di Mario Lombardo

Dopo quasi un decennio di ininterrotto governo, il Partito Conservatore canadese del primo ministro, Stephen Harper, è stato letteralmente travolto dal Partito Liberale centrista nelle elezioni federali di lunedì. Il 43enne leader Liberale e prossimo capo del governo, Justin Trudeau, è stato in grado di capitalizzare un diffusissimo senso di repulsione nei confronti delle politiche reazionarie della maggioranza uscente, resuscitando un partito che solo quattro anni fa aveva fatto registrare il peggior risultato della propria storia.

Il Partito Liberale ha conquistato circa il 40% dei voti espressi, assicurandosi la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni di Ottawa con 184 seggi sui 338 complessivi. Nella precedente tornata elettorale, i liberali avevano ottenuto appena 34 seggi ed erano diventati clamorosamente il terzo partito canadese, dietro anche al Nuovo Partito Democratico (NDP) di ispirazione social-democratica.

Proprio quest’ultima formazione e il suo leader, l’ex ministro nel governo provinciale del Québec, Tom Mulcair, erano stati per settimane indicati dai sondaggi come i possibili vincitori di un voto che si presentava piuttosto equilibrato. Alla fine, l’NDP ha invece visto dimezzarsi i propri seggi in seguito alla perdita di oltre un terzo dei consensi su scala nazionale. Particolarmente grave e sintomatica è stata la batosta patita a favore dei Liberali in Québec, provincia che aveva fatto da trampolino di lancio per il partito nel 2011.

Il vero tracollo l’ha fatto segnare però il Partito Conservatore che è passato da 166 a 99 seggi. Subito dopo la chiusura delle urne, Harper ha prevedibilmente rassegnato le proprie dimissioni da leader del partito. La misura della sconfitta dell’ormai ex partito di governo canadese è stata data, tra l’altro, da un lungo elenco di trombati eccellenti in svariati distretti elettorali (“ridings”), come il ministro delle Finanze, Joe Oliver, a Toronto, e quello dell’Immigrazione, Chris Alexander, in una cittadina dell’Ontario meridionale.

Il Partito Liberale, in definitiva, ha beneficiato di una campagna elettorale condotta in maniera energica e con toni costantemente positivi da Trudeau, figlio di Pierre Trudeau, primo ministro canadese quasi ininterrottamente dal 1968 al 1984. I Conservatori avevano cercato in tutti i modi di dipingere Trudeau come troppo giovane e inesperto, ma il leader Liberale ha sfruttato i suoi presunti punti deboli per cavalcare il desiderio di cambiamento tra gli elettori.

A pesare sulle sorti di Harper e del suo partito sono state però soprattutto le politiche attuate in questi anni, fatte di austerity, militarismo e attacchi ai diritti democratici dei cittadini in nome della lotta al terrorismo. Inoltre, un recente scandalo sulle spese gonfiate di alcuni senatori Conservatori ha contribuito al disastro, così come e ancor più il rallentamento di un’economia basata sull’industria estrattiva e fortemente penalizzata dal crollo delle quotazioni del petrolio.

La promozione del Partito Liberale come l’alternativa progressista cercata dagli elettori canadesi è stata possibile anche grazie alle principali organizzazioni sindacali che hanno appoggiato Trudeau. L’NDP, poi, è sembrato giocarsi nel peggiore dei modi la possibilità di conquistare per la prima volta il potere, impostando una campagna elettorale in parte appiattita sulle posizioni dei Conservatori, principalmente per convincere la borghesia canadese della capacità del partito di governare sotto la leadership di Mulcair.

Come i Conservatori, l’NDP aveva così promesso il pareggio di bilancio per i prossimi quattro anni, altri tagli al carico fiscale delle imprese e nessun aumento delle tasse per i più ricchi. Il risultato di questa strategia è stato inevitabilmente quello di consentire ai Liberali di proporsi come il vero partito anti-austerity.

La proposta forse decisiva lanciata da Trudeau è stata quella di rompere apertamente con il rigore, promettendo nei prossimi tre anni altrettanti deficit di almeno 10 miliardi di dollari per finanziare una serie di opere pubbliche.

Se durante la lunghissima campagna elettorale si è discusso ad esempio dell’inclinazione islamofoba del Partito Conservatore e dei tentativi di alimentare simili sentimenti retrogradi da parte di Harper, altre questioni fondamentali sono rimaste praticamente fuori dal dibattito politico.

