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di Fabrizio Casari
Un Obama commosso, nella sua prima conferenza stampa del 2016 ha lanciato una sua campagna politica per la riduzione delle facilitazioni nella vendita di armi. Sono oltre trentamila gli statunitensi che ogni anno muoiono a causa del proliferare di armi e all’epidemia di follia che investe gli Stati Uniti. Non è un caso che l’ironia sui social dipinga i college statunitensi come l’intermezzo che gli USA si danno tra una guerra e l’altra per non perdere l'allenamento. Difficile peraltro riuscire a provare che i due elementi - il desiderio di possedere un arma ed eventualmente usarla e la diffusione di disturbi mentali - siano slegati.
Conscio di come la battaglia sia durissima, per via dell’influenza profonda e remunerante che la lobby delle armi esercita sui congressisti e i senatori statunitensi, il presidente ha specificato come le misure che intende prendere non travalicano i poteri presidenziali ma che esse siano ormai inderogabili.
La Casa Bianca sta dunque studiando un pacchetto di misure che prevedono la responsabilità diretta degli acquirenti nella custodia delle armi ed il divieto di utilizzo da parte di altri; una maggiore documentazione necessaria per gli acquirenti ed una maggiore limitazione per quella che, ad oggi, è una vendita libera. Ma l’aspetto più importante è rappresentato dall’intenzione di Obama di consentire allo FBI di esercitare controlli che prevederanno anche valutazioni psicologiche su chi compra armi e, a questo proposito, il Presidente ha annunciato specifici fondi a disposizione per assumere il personale necessario.
Obama, che pure già in passato ha spesso avvertito sulla necessità di ridurre le armi in circolazione negli Stati Uniti, sa benissimo come il percorso legislativo sia in salita, proprio per il peso della lobby armamentista, rappresentata dalla National Rifle Association che annovera tra i suoi sostenitori deputati, senatori e personaggi celebri, che hanno sempre difeso a suon di dollari quello che resta uno dei maggiori business del Paese e che ne incarna, per molti aspetti, il modus vivendi di milioni di suoi abitanti.
Il Presidente, che ha iniziato il suo ultimo anno del suo ultimo mandato, ritiene però che sebbene congressisti e senatori siano in maggioranza favorevoli alla libera circolazione delle armi, la maggioranza della popolazione ritiene invece che vada approvata una regolamentazione normativa in chiave restrittiva, per tentare almeno di ridurre le stragi ripetute che in ogni angolo del paese vengono effettuate da squilibrati armati fino ai denti.
Obama ha ricordato come il diritto al possesso delle armi, previsto dalla Costituzione, non può però divenire un impedimento al godimento di altri diritti costituzionali, come quello alla vita. Ma in una Costituzione che prevede la libertà di armarsi e, nello stesso emendamento, la libertà di difendersi (quindi anche da chi le usa contro di te) emerge la contraddizione in termini di un Paese che ha ancora nelle ossa il mito della frontiera, della forza, della sua libertà e non della libertà di tutti. Gli Stati Uniti, del resto, sono la rappresentazione di un modello politico e sociale di assoluta compenetrazione tra essi.
Il modello che da sempre propongono è il loro e ritengono che esso debba essere esteso - con le buone o con le cattive - al resto del mondo. Diffondono una cultura che difficilmente privilegia l’argomentare, che non indugia nel riconoscimento delle altrui ragioni, divise solo tra ostili e affini. Ritiene che il suo destino sia quello di guidare il mondo, che il suo ruolo sia dunque preminente ed i privilegi che ne derivano si trasformino in diritti, mentre i diritti altrui devono essere subordinati agli interessi statunitensi.
