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di Michele Paris
Il terzo appuntamento della stagione delle primarie per i due principali partiti politici americani ha dato sabato indicazioni interessanti, contribuendo a chiarire i contorni della corsa alle nomination in vista del “Supermartedì” in programma il primo giorno di marzo. Ancora una volta, i sondaggi della vigilia hanno parzialmente fallito, se non nell’indicare i vincitori, quanto meno nel valutare le dimensioni del successo, andato, in casa Repubblicana, ancora una volta a Donald Trump, e, tra i Democratici, alla favorita Hillary Clinton.
Le primarie Repubblicane del South Carolina hanno dunque premiato il miliardario newyorchese con un margine di vantaggio superiore rispetto al previsto, nonostante le controversie che lo avevano coinvolto nei giorni scorsi. Trump aveva avuto ad esempio uno scambio di battute a distanza con Papa Francesco, il quale aveva suggerito che il candidato alla presidenza Repubblicano non sembrava avere inclinazioni cristiane viste le sue posizioni estreme sul tema dell’immigrazione.
Le rilevazioni ai seggi nello stato americano sud-orientale hanno anche rilevato come buona parte degli elettori che avevano deciso all’ultimo momento a chi assegnare il proprio voto avevano optato per un candidato diverso da Trump. Quest’ultimo ha invece raccolto il 32,5% dei consensi, infliggendo un distacco di esattamente dieci punti percentuali a coloro che di fatto sembrano essere rimasti gli unici due sfidanti per la nomination, ovvero i senatori di Florida e Texas, Marco Rubio e Ted Cruz, praticamente appaiati in seconda posizione.
La serata di sabato ha soprattutto segnato la fine della campagna di Jeb Bush, protagonista ancora una volta di una prestazione più che deludente dopo avere raccolto un misero 7,8%. Considerato a lungo nel corso del 2015 come il logico favorito, il fratello dell’ex presidente George W. Bush era in realtà tale solo per i media ufficiali, i vertici e i facoltosi finanziatori del Partito Repubblicano.
Della sua rinuncia dovrebbe beneficiare maggiormente Marco Rubio, ormai vicino a diventare il candidato unico dell’establishment di un partito che vede con timore l’eventualità che Trump o Cruz possano correre per la Casa Bianca a novembre. Le apprensioni per la vittoria della nomination di un candidato come Donald Trump sarebbero legate alle sue posizioni troppo estreme su varie questioni scottanti e che potrebbero quindi rendere complicata la raccolta di consensi al di là dell’elettorato Repubblicano, già di per sé non esattamente uniforme.
In realtà, le “sparate” di Trump e le opinioni espresse in campagna elettorale nella sostanza non sono quasi o per nulla differenti da quelle di un partito che ha fatto registrare una impressionante accelerazione verso destra nell’ultimo decennio. La paura dei suoi leader nei confronti di Trump è dovuta piuttosto al fatto che l’attuale “frontrunner” esponga in maniera troppo esplicita punti di vista di estrema destra e in odore di fascismo, così da diventare pressoché impresentabile sulla scena nazionale.
I dubbi Repubblicani su Trump dovranno ad ogni modo essere sciolti a breve. I suoi successi in New Hampshire e, ora, in South Carolina lo hanno decisamente lanciato al comando della corsa alla nomination, grazie anche alla strategia del suoi rivali, impegnati più che altro ad attaccarsi tra di loro per conquistare il ruolo di anti-Trump.Un’eventuale offensiva contro Trump appare però tutt’altro che semplice e rischia anzi di trasformarsi in un boomerang. Il businessman di New York ha infatti costruito il suo vantaggio su una retorica populista e anti-establishment che ha mostrato tutta la sua efficacia proprio nel contrattacco alle critiche di rivali legati alla politica di Washington.
I suoi colleghi di partito, poi, non brillano per capacità politiche. Ted Cruz, inoltre, senza avere l’appoggio del partito si trova a dover competere per la stessa fetta di elettorato ultra-conservatore che ha mostrato di preferirgli Trump. Rubio, da parte sua, è un candidato costruito interamente a tavolino da una manciata di multi-miliardari che ne manovrano ogni singola mossa. Il 44enne senatore cubano-americano, però, con la rinuncia di Jeb Bush potrebbe incassare già nei prossimi giorni il sostegno politico e, soprattutto, economico dei sostenitori dell’ex governatore della Florida, consentendogli di giocarsi il tutto per tutto in una sfida che, in definitiva, continua a essere decisa dal denaro e dai media.
Se i Repubblicani si sono scontrati sabato in South Carolina, in questo stato i Democratici si presenteranno agli elettori sabato prossimo, mentre nel fine settimana sono stati impegnati nei caucuses del Nevada. Qui, Hillary Clinton partiva con un vantaggio che alcuni mesi fa aveva toccato i 40 punti percentuali sul senatore del Vermont, Bernie Sanders.
Il divario a favore dell’ex segretario di Stato di Obama è stato alla fine di poco più del 5% (52,7% a 47,2%), anche se superiore a molti sondaggi che indicavano una competizione ancora più equilibrata. A deciderne l’esito sono stati vari fattori, tra cui i principali sembrano essere la maggiore capacità organizzativa della campagna elettorale di Hillary, il cui staff è presente da un anno in Nevada, e l’appoggio precoce ottenuto dalle più importanti organizzazioni sindacali dello stato.