Per cominciare, la progressiva integrazione del Canada nel sistema militare americano non è stata sollevata in maniera seria. Il governo Harper ha quasi sempre assecondato gli obiettivi strategici dell’imperialismo americano, dall’Ucraina alla Siria e all’Iraq, coinvolgendo il proprio paese in pericolosi e impopolari conflitti oltreoceano.

Parallelamente a ciò, il governo uscente ha creato un clima di assedio nel paese, ingigantendo la minaccia del terrorismo fondamentalista anche in seguito ad alcuni episodi di violenza dai contorni peraltro non chiarissimi. In questo quadro, la scorsa primavera i Conservatori erano riusciti ad approvare la famigerata Legge C-51, la quale assegna tra l’altro ai servizi di sicurezza un accesso pressoché illimitato alle comunicazioni personali dei cittadini e ampi poteri discrezionali nel perseguimento di qualsiasi genere di “minaccia” alla sicurezza nazionale.

Tutti i partiti del panorama politico canadese hanno di fatto assicurato di voler conservare la legge, con i Liberali che tutt’al più si sono limitati a proporre maggiori poteri di “supervisione” per il Parlamento nell’implementazione delle misure previste dal provvedimento.

In generale, la débacle dei Conservatori, oltre che alla crescente ostilità di ampie fasce della popolazione, è dovuta anche al cambiamento di attitudine di almeno una parte delle élite canadesi, preoccupate per le conseguenze in termini di tensioni sociali delle rovinose politiche perseguite negli ultimi nove anni.

L’orientamento di queste sezioni della classe dirigente del paese nordamericano a favore dei Liberali era apparso evidente anche dal sostegno o, quanto meno, dalla simpatia espressa per Trudeau da svariati giornali di tendenze conservatrici o che rappresentano i poteri forti canadesi.

Il Partito appena uscito vincitore dal voto, d’altra parte, come i Democratici a sud del confine e quelli di centro-sinistra in Europa, ha una lunga storia di promesse di stampo progressista puntualmente tradite una volta al governo. Esemplare in questo senso era stata l’esperienza dell’esecutivo Liberale guidato dal primo ministro Jean Chrétien tra il 1993 e il 2003, caratterizzata da tagli alla spesa pubblica superati solo successivamente da quelli implementati da Harper.

Viste perciò le pressioni degli ambienti finanziari internazionali e del business domestico, il clima economico non esattamente incoraggiante e le tensioni crescenti tra le potenze mondiali sullo scacchiere internazionale, appare più che legittimo dubitare della volontà e della capacità del Partito Liberale di Justin Trudeau di mettere in atto le promesse di cambiamento per invertire la rotta segnata dalla dolorosa esperienza di governo di Stephen Harper.

di Michele Paris

La nuova esplosione degli scontri tra le forze di sicurezza israeliane e la popolazione palestinese è coincisa con gli sforzi in atto per riparare le relazioni tra Tel Aviv e Washington dopo le frizioni tra le amministrazioni Obama e Netanyahu, principalmente attorno all’accordo sul nucleare iraniano.

Le violenze registrate da alcune settimane sono le più gravi da svariati anni a questa parte e sono state alimentate in parte dal possibile cambiamento dello status del sito di Gerusalemme Est che ospita la Moschea di al-Aqsa - la Spianata delle Moschee - il luogo più sacro dell’Islam al di fuori dell’Arabia Saudita.

In particolare, a scatenare quella che in molti vedono come una nuova rivolta palestinese sono stati i timori che Israele potesse prendere la decisione di consentire agli ebrei di pregare sul sito che questi ultimi chiamano “Monte del Tempio” e che, secondo la religione ebraica, ospitava appunto due templi biblici andati distrutti.

Secondo il trattato di pace siglato tra Israele e Giordania nel 1994, gli affari religiosi in quest’area sono amministrati dai musulmani, mentre gli ebrei hanno facoltà di recarvisi ma non di pregare. Netanyahu, da parte sua, di fronte alla reazione palestinese ha affermato di volere mantenere lo status quo, anche se il tradizionale disprezzo delle regole di Israele rende più che legittima una certa diffidenza.

Al di là dei motivi immediati che li hanno scatenati, gli incidenti sono comunque il risultato inevitabile delle politiche repressive di Israele, assieme alle condizioni di vita con cui i palestinesi sono costretti a fare i conti quotidianamente.