Quello della diffusione delle armi è tuttavia solo un aspetto delle storture di una società profondamente malata. Il numero dei detenuti per abitanti, come quello dei malati psichiatrici e dei tossicodipendenti, i reati contro la persona come quelli contro il patrimonio, la diffusione della violenza, l’arbitrio assoluto a disposizione delle sue strutture militari e di sicurezza, i numeri allarmanti dell'emarginazione sociale come della mortalità scolastica, raffigura un impianto sociale che ha nella devianza patologica un dato preoccupante per dimensioni, intensità e pericolosità sociale.
Ben più profonda dovrebbe essere dunque la riflessione sull'insostenibilità di un sistema che ha nella violenza una leva centrale del suo dispiegarsi. Servirebbe insomma il coraggio di ripensare al modello sotto il profilo concettuale, non solo intervenire sui sintomi del suo malessere.
Che Obama abbia deciso di affondare lo scontro politico con lobby delle armi, Senato e Congresso solo nell’ultimo anno del suo mandato, senza quindi avere molto da perdere, indica però che questa potrebbe essere l’occasione per andare oltre le parole e provare a passare alla storia come il Presidente che provò a cambiare alcuni aspetti della follia americana. E non impegna Hillary a dover assumere su di sé il portato di questa battaglia, che appare più del Presidente che del partito che rappresenta.
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di Michele Paris
La crisi esplosa tra Teheran e Riyadh in seguito all’esecuzione del leader religioso sciita Nimr al-Nimr da parte del regime saudita ha fatto segnare una nuova escalation in questo avvio di settimana. Dopo le durissime critiche dell’Iran e l’assalto all’ambasciata del regno Wahabita a Teheran, l’Arabia Saudita ha infatti interrotto i rapporti diplomatici con il proprio principale rivale nella regione.
L’Iran, da parte sua, attraverso il ministero degli Esteri ha puntato il dito contro il regno ultra-conservatore, accusandolo di avere usato l’episodio dell’ambasciata come un pretesto per alimentare le tensioni. In precedenza, com’è noto, l’ayatollah Ali Khamenei aveva tuonato contro Riyadh e invocato la “vendetta divina” sulla casa regnante sunnita per la decapitazione di Nimr, oppositore e leader della minoranza sciita oppressa che vive in Arabia Saudita.
Assieme al religioso erano stati messi a morte in maniera barbara altri tre cittadini sciiti del regno, di cui uno minorenne ai tempi in cui aveva commesso il presunto crimine costatogli la condanna. La loro colpa era stata quella di avere partecipato alle manifestazioni di protesta contro il regime andate in scena nel 2011 nelle provincie orientali a maggioranza sciita.
Secondo i famigliari degli accusati e svariate organizzazioni a difesa dei diritti umani, nonché coerentemente con il livello di civiltà del sistema “giudiziario” saudita, i condannati avevano subito diversi abusi, tra cui torture, prima di essere sottoposti a processi-farsa dall’esito scontato fin dall’inizio.
Oltre ai quattro condannati di fede sciita, il boia saudita ha inaugurato in maniera sanguinosa il nuovo anno con altre 43 esecuzioni, in questo caso tutte di sunniti accusati di avere partecipato all’organizzazione di attentati qaedisti sul territorio del regno tra il 2003 e il 2006.
Il raccapricciante spettacolo delle esecuzioni di massa in contemporanea di sciiti e sunniti è servito all’Arabia Saudita per identificare qualsiasi minaccia al potere della casa al-Saud come un atto di terrorismo. Infatti, nell’annunciare domenica scorsa l’interruzione delle relazioni diplomatiche con l’Iran, il ministro degli Esteri del regno, Adel al-Jubeir, aveva singolarmente accusato Teheran di voler destabilizzare la regione creando “celle terroristiche” in Arabia Saudita, il cui regime e gli ambienti ad esso collegati, piuttosto, sono i principali finanziatori e sostenitori del terrorismo sunnita in Medio Oriente.
La condanna e l’esecuzione di Nimr, inoltre, hanno rappresentato un messaggio ben poco rassicurante per la minoranza sciita, che rappresenta circa il 15% della popolazione saudita, affinché sia chiaro che non sarà tollerata alcuna minaccia alla stabilità del regno.
