- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Gli sforzi messi in atto dall’amministrazione Obama per spianare la strada all’approvazione di alcuni trattati di libero scambio, ritenuti fondamentali dalle multinazionali americane, continuano a faticare a produrre risultati tangibili. A Washington sono infatti in corso frenetiche trattative tra la Casa Bianca e il Congresso per superare i nuovi ostacoli emersi in seguito a un voto della Camera dei Rappresentanti nel fine settimana scorso tutt’altro che favorevole al presidente Obama.
A larga maggioranza, la Camera aveva bocciato la cosiddetta “Trade Adjustment Assistance” (TAA), ovvero un provvedimento tradizionalmente collegato ai trattati di libero scambio sottoscritti dagli Stati Uniti con altri paesi. Questa legge, i cui effetti positivi potrebbero scadere alla fine di settembre, prevede compensazioni economiche e programmi di formazione per quei lavoratori che perdono il loro impiego a causa degli stessi trattati.
Lo stop alla TAA ha comportato la stessa sorte per un altro provvedimento ad essa collegato, la “Trade Promotion Authority” (TPA) o “Fast Track Authority”, decisamente più importante ai fini dei negoziati internazionali sui trattati di libero scambio. In caso di approvazione, la TPA assegnerebbe per cinque anni a Obama e al suo successore l’autorità per stipulare con le proprie controparti straniere dei testi praticamente definitivi dei vari trattati, dal momento che il Congresso avrebbe facoltà soltanto di approvarli o respingerli, senza poter discutere o votare eventuali emendamenti.
I due provvedimenti erano stati uniti in un unico pacchetto dalla leadership repubblicana del Senato nel mese di maggio, così da permettere ai senatori di entrambi gli schieramenti provenienti da stati già duramente colpiti dal processo di deindustrializzazione di votare per la concessione al presidente dell’autorità di negoziare in autonomia i trattati di libero scambio senza essere accusati di non avere a cuore le sorti dei lavoratori.
TAA e TPA sono state però separate alla Camera e, mentre la seconda è stata approvata di misura, la prima non ha avuto la stessa fortuna. La maggior parte dei democratici, in particolare, ha deciso di non votare per una misura che essi stessi sostengono, con l’obiettivo di impedire l’avanzamento delle trattative sui trattati di libero scambio. Anche la maggioranza dei repubblicani ha votato contro la TAA, considerata una forma di welfare e quindi sostanzialmente uno spreco di denaro pubblico.
L’importanza per la classe dirigente americana della “Fast Track Authority” è in ogni caso evidente dal fatto che tutti i principali trattati di libero scambio sottoscritti dagli Stati Uniti negli ultimi decenni sono stati approvati ricorrendo ad essa, inclusi il NAFTA (Accordo Nordamericano per il Libero Scambio) del 1994 e quelli più recenti, firmati nel 2011, con Colombia, Panama e Corea del Sud.
Il primo trattato che verrebbe probabilmente ratificato con la riapprovazione di questo procedimento accelerato è la Partnership Trans-Pacifica (TPP), in fase di negoziazione tra Washington e altri undici paesi asiatici, latinoamericani e dell’area del Pacifico. Più che un trattato di libero scambio tradizionale, il TPP risulta essere il tentativo di creare nella quasi totale segretezza un gigantesco spazio economico nel quale a dettare le regole sarebbe il capitale statunitense.
Sostanzialmente gli stessi principi di supremazia del business - in particolare di quello a stelle e strisce - stanno guidando poi i negoziati per la Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP) tra USA e Unione Europea, anch’essa potenzialmente coperta dalla TPA.
Oltre a creare condizioni favorevoli per le grandi aziende americane, questi accordi sono considerati come importanti armi strategiche, da qui l’impegno dedicato alla loro approvazione da parte della Casa Bianca. Nel TPP, da cui è esclusa significativamente la Cina, Washington vede uno strumento decisivo nella strategia di accerchiamento e contenimento di Pechino, mentre il TTIP è principalmente il tentativo di impedire l’integrazione economica tra l’Europa da una parte e la Russia e la Cina dall’altro, ancorando il vecchio continente agli Stati Uniti.
Gli stessi paesi che dovrebbero sottoscrivere questi trattati con gli USA attendono inoltre che alla Casa Bianca sia assegnata l’autorità prevista dal “Fast Track”, poiché in pochi accetterebbero di firmare un accordo che potrebbe essere modificato anche pesantemente dal Congresso.
I giornali americani hanno così parlato in questi giorni di fitte conversazioni telefoniche tra Obama e i membri del suo staff e i deputati democratici per convincerli a tornare sui propri passi e approvare la FTA.