Le tensioni, in ogni caso, sono esplose con una serie di atti di violenza, caratterizzati da sporadici attacchi di palestinesi e, soprattutto, dalla consueta durissima repressione delle forze di sicurezza di Israele. Dall’inizio di ottobre, più di quaranta palestinesi sono stati uccisi, spesso in maniera arbitraria e, secondo molte testimonianze, senza che le vittime rappresentassero una reale minaccia. Gli israeliani che hanno perso la vita nello stesso periodo di tempo sono invece otto.

Particolare impressione continuano a suscitare le notizie relative alla sparatoria del fine settimana in una stazione degli autobus nella città di Beersheba, nel sud del paese. Qui, un individuo armato ha ucciso un soldato israeliano e ferito una decina di persone prima di essere a sua volta ucciso.

Le forze di sicurezza hanno risposto al fuoco uccidendo anche un immigrato eritreo che, secondo la versione ufficiale, era stato inizialmente identificato come il secondo attentatore ma che, in realtà, nulla aveva a che fare con l’attacco armato e non aveva nemmeno tenuto alcun comportamento sospetto.

Lunedì, le autorità di Tel Aviv hanno diffuso la notizia che il primo attentatore ucciso era un cittadino arabo beduino di Israele, nonostante questa popolazione, gravemente penalizzata dalle politiche di apartheid israeliane, molto raramente risulta protagonista di episodi di violenza.

Negli ultimi giorni, intanto, è scoppiata una polemica diplomatica in seguito alla richiesta presentata all’ONU da parte dei palestinesi per il dispiegamento di una forza internazionale di protezione nell’area in cui sorge la Moschea di al-Aqsa. La Francia, a sua volta, ha sostenuto una risoluzione simile che è stata però nettamente respinta da Tel Aviv, con il governo israeliano che ha addirittura convocato l’ambasciatore di Parigi per esprimere la propria contrarietà alla proposta.

Com’è evidente, Israele non intende cooperare con l’ONU o gli stessi governi europei in questo senso per non dovere convivere con l’ostacolo di una presenza che, in teoria, costringerebbe il gabinetto Netanyahu e le forze di sicurezza al rispetto del diritto internazionale.

Gli Stati Uniti hanno anch’essi bocciato l’idea di una presenza internazionale nella Spianata delle Moschee, come ha affermato il segretario di Stato, John Kerry, alla vigilia di un incontro prima con Netanyahu in Germania e in seguito con il presidente palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), e il re di Giordania, Abdullah.

Lo stesso Kerry ha invitato le due parti a evitare un’escalation del conflitto, utilizzando come al solito toni molto cauti, visto il potenziale esplosivo della situazione anche in rapporto alla necessità di non aprire un ulteriore fronte in Medio Oriente mentre sono in corso gli sforzi per cercare di rovesciare il regime di Assad in Siria.

Anche se nuovamente impegnati in una violenta repressione dei palestinesi, gli israeliani hanno comunque incassato ancora una volta il sostanziale appoggio degli USA. Anzi, dopo le tensioni tra Obama e Netanyahu, soprattutto a causa dell’accordo sul nucleare iraniano, i segnali degli ultimi giorni indicano un tentativo di pacificazione.

In questo quadro, significativo è stato l’incontro di domenica a Tel Aviv tra il primo ministro di Israele e il nuovo capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, alla sua prima visita all’estero da quando ha assunto l’incarico a inizio ottobre.

I due hanno discusso di un pacchetto di aiuti militari da destinare a Israele per un decennio a partire dal 2017, quando terminerà l’attuale programma di forniture da tre miliardi di dollari all’anno. Il nuovo pacchetto dovrebbe essere aumentato ad almeno 3,7 miliardi di dollari ogni dodici mesi e, secondo le assurde motivazioni ufficiali, compensare l’accresciuta minaccia che l’Iran potrebbe rappresentare per Israele dopo che le sanzioni internazionali saranno cancellate.

I negoziati tra Washington e Tel Aviv erano stati congelati da Netanyahu mesi fa proprio in seguito ai falliti tentativi del premier di far naufragare la trattativa con la Repubblica Islamica. Il dialogo tra Israele e Stati Uniti proseguirà nelle prossime settimane, con il ministro della Difesa, Moshe Yaalon che sarà nella capitale americana a fine mese, mentre lo stesso Netanyahu verrà ricevuto alla Casa Bianca da Obama il 9 novembre.

Il consolidamento dei rapporti tra i due alleati è ribadito anche dall’inaugurazione della tradizionale esercitazione militare denominata “Blue Flag” che va in scena due volte all’anno. In questa occasione, “i partecipanti avranno la possibilità di provare la pianificazione e l’esecuzione di operazioni aeree di vasta portata”.