La decisione di giustiziare i condannati accusati di avere fatto parte di Al-Qaeda sembra rientrare invece nello sforzo di impedire il dilagare della minaccia terrorista all’interno dei confini sauditi. In altre parole, il regime di Riyadh si ritrova a fare i conti con il rischio di attentati sul proprio territorio per mano di quelle forze fondamentaliste che esso stesso promuove e utilizza come arma della propria politica estera in Medio Oriente, a cominciare dalla Siria.
Il caos provocato altrove da queste forze minaccia sempre più di espandersi alla stessa Arabia Saudita, da dove si risponde con metodi che, inevitabilmente, riflettono il comune referente ideologico-religioso del regime e degli stessi fondamentalisti sunniti, ovvero il fanatismo Wahhabita.
Per quanto riguarda i riflessi internazionali, come ha sostanzialmente fatto notare la diplomazia iraniana, la condanna a morte di Nimr non è altro che una provocazione calcolata allo scopo di alimentare le tensioni e le divisioni settarie in una regione già attraversata da numerosi focolai di conflitto.In maniera tutt’altro che imprevedibile, al di là delle recriminazioni di Riyadh, il gesto barbaro che ha aperto l’anno in Arabia Saudita ha infatti suscitato le ire delle popolazioni sciite e dei leader politici e religiosi anche in Iraq, Libano e altrove.
La provocazione del regime mira probabilmente a far saltare gli sforzi diplomatici, a cui Riyadh sta nominalmente partecipando, per una soluzione pacifica in Siria, in modo da rilanciare la guerra per il cambio di regime a Damasco, dove il primo sponsor di Assad, oltre alla Russia, risulta essere appunto l’Iran.
L’inserimento della vicenda dello sceicco Nimr e degli altri tre sciiti giustiziati nel più ampio scenario mediorientale è evidente anche dal fatto che, pressoché in concomitanza con le decapitazioni, la casa regnante saudita ha messo fine alla tregua in essere nello Yemen. In questo paese, l’Arabia Saudita sta combattendo una guerra sanguinosa contro i “ribelli” Houthi, anch’essi di fede sciita e con qualche legame con la Repubblica Islamica.
La crisi di questi giorni e, soprattutto, il ricorso da parte dell’Arabia Saudita a metodi medievali di somministrazione della “giustizia”, ha infine messo ulteriormente in imbarazzo il governo americano, in grado soltanto di esprimere blandi comunicati per invitare l’alleato al rispetto dei diritti umani, senza condannare però esplicitamente l’assassinio politico di Nimr al-Nimr.
Le maggiori responsabilità dell’aggravarsi della situazione in Medio Oriente sono d’altra parte da attribuire proprio agli Stati Uniti, di fatto i principali partner economico-militari della dittatura oscurantista di Riyadh, al centro delle trame destabilizzanti del mondo arabo, dalla Siria all’Iraq, dall’Iran allo Yemen.
La politica mediorientale di Washington, basata anch’essa sul tentativo di imporre la propria egemonia a spese dei rivali, continua in definitiva a basarsi su alleanze con regimi ultra-reazionari - come appunto quello dell’Arabia Saudita - che rendono impossibile un esito dei conflitti militari o diplomatici in corso differente dal caos, dalla violenza e dalla repressione.
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di Michele Paris
I governi di Giappone e Corea del Sud qualche giorno fa hanno finalmente raggiunto un accordo su una delicata questione risalente a oltre settant’anni fa e che aveva guastato i rapporti tra i due paesi, alleati fondamentali degli Stati Uniti in Asia orientale. Tokyo e Seoul hanno cioè formalmente messo fine alla disputa sulle cosiddette “donne di conforto”, chiudendo, almeno a livello ufficiale, una ferita che gravava pesantemente sui progetti asiatici di Washington in chiave anti-cinese.