Il presidente e lo “speaker” della Camera, il repubblicano John Boehner, sono poi in contatto per pianificare le prossime mosse. Una prima ipotesi potrebbe consistere in un nuovo voto sull’identica versione del provvedimento bocciato settimana scorsa, nella speranza che un numero sufficiente di deputati democratici ceda alle pressioni dell’amministrazione Obama. In alternativa, Boehner potrebbe cercare di convincere i suoi compagni di partito che hanno votato contro la TPA a cambiare idea, ma i circa 90 voti necessari sembrano essere al momento un ostacolo decisamente insuperabile.
Altre possibili manovre prevederebbero l’inserimento della TAA in una legge ad essa estranea ancora da approvare e che raccoglie un ampio consenso bipartisan. Tuttavia, una simile mossa rischierebbe di affondare anche quest’ultima se la resistenza ad approvare il provvedimento dovesse persistere.
Ancora, i vertici della Camera potrebbero programmare un nuovo voto solo sulla TPA e poi inviarla al Senato, dove dovrebbe essere nuovamente approvata, visto che sarebbe disgiunta dalla TAA. Al Senato, però, non ci sarebbero voti sufficienti a causa dell’assenza della misura destinata ai lavoratori penalizzati dai trattati di libero scambio. La Camera, in ogni caso, avrà tempo fino alla fine di luglio per trovare una soluzione allo stallo.
Lo scontro in atto a Washington ha comunque ben poco a che vedere con le conseguenze negative prodotte dall’approvazione del TPP o del TTIP per i lavoratori americani, nonostante a ciò facciano riferimento i politici che si oppongono alle politiche commerciali della Casa Bianca. Se scrupoli di questo genere vi sono, essi sono di natura puramente elettorale, mentre gli schieramenti venutisi a creare riflettono in realtà diversi interessi all’interno del business d’oltreoceano.
Da un lato, l’amministrazione Obama e la maggioranza dei repubblicani sembrano sposare la causa di settori come quello farmaceutico, dell’industria finanziaria e le grandi aziende esportatrici che hanno tutto da guadagnare dalla stipula dei trattati in fase di negoziazione. Dall’altro, invece, i democratici al Congresso e le associazioni sindacali sposano il punto di vista di quelle compagnie che sono state e che rischiano di essere danneggiate dalla competizione con altri paesi.
Che a Obama venga consegnata o meno dal Congresso l’autorità a gestire in autonomia le trattative sugli accordi di libero scambio, a fare le spese dell’ennesima crisi politica a Washington potrebbero essere proprio i lavoratori che hanno perso o perderanno il lavoro in seguito all’entrata in vigore del TPP o di accordi simili, visto che, in assenza di un’intesa tra democratici e repubblicani, i modesti benefit previsti dalla “Trade Adjustment Assistance” (TAA) saranno spazzati via con la fine dell’anno fiscale in corso.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
La visita di questa settimana in Italia del presidente russo, Vladimir Putin, ha confermato come i tentativi di isolare il Cremlino appaiano efficaci solo sulle pagine dei giornali “mainstream” in Occidente. La realtà dei fatti, al contrario, evidenzia una situazione più complessa, con vari paesi europei interessati a trovare una soluzione pacifica della crisi ucraina e, soprattutto, con la gran parte della popolazione del vecchio continente decisamente poco entusiasta delle aggressive politiche anti-russe promosse dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
Quest’ultima attitudine è stata dimostrata da un sondaggio di opinione pubblicato un paio di giorni fa dall’istituto americano Pew Research Center, il quale ha condotto un’indagine su un campione di oltre 11 mila persone in otto paesi NATO in aggiunta alla Russia e all’Ucraina. I risultati sono apparsi a tratti sbalorditivi, nonostante gli evidenti sforzi dei ricercatori di formulare i quesiti in modo da ottenere risposte favorevoli al punto di vista del governo USA.
Inoltre, l’indagine è stata condotta senza che il campione di popolazione fosse informato sui rischi reali di un possibile conflitto nucleare tra la Russia e l’Occidente, così che è possibile supporre che il sentimento anti-militarista nei paesi interessati sia ancora più radicato di quanto non risulti dal sondaggio in questione.
Il punto centrale dell’indagine era in sostanza l’opportunità di combattere una guerra “difensiva” da parte dei paesi NATO contro la Russia se quest’ultimo paese dovesse aggredire militarmente uno dei membri dell’Alleanza.
Oltre al fatto che lo scenario così dipinto da Pew Research capovolge la realtà, gli intervistati nella gran parte dei paesi hanno comunque mostrato di disapprovare anche un’eventuale guerra “difensiva”. Oltre la metà dei tedeschi, dei francesi e degli italiani è ad esempio contraria a un intervento a favore di un membro NATO attaccato, con percentuali rispettivamente del 58%, 53% e 51%.