Per il generale Dunford, in definitiva, nonostante “gli alti e bassi” del rapporto tra USA e Israele, “le relazioni militari sono rimaste salde” e “le sfide che dovremo affrontare, le affronteremo insieme”.

di Michele Paris

Nella notte italiana tra martedì e mercoledì è andato in scena a Las Vegas il primo dibattito televisivo tra i cinque candidati alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Democratico. Lo show, organizzato dalla CNN, secondo i commentatori americani avrebbe visto prevalere nettamente Hillary Clinton, anche se la serata ha rivelato più che altro una certa inquietudine dovuta alle pressioni provenienti dagli elettori che chiedono sempre più politiche di marca progressista a un sistema arroccato nella difesa dei privilegi di una piccola cerchia di super-ricchi.

Le pressioni sull’ex segretario di Stato riguardavano in realtà anche la necessità di sfoderare una prestazione di rilievo davanti alle telecamere, viste le difficoltà incontrate negli ultimi mesi dalla sua campagna elettorale. Hillary ha in primo luogo dovuto fare i conti con le ripercussioni legate al persistere della polemica repubblicana sulle responsabilità dell’attacco integralista all’ambasciata USA di Bengasi, in Libia, del settembre 2012.

Inoltre, da alcuni mesi infuria la controversia sull’utilizzo da parte di Hillary di un account di posta elettronica privato per la corrispondenza ufficiale quando era segretario di Stato. La concorrenza in casa democratica, poi, è apparsa molto più agguerrita del previsto in seguito all’ascesa nei sondaggi del senatore del Vermont, Bernie Sanders, in grado di suscitare l’entusiasmo di un numero relativamente elevato di potenziali elettori delle primarie con il suo messaggio marcatamente “liberal”.

Soprattutto, la ex first lady, per la sua vicinanza al mondo degli affari e per le politiche guerrafondaie perseguite nel corso della sua carriera e di quella del marito, suscita aperta repulsione tra molti negli Stati Uniti e il fatto che sia diventata da subito la favorita d’obbligo per la nomination democratica dipende quasi esclusivamente dalla copertura mediatica che può vantare e, soprattutto, dall’appoggio di facoltosi finanziatori.

In generale, il dibattito di martedì ha visto tutti i partecipanti adottare una retorica progressista per cercare di intercettare il desiderio di giustizia sociale e di contenimento delle disuguaglianze di reddito diffuso tra la popolazione americana. L’apparente spostamento a sinistra del dibattito politico tra i candidati democratici dipende, oltre che dalla disposizione di lavoratori e classe media nel paese, anche dall’inaspettato successo fin qui della campagna di Sanders.

Il senatore nominalmente indipendente è stato infatti il bersaglio di svariati attacchi portati da Hillary Clinton durante il dibattito, finendo per apparire spesso sulla difensiva. L’indubbia maggiore dimestichezza di Hillary su palcoscenici simili ha messo in luce la vulnerabilità di Sanders in un processo di selezione del potere che predilige l’apparenza, ma ha anche a tratti evidenziato come siano in larga misura vuote le pretese di quest’ultimo di rappresentare una candidatura “anti-establishment”.

La Clinton ha ad esempio ricordato come Sanders si sia opposto in passato a leggi sulla restrizione del diritto di portare armi da fuoco, mentre durante la serata è emersa nettamente l’affinità del senatore del Vermont con la politica estera dell’amministrazione Obama, in particolare riguardo la Siria.

Sanders, da parte sua, ha cercato di attaccare la rivale collegandola a Wall Street e agli eccessi dell’industria finanziaria USA. I due sfidanti hanno poi bollato come “ingenui” i rispettivi piani per tenere sotto controllo le grandi banche, anche se la discussione ha indubbiamente risollevato la questione della vicinanza di Hillary a questo ambiente.

Complessivamente, né Sanders né gli altri tre candidati uomini hanno però calcato la mano contro Hillary, nonostante gli argomenti non sarebbero mancati. Sanders, anzi, a un certo punto della serata ha preso le parti dell’ex senatrice di New York, quando si è detto “stanco” di assistere alla polemica delle e-mail del Dipartimento di Stato.

A fare compagnia a Hillary Clinton e a Bernie Sanders a Las Vegas vi erano gli altri tre candidati ufficiali alla nomination democratica: l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, l’ex senatore della Virginia, Jim Webb, e l’ex senatore ed ex governatore del Rhode Island, Lincoln Chafee.