A giudicare dalla copertura mediatica della corsa alla nomination del Partito Democratico, poi, Hillary ha avuto un certo successo nel portare la sfida con Sanders sul terreno delle cosiddette “politiche identitarie”. Nelle ore immediatamente successive alla batosta del New Hampshire, la ex first lady aveva cercato cioè di sollevare la questione razziale e, in misura minore, quella delle discriminazioni di sesso.
La speranza era quella di indebolire il messaggio vincente del suo rivale, basato quasi interamente sulla lotta alle disparità sociali e di reddito. Con l’aiuto soprattutto della stampa e della galassia di commentatori e pseudo-intellettuali “liberal”, le differenze razziali sono così tornate a diventare il tema centrale del dibattito politico, quanto meno sul fronte Democratico, come se tali questioni fossero svincolate da quelle economiche e di classe.In questo modo, Hillary e il suo team si sono garantiti la maggioranza dei consensi tra le minoranze in Nevada, anche se per quanto riguarda gli ispanici i dati appaiono contradditori se non favorevoli a Sanders. Gli afro-americani, piuttosto, hanno premiato la favorita Democratica e il loro voto potrebbe risultare decisivo nell’imminente appuntamento del South Carolina, dove comunque Hillary è accreditata da tempo di un vantaggio molto netto sul suo sfidante.
Sanders, da parte sua, ha provato a dare una lettura più equilibrata del risultato del Nevada, facendo notare come il recupero su Hillary sia stato comunque notevole e come la sua candidatura abbia raccolto consensi importanti in tutte le fasce sociali, razziali e di genere dell’elettorato.
La corsa del senatore del Vermont si fa però ancora più complicata in previsione del Supermartedì. Contro la sua candidatura sono schierati poteri fortissimi all’interno del Partito Democratico e negli ambienti che ruotano attorno ad esso. Sanders è in realtà un politico affidabile per la classe dirigente americana, come confermano i suoi trascorsi al Congresso da più o meno fedele sostenitore delle politiche Democratiche.
Tuttavia, la sua campagna elettorale incentrata sulla lotta contro Wall Street e le disuguaglianze sociali e di reddito sta generando grande entusiasmo tra i giovani e le fasce più disagiate della popolazione, minacciando potenzialmente di innescare un movimento politico indipendente che potrebbe sfuggire di mano e destabilizzare l’intero sistema politico-economico americano.
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di Michele Paris
Grazie a un’ingiunzione emessa questa settimana da un giudice federale, l’amministrazione Obama ha fatto un passo avanti forse decisivo nell’acquisizione degli strumenti necessari a penetrare i sistemi di sicurezza dei telefoni cellulari in possesso di utenti privati. La giustificazione per questa mossa dalle gravissime implicazioni è la necessità di accedere al contenuto dell’iPhone appartenuto a uno dei due attentatori che lo scorso anno erano stati protagonisti del sanguinoso attacco a un centro conferenze di San Bernardino, in California.
Il giudice Sheri Pym del tribunale distrettuale federale della California centrale ha imposto martedì a Apple di trovare un modo, ovvero di realizzare un apposito software, per “bypassare e disabilitare” il sistema crittografico che fa parte del sistema operativo iOS9 e che serve a proteggere la privacy dei propri smarthphone.
Gli agenti dell’FBI non sono infatti in grado di accedere all’iPhone del defunto Syed Rizwan Farook a causa del sistema che prevede l’auto-cancellazione dei dati dopo avere effettuato dieci tentativi di sbloccarlo. Questa sicurezza non consente il ricorso al metodo solitamente utilizzato dalla polizia federale americana per penetrare i dispositivi elettronici, provando cioè tutte le possibili password fino all’individuazione di quella corretta.
In questa vicenda, la posta in gioco è enormemente più grande di un telefono appartenuto a un terrorista morto. Tramite l’ordine emesso contro Apple, e con l’immancabile riferimento alla lotta al terrorismo, il governo americano intende attribuirsi la facoltà di aggirare i sistemi crittografici dei dispositivi per riuscire a monitorare le comunicazioni elettroniche che restano attualmente al di fuori della propria portata.
Un “dibattito” sul bisogno delle autorità di polizia di avere uno strumento pseudo-legale per eludere gli ostacoli rappresentati dalla crittografia è in corso da tempo negli Stati Uniti e non solo. Gli attentati degli ultimi mesi, tra cui appunto quello di San Bernardino e quelli di Parigi, avevano dato l’occasione ai vari governi di tornare alla carica per abbattere uno degli ultimi muri rimasti contro l’invadenza dei servizi di sicurezza.
Il presidente Obama si era rifiutato di appoggiare pubblicamente un’eventuale nuova legge che fornisse alle forze di polizia gli strumenti per aggirare i sistemi crittografici, ma la sua decisione non era basata su questioni di principio, bensì era dettata solo da ragioni di opportunità, vista la vastissima opposizione popolare e delle stesse compagnie informatiche.