Il caso della Germania è particolarmente significativo, visto che il governo Merkel, malgrado abbia mostrato talvolta un approccio più moderato alla crisi in Ucraina rispetto a Washington, è uno dei più convinti sostenitori del nuovo regime di Kiev. Allo stesso modo, la classe politica e i media tedeschi continuano a promuovere un’accelerazione militarista e a sostenere la necessità per il proprio paese di assumere un atteggiamento più aggressivo sulla scena internazionale.
Ciononostante, solo il 38% dei tedeschi intervistati considera la Russia come un pericolo per i propri vicini e addirittura un misero 29% attribuisce a Mosca la responsabilità delle violenze in Ucraina. Ancora più basso - 19% - è poi il numero dei favorevoli all’invio di armi NATO al regime ucraino per combattere i separatisti filo-russi.
Più in generale, in Germania il sentimento militarista della popolazione si è mosso in questi anni in maniera inversamente proporzionale all’orientamento della classe dirigente, passata ad esempio da un atteggiamento relativamente neutrale circa l’aggressione alla Libia di Gheddafi nel 2011 all’appoggio del colpo di stato in Ucraina tre anni più tardi. Il sondaggio di Pew evidenzia infatti come oggi il 55% dei tedeschi veda con favore la NATO, contro il 73% nel 2009.
L’ipotesi della fornitura di armi all’Ucraina per reprimere l’opposizione nelle regioni sud-orientali è vista con estremo sospetto anche in altri paesi. In Italia i contrari sono il 65% e i favorevoli il 22%, in Francia i numeri sono attestati rispettivamente al 59% e al 40%, in Spagna al 66% e al 25% e in Gran Bretagna al 45% e al 42%.
Solo negli Stati Uniti, in Canada e in Polonia, dove l’isteria anti-russa ha toccato livelli estremi in questi mesi, è stata rilevata una percezione diversa. In Polonia, ad esempio, il 70% degli interpellati ha affermato di credere che la Russia rappresenti una grave minaccia militare e circa il 50% appoggia l’invio di armi a Kiev.
Se i dati che indicano poi una chiara diffidenza della popolazione russa nei confronti della NATO e la crescente popolarità di Putin sono tutt’altro che sorprendenti, molto meno lo sono quelli relativi all’opinione degli ucraini sul loro governo appoggiato dall’Occidente.
Circa il 47% degli intervistati nel paese dell’Europa orientale è favorevole a una risoluzione negoziata della crisi, contro il 23% che predilige l’uso della forza. Ancora, il 57% degli ucraini non condivide la gestione degli eventi nell’est del paese da parte del presidente, l’oligarca Petro Poroshenko, mentre l’altro burattino dell’Occidente ai vertici del regime golpista, il premier Arseniy Yatseniuk, ha un indice di disapprovazione pari al 60%.
Il recente sondaggio di Pew Research è dunque un’altra prova devastante della condotta dei governi occidentali, i quali in Ucraina non hanno in nessun modo sostenuto una rivoluzione democratica né si trovano costretti a fronteggiare un’aggressione da parte russa.
In realtà, il rovesciamento a Kiev di un governo democraticamente eletto, seguito dall’instaurazione di un regime fortemente contaminato da elementi neo-fascisti, è risultato in una deliberata provocazione verso Mosca, la cui inevitabile reazione a difesa dei propri interessi e delle popolazioni filo-russe in Ucraina è stata sfruttata per avanzare piani militaristi in Europa orientale allo studio da tempo.
Interessanti almeno quanto l’esito del sondaggio sono apparsi infine i commenti di molti giornali americani. Emblematico è stato quello proposto dal New York Times, il cui reporter ha caratterizzato la disposizione anti-bellica della popolazione europea come una “sfida” per i governi a superare l’opposizione dei cittadini alle politiche guerrafondaie e non, come si richiederebbe a un sistema democratico, ad abbandonare le provocazioni e la corsa al militarismo.
Lo stesso quotidiano USA ha citato l’ex ambasciatore americano presso la NATO, Ivo Daalder, il quale ha acutamente osservato che “sarà necessario un impegno serio da parte dell’Alleanza per convincere il pubblico della necessità di prepararsi, scoraggiare e, se necessario, rispondere a un attacco della Russia”.
