per la distruzione di interi paesi.

Le “scuse” sono poi puntualmente a disposizione della stessa polizia americana che uccide cittadini quasi sempre disarmati e inoffensivi senza che vi sia alcuna conseguenza legale per i responsabili.

I fatti di Baltimora hanno infine confermato ancora una volta come il fattore razziale, se pure importante, è tutt’altro che determinante in circostanze simili. Dal sindaco della città fino all’inquilino della Casa Bianca, passando per i membri del Congresso e i professionisti del contenimento delle tensioni sociali legati al Partito Democratico, come il reverendo Al Sharpton, tutti i leader della comunità afro-americana hanno condannato senza riserve le proteste per la morte di Freddie Gray e appoggiato la militarizzazione della città del Maryland.

Se a soffrire delle peggiori condizioni sociali ed economiche negli Stati Uniti sono spesso gli americani di colore, la questione cruciale per la comprensione delle esplosive tensioni sociali che attraversano questo paese non è però legata alla razza bensì alle differenze di classe, imposte spietatamente da un apparato di potere, composto sia da bianchi che da neri, pronto a utilizzare metodi da stato di polizia per schiacciare la resistenza di chiunque si batta per un sistema diverso.

di Liliana Adamo

Democrazia e Islam sono compatibili? Un invito da porsi non senza imbarazzo soprattutto in quello che fu il giorno successivo la strage alla redazione di Charlie Hebdo, a Parigi. Un dubbio che pone un rebus a mille altre riflessioni fino a concludere di come soltanto le comunità musulmane possano restituirci dal canto loro, una risposta univoca.

Nel vuoto politico dello scenario internazionale, se da una parte imperversa il mattatoio del Califfato minacciando l’intera area dell’Africa settentrionale, come la violenza estremista di Boko Aram in Nigeria, di al-Shabaab negli attacchi in Kenya, oltre a frammentarie milizie di terrorismo sparso (per lo più criminali comuni ed emarginati), dall’altra (Egitto e Paesi del Golfo), appare sempre più auspicabile “una rivoluzione religiosa dell’Islam” che potrebbe risolversi in normale propaganda, in attesa che il vento cominci davvero a cambiare rotta. 

Abd-al-Fattah al Sisi, l’oscuro generale delle forze armate egiziane, che, dal 14 agosto 2013, ha soffocato nel sangue la rivolta dei Fratelli Musulmani, fino alla destituzione dell’allora presidente Mohamed Morsi, oggi, nuova guida di un paese che ha voglia di rinascita e riscatto sociale, sembra non aver dubbi. Il primo gennaio scorso, all’università di Al Azhar, subito dopo l’attacco terroristico alla redazione parigina, di fronte a un auditorio quasi colto alla sprovvista e composto d’imam, ulema e dotti, le parole pronunciate sono state di quelle che difficilmente possiamo aspettarci da un musulmano sunnita osservante, seppur capo di stato: “Ora mi rivolgo ai religiosi e agli imam. E’ inconcepibile che il pensiero da noi ritenuto più sacro faccia dell’intera umma (la comunità musulmana universale), una causa d’ansietà, pericolo, morte e distruzione nel resto del mondo…Questo pensiero - e non parlo di religione - ma di pensiero, questo corpo di testi e idee che abbiamo sacralizzato nel corso dei secoli, fino al punto che separarsene è diventato quasi impossibile, si sta inimicando il mondo intero. Il mondo intero c’è nemico! E’ possibile mai che 1,6 miliardi di persone (in toto, i musulmani), vogliano uccidere i restanti sette miliardi d’abitanti nel mondo, per vivere e affermare il loro credo?No, questo non è possibile”.

E dunque, al cospetto dei garanti più autorevoli nel consiglio sunnita, senza tradire il benché minimo nervosismo, il presidente ha suggerito “una rivoluzione religiosa”, un percorso con un obiettivo preciso: riformare l’islam e al pari del cristianesimo, renderlo conciliabile al senso democratico del vivere comune.

Una “mission” condividibile e altisonante, quanto poi possibile in atti pratici è tutta da vedere. Intanto, cresce nel paese la caccia alle streghe verso omosessuali e atei, additati come fonte di pericolo per la “moralità pubblica”, mentre la repressione mette fuori legge migliaia d’aderenti alla Fratellanza e sulla testa del suo predecessore, Mohamed Morsi, pende una “condanna a morte”.