Il termine inglese “comfort women”, con il quale si definisce generalmente la vicenda a livello internazionale, si riferisce a quelle che negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso erano vere e proprie schiave sessuali, rapite o reclutate con l’inganno in svariati paesi asiatici - principalmente Corea del Sud, Cina e Filippine - e costrette a lavorare come prostitute per i soldati dell’esercito imperiale giapponese.
Le stime sul numero di donne che subirono questo trattamento non sono unanimi, anche se gli studi più autorevoli sostengono che sarebbero state almeno qualche centinaia di migliaia nel periodo precedente e durante la Seconda Guerra Mondiale.
A inizio settimana a Seoul, in ogni caso, i ministri degli Esteri dei due paesi si sono incontrati per annunciare l’intesa sulla questione. Il giapponese Fumio Kishida ha presentato le scuse, sia pure limitate, del proprio governo e ha promesso il pagamento una tantum di una cifra pari a 8,3 milioni di dollari a un fondo creato dalla Corea del Sud a favore delle 46 vittime ancora in vita.
“La questione della ‘donne di conforto’, con il coinvolgimento delle autorità militari giapponesi dell’epoca - ha affermato il capo della diplomazia di Tokyo - fu un grave affronto all’onore e alla dignità di un gran numero di donne e il governo del Giappone è dolorosamente consapevole delle proprie responsabilità”.
Kishida ha poi riferito le “più sincere scuse e il rammarico” espressi dal primo ministro, Shinzo Abe, a “tutte le donne che sono passate attraverso esperienze incalcolabilmente dolorose e che sono state ferite fisicamente e psicologicamente” nel loro ruolo forzato di “donne di conforto”.
Da parte sua, il ministro degli Esteri sudcoreano, Yun Byeogn-se, ha assicurato che la diatriba sarà “finalmente e irreversibilmente risolta”, a condizione che il governo giapponese “implementi senza indugi le misure concordate”. Yun ha anche acconsentito a discutere la rimozione di una statua dedicata alle “comfort women” eretta nel 2011 di fronte all’ambasciata giapponese di Seoul.
Il ministro giapponese Kishida è stato ricevuto anche dalla presidente sudcoreana, Park Geun-hye, e, secondo i media, quest’ultima lunedì avrebbe parlato telefonicamente con Abe per suggellare l’accordo. I due leader si erano incontrati per la prima volta dall’inizio dei rispettivi mandati lo scorso novembre, quando avevano raggiunto un’intesa per risolvere la questione delle schiave sessuali coreane.
La stessa presidente Park aveva descritto quello delle “donne di conforto” come il “principale ostacolo agli sforzi per migliorare le relazioni bilaterali”. La questione aveva infatti avvelenato il clima tra i due più importanti alleati di Washington in Estremo Oriente. A ciò aveva contribuito in maniera decisiva l’arrivo al potere di due leader intenzionati a fare leva sui sentimenti nazionalisti nei rispettivi paesi. Un presidente sudcoreano e un primo ministro nipponico non si incontravano dal 2012.
Proprio il fatto di avere nutrito le frange nazionaliste interne, la presidente Park e il premier Abe potrebbero incontrare difficoltà a fare accettare l’accordo appena siglato nei rispettivi paesi. Inoltre, le “donne di conforto” sudcoreane sopravvissute hanno subito criticato l’intesa, sottolineando la modestia delle concessioni fatte dal Giappone.Particolarmente dura è stata la reazione di una delle principali organizzazioni a difesa dei diritti delle “comfort women”, il Korean Council for the Women Drafted for Military Sexual Slavery in Japan, che ha definito l’accordo “scioccante” e una “umiliazione” che ha “spazzato via 25 anni di progressi” diplomatici.