Molti americani hanno probabilmente conosciuto solo martedì i tre candidati minori, i quali, pur cercando di differenziare in qualche modo le loro posizioni da quelle di Hillary e di Sanders, hanno finito per fare da contorno ai due protagonisti della sfida in ambito democratico.

Se il dibattito non ha registrato particolari attacchi personali tra i candidati, come è accaduto invece frequentemente nei primi due già andati in scena tra gli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca, nondimeno il confronto di Las Vegas ha fornito qualche motivo di interesse per lo più ai media ufficiali e agli addetti ai lavori.

La retorica “liberal” ostentata da Hillary durante la serata, così come nelle ultime settimane, è poco più di una farsa per occultare l’inclinazione chiaramente e tradizionalmente destrorsa della famiglia Clinton, sia sui temi economici sia su quelli legati alla sicurezza nazionale e alla politica estera.

Lo stesso Bernie Sanders è a sua volta parte integrante del sistema da quasi tre decenni e, pur auto-definendosi talvolta “socialista”, ha quasi sempre votato con il Partito Democratico, di cui non fa parte in maniera formale. Non solo, Sanders ha nel suo curriculum al Congresso di Washington voti censurabili, come quelli a favore dell’aggressione americana contro la Serbia nel 1999 e della cosiddetta Autorizzazione all’Uso della Forza Militare dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che consentì l’invasione dell’Afghanistan e il lancio della “guerra al terrore”.

In questi mesi di campagna elettorale, Sanders ha cercato spesso di evitare le questioni di politica estera ma, quando pressato, ha espresso il proprio apprezzamento per la gestione delle varie crisi in Medio Oriente da parte del presidente Obama, mentre ha garantito di essere disposto a utilizzare, se eletto, tutto il potenziale della macchina da guerra americana per difendere gli interessi della classe dirigente del suo paese.

Com’è evidente, gli attacchi portati da Sanders contro i miliardari e gli appelli alla riduzione delle esplosive disuguaglianze sociali che caratterizzano gli Stati Uniti stridono con il suo sostanziale abbraccio dell’imperialismo a stelle e strisce, visto che i due aspetti sono intrinsecamente legati tra di loro.

Il primo dibattito democratico in vista delle primarie del 2016, caratterizzato da una discussione vagamente orientata a sinistra, ha comunque messo in chiaro come la classe politica americana senta le pressioni di una popolazione che continua in larga misura a pagare le conseguenze della crisi strutturale del capitalismo esplosa nel 2008.

Anche se ogni soluzione o iniziativa per invertire la rotta risulta praticamente impossibile all’interno di un sistema politico dominato da due partiti espressione delle élite economico-finanziarie americane, la cifra di questa situazione è emersa soprattutto in una circostanza apparentemente trascurabile durante il dibattito.

Ciò è accaduto quando il moderatore della serata, il conduttore della CNN Anderson Cooper, ha introdotto nella discussione la definizione di “capitalismo” in relazione agli orientamenti ideologici dei candidati. Pur rimanendo assenti condanne esplicite del capitalismo come sistema, si è assistito a una moderata critica di esso, quanto meno per gli standard della politica ufficiale americana.

A differenza degli anni scorsi, infatti, i politici interpellati sulla questione si sono astenuti dall’esprimere un appoggio incondizionato al capitalismo, ritenendo invece di dover mitigare le loro opinioni o condannandone le distorsioni. Hillary Clinton, ad esempio, ha avvertito della necessità di “salvare il capitalismo da se stesso di tanto in tanto” per poi manifestare ammirazione e sostegno per le piccole e medie imprese.

Sanders, invece, dopo avere elogiato lo spirito imprenditoriale americano, ha sorvolato sulle proprie inclinazioni “socialiste”, dichiarandosi comunque oppositore del “capitalismo da casinò” che si pratica a Wall Street.

di Michele Paris

Con le 50 tonnellate di armi recapitate dal cielo domenica scorsa ai “ribelli” anti-Assad, gli Stati Uniti hanno fatto registrare un nuovo picco di irresponsabilità nella loro già disastrosa e caotica strategia siriana. La fornitura diretta del materiale bellico è stata decisa in seguito alla chiusura definitiva del fallimentare programma di addestramento di introvabili combattenti “moderati” e, soprattutto, rappresenta una rischiosissima risposta al crescente impegno militare della Russia nel conflitto in corso in Siria.

A confermare il lancio delle armi è stato lunedì un portavoce del Pentagono, il quale ha assicurato che i beneficiari sarebbero “gruppi arabi siriani” i cui leader sono stati “debitamente verificati” dagli Stati Uniti.