Se non bastasse, sono perseguitati anche i veterani della cosiddetta “primavera araba”, ex attivisti di piazza Tahrir e continuano le controversie sull’uccisione di Shaimaa al Sabbagh (con una drammatica ripresa in “diretta”, subito rimbalzata in tutto il mondo attraverso i social networks).

Perfino i testimoni oculari sull’assassinio della militante nell’Alleanza Socialista, poetessa e oppositrice del regime, sono stati fermati e arrestati dalle forze di “sicurezza”. Con ventitré morti lasciati sull’asfalto, nel bilancio finale degli scontri per il quarto anniversario delle rivolte nel 2011, a tutt’oggi le autorità continuano a difendere a spada tratta, l’operato della polizia.

Ma chi è, in realtà, questo compassato leader sessantenne, ex ministro della Difesa (proprio sotto l’egida dell’ex presidente islamista) e capo delle Forze Armate, che ha formalmente “tradito” il suo mentore, con un clamoroso e incruento “colpo di stato”? Che, secondo tanti esponenti della nuova intellighenzia egiziana (dal ricercatore Tewfik Aclimandos, allo scrittore Ala Al Aswani), ha impedito, di fatto, l’insorgere e la deriva di una guerra civile?

Il famoso discorso sopra citato termina con un’esortazione, pressappoco una solenne paternale diretta agli imam e non solo per chi fosse presente: “Ciò che vi sto dicendo, voi non potete comprenderlo se resterete intrappolati nella vostra mentalità…Ho detto e ripeto, che noi abbiamo bisogno di una rivoluzione religiosa. Voi imam, siete responsabili dinanzi ad Allah. Il mondo intero, ripeto, il mondo intero attende una vostra mossa…perché l’intera umma musulmana è lacerata, distrutta, si sta perdendo. E si perde nell’opera delle nostre mani…”.

E il giorno successivo, in prima assoluta per un capo di stato egiziano, ha partecipato al Cairo alla Messa solenne tenuta dal patriarca Tawadros in occasione del Natale dei cristiani, copti ortodossi, da sempre considerati cittadini di serie B. Tant'è.

Nessuno a Gamaleya, centro pulsante dell’antico Cairo più tradizionalmente islamista, avrebbe mai previsto un futuro così radioso per quel ragazzo taciturno, secondo di otto fratelli, cresciuto in una famiglia benestante, molto religiosa, ma dai modi umili che, dopo la scuola, si recava tutti i giorni ad aiutare il padre in bottega intarsiando mobili, tra i bazar di Khan el Khalili, la meta più frequentata dai turisti dopo le Piramidi. Seppur con quel carattere riservato e devoto, Abd-al-Fattah scelse la carriera militare, scalando i gradi nelle brigate di fanteria meccanica, rimarcando le sue doti di leadership e di comando.

Negli ultimi anni di Hosni Mubarak, fu trasferito all’intelligence militare, un particolare che gli ex attivisti di Taharir non gli perdonano, poiché questa struttura militare rappresenta l’icona di crimini e torture verso il popolo e i dissidenti. Molti si chiedono se chi guida l’Egitto sia allora un nuovo autoritario, un islamista rivoluzionario, un nazionalista, la somma di tutto ciò o la sua contraddizione.

Abd-al-Fattah al Sisi cita a memoria il Corano ma mette al bando i Fratelli Musulmani, garantisce un livello di libertà religiose mai conosciuto finora, ma reprime la libertà sessuale e d’identità, parla di democrazia con l’approvazione di una nuova Costituzione, ma è lontano dalla completa tutela dei diritti umani e della laicità.

Un passo avanti, due indietro: il nuovo presidente resta un mistero per le stesse diplomazie accidentali, che di lui apprezzano il pragmatismo, insieme alla capacità d’essere agli occhi degli egiziani una “smart person” (è questo l’appellativo suggerito da un occasionale compagno di viaggio, un grasso business man alessandrino, incontrato su un aereo diretto al Cairo).

Perché al Sisi ha ben saputo conquistarsi l’appoggio e le simpatie nella stragrande maggioranza della gente: è l’uomo che (nel 2013), è apparso solidale (insieme a polizia, esercito e Servizi segreti), alla campagna di firme Tamarrod (Ribellione) nelle manifestazioni anti Morsi. E’ l’uomo invocato dal popolo nelle piazze: “Sisi, Sisi enta raisi” (Sisi, Sisi, sei tu il mio presidente). E’ l’uomo che ha riportato l’ordine e acceso la speranza.