A testimonianza della determinazione con cui il governo USA intende comunque raggiungere questo obiettivo, il giudice Pym ha addirittura fatto riferimento a un’oscura legge – “All Writs Act” – che, nella sua forma originaria, è stata scritta nel XVIII secolo. Grazie a un’interpretazione elastica di essa, un giudice può attribuirsi ampie facoltà di imporre a “parti terze” l’esecuzione di un ordine del tribunale, sospendendo in sostanza le restrizioni ai poteri dello stato previste dalla Costituzione.
Le rassicurazioni della Casa Bianca sul caso in corso in California sono da prendere a dir poco con le molle. In una conferenza stampa, il portavoce del presidente, Josh Earnest, ha garantito che il Dipartimento di Giustizia non sta cercando di ottenere un modo per accedere “dalla porta di servizio” agli smartphone protetti da crittografia, ma l’ingiunzione a Apple è limitata a “un solo dispositivo”.
In realtà, il governo sta cercando di assicurarsi il potere di fare precisamente quanto dice di escludere. A provarlo ci sono non solo le numerose dichiarazioni degli ultimi mesi di vari esponenti politici e dell’apparato della sicurezza nazionale, tra cui il direttore dell’FBI James Comey, sulla necessità di limitare i sistemi crittografici, ma anche i precedenti dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), i cui programmi di sorveglianza globale sono stati rivelati da Edward Snowden.L’amministratore delegato della Apple, Tim Cook, ha fatto riferimento alle implicazioni dell’ordine emesso dal giudice californiano nella dichiarazione con cui ha annunciato che la sua azienda intende appellarsi per renderlo nullo. Cook ha affermato che “una volta creata, la tecnica [per aggirare la crittografia dell’iPhone] può essere usata all’infinito, su qualsiasi dispositivo”, come un “passepartout in grado di aprire centinaia di milioni di serrature”.
“Il governo”, ha spiegato Cook, “sta chiedendo a Apple di hackerare i suoi stessi utenti”, visto che il software richiesto potrebbe essere usato per “intercettare i vostri messaggi, accedere alle vostre informazioni sanitarie o finanziarie, individuare la vostra posizione e addirittura attivare il microfono o la fotocamera del vostro telefono senza che ve ne rendiate conto”.
La presa di posizione del numero uno di Apple non deve comunque trarre in inganno sulla disposizione verso le richieste del governo americano di questa e delle altre compagnie tecnologiche, rimaste non a caso in larga misura in silenzio in questi giorni. Solo mercoledì, ad esempio, il CEO di Google, Sundar Pichai, ha tardivamente appoggiato il collega di Apple, limitandosi però a esprimere il proprio parere con una serie di “tweet”.
Per cominciare, come ha rivelato Snowden, queste aziende collaborano quanto meno da oltre un decennio con il governo per garantire alla NSA e alle altre agenzie federali l’accesso ai propri server e, di conseguenza, alle informazioni private dei loro utenti. Lo stesso Tim Cook, inoltre, ha assicurato che Apple intende continuare a collaborare con il governo nella farsa della “guerra al terrore”, visto che “quando l’FBI ha richiesto dei dati [relativi ai propri clienti], essi sono stati forniti”.
La resistenza mostrata da Apple alla richiesta di sbloccare l’iPhone di Syed Rizwan Farook è insomma motivata soltanto da ragioni di ordine economico. L’indebolimento dei sistemi di sicurezza installati sui propri prodotti, garantendo l’accesso a essi da parte del governo USA e possibilmente anche da hacker, assesterebbe un grave colpo all’immagine della compagnia, penalizzandola in maniera sensibile visto il livello di competitività globale in questo segmento di mercato.
Per il New York Times, infatti, i vertici di Apple si auguravano di risolvere le difficoltà di accesso al dispositivo in questione senza il bisogno di creare un apposito software e, soprattutto, hanno mostrato non poca irritazione di fronte alla decisione del governo di rendere pubblica la propria richiesta di eludere la crittografia invece di ricorre a una procedura o a un accordo segreto.Lo stesso quotidiano ha raccontato di frenetiche discussioni il mese scorso tra gli avvocati di Apple e gli uomini del Dipartimento di Giustizia di Washington per convincere la compagnia a cedere e ad accogliere le richieste del governo. Solo quando si è accertato che non era possibile giungere a un compromesso, il governo ha proceduto con la richiesta di ingiunzione in tribunale e Apple ha deciso di rendere pubblico il proprio dissenso.
Lo stallo, ad ogni modo, potrebbe essere risolto dalla Corte Suprema nel prossimo futuro, anche se in molti credono che il Congresso abbia intenzione di intervenire per approvare una legge che, verosimilmente con appoggio bipartisan, imponga alle compagnie tecnologiche di creare un accesso agli smartphone protetti da crittografia, accontentando finalmente le agenzie governative e contribuendo a smantellare ancor più le residue garanzie di privacy e i diritti democratici dei cittadini.
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di Mario Lombardo
Secondo la stampa americana, il governo cinese nei giorni scorsi avrebbe installato su un’isola contesa nel Mar Cinese Meridionale un sistema di difesa missilistico terra-aria, verosimilmente in risposta alle recenti provocazioni di Washington nel quadro dell’offensiva strategica orchestrata ai danni di Pechino. La notizia è stata riportata da FoxNews e successivamente confermata dal governo di Taiwan. L’isola in questione sarebbe quella di Woody, conosciuta come Yongxing in lingua cinese, nell’arcipelago delle Paracel, ed è rivendicata anche da Vietnam e Taiwan.