I governi occidentali, in definitiva, agiscono contro il volere della grande maggioranza della popolazione e, invece di adeguarsi a quest’ultima, agiscono sospinti da massicce operazioni di propaganda per ribaltare la realtà dei fatti e preparare iniziative militari che rischiano sempre più di scatenare una guerra dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il governo degli Stati Uniti ha deciso mercoledì un nuovo aumento del proprio impegno militare in Iraq per cercare di mettere in atto una strategia efficace nella guerra combattuta ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS). La notizia era rimbalzata già martedì sui giornali d’oltreoceano ed era stata anticipata dallo stesso presidente Obama durante il vertice dei G-7 conclusosi lunedì in Germania, dove aveva ammesso l’assenza di una “strategia americana d’insieme” nel paese mediorientale.
A distanza di un anno dalla clamorosa conquista della città di Mosul per mano dell’ISIS, l’organizzazione fondamentalista ha infatti ampliato la porzione di territorio nelle proprie mani sia in Iraq che in Siria, mentre le bombe “mirate” della coalizione guidata da Washington hanno fatto ben poco per arrestare il ritmo di reclutamento di nuovi combattenti.
Un nuovo campanello d’allarme per gli Stati Uniti e il governo di Baghdad era suonato lo scorso mese di maggio, quando gli uomini dell’ISIS erano entrati a Ramadi, la capitale della provincia occidentale di Anbar a poche decine di chilometri dalla capitale. Qui, le forze dell’esercito regolare iracheno si erano sciolte ancora una volta come neve al sole, rivelando la totale inefficacia del programma di addestramento e sostegno delle forze armate da parte degli USA.
L’amministrazione Obama e, in particolare, il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva successivamente attribuito la colpa della caduta di Ramadi e dell’avanzata dell’ISIS esclusivamente alla disorganizzazione e alla scarsa volontà di combattere dei soldati iracheni, senza assumersi alcuna responsabilità per il fallimento di un’operazione militare a cui partecipano svariati paesi.
In ogni caso, la necessità di assistere il governo dell’Iraq nel tentativo di riconquistare il territorio nelle mani dell’ISIS è ancora la giustificazione per la nuova escalation militare che si preannuncia. Washington intende occupare una nuova base militare nella provincia di Anbar, mentre nel paese giungeranno altri 450 soldati, tutti rigorosamente con l’incarico esclusivo di “addestrare” le truppe indigene.
Gli Stati Uniti hanno già più di tremila uomini in Iraq e, pur non essendo state loro attribuite funzioni di combattimento, risulta difficile credere che dietro alla strategia di Obama non vi sia uno sforzo per tornare in qualche modo a occupare questo paese, spostatosi sempre più sotto l’influenza iraniana dopo il ritiro della maggior parte delle truppe americane alla fine del 2011.
L’obiettivo immediato degli USA sarebbe quello di lanciare una campagna a breve per la riconquista di Ramadi, rimandando invece le operazioni relative a Mosul al prossimo anno. A questo scopo, ufficiali americani avevano operato una serie di sopralluoghi in basi militari nella provincia di Anbar, dove saranno appunto inviati i nuovi “addestratori”.
In questa stessa provincia ci sono peraltro già 300 marines americani, impegnati ad assistere le forze tribali sunnite che combattono contro l’ISIS. Nell’area, però, sono presenti anche alcune milizie sciite, sostenute dall’Iran, e non è chiaro se, come in altre precedenti occasioni, queste ultime saranno evacuate in seguito all’arrivo degli americani. Le milizie sciite, va ricordato, hanno rappresentato finora l’unica forza in grado di combattere con una certa efficacia contro l’ISIS in Iraq.
Il lancio di una nuova strategia USA è comunque la conseguenza dell’esito registrato finora di una campagna caratterizzata da ambiguità e contraddizioni, su cui si innestano oltretutto le pressioni contrastanti delle varie sezioni della classe dirigente americana in relazione alla promozione degli interessi di Washington in Medio Oriente.
Per il New York Times, ad esempio, i vertici del Comando Centrale USA con competenza sul Medio Oriente, vedevano come prioritario un intervento contro l’ISIS nella città di Mosul, mentre il Dipartimento di Stato ritiene fondamentale un concentramento degli sforzi nella provincia di Anbar, anche perché essa confina con due importanti alleati come l’Arabia Saudita e la Giordania.
Lo stesso capo di Stato Maggiore, generale Martin Dempsey, qualche settimana fa aveva affermato che la sorte di Ramadi, capitale della provincia di Anbar, non era determinante per il futuro dell’Iraq. Sempre Dempsey, poi, nella giornata di martedì nel corso di una visita in Israele ha avvertito che “non ci saranno cambiamenti radicali” alla strategia americana anti-ISIS.
La politica irachena e relativa all’ISIS degli Stati Uniti è ad ogni modo difficile da decifrare, risultando spesso agli occhi degli osservatori del tutto incoerente. Da un lato, l’amministrazione Obama teme realmente che i fondamentalisti possano travolgere il governo di Baghdad ma, allo stesso tempo, la loro presenza sta consentendo il ritorno in Iraq di migliaia di truppe americane.