A Tokyo, invece, non sono mancate le voci che hanno espresso soddisfazione. Anche tra l’opposizione al governo sono state registrate parole di elogio per l’accordo con Seoul, a conferma dell’esiguità delle iniziative prese dalla parte giapponese per risolvere la contesa.
Anche se non riconosciuto dalle due parti, la risoluzione del conflitto sulle “comfort women” è stato in qualche modo favorito dagli Stati Uniti. Gli attriti tra Seoul e Tokyo sono da tempo motivo di preoccupazione per l’amministrazione Obama, impegnata nel tentativo di serrare i ranghi tra gli alleati americani nel quadro della cosiddetta “svolta asiatica”, ovvero l’insieme delle manovre diplomatico-economico-militari in atto per contrastare l’ascesa della Cina nel continente.
L’allineamento strategico tra Giappone e Corea del Sud è in questo scenario un requisito fondamentale per gli Stati Uniti, i quali hanno cercato di far riconciliare i due alleati fin dal 2012, quando Washington dovette incassare il mancato accordo di condivisione di informazioni di intelligence in ambito militare tra Tokyo e Seoul a un passo dalla firma.
Da allora si è assistito a numerose provocazioni da entrambe le parti, tra cui nell’agosto del 2012 il viaggio dell’ex presidente sudcoreano, Lee Myung-bak, alle isole contese con il Giappone Dokdo/Takeshima e quella del premier Abe nel dicembre dell’anno successivo al tempio Yasukuni, dedicato a svariati criminali di guerra giapponesi.
Le pressioni americane non sono comunque mai mancate, visto che l’escalation militare progettata da Washington in Asia è stata finora ostacolata almeno in parte dalle frizioni tra i due alleati. Obama stesso, ad esempio, nel corso di una visita a Seoul nel 2014 aveva definito la questione delle “donne di conforto” come una “grave violazione dei diritti umani”, insistendo poi con i leader dei due paesi per fissare un faccia a faccia al più presto.Nelle intenzioni statunitensi, l’intesa dei giorni scorsi dovrebbe spianare la strada a una maggiore integrazione non solo tra Giappone e Sud Corea ma anche tra questi e gli altri paesi allineati strategicamente a Washington in Asia orientale. Non a caso, il magazine on-line The Diplomat, dedicato alle questioni asiatiche e dell’area Pacifico, ha salutato l’accordo prospettando un possibile prossimo ingresso di Seoul nel trattato di libero scambio denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP), promosso dagli USA.
Il TPP, di cui fa parte il Giappone, è d’altra parte il meccanismo con cui Washington intende cercare di limitare l’influenza cinese nell’area Asia-Pacifico sul fronte economico.
Nonostante gli sforzi americani, però, l’accordo sulle “comfort women” non esaurisce i motivi di scontro tra i due paesi, all’interno dei quali ha trovato inoltre sempre maggiore spazio in questi anni la destra nazionalista contraria a qualsiasi apertura o dialogo.
Le contese che possono continuare a guastare i rapporti bilaterali, a cominciare da quelle già ricordate attorno alle rivendicazioni territoriali nel Mare del Giappone, sono state e rimangono numerose tra Tokyo e Seoul e, in larga misura, discendono dall’eredità tossica dell’occupazione nipponica della penisola di Corea, terminata soltanto nel 1945.
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di Michele Paris
La giustizia americana ha per l’ennesima volta scagionato un agente di polizia responsabile dell’uccisione ingiustificata di un giovane di colore. L’episodio, interamente ripreso da telecamere, risale al novembre del 2014, quando il poliziotto Timothy Loehmann sparò al dodicenne Tamir Rice letteralmente pochi secondi dopo essere giunto assieme a un collega con la loro auto di pattuglia in un parco pubblico di Cleveland, nell’Ohio.