Il network statunitense ha citato come prova delle manovre cinesi alcune immagini satellitari che mostrerebbero le batterie di missili e un sistema radar visibili a partire almeno dal 14 febbraio scorso. L’isola di Woody è situata a sud-est della provincia di Hainan e ospita la più grande base aerea di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.
La rivelazione ha prevedibilmente trovato conferme anche tra i vertici delle Forze Armate USA, dove si è ipotizzato che il sistema anti-aereo installato sarebbe l’HQ-9, simile al sofisticato S-300 di produzione russa. Secondo FoxNews, questo sistema ha un raggio di oltre 200 chilometri e rappresenterebbe perciò una minaccia per qualsiasi velivolo, sia civile sia militare, che sorvoli la zona. In realtà, i timori americani sono legati alle capacità cinesi di intercettare i propri aerei da guerra dalle isole nel Mar Cinese Meridionale in caso di conflitto con Pechino.
Il governo cinese, per bocca del portavoce del ministro degli Esteri, Hong Lei, ha affermato mercoledì di non essere a conoscenza dei dettagli relativi al posizionamento di un sistema missilistico, ma ha aggiunto che qualsiasi equipaggiamento eventualmente impiegato sull’isola è di natura difensiva e non fa parte di un’escalation militare. In precedenza, il ministro degli Esteri, Wang Yi, aveva invece definito la notizia una “creazione di certi media stranieri”.
Al di là della reticenza del governo di Pechino, il dispiegamento del sistema anti-aereo sull’isola di Woody è stato di fatto confermato da vari accademici e commentatori cinesi citati dalla stampa del loro paese. Tuttavia, è innegabile che l’iniziativa sia effettivamente di natura difensiva e che, soprattutto, giunga in risposta alle manovre americane messe in atto con il preciso scopo di alimentare le tensioni in Estremo oriente.
Gli organi di stampa cinesi e internazionali sono stati pressoché concordi nell’indicare come evento scatenante la reazione cinese l’invio il mese scorso del cacciatorpediniere americano USS Curtis Wilbur all’interno delle 12 miglia nautiche dell’isola di Triton, nelle isole Paracel, situata a circa 160 chilometri da quella di Woody. Dopo questo episodio, il ministero della Difesa cinese aveva annunciato che ci sarebbero state conseguenze non meglio precisate.
Per un esperto di relazioni internazionali dell’università Renmin di Pechino, sentito dal quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, la “logica cinese” nel “costruire strutture militari… dipende dal livello di minaccia percepito”. Le pattuglie americane inviate in precedenza nei pressi delle isole Spratly, sempre nel Mar Cinese Meridionale, non erano infatti viste in maniera così provocatoria come quelle apparse al largo delle Paracel, dal momento che quest’ultimo arcipelago è più vicino alla terraferma e su di esso Pechino esercita un controllo più stretto.
Le tensioni tra USA e Cina sono aumentate da circa un anno a questa parte dopo che l’amministrazione Obama ha iniziato a rilevare e denunciare la costruzione di strutture considerate a uso militare in alcune isole contese del Mar Cinese Meridionale. La Cina, da parte sua, ritiene di avere piena sovranità su queste isole e fa notare come le stesse attività non siano mai condannate da Washington quando a eseguirle sono altri paesi che rivendicano i territori, come Vietnam o Filippine.La notizia dei missili cinesi ha comunque tutto l’aspetto di una rivelazione piazzata ad hoc dalla stampa USA per coincidere con i lavori del summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), andato in scena questa settimana per la prima volta in territorio americano. A Sunnylands, in California, l’amministrazione Obama ha messo tutto il proprio impegno per convincere i paesi membri di questo organismo a emettere un comunicato congiunto che facesse riferimento alle dispute territoriali nel Mar Cinese, condannando la crescente “aggressività” di Pechino.
Lo sforzo è però fallito ancora una volta, visto che la questione più scottante che sta interessando quest’area del continente asiatico è rimasta fuori dalla dichiarazione finale del vertice. A Washington ci deve essere stato parecchio disappunto dopo l’impegno profuso per far allineare alle proprie mire strategiche paesi recalcitranti come Cambogia e Laos.
Il segretario di Stato, John Kerry, aveva recentemente visitato proprio questi due paesi, nella speranza di evitare la ripetizione di quanto accaduto dopo il summit ASEAN del 2012 sotto la presidenza cambogiana, quando l’associazione per la prima volta nella propria storia non era stata in grado di produrre un comunicato finale a causa delle tensioni sulle rivendicazioni territoriali infiammate dagli Stati Uniti.
In California, così, l’amministrazione Obama si è dovuta accontentare della solita dichiarazione formale che ha fatto riferimento all’impegno “condiviso per una soluzione pacifica delle dispute e per il rispetto dei processi legali e diplomatici”, nonché della “sicurezza marittima, incluso il diritto alla libertà di navigazione e sorvolo”.
La necessità di assicurare la “libertà di navigazione” nel Mar Cinese Meridionale viene usata costantemente dagli Stati Uniti per giustificare le proprie manovre in Asia orientale di fronte alla presunta minaccia rappresentata dalla Cina. Questa presa di posizione è però priva di senso e serve a malapena a nascondere i veri obiettivi strategici americani, dal momento che il paese che ha il maggiore interesse nel garantire la sicurezza dei traffici marittimi è proprio la Cina, la quale vede transitare in quest’area una parte considerevole delle proprie esportazioni e importazioni.