L’avanzata dell’ISIS ha inoltre spaccato ancora una volta l’Iraq lungo le linee settarie, facendo in qualche modo gli interessi proprio degli Stati Uniti, i quali vedono da tempo con un certo favore il disgregamento dell’unità di questo paese in funzione di contenimento dell’influenza iraniana.
Una reale guerra contro l’ISIS sarebbe quindi controproducente per gli obiettivi americani, tanto più che, nonostante la retorica ufficiale, le forze del “califfo” Al-Baghdadi continuano a svolgere efficacemente il ruolo di forza d’urto contro il regime di Assad in Siria, la cui deposizione rimane l’obiettivo primario degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione.
In questo scenario caotico, quel che appare certo è che i rinforzi americani che giungeranno in Iraq non attenueranno in nessun modo il livello di conflitto attuale ma contribuiranno anzi ad alimentare un clima di violenza la cui responsabilità è da attribuire principalmente proprio al governo di Washington.
Oltre alle forze USA, poi, altri paesi alleati hanno già annunciato l’invio a Baghdad di propri soldati “istruttori”, come la Gran Bretagna o la stessa Italia, a cui dovrebbe essere assegnato un compito di primo piano nell’addestramento della polizia irachena.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
Alla presenza di circa 40 capi di stato e di governo e con aspettative decisamente positive, comincia oggi a Bruxelles la terza riunione tra l’Unione Europea e la Celac (Comunidad de Estados Latino Americanos y Caribenos), l’organizzazione latinoamericana che annovera tra i suoi membri ben 33 paesi del Centro e Sud America. Ricerca scientifica, scienza, istruzione a livelli universitari ed innovazione tecnologica sono alcune delle tematiche sulle quali si orienterà la volontà di approfondire ed ampliare il livello degli scambi tra le due entità, che raggruppano complessivamente 61 paesi e più di un miliardo di abitanti.
Nata nel 2011 su iniziativa dell’allora presidente venezuelano Hugo Chavez, la Celac - che rappresenta 600 milioni di persone e che non vede la presenza di Stati Uniti e Canada al suo interno - nel giro di pochi anni ha assunto un ruolo politico di primaria importanza, rivelandosi l’unica credibile rappresentanza politica dell’intera America Latina.
Non poteva essere altri se non Chavez, del resto, a dare vita ad un organismo che, nella finalità dichiarata di rappresentare l’integrazione e l’unità latinoamericana, raccoglie l’essenza del pensiero di Simon Bolivar. E il fatto che oggi 33 paesi vi si ritrovino a parlare con una sola posizione, assegna all’organismo una proiezione politica che supera in positivo le pur ovvie differenze tra le nazioni che la compongono.
Non a caso la presenza forte di paesi come Messico e Colombia si è perfettamente integrata con la presidenza cubana della Celac. E lo stesso dicasi per l’attuale presidenza affidata all’Ecuador, che Rafael Correa gestisce con grande decisione e senza cedimenti di natura politica, esercitando - così come fece Cuba nel suo periodo di presidenza - una leadership forte ed autorevole.
Sono paesi, Cuba ed Ecuador, che con il Venezuela, la Bolivia, il Nicaragua, l’Argentina, El Salvador, rappresentano il blocco di sinistra dello schieramento latinoamericano ma che, nel dispiegarsi dell’attività della Celac, trovano un proficuo intendimento anche con paesi come Messico, Colombia, Paraguay, Perù, Honduras e Panama, di tutt’altra inclinazione, o come Brasile, Cile e Uruguay, che rappresentano un’ulteriore e diversa identità politica.
L’assenza di Stati Uniti e Canada certifica la specificità latinoamericana come ricchezza identitaria e come progetto d’integrazione continentale. Con la Celac, l’America Latina ha trovato la giusta dimensione per la sua rappresentanza collettiva. Per risorse, popolazione, impatto sul PIL mondiale, l’America a sud del Rio Bravo ha oggi la forza e il peso di un continente. E, soprattutto, nella relazione con Usa, Canada ed Europa, la Celac consente ad ogni nazione latinoamericana di non sentirsi sola, pur lasciando il più ampio spazio alla relazioni bilaterali di ognuno dei suoi membri. Ognuno diverso, ma tutti insieme. Questa è l’essenza dell’organismo.
Attualmente il dialogo tra Ue e Celac è positivo, al punto che si è reciprocamente stabilita la necessità di una maggiore cooperazione per affrontare le sfide globali come il cambiamento del clima, il traffico di droga e il raggiungimento degli obiettivi del millennio stabiliti dalla FAO. E, a intrecciare (è il caso di dirlo) maggiormente i due blocchi, uno degli accordi che si prevede possano essere firmati in questa occasione riguarda un’intesa per una nuova connessione in fibra ottica destinata alle comunicazioni telefoniche ed informatiche.