Il ragazzo ferito mortalmente impugnava una pistola giocattolo e poco prima aveva suscitato l’attenzione di un residente della zona che aveva avvertito la Polizia spiegando chiaramente che con ogni probabilità l’arma non era vera. Dalle immagini di una telecamera di sorveglianza disponibili su YouTube si vede come l’auto dei due agenti si fermi a pochi metri di distanza da Tamir Rice e Loehmann, subito dopo essere sceso, faccia più volte fuoco sul giovane.
Lo stesso filmato smentisce la versione fornita dall’agente dopo i fatti, cioè che a Rice sarebbe stato ordinato per ben tre volte di gettare l’arma e di alzare le mani. Loehmann e il suo collega, inoltre, sono rimasti per alcuni minuti a osservare il ragazzo ferito gravemente senza prestare soccorso, arrestando invece la sorella di quest’ultimo che cercava di raggiungerlo. Tamir Rice sarebbe deceduto in ospedale il giorno successivo.
La morte del giovane afro-americano aveva scatenato proteste a Cleveland, così come all’annuncio del proscioglimento di lunedì scorso. Anche grazie alle manifestazioni, il procuratore della contea di Cuyahoga, Timothy McGinty, aveva alla fine deciso di creare un Grand Jury per decidere l’eventuale incriminazione dell’agente responsabile. Quella della Procura era apparsa però da subito una mossa non per fare giustizia bensì per insabbiare il caso in attesa che svanisse la rabbia popolare e per consentire a Timothy Loehmann di uscire indenne dalla vicenda.
Come sostiene la maggior parte degli esperti legali americani, i Grand Jury seguono praticamente sempre le indicazioni dei procuratori che li hanno istituiti, così che questi ultimi possano manipolare il procedimento a loro piacimento, selezionando quali testimonianze o prove possono essere presentate e analizzate.
La gravità dell’esito del caso di Tamir Rice appare ancora maggiore se si considera che la decisione del Grand Jury non doveva stabilire la colpevolezza dell’agente, bensì soltanto se vi erano elementi sufficienti a garantire l’incriminazione e l’avvio di un processo in aula.Durante i mesi delle udienze, il procuratore McGinty ha fatto sfilare di fronte ai giurati una serie di esperti o presunti tali che hanno reso testimonianze a senso unico, assicurando cioè che le azioni di Loehmann erano da considerarsi giustificate o ragionevoli viste le circostanze. Alcuni di questi testimoni, tra cui ex agenti dell’FBI ed ex procuratori, erano ad esempio già noti per iniziative o dichiarazioni pubbliche a favore di poliziotti coinvolti in precedenti fatti di violenza ai danni di cittadini americani.
Al Grand Jury era stato inoltre permesso di tenere in considerazione le dichiarazioni non giurate dei due agenti della pattuglia che era intervenuta per gestire la “minaccia” di Tamir Rice e che erano in netta contraddizione con le immagini e con varie testimonianze di persone che erano presenti sul luogo dove sono avvenuti i fatti. Timothy Loehmann non solo aveva sostenuto di avere ingiunto tre volte a Tamir Rice di alzare le mani, una tesi impossibile vista la rapidità con cui aveva fatto fuoco, ma che il ragazzo sembrava un diciottenne che pesava oltre 80 kg.
Il procuratore McGinty ha parlato lunedì in una conferenza stampa per assicurare che la morte di Rice è stata una “tempesta perfetta di errori umani” e non il risultato di una condotta criminale da parte della Polizia. McGinty ha poi affermato che l’analisi di laboratorio di un filmato avrebbe mostrato come Rice stesse estraendo la pistola giocattolo dalla cintola per puntarla contro gli agenti. Poco più tardi il procuratore è sembrato però contraddirsi, quando ha ammesso che Rice aveva “probabilmente” intenzione di consegnare la finta arma o di mostrare ai poliziotti che non era una pistola vera.