Al vertice ASEAN, il governo americano ha lasciato intendere che Pechino ha fatto forti pressioni sui paesi con cui ha legami politici ed economici più stretti per impedire l’approvazione di un comunicato dai toni più duri verso la Cina. Simili proteste sono tuttavia risibili, poiché proprio gli Stati Uniti incoraggiano da anni svariati paesi del sud-est asiatico ad alimentare le tensioni con la Cina su questioni territoriali che per decenni non avevano provocato conflitti di rilievo.
Gli USA, in ogni caso, non saranno scoraggiati dall’esito del summit dell’ASEAN e continueranno a utilizzare le contese nel Mar Cinese per fare pressioni sulla Cina e aumentare la propria presenza militare nell’area. Il prossimo appuntamento da tenere in considerazione a questo proposito è l’attesa sentenza del tribunale de L’Aia che a marzo, in base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS), dovrà esprimersi su una causa presentata dalle Filippine contro la Cina.
Il caso riguarda una disputa tra questi due paesi nel Mar Cinese Meridionale e, mentre Pechino ha da tempo affermato di non riconoscere l’autorità del tribunale, Washington ha assistito e appoggiato il governo filippino nella vicenda legale, nonostante gli Stati Uniti non abbiano mai sottoscritto la stessa Convenzione delle Nazioni Unite.
Durante l’incontro a Sunnylans, infine, il governo USA ha cercato di promuovere legami economici più stretti con i paesi ASEAN, utilizzando il mega-trattato di libero scambio denominato Partnership Trans Pacifica (TPP), recentemente firmato in Nuova Zelanda tra 12 paesi asiatici e del continente americano.Brunei, Malaysia, Singapore e Vietnam fanno già parte del TTP, ma l’amministrazione Obama ha incoraggiato altri membri dell’ASEAN a unirsi al trattato nel prossimo futuro, ben sapendo che molti di questi ultimi intrattengono relazioni commerciali molto forti con una Cina che, a sua volta, sta cercando di promuovere anche nel sud-est asiatico i propri progetti di sviluppo inquadrabili nella cosiddetta “Nuova Via della Seta” e nella Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti.
Alcuni di questi paesi, dall’Indonesia alla Thailandia, da Singapore alla Cambogia, dal Laos al Myanmar, hanno finora tenuto un atteggiamento equidistante tra USA e Cina, se non decisamente prudente, per non suscitare reazioni negative da Pechino.
Gli sviluppi recenti in Estremo Oriente, a cominciare dalle continue provocazioni americane, assieme alla già citata sentenza del tribunale competente per la Convenzione sul Diritto del Mare, faranno aumentare tuttavia i livelli di instabilità nella regione, così che risulterà sempre più difficile per i paesi che hanno mostrato fin qui un atteggiamento di cautela evitare una netta scelta di campo tra Pechino e Washington.
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di Michele Paris
I bombardamenti condotti dalla Turchia contro le postazioni curde in territorio siriano hanno segnato in questi giorni un pericoloso aggravamento della guerra in corso nel paese mediorientale. L’escalation dello scontro è la diretta conseguenza dell’avanzata delle forze del regime di Damasco con l’appoggio dell’aviazione russa, il cui intervento ha capovolto gli equilibri del conflitto, smascherando nel contempo il gioco dei regimi mediorientali impegnati nella lotta contro Assad dietro il paravento di quella al terrorismo.
I sentimenti che meglio descrivono lo stato d’animo dei regimi di Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar in queste settimane sono il panico e la disperazione. Gli investimenti che questi paesi hanno fatto in Siria, con la supervisione - se non l’aperta collaborazione - di Washington, ammontano a svariati miliardi di dollari, destinati a sostenere finanziariamente e militarmente gruppi fondamentalisti nel tentativo di rovesciare il regime di Damasco.
Questi piani rischiano ora di essere completamente spazzati via dall’intervento della Russia e la prospettiva del tracollo definitivo dei “ribelli” armati, da giorni sotto “assedio” delle forze governative soprattutto ad Aleppo, ha spinto Ankara, Riyadh e i loro alleati a valutare la possibilità di giocare il tutto per tutto nella crisi siriana.
D’altra parte, la liberazione di Aleppo e delle località circostanti da parte dell’esercito siriano chiuderebbe il corridoio che collega quest’area alla Turchia e che è stato utilizzato per assicurare i rifornimenti e il transito di uomini verso le postazioni “ribelli”. Senza questa componente logistica vitale, le varie formazioni dell’opposizione armata si ritroverebbero con poche alternative oltre alla morte e alla resa.
La loro sorte sarebbe quindi segnata, visto che i gruppi che combattono contro il regime di Assad non hanno virtualmente alcun sostegno tra la popolazione siriana, tanto che la maggior parte di essi sono formati da guerriglieri provenienti da altri paesi e, appunto, hanno potuto resistere così a lungo e ottenere successi significativi solo grazie a sostenitori e finanziatori stranieri.