E’ colui che è apparso in televisione, senza enfasi, annunciando con un secco comunicato, l’attacco aereo in Libia per ritorsione contro il famigerato Daesh (come spregiativamente è chiamato lo Stato islamico e il suo braccio armato, l’Isis), dopo la mattanza dei ventuno lavoratori cristiani copti sulla spiaggia di Sirte.

In modo sacrosanto, al Sisi ha rivendicato il diritto a perseguire gli autori del massacro, recandosi in seguito dal presidente francese Hollande e direttamente all’Onu, chiedendo a gran voce interventi mirati, anche se, da una lettura trasversale, s’intravede l’occasione a proporsi come elemento affidabile a capo di un’alleanza internazionale, che, per iniziativa degli Stati Uniti, si schiererebbe contro il terrorismo di matrice islamista dove sicuramente l’Egitto si porrebbe come primo attore in assoluto.

Non a caso gli osservatori ravvisano una precisa “strategia” nel raid egiziano a Derna, con gli interessi italiani fatalmente compromessi. Infatti, subito dopo gli attacchi della Nato nel 2011 (spodestando il colonnello Gheddafi con tutte le conseguenze che conosciamo), se il nostro paese sembra aver abdicato alle proprie partecipazioni di natura economica, a favore di Francia e Gran Bretagna, qualora l’Italia accettasse un intervento armato a fianco di al Sisi, questo darebbe via libera “all’estensione egiziana “ in Libia con il colpo di grazia definitivo a nostri privilegi in tema di contratti petroliferi fino al controllo dei flussi migratori.

Rivoluzione religiosa dell’islam o meno, il discorso rimane sempre uguale a se stesso: petrolio, business sulla pelle dei migranti, interessi cruciali ritrovati e mancati man mano che avanza la Jihad e il Daesh. Con provata determinazione, il progresso del nuovo regime di al Sisi sembra voler accettare la sfida rafforzando la sua affidabilità in patria, come pure sul piano internazionale e “the smart person…” ha tutte le carte in regola per spuntarla.










di Mario Lombardo

L’arrivo a Washington nella giornata di martedì del primo ministro ultra-conservatore giapponese, Shinzo Abe, ha segnato l’inizio di una fondamentale visita che dovrebbe segnare il potenziamento dei rapporti tra i due paesi alleati, suggellato dal recentissimo annuncio di nuove linee guida per regolare le relazioni militari bilaterali.

I governi di Giappone e Stati Uniti avevano fatto sapere lunedì di avere concordato un aggiornamento - il primo dal 1997 - delle norme relative alla cooperazione in ambito militare. In linea di massima, i nuovi accordi consentiranno a Tokyo di partecipare alle avventure belliche degli USA in ogni parte del pianeta senza che l’esecutivo sia obbligato in ogni occasione a ottenere un permesso specifico dal parlamento nipponico.

Questa iniziativa fa seguito alla nuova “interpretazione” della costituzione decisa dal governo Abe lo scorso anno per dare un’impronta decisamente militarista a un documento fortemente pacifista redatto sotto la supervisione americana dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Secondo la stampa internazionale, i nuovi accordi consentiranno una partnership “globale” tra i due paesi e non più focalizzata soltanto a livello regionale. Le forze armate del Giappone potranno ad esempio intercettare e abbattere missili diretti verso gli Stati Uniti e lanciati da un paese terzo, così come operare a fianco dell’alleato in ambito della sicurezza marittima o informatica, esercitando quello che è stato definito come il diritto alla “auto-difesa collettiva”.

Se le implicazioni di quanto appena descritto appaiono già preoccupanti, vista la crescente rivalità tra USA e Cina, ancora più inquietanti sono i risvolti legati agli impegni che Washington dovrebbe onorare nei confronti del Giappone.

La questione più scottante al centro della politica per la sicurezza giapponese è legata alle contese territoriali con Pechino nel Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi hanno già sfiorato più volte lo scontro negli ultimi anni. Le nuove regole di cooperazione tra Tokyo e Washington inaugurate questa settimana prevedono una maggiore collaborazione in quest’area, con il rischio quindi di far aumentare le tensioni in modo esponenziale, vista la comprensibile irritabilità cinese verso qualsiasi ingerenza esterna in quella che viene vista come una disputa da risolvere esclusivamente in maniera bilaterale.

Le prospettive di un simile scenario sono apparse chiare lunedì in seguito a una dichiarazione del segretario di Stato americano, John Kerry, il quale ha appunto assicurato che l’impegno USA per la difesa del Giappone è “solidissimo” e copre tutti i territori amministrati da Tokyo, inclusi quelli rivendicati dalla Cina.