Il Dipartimento della Difesa non ha però rivelato l’identità di queste formazioni ribelli, anche se i media americani hanno parlato di una “Coalizione Araba Siriana”. Questa denominazione è stata probabilmente ideata dal Pentagono per raggruppare varie formazioni a cui destinare gli armamenti.

Fonti governative e dei militari USA sono intervenute sui media d’oltreoceano per garantire che le armi paracadutate hanno raggiunto “forze amiche”. Il gruppo in questione sarebbe composto da 4 o 5 mila uomini che stanno combattendo contro lo Stato Islamico (ISIS) nei pressi di Raqqa, città nel nord della Siria ritenuta la capitale del “califfato”.

Il materiale sembrerebbe provenire dai depositi allestiti in paesi come Turchia e Giordania e che dovevano servire a dotare di armi i combattenti addestrati dagli americani nell’ambito del programma da poco abbandonato.

Al di là delle poco utili rassicurazioni dei vertici militari americani, il lancio di tonnellate di armi nel bel mezzo di una zona di guerra chiarisce a sufficienza il livello di disperazione raggiunto dal governo americano con l’avvio della campagna russa. L’intervento di Mosca per sostenere Assad ha spinto l’amministrazione Obama ad attivarsi per cercare di salvare le forze ribelli che da oltre quattro anni operano come forza d’urto per rovesciare il regime di Damasco.

Soprattutto, l’azione russa ha smascherato la natura delle formazioni su cui contano gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente. Nonostante la pretesa di armare soltanto ribelli “moderati”, filo-occidentali e passati al vaglio della CIA o del Pentagono, i gruppi che Washington afferma di appoggiare sono virtualmente indistinguibili da quelli con inclinazioni fondamentaliste violente.

Anche per questa ragione, le armi appena lanciate finiranno con ogni probabilità nelle mani della filiale di al-Qaeda in Siria – il Fronte al-Nusra – se non dell’ISIS. Questa stessa fine aveva fatto d’altra parte il materiale che era stato fornito alla manciata di combattenti addestrati dagli americani e inviati in Siria prima dello stop definitivo al già ricordato programma.

La conferma del fatto che la linea di demarcazione tra i terroristi e i ribelli “moderati” in Siria sia a dir poco confusa viene anche dalla giustificazione principale fornita da Washington per la stessa cancellazione del programma di addestramento.

Secondo il Pentagono, infatti, non è stato praticamente possibile reperire uomini disposti a combattere soltanto contro le forze dell’ISIS e non contro quelle del regime, proprio perché per la grandissima maggioranza dei combattenti che si trovano in Siria il nemico non è rappresentato dal delirio jihadista di al-Baghdadi, bensì da un governo sciita alleato di Iran e Hezbollah.

Un articolo fondamentalmente di propaganda pubblicato martedì dal New York Times per sottolineare la pericolosità di uno scenario siriano caratterizzato sempre più da una guerra a distanza tra USA e Russia, è apparso in questo senso particolarmente illuminante.

Grazie anche alle testimonianze di vari comandanti delle formazioni che hanno ricevuto le armi americane qualche giorno fa, risulta evidente come sul campo non ci siano troppe distinzioni tra “moderati” ed estremisti.

Il Times spiega come la minaccia immediata al regime di Assad venga soprattutto da una “coalizione di insorti islamisti chiamata Esercito della Conquista”, all’interno del quale spicca il Fronte al-Nusra. A fianco di questo gruppo, continua il pezzo del giornale newyorchese, e “talvolta in aiuto” a esso, figurano “svariati gruppi relativamente secolari, come il Libero Esercito della Siria che… ha avuto accesso ai TOW [missili anticarro]” americani.

Lo stesso articolo spiega poi che i TOW e altre armi americane hanno svolto un ruolo decisivo nel mettere in crisi Assad, ammettendo però che la nuova forza di fuoco a disposizione dei ribelli ha favorito anche il Fronte al-Nusra, emanazione diretta di un organizzazione terroristica che il governo USA da quattordici anni dipinge come il nemico giurato della civiltà occidentale.

Il New York Times cerca di dipingere questi sviluppi come un effetto collaterale trascurabile e non desiderato dal governo USA, mentre si tratta in realtà di una politica deliberata portata avanti in maniera più o meno clandestina per colpire il regime siriano. Ciò è confermato anche dagli avvertimenti lanciati alla Russia affinché nei raid aerei decisi dal presidente Putin non vengano colpite formazioni “diverse dall’ISIS”.