L’evoluzione del conflitto favorevole a Damasco ha così scatenato un’offensiva su più fronti tra i nemici del regime alauita. Quella manifestatasi in maniera più ambigua è l’iniziativa degli Stati Uniti. A Washington, secondo alcuni commentatori, in molti sarebbero ormai giunti ad accettare il successo delle operazioni russe, in grado di combattere efficacemente la minaccia dello Stato Islamico (ISIS) che, dopo essere stato più o meno direttamente coltivato e promosso, rischiava di trasformarsi in un boomerang per gli interessi e la sicurezza dell’Occidente.
Allo stesso tempo, però, la rivalità ormai a tutto campo con Mosca, nonché la speranza di ottenere il massimo ricavo strategico dal conflitto siriano dopo gli sforzi per rimuovere Assad in questi anni, si sono tradotte in un impegno per una qualche soluzione diplomatica della crisi. Il risultato è per ora l’accordo, annunciato venerdì scorso dal segretario di Stato USA, John Kerry, e dal ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, su un incertissimo piano per lo stop ai combattimenti, significativamente non sottoscritto né da Damasco né dal Fronte al-Nusra o dall’ISIS.La doppiezza dell’atteggiamento americano, dettata verosimilmente dalla mancanza di un piano coerente per la Siria, è evidente anche nell’approccio alle iniziative di Turchia e Arabia Saudita, i cui regimi sono sempre più vicini a un ingresso diretto nelle ostilità. L’eventuale impegno in territorio siriano di questi due paesi dipenderà infatti dall’approvazione di Washington, le cui intenzioni in proposito non appaiono per il momento chiare.
Il governo USA ha accolto favorevolmente, almeno a parole, i progetti di intervento turco e saudita, ma l’amministrazione Obama si rende conto perfettamente che un’evoluzione di questo genere rischia di innescare un conflitto di vasta scala, ovvero, secondo le parole del primo ministro russo, Dmitry Medvedev, in riferimento a una possibile invasione delle forze di terra di Riyadh in Siria, niente meno che “una nuova guerra mondiale”.
La Turchia, comunque, nei giorni scorsi ha iniziato a colpire le Unità di Protezione Popolari curde (YPG) in Siria, con la scusa che esse avrebbero fornito armi - ottenute dagli Stati Uniti - ai guerriglieri del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) attivi entro i propri confini. Le operazioni militari turche hanno il chiaro obiettivo di fermare l’offensiva contro i gruppi islamisti anti-Assad, tra cui lo stesso ISIS, combattuti dai curdi siriani.
Non solo: le bombe di Erdogan aggiungono un’ulteriore complicazione al conflitto, visto che le YPG, oltre che a collaborare con Damasco e la Russia, sono alleate degli Stati Uniti nella guerra all’ISIS. Secondo i media occidentali, Ankara avrebbe agito nonostante le pressioni americane, ma anche di Francia e Germania, ad astenersi dal colpire le formazioni curde.
Questi ultimi sviluppi indicano dunque un aggravamento anche delle tensioni tra Turchia e Stati Uniti, dovuto alle differenze tattiche nella lotta contro il regime di Assad. Da tempo, infatti, Erdogan chiede un intervento diretto degli USA o della NATO contro Damasco e per ottenere ciò ha messo in atto svariate provocazioni, come l’abbattimento deliberato di un aereo da guerra russo lo scorso novembre o la collaborazione con i “ribelli” per condurre attacchi con armi chimiche in Siria e attribuirne la responsabilità al regime.
L’Arabia Saudita, intanto, ha da parte sua confermato di avere inviato i propri jet presso la base di Incirlik, in Turchia, per intensificare l’impegno ufficialmente contro l’ISIS in Siria. Riyadh ha però attenuato i toni in relazione al possibile impiego di forze speciali in territorio siriano, affermando che una simile mossa dipenderà dalla decisione dei membri della coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti.
Tanto per complicare gli scenari, infine, il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, ha detto recentemente di aspettarsi l’invio di forze speciali saudite e degli Emirati Arabi in Siria per assistere i combattenti “ribelli” nello sforzo per riconquistare la città di Raqqa, considerata la capitale dello pseudo-califfato dell’ISIS.
In definitiva, le sconfitte subite sul campo in questi mesi dalle forze di opposizione anti-Assad, assieme alla prospettiva di essere tagliate fuori dal controllo di Aleppo e dalle importanti località al confine con la Turchia, hanno provocato reazioni isteriche tra i loro sponsor, tali da costringerli a vere e proprie acrobazie retoriche per giustificare interventi palesemente a sostegno di quelle stesse forze fondamentaliste che vorrebbero far credere di combattere.
Anche grazie a organi di stampa in larga misura compiacenti, Turchia e Arabia Saudita possono così affermare di voler fare la guerra ai terroristi dell’ISIS o del Fronte al-Nusra attraverso una campagna militare che prende di mira quelle stesse forze che li stanno combattendo in maniera efficace e che potrebbero forse garantire il ritorno a un minimo di stabilità in Siria.
L’intervento russo, prevedibilmente deciso per salvaguardare gli interessi strategici di Mosca in Medio Oriente e non solo, ha dato insomma un contributo fondamentale a chiarire senza più nessun’ombra di dubbio le posizioni degli attori impegnati sul fronte siriano.Al di là di come si valutino le operazioni militari della Russia, in ogni caso legittime dal punto di vista del diritto internazionale, a differenza di quelle condotte dalla “coalizione” guidata dagli USA, in seguito ad esse le ambiguità dei governi occidentali e dei loro alleati mediorientali hanno finito per essere smascherate.