Accordo che conferma un dato generale importante, che vede l’Unione Europea come primo investitore straniero nei paesi Celac e suo secondo socio commerciale, sebbene dall’America Latina verso l’Europa le esportazioni in questi anni siano diminuite, passando dal 24,6 per cento del 1990 al 13,6 del 2011. Il che si spiega con l'accresciuto scambio interno al subcontinente ed anche con lo spostamento di risorse verso l'interno di ciascun paese, nell'impegno di riequilibrare le differenze sociali e di ammortizzare lo squilibrio.
Fino a qualche anno fa lo schema di questi vertici tra Europa e Sudamerica poteva essere facilmente letto come la misura dell’aiuto economico che dal Vecchio continente veniva indirizzato verso l’America Latina. Un aiuto sempre fin troppo misurato, stretto tra l’utilità di tenere i piedi in un possibile mercato cui destinare le eccedenze e l’intenzione di non disturbare la manovre degli Stati Uniti sul subcontinente, nei confronti del quale la Dottrina Monroe continuava (e continua) ad essere il principio ispiratore del modello di relazione.
Anche l’Europa ha però dovuto adeguarsi alla nuova dimensione politica ed economica del continente latinoamericano. Come ha affermato il Presidente dell’Ecuador Correa, presidente di turno della Celac, l’America Latina non ha più bisogno di “carità per costruire una piccola scuola, ma di trasferimenti di tecnologia, di appoggi alla formazione dei propri talenti umani e di relazioni internazionali più giuste”.
Un cambio deciso di paradigma. Grazie alla vittoria del blocco democratico latinoamericano in diversi paesi del subcontinente, oggi l’America Latina è infatti una comunità di nazioni e popoli che vive un processo di trasformazione e di crescita economica e sociale in decisa controtendenza rispetto alla crisi violenta nella quale si dibatte l’Europa. E proprio sul piano della cooperazione e dell’integrazione latinoamericana, di cui la Celac è stata strumento indispensabile (sebbene non unico, basti pensare al ruolo straordinario dell’Alba e dell’Unasur in ordine alla dimensione comunitaria) l’Unione europea potrebbe apprendere l’utilità della cooperazione socioeconomica e politica, prima ancora che monetaria.
A testimonianza di quanto fatto nelle politiche inclusive, c’è l’assegnazione di riconoscimenti formali da parte della FAO verso i paesi membri dell’Alba (Alleanza Bolivariana per le Americhe) per aver raggiunto prima della scadenza prevista gli obiettivi del Millennio, ovvero la riduzione della fame e malnutrizione del subcontinente, passato dal 14,7 al 5,5 della popolazione. Il tutto nonostante la caduta del prezzo delle materie prime - petrolio fra tutte - che ha certamente danneggiato le esportazioni in divisa dei paesi latinoamericani, particolarmente Venezuela, Ecuador e Brasile e Messico (che però ha provveduto da solo ad una sorta di suicidio politico ed energetico attraverso la privatizzazione dell’industria petrolifera di stato, la Pemex ndr).
La relazione tra Unione europea e Celac risente ovviamente della necessità per l’Europa di ampliare la sua politica estera e approfitta anche di un peso degli Stati Uniti nel continente decisamente ridotto rispetto a due decenni orsono. Ciò non significa che l’Europa potrà mai sovrapporsi agli USA e men che mai sostituirli nella relazione d’interessi con il continente latinoamericano, ma è pur vero che Bruxelles avverte la necessità di superare vecchi steccati determinati da una divisione per aree d’influenza che non trovano più ragione nella globalizzazione dei mercati. E d'altra parte, visti i sempre più incisivi investimenti della Russia, della Cina e persino dell'Iran in America Latina, quelli europei agli occhi di Washington sono di gran lunga preferibili.
L’assenza di problematiche di tipo strategico e la garantita fedeltà a Washington, vengono interpretate da Bruxelles come premessa implicita nella relazione con il subcontinente, mentre da parte dell’insieme dei paesi latinoamericani, che da tempo ormai non chiedono agli Usa il permesso per sviluppare relazioni politiche e commerciali utili al suo sviluppo e di perseguire il multilateralismo come metodologia nell’approccio alle problematiche internazionali. In questo senso Bruxelles ha molto da imparare. I passi sono ancora brevi, l’incedere può apparire incerto. Ma la direzione è quella giusta.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Dopo tredici anni di potere ininterrotto e indiscusso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan potrebbe avere appena imboccato la parabola discendente della sua carriera politica in seguito al considerevole ridimensionamento patito dal suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) nelle elezioni parlamentari andate in scena nel fine settimana.