Le dichiarazioni di Kerry confermano perciò che gli Stati Uniti sono disposti a scatenare una guerra potenzialmente nucleare a fianco del Giappone e contro la Cina per una manciata di isole disabitate. Questi timori non sono stati attenuati nemmeno dalle parole del consigliere del presidente Obama per l’Asia, Evan Medeiros, impegnato a rassicurare che il suo paese intende incoraggiare una soluzione diplomatica con Pechino attorno alle dispute territoriali.

Le tensioni crescenti in Estremo Oriente sono in ogni caso alimentate proprio dal riassetto strategico deciso dall’amministrazione Obama in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese nel continente.

Anzi, lo stesso militarismo sempre più accentuato del governo Abe è stato incoraggiato - sia pure con qualche riserva - proprio da Washington, così da favorire l’allineamento del principale alleato asiatico alle proprie esigenze strategiche e mettere il maggiore spazio possibile tra Tokyo e Pechino nonostante la crescente integrazione economica dei due paesi vicini.

Nella stampa ufficiale, tuttavia, è in atto un tentativo di ribaltare la realtà dei fatti, così che gli eventi che stanno accadendo in Asia orientale vengono in larga misura descritti come la conseguenza dell’aggressività cinese o, tutt’al più, del pericolo per gli alleati americani nella regione rappresentato dalla Corea del Nord.

L’altra faccia della strategia anti-cinese degli USA è caratterizzata da un’iniziativa in ambito economico e commerciale che ambisce a riunire in una vasta area di libero scambio dodici paesi asiatici e del continente americano, da cui è significativamente esclusa la Cina.

Questo strumento è denominato Partnership Trans Pacifica (TPP) e più che un tradizionale accordo di libero scambio è un sistema di economie integrato nel quale i paesi che ne fanno parte dovranno accettare un insieme di regole scritte appositamente per favorire le corporation americane.

L’ostacolo finale all’attuazione del TPP è costituito dalla resistenza manifestata dalle popolazioni interessate - accentuata dalla totale segretezza dei negoziati - e dagli stessi governi che dovrebbero farne parte, visto appunto lo strapotere delle multinazionali USA che si prospetta.

Un’intesa sul TPP tra Stati Uniti e Giappone darebbe comunque un impulso forse decisivo al trattato e su questo si stanno concentrando evidentemente le discussioni in corso a Washington tra Obama e Abe.

Anche se ambienti della Casa Bianca hanno escluso che ci possa essere l’annuncio di un accordo sul TPP durante la permanenza del premier giapponese nella capitale americana, qualche progresso nelle trattative potrebbe aiutare Obama nella disputa in atto con il Congresso.

Qui è infatti in discussione una misura che garantirebbe totale autorità al presidente nel raggiungimento di un accordo di libero scambio, sottoponendolo a un voto finale del Congresso senza possibilità di emendamenti. Sul TPP, Obama si trova sulla stessa lunghezza d’onda dei repubblicani, mentre numerosi democratici sono ostili al trattato, soprattutto perché appoggiati dai sindacati che temono un’ulteriore emorragia di posti di lavoro dagli Stati Uniti.

Ad ogni modo, l’importanza del TPP è ancor prima di natura strategica che economica, come ha confermato Obama in un’intervista apparsa lunedì sul Wall Street Journal. Il presidente democratico ha affermato che “se non saremo noi a scrivere le regole [del commercio internazionale], sarà la Cina a farlo”, tanto più alla luce del recente successo della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB), il nuovo istituto finanziario lanciato da Pechino come alternativa al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, entrambi dominati da Washington.

Intrecciata alle tensioni in Estremo Oriente e all’agenda nazionalista del governo di Tokyo è infine la questione del passato coloniale del Giappone che Abe dovrebbe sollevare nel discorso al Congresso previsto per mercoledì.

Il primo ministro, fin dal suo ritorno al potere, ha favorito più o meno apertamente lo spirito revisionista nel suo paese, cercando di minimizzare i crimini dell’imperialismo nipponico nella prima metà del secolo scorso.

I toni che Abe userà per affrontare questo tema verranno valutati con attenzione dalla classe dirigente americana, visto che nel recente passato il revisionismo del governo di Tokyo ha suscitato le ire degli alleati degli Stati Uniti in Asia soggetti alle brutalità dell’occupazione giapponese, a cominciare dalla Corea del Sud, con il rischio di dividere il fronte anti-cinese faticosamente promosso dall’amministrazione Obama.


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