La fine della sanguinosa guerra in Siria, perciò, non sarà risolta dal fantomatico tavolo delle trattative di Ginevra o da improbabili tregue negoziate altrove, bensì sul campo e dalle forze armate di Mosca e Damasco, con tutti i drammatici effetti collaterali del caso, come ha dimostrato il possibile bombardamento avvenuto lunedì di una scuola e di un ospedale di Medici Senza Frontiere rispettivamente nella province di Aleppo e Idlib. L’unica alternativa, la cui praticabilità risulterà evidente in tempi molto brevi, resta il coinvolgimento diretto di Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, se non degli stessi Stati Uniti.
Una prospettiva di questo genere, tuttavia, avrà conseguenze difficili da calcolare, poiché non farà che aggravare la situazione e favorire il fondamentalismo sunnita, senza contare il rischio concreto di scatenare una guerra totale dagli effetti potenzialmente catastrofici.
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di Michele Paris
Nel pieno delle primarie per le presidenziali, il mondo politico americano è stato scosso nel fine settimana dalla notizia della morte improvvisa del giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia. Il decesso del 79enne giurista ultra-conservatore pone una serie di importanti questioni di natura politica, così come politica è stata l’impronta del più alto tribunale degli Stati Uniti negli ultimi anni dominati dalla maggioranza dei giudici che lo compongono e di cui lo stesso Scalia ha fatto parte.
Cattolico anti-abortista, favorevole alla pena di morte e all’ampliamento delle facoltà delle forze dell’ordine, promotore del diritto di possedere armi da fuoco, strenuo difensore dei poteri forti americani e spesso contraddistinto da posizioni ideologiche in odore di razzismo, Scalia ha incarnato per tre decenni l’anima più reazionaria delle élite d’oltreoceano, passando da un ruolo relativamente marginale a quello di protagonista nel quadro del drammatico spostamento a destra della classe dirigente registrato in questo inizio di nuovo secolo.
Antonin Scalia è morto nel sonno tra venerdì e sabato per cause ancora sconosciute mentre partecipava in Texas a una battuta di caccia, una delle sue passioni. Il giudice era stato nominato alla Corte Suprema da Ronald Reagan nel 1986 ed era noto per la combattività mostrata durante le udienze, soprattutto nei confronti dei legali che sostenevano cause anche vagamente “liberal”.
Le fondamenta saldamente conservatrici del suo pensiero legale derivavano da una interpretazione della Costituzione americana definita “testualismo” o “originalismo”, consistente nel rispetto del senso letterale della carta durante l’analisi dei vari casi. Scalia era guidato cioè dal riferimento costante alle intenzioni di coloro che avevano redatto la Costituzione degli Stati Uniti, respingendo assurdamente l’idea che un documento scritto più di due secoli fa possa essere adattato alle diverse condizioni storiche e sociali.
Scalia sarà ricordato, oltre che per le sue posizioni di estrema destra, per le numerose uscite, sia durante le udienze, sia nelle numerose apparizioni pubbliche, che rivelavano una disposizione retrograda e profondamente anti-democratica. Solo un paio di mesi fa, ad esempio, il giudice deceduto aveva affermato che gli studenti di colore avrebbero dovuto frequentare università di livello “inferiore”, poiché in quelle più prestigiose avrebbero potuto trovarsi in un ambiente inadatto.
Nonostante i precedenti, molti esponenti politici anche di orientamenti ufficialmente opposti a quelli di Scalia hanno avuto parole di elogio nel ricordare il giudice dopo la diffusione della notizia della morte. La reazione di Obama ha ad esempio mostrato il solito atteggiamento servile nei confronti della destra americana del presidente, il quale ha definito il defunto una “mente legale brillante” che “ha influenzato una generazione di giudici, avvocati e studenti”.
Come previsto dalla Costituzione USA, il presidente sarà chiamato ora a scegliere il sostituto di Scalia alla Corte Suprema e Obama ha già fatto sapere che la nomina, da sottoporre a ratifica del Senato, arriverà in tempi non troppo lunghi. La questione della successione a Scalia rischia però di diventare da subito molto complicata, visto che si inserisce in un clima politico del tutto particolare, caratterizzato dalle elezioni presidenziali di novembre e da un Congresso dove la maggioranza non è detenuta dal partito del presidente.
La leadership Repubblicana del Senato ha già indicato la scarsa disponibilità ad approvare qualsiasi candidato verrà proposto dalla Casa Bianca. Il calcolo Repubblicano è con ogni probabilità quello di ritardare la nomina del nono giudice della Corte Suprema fino al prossimo anno, quando sarà insediato il nuovo presidente americano, nella speranza che non sia Democratico.
Il numero uno dei Repubblicani al Senato, Mitch McConnell, sabato ha affermato apertamente che il sostituto di Scalia non siederà alla Corte Suprema prima del gennaio 2017. Questa presa di posizione è decisamente insolita, non solo perché è opinione condivisa che il presidente degli Stati Uniti abbia facoltà di scegliere – e quindi vedere approvato – il candidato che ritiene più adatto, ma anche perché le battaglie registrate in passato sulle nomine alla Corte Suprema hanno riguardato l’eventuale mancanza dei requisiti degli aspiranti giudici o episodi controversi nel loro passato.