Per McGinty, tuttavia, “non c’era modo che gli agenti lo potessero sapere perché gli eventi si stavano svolgendo rapidamente davanti ai loro occhi”. La legge, in questi casi, garantisce “il beneficio del dubbio ai poliziotti che devono prendere decisioni in una frazione di secondo” quando “ritengono ragionevolmente che le loro vite o quelle di passanti innocenti possano essere in pericolo”. La Polizia americana, in definitiva, ha facoltà di sparare e uccidere senza considerare troppo le circostanze, a condizione che gli agenti responsabili invochino una generica percezione di pericolo per la propria sicurezza.
Lo scagionamento dell’assassino di Tamir Rice si è inserito prevedibilmente in una nuova valanga di notizie sulla brutalità della Polizia d’oltreoceano e poco dopo la decisione di un altro Grand Jury di non procedere contro i presunti responsabili di un decesso sospetto.
Quest’ultimo caso riguarda la morte in carcere di Sandra Bland, 28enne di colore trovata impiccata in una cella in Texas nel luglio scorso dopo un arresto seguito a un fermo di Polizia nel quale un agente aveva insultato e usato violenza sulla donna. Il suicidio era stato giudicato altamente improbabile dalla famiglia della vittima e alcuni indizi seguiti alla sua morte avevano suggerito che la donna poteva essere stata presa di mira dagli agenti texani in maniera premeditata perché attiva nel movimento di protesta contro i metodi brutali della Polizia americana.Solo negli ultimi giorni, poi, svariate uccisioni sono state registrate negli Stati Uniti per mano della Polizia, tra cui a Chicago e a Biloxi, nel Mississippi, dove sono morte in totale tre persone non armate. Complessivamente, secondo il sito web killedbypolice.net, che raccoglie le statistiche sulle vittime della Polizia in base ai resoconti dei giornali, nel 2015 sono state finora uccise in questo modo ben 1.191 persone, contro le 1.108 durante l’intero 2014.
A questi dati sconvolgenti vanno aggiunti quelli altrettanto sconcertanti sulla ridicola percentuale di agenti di polizia incriminati o, ipotesi ancora più remota, condannati. Secondo un’indagine del Washington Post, solo otto agenti di Polizia sarebbero stati incriminati nel corso del 2015. Questi numeri risultano scandalosi alla luce del fatto che in moltissimi casi erano presenti prove evidenti della condotta criminale dei poliziotti, a cominciare da filmati registrati da telecamere di sicurezza o dai dispositivi montati sulle auto di pattuglia.
Da una simile realtà non si può che dedurre che i vertici di Polizia, il sistema giudiziario e quello politico americano si adoperano puntualmente per impedire che i killer in divisa siano chiamati a fare i conti con la giustizia. Ciò è d’altra parte la logica conseguenza del fatto che i poliziotti negli USA – spesso armati con equipaggiamenti militari pesanti forniti dal governo federale – agiscono sempre più come forza di repressione delle classi più disagiate, per difendere un sistema profondamente iniquo e attraversato da tensioni sociali esplosive.
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di Michele Paris
Come annunciato all’indomani degli attentati di Parigi del 13 novembre scorso, il presidente francese, François Hollande, e il primo ministro, Manuel Valls, hanno presentato questa settimana al Consiglio dei ministri una proposta di riforma della Costituzione per dare solide fondamenta legali a iniziative da stato di polizia. Il presidente potrebbe avere la facoltà di dichiarare arbitrariamente lo stato di emergenza nel paese per un periodo ancora da stabilire, durante il quale sarebbero sospese tutte le principali libertà democratiche.
La proposta era stata avanzata dopo la strage dallo stesso Hollande nel corso di un intervento straordinario di fronte a una sessione congiunta del Parlamento a Versailles. In quell’occasione, Hollande aveva anche chiesto il prolungamento di tre mesi dello stato di emergenza da poco dichiarato.