Allo stesso modo, profondamente disonesti sono i tentativi di descrivere come “scomodo” o di convenienza il matrimonio tra l’Esercito Libero della Siria e l’ala qaedista in Siria, resosi necessario dall’impossibilità del primo di operare “senza il consenso” della seconda. Praticamente tutti i gruppi che combattono in Siria contro Assad sposano, con varie sfumature, un’agenda settaria sunnita e non sembrano in particolare imbarazzo nel collaborare con milizie apertamente terroristiche. Quando sono stati registrati scontri interni ai ribelli sono stati dovuti quasi sempre a contese territoriali o per risorse da sfruttare.

Negli ultimi giorni, intanto, grazie al supporto aereo russo, l’esercito regolare siriano ha fatto segnare progressi in varie parti del paese in mano ai gruppi fondamentalisti, tra cui alcuni appoggiati direttamente dall’Occidente. Sul piano diplomatico, invece, l’inviato speciale dell’ONU per la Siria, Staffan de Mistura, si prepara a incontrare i leader di Russia e Stati Uniti per cercare di intavolare un negoziato che porti a una soluzione politica del conflitto.

La distanza che rimane tra le due posizioni in merito alla sorte di Assad e, più in generale, all’orientamento strategico dell’eventuale regime che dovrà sostituire quello attuale al potere a Damasco non promette però nulla di buono per la Siria.

L’intensificarsi del conflitto e l’aumento dell’impegno militare delle due potenze rischia infatti seriamente di trascinare entrambe in un pericoloso vortice che potrebbe finire per mettere di fronte direttamente le forze di Mosca e Washington, con conseguenze prevedibilmente disastrose non solo per la Siria e il Medio Oriente.

di Michele Paris

Il gravissimo attentato suicida che sabato scorso ha sconvolto la capitale turca, Ankara, ha aggravato la crisi interna al paese euro-asiatico a poche settimane dal secondo appuntamento elettorale in meno di sei mesi. Prevedibilmente, il governo del presidente, Recep Tayyip Erdogan, e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha individuato come primo sospettato dell’attacco lo Stato Islamico (ISIS), aggiungendo poi altre tre entità come possibili esecutrici dell’attentato, cioè due gruppi di “estrema sinistra” turchi e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Al momento non sembrano esserci rivendicazioni ufficiali, ma il governo ha affermato di avere riscontrato indizi che rendono l’attentato di sabato molto simile a quello dello scorso mese di luglio nella località di Suruç, nella Turchia meridionale al confine con la Siria. In quell’occasione furono uccisi 32 membri di un’organizzazione giovanile di sinistra che stavano pianificando un intervento a Kobane, in Siria, per contribuire ai lavori di ricostruzione della città a maggioranza curda.

Secondo alcuni media locali, uno degli attentatori di Ankara sarebbe il fratello di uno degli organizzatori della strage di Suruç ed entrambi erano affiliati all’ISIS, nonché parte di un gruppo di uomini inviati in Siria per eseguire attentati terroristici contro obiettivi curdi.

Il collegamento tra i due attentati è particolarmente allarmante, visto che quello di luglio aveva fornito l’occasione al governo per partecipare attivamente alle operazioni della coalizione ufficialmente anti-ISIS messa in piedi dagli Stati Uniti. In realtà, i bersagli di gran lunga preferiti dalle forze aeree turche erano stati da subito i guerriglieri curdi che, in Iraq e in Siria, avevano rappresentato l’ostacolo più efficace all’avanzata dell’ISIS.

Le similitudini tra le due stragi riguardano anche il possibile ruolo svolto proprio dal governo o, per lo meno, quello percepito da molti, a cominciare dalla popolazione turca. Dopo i fatti di Suruç, soprattutto la minoranza curda aveva apertamente parlato di attentato favorito da Ankara per riaccendere la guerra civile e rafforzare le credenziali in materia di sicurezza nazionale del partito Giustizia e Sviluppo (AKP), uscito dalle elezioni di giugno senza la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento per la prima volta da oltre un decennio.

Le manifestazioni di protesta contro il governo andate in scena nel fine settimana dopo le bombe di sabato hanno ugualmente visto i partecipanti attribuire a Erdogan e Davutoglu la responsabilità quanto meno della carenza di un servizio di sicurezza adeguato nonostante gli avvertimenti circa possibili gravi attentati in fase di organizzazione in territorio turco.