L’AKP è stato in realtà ancora una volta il partito che ha ottenuto di gran lunga il maggior numero di consensi, ma è passato da quasi il 50% del 2011 a circa il 41% odierno, con una perdita netta di tre milioni di voti. A causa di questa emorragia, il partito di Erdogan e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha fallito per la prima volta dal 2002 l’obiettivo di conquistare la maggioranza assoluta nel parlamento unicamerale turco, necessaria ad assicurare la creazione di un governo monocolore.
Soprattutto, il relativo rovescio patito dall’AKP è dovuto al superamento in maniera piuttosto agevole dell’anti-democratica soglia di sbarramento del 10% da parte del Partito Democratico Popolare (HDP) curdo, in grado di intercettare una fetta dell’elettorato di orientamento progressista, ostile alla deriva imposta al paese da Erdogan, al di là dell’appartenenza etnica.
Il primo partito curdo a entrare nel parlamento turco avrà un’ottantina di seggi, i quali sarebbero stati invece assegnati agli altri partiti, con l’AKP che ne avrebbe beneficiato maggiormente, se non avesse superato lo sbarramento.
Il risultato dell’HDP è la conseguenza del costante declino del partito del presidente, dovuto a una serie di fattori legati alla politica interna ed estera. Già nelle elezioni locali del marzo 2014, l’AKP aveva fatto segnare una flessione di quasi cinque punti percentuali rispetto alle politiche di tre anni prima, mentre la scorsa estate lo stesso Erdogan aveva evitato a malapena il secondo turno alle presidenziali.
Il malcontento ampiamente presente in Turchia verso il governo dell’AKP, sprattutto tra la popolazione secolare e delle principali città, era apparso evidente anche da una lunga serie di manifestazioni di protesta, iniziate nell’estate del 2013 per contestare un progetto urbanistico in un noto parco pubblico di Istanbul.
Il principale partito di opposizione - il kemalista Partito Popolare Repubblicano (CHP) - aveva però faticato a guadagnare consensi e anche nel voto di domenica ha registrato una leggera flessione, pur confermandosi attorno al 25%. Il quarto e ultimo partito in grado di superare il 10% è stato infine il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), salito a oltre il 16% dal 13% del 2011.
Se il premier Davutoglu nella serata di domenica ha sostenuto che i risultati del voto hanno confermato la forza dell’AKP, l’obiettivo di Erdogan era senza dubbio la conquista di una nuova solidissima maggioranza per imporre una riforma costituzionale che traghettasse la Turchia verso un sistema presidenziale.
Erdogan aveva infatti scommesso sulla sua popolarità lo scorso anno quando, da primo ministro, si era candidato a presidente, nonostante questa carica in Turchia preveda un ruolo largamente cerimoniale.
Per modificare a proprio piacimento la costituzione, l’AKP avrebbe avuto bisogno di ottenere almeno 330 seggi sui 550 totali dell’Assemblea di Ankara. Con una tale maggioranza avrebbe però dovuto sottoporre gli eventuali emendamenti a un referendum popolare, per evitare il quale i seggi su cui contare avrebbero dovuto essere 367. Alla fine, l’AKP non è nemmeno riuscito a toccare quota 276, cioè la soglia necessaria a governare in autonomia.
Il dato più preoccupante per Erdogan è rappresentato dal fatto che tutti i segnali di queste ultime settimane indicano come egli stesso sia stato la causa della consistente perdita di consensi del suo partito. Il presidente aveva d’altra parte accettato la trasformazione della campagna elettorale in una sorta di referendum su di lui e sulle sue mire di riforma costituzionale, partecipando attivamente a comizi pubblici nonostante il suo ruolo teoricamente super partes.
Dopo la diffusione dei risultati del voto, Erdogan è rimasto a lungo in silenzio prima di emettere un comunicato ufficiale, giunto solo nella tarda mattinata di lunedì. Il presidente è apparso cauto, invitando tutti i partiti a “valutare in maniera accurata e realistica” l’esito delle elezioni, dal momento che “nessun partito sarà in grado di formare autonomamente un governo”.
Per governare, l’AKP dovrebbe quindi trovare un accordo con un possibile partner. Il candidato naturale a entrare in una coalizione con Erdogan e Davutoglu è l’MHP ma il suo leader, Devlet Bahçeli, ha già escluso questa ipotesi, suggerendo singolarmente come l’AKP debba prima esplorare altre opzioni, vale a dire la possibilità di un governo con l’HDP o con lo stesso HDP e il CHP.