L’avvertimento preventivo alla Casa Bianca da parte del leader di maggioranza al Senato sul probabile respingimento della nomina alla Corte Suprema è motivato dalla posta in gioco, particolarmente pesante dal punto di vista politico. Tutta politica è stata infatti l’attività dello stesso tribunale negli ultimi anni, intento - grazie alla maggioranza conservatrice, per non dire reazionaria - a smantellare molti dei diritti democratici consolidati, anche con sentenze precedenti della stessa Corte Suprema, e a promuovere gli interessi del business.Proprio di qualche giorno fa è stata ad esempio una delle ultime sentenze sottoscritte da Scalia, con la quale la Corte ha agito con un intento interamente politico. La maggioranza conservatrice dei giudici ha imposto lo stop all’applicazione di una direttiva dell’Agenzia federale per la Protezione Ambientale (EPA) indirizzata ai singoli stati americani per ridurre le emissioni di gas serra.
La decisione è apparsa singolare per varie ragioni, a cominciare dal fatto che è giunta ancora prima che la causa legale contro l’EPA esaurisse il proprio percorso giudiziario nei tribunali inferiori, ma anche perché le regolamentazioni previste sarebbero entrate in vigore solo tra alcuni anni.
La morte improvvisa di Scalia ha così aperto la strada a un possibile ribaltamento degli equilibri politici all’interno della Corte Suprema USA. Come già anticipato, il giudice di origine italiana faceva parte della maggioranza conservatrice del tribunale, assieme al presidente, John Roberts, e ai colleghi Clarence Thomas, Samuel Alito e Anthony Kennedy, sebbene quest’ultimo sia considerato relativamente più moderato.
La scelta di Obama potrebbe allora ricadere su un giurista progressista, facendo pendere per la prima volta da anni la bilancia della Corte Suprema verso sinistra. Gli altri quattro giudici in carica sono considerati di orientamento “liberal”: Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg, Sonya Sotomayor e Elena Kagan, queste ultime due già nominate da Obama rispettivamente nel 2009 e nel 2010.
Da sottolineare bene, in ogni caso, è che la propensione progressista di questi quattro giudici, o quanto meno di alcuni di loro, è limitata in larga misura alle questioni delle libertà individuali, mentre in molte occasioni si sono almeno in parte allineati alla maggioranza conservatrice nelle cause relative alle “libertà” di aziende e corporation.
L’ipotesi che la Corte Suprema possa restare con soli otto membri per parecchi mesi è comunque tutt’altro che improbabile. Storicamente sono infatti numerosi i casi di candidati respinti dal Senato o di procedure di conferma prolungate nel tempo, anche se nei limiti ricordati in precedenza, soprattutto quando le nomine vengono fatte da presidenti sul finire del loro mandato.
Ciò potrebbe influire in maniera decisiva su alcune cause delicate attorno alle quali il supremo tribunale dovrà esprimersi nei prossimi mesi e che riguardano vari ambiti, dal diritto all’aborto all’immigrazione, dalle quote riservate alle minoranze nell’ammissione alle università al finanziamento dei sindacati. Con soli otto membri, eventuali verdetti di parità lascerebbero intatte le sentenze dei tribunali inferiori.
Proprio ai primi di aprile, la Corte inizierà le udienze su uno dei casi con le maggiori implicazioni politiche, anche in relazione alla campagna per le presidenziali in atto, ovvero la legittimità costituzionale del decreto presidenziale emesso da Obama per offrire un (complicato) percorso verso la regolarizzazione a circa 4 milioni di immigrati. In ballo vi è la possibilità da parte del governo federale di imporre ai singoli stati le norme in materia di immigrazione e, se non dovesse emergere una maggioranza alla Corte Suprema, il decreto di Obama risulterebbe nullo.Un’altra vicenda scottante è quella che riguarda la facoltà di un sindacato degli insegnanti in California di raccogliere contributi anche dai non iscritti come riconoscimento della propria attività di contrattazione. In questo caso, un’eventuale verdetto di 4-4 alla Corte Suprema favorirebbe le associazioni sindacali.
Al di là delle dispute dei prossimi mesi sul successore di Antonin Scalia, la Corte Suprema americana sarà interessata da un ricambio generazionale negli anni a venire. Ciò determinerà probabili scosse e cambiamenti degli assetti ideologici all’interno del Tribunale, senza che esso perda tuttavia la caratteristica di strumento legale supremo nelle mani della classe dirigente USA per plasmare o legittimare le proprie politiche, sia pure nell’ambito dello scontro per il predominio delle varie sezioni che la compongono.
Tre giudici sono infatti vicini o hanno superato gli 80 anni, così che la permanenza in un incarico che non ha comunque limiti di età potrebbe essere di breve durata. I giudici “progressisti” Ruth Bader Ginsburg e Stephen Breyer compiranno rispettivamente 83 e 78 anni nel 2016, mentre le primavere del moderato/conservatore Anthony Kennedy saranno esattamente 80 il prossimo mese di luglio.