Molti giornalisti e partecipanti alla dimostrazione colpita dalle esplosioni, e che intendeva chiedere la riapertura del dialogo tra il governo e il PKK, hanno infatti puntato il dito contro il governo per l’insolita scarsità di controlli e di forze di polizia presenti ad Ankara nella giornata di sabato.

Se è indubbiamente possibile che il governo di Erdogan e Davutoglu abbia potuto allentare deliberatamente le maglie della sicurezza nel corso di una manifestazione pro-curda, visti i vantaggi che un attentato potrebbe determinare per il partito al potere in termini elettorali, a ben vedere le responsabilità del presidente e del primo ministro sono anche maggiori.

Gli oltre 100 morti di sabato a Ankara, sono infatti anch’essi la conseguenza del clima prodotto dalla disperata politica estera di un governo e di un sempre più autoritario Erdogan che stanno vedendo crollare una strategia regionale che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto soddisfare le ambizioni da grande potenza della Turchia sull’onda di una temporanea crescita economica relativamente sostenuta.

Il principale colossale fallimento di questo piano è stato il tentativo di rovesciare il regime siriano di Assad, puntando in maniera sconsiderata su formazioni integraliste violente, incluso l’ISIS. A questi gruppi, la Turchia - assieme alle monarchie assolute del Golfo Persico e sotto la supervisione di Washington - non solo ha garantito il libero transito da e verso la Siria, ma ha anche offerto assistenza logistica, denaro e armi.

Questa pericolosa strategia è completamente esplosa tra le mani di Erdogan una volta che l’ISIS è diventata una forza pressoché fuori controllo, finendo per minacciare la stessa Turchia. Inoltre, il dilagare di forze jihadiste in Siria grazie proprio all’appoggio turco ha ironicamente rafforzato lo status delle milizie curde oltreconfine, legate a doppio filo con il PKK, con il rischio di alimentare rivendicazioni indipendentiste.

In questo scenario e formalmente all’interno della coalizione guidata dagli USA, la Turchia ha intrapreso una campagna aerea contro le postazioni curde in Iraq, mentre ha inaugurato dopo anni operazioni militari anche sul proprio territorio. La fine della tregua con il PKK ha così segnato l’uccisione di centinaia di guerriglieri curdi e, di conseguenza, la riattivazione della guerriglia con un numero crescente di vittime tra forze di sicurezza e civili.

Le contraddizioni e gli errori che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la politica estera di Ankara si sono inevitabilmente riflessi sulla situazione interna, creando caos e violenze ma anche grattacapi per un AKP che sembra avere imboccato una parabola discendente sul fronte del gradimento degli elettori.

In vista delle elezioni di inizio novembre, dunque, Erdogan e Davutoglu si ritrovano in un pantano sempre più profondo, sia pure preparato dalle loro stesse azioni, che rischia di generare ulteriore violenza in Turchia e che, oltretutto, potrebbe non pagare in termini di consensi una volta chiuse le urne.

Le ultime settimane hanno segnato infatti una batosta dopo l’altra per il governo dell’AKP. L’intervento militare della Russia in Siria in appoggio al regime di Damasco ha stravolto i piani della Turchia, la quale ha visto finire distrutti sotto bombe vere i propri investimenti nel fondamentalismo anti-Assad e il venir meno, per il momento, dell’ipotesi di una no-fly zone in territorio siriano.

L’estremo nervosismo del governo di Ankara è apparso evidente dalle accuse spropositate seguite ad alcune presunte violazioni dello spazio aereo turco da parte dei jet di Mosca impegnati in Siria. Malgrado gli aerei da guerra turchi abbiano violato più volte i cieli siriani in questi anni e bombardato senza troppi riguardi le postazioni curde in territorio iracheno, Erdogan ha fatto un patetico appello alla NATO per chiedere all’alleanza di difendere il proprio paese contro eventuali ulteriori “minacce” da parte della Russia.

L’amministrazione Obama, infine, pur appoggiando l’isteria turca nei confronti del Cremlino, ha appena annunciato la fine del programma di addestramento di guerriglieri anti-Assad “moderati”, in quanto inesistenti, optando invece per la fornitura diretta di armi e denaro alle milizie sunnite che già combattono sul campo contro le forze regolari siriane. Per salvare le apparenze, però, verranno armate anche le organizzazioni militari anti-Isis, e tra di esse sembrano esserci anche quelle curde, il cui possibile ritorno a svolgere un ruolo da protagoniste nel caos della Siria aggiungerebbe un ulteriore problema al già lunghissimo elenco con cui devono fare i conti Erdogan e Davutoglu.


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