Tra i poteri che verrebbero assegnati alle forze di sicurezza grazie all’emendamento in discussione figurano quelli di sorveglianza e di arresto sulla semplice base di comportamenti sospetti o minacciosi dell’ordine pubblico. Perquisizioni e detenzioni potranno essere effettuate con questi semplici pretesti e non ci sarà possibilità di contestare le misure davanti a un giudice.
Non solo, nella proposta del presidente e del capo del governo vi è anche la possibilità di togliere la cittadinanza francese ai condannati per atti di “terrorismo”. Il provvedimento sembra essere stato modificato rispetto alle intenzioni iniziali e sarà previsto solo per coloro che hanno doppia nazionalità.
Il fatto che molti francesi di origine nordafricana mantengano la cittadinanza del loro paese di origine rende potenzialmente molto vasta la portata della misura. In ogni caso, la privazione della cittadinanza è una soluzione profondamente anti-democratica, visti anche i precedenti storici relativi proprio alla Francia.
Oltre a essere una proposta tradizionalmente sostenuta dal Fronte Nazionale (FN), la revoca della cittadinanza fu usata nei confronti di decine di migliaia di ebrei e oppositori dell’occupazione nazista e del regime di Vichy durante la seconda guerra mondiale.Come ha spiegato lo storico francese Patrick Weil nei giorni scorsi, se la proposta del governo dovesse essere adottata, si creeranno “due categorie di cittadini” di fronte alla Costituzione francese. La stessa ministra della Giustizia, Christiane Taubira, solo lunedì aveva affermato in un’intervista a una radio algerina che “la privazione della cittadinanza ai nati in Francia - i quali appartengono alla comunità nazionale fin dalla nascita - solleva problematiche sostanziali su un principio fondamentale, quello dello jus soli”, previsto appunto dalla legge transalpina.
La presa di posizione della ministra è sintomatica delle divisioni che devono essere emerse all’interno del governo e dell’establishment Socialista, vista la delicatezza della questione. Secondo il Nouvel Observateur, infatti, la proposta di emendare la Costituzione voluta da Hollande sarebbe stata modificata “dopo numerosi dibattiti” interni, mentre molti giuristi e parlamentari avrebbero criticato l’iniziativa.
Il quotidiano Le Monde, ad esempio, ha citato deputati e veterani Socialisti che hanno bocciato l’emendamento, facendo riferimento sia alle implicazioni legali sia, più frequentemente, alla sua inefficacia nella lotta al terrorismo. Mercoledì anche il sindaco di Parigi, la socialista Anne Hidalgo, si è detta “fermamente contraria” all’ipotesi avanzata dal governo sul ritiro della nazionalità francese.
Il cambio della Costituzione per codificare l’assegnazione di poteri virtualmente assoluti al presidente è solo lo sviluppo più recente del processo di spostamento verso destra del Partito Socialista francese. La rapidità di questa evoluzione, sotto la spinta non tanto della minaccia del terrorismo quanto della crisi economica e della risposta ad essa data della classe dirigente transalpina, è testimoniata dal fatto che solo alcuni anni fa i leader Socialisti, tra cui lo stesso Valls, avevano aspramente criticato l’allora presidente Sarkozy per avere ipotizzato la privazione della nazionalità per quanti minacciavano la vita di membri delle forze di sicurezza.Oltre a un certo numero di politici, anche svariati giornali francesi hanno più o meno apertamente denunciato le riforme costituzionali proposte da Hollande, principalmente per il timore che una troppo evidente deriva autoritaria e la rottura con i principi repubblicani possa provocare una crisi di legittimità per un governo e un presidente già tra i più impopolari della recente storia della Francia.
Il numero uno dell’Eliseo e il primo ministro Valls sembrano intenzionati invece a fare appello al nazionalismo e ai sentimenti xenofobi di una parte della popolazione, alimentandoli con lo spettro del terrorismo, per ritagliarsi una qualche base di consenso che legittimi la prosecuzione di politiche impopolari sia sul fronte economico sia su quello della sicurezza nazionale.