La situazione politica in Turchia si presenta comunque estremamente fluida e, secondo la legge, ci saranno 45 giorni di tempo per formare un nuovo governo, dopodiché, in assenza di sviluppi positivi, il presidente avrà la facoltà di indire una nuova tornata elettorale.
Media vicini all’AKP e alcuni esponenti di questo partito hanno già ipotizzato elezioni a breve ma simili dichiarazioni potrebbero essere solo un modo per fare pressioni sugli altri partiti, visto che un nuovo appuntamento con gli elettori rischierebbe di accelerare il declino di Erdogan e della sua formazione politica.
Se nel breve periodo Erdogan e l’AKP rimarranno le forze dominanti nel panorama politico turco, sono in molti a credere che le mire del presidente sulla costituzione per attribuire maggiori poteri alla sua carica siano state sconfitte. Ad affermarlo è stato anche il leader dell’HDP, Selahattin Demirtas, secondo il quale “il dibattito sulla presidenza, ovvero sulla dittatura, è finito” e la Turchia “ha evitato per poco il disastro”.
Secondo alcuni commentatori turchi, proprio l’abbandono delle velleità presidenzialiste di Erdogan potrebbe consentire la nascita di un governo di coalizione, verosimilmente con l’MHP, i cui vertici vedono con preoccupazione il già strisiciante ampliamento dei poteri messo in atto dall’ex premier.
Nei prossimi giorni sarà comunque interessante osservare le mosse di Erdogan, il quale deve avere già da qualche tempo preso in considerazione la seria possibilità di un ridimensionamento delle sue ambizioni di potere.
Il clima internazionale non troppo favorevole venutosi a creare attorno al governo del suo partito era infatti evidente. Alla vigilia del voto, ad esempio, il Wall Street Journal aveva dato voce alle inquietudini degli “investitori internazionali”, ansiosi di vedere ad Ankara la formazione di un governo stabile ma spaventati dalla possibilità che l’AKP potesse ottenere una supermaggioranza per cambiare a piacimento la costituzione.
Questa disposizione appare altamente significativa dei timori di un’accelerazione delle politiche impopolari perseguite da Erdogan e dall’AKP nell’ultimo decennio e, in particolare, in questi ultimi anni. La volontà del presidente di trasformare la Turchia in una potenza euro-asiatica e di provare a neutralizzare gli effetti del rallentamento dell’economia e delle contraddizioni della crescita impressa al paese ha infatti prodotto gravi tensioni interne, così come in Medio Oriente e nei rapporti con i tradizionali alleati.
In primo luogo, il ruolo del governo turco nella crisi della vicina Siria ha avuto effetti rovinosi. Ankara continua a sostenere l’opposizione armata al regime di Assad e, anzi, il proprio atteggiamento nei confronti di formazioni armate terroristiche è a dir poco ambiguo. Pur condividendo con gli Stati Uniti l’obiettivo finale del cambio di regime a Damasco, Erdogan viene visto con sospetto a Washington, da dove a partire dallo scorso anno almeno ufficialmente il nemico numero uno risulta essere lo Stato Islamico (ISIS).
La campagna anti-Assad dell’AKP è inoltre osteggiata dalla gran parte della popolazione turca e la permanenza di Assad al potere dopo quattro anni di guerra ha indebolito sensibilmente la posizione di Erdogan.
Sul fronte domestico, poi, i problemi per Erdogan sembrano essere altrettanto spinosi, come confermano i numerosi scioperi che continuano a essere organizzati in varie fabbriche del paese. Le note tendenze autoritarie del presidente e della sua cerchia, poi, si sono aggravate nell’ultimo periodo in concomitanza con l’atmosfera di crisi. Il giro di vite alla libertà di stampa si è concretizzato con la detenzione di decine di giornalisti, proprio mentre il governo e i vertici dello stato erano finiti al centro di una clamorosa indagine per corruzione.
Erdogan e i suoi avevano però attribuito le accuse a una cospirazione orchestrata dagli affiliati al movimento del “Gülenisti”, cioè i seguaci del predicatore in esilio volontario negli USA, Fethullah Gülen, ex alleato del presidente. Il governo aveva così scatenato una campagna per rimuovere i “Gülenisti” dalle forze di polizia, dai tribunali e dagli altri organi dello stato, suscitando ulteriori critiche per la propria attitudine anti-democratica.
In attesa degli sviluppi post-elettorali, a mettere pressioni su Erdogan e un AKP privato della maggioranza assoluta in parlamento è stata intanto la risposta dei mercati, con la borsa di Istanbul che nella giornata di lunedì ha aperto con un -8%, mentre la lira turca ha toccato il livello più basso mai registrato nel cambio con il dollaro prima di far segnare una lieve ripresa.
Se vi erano insomma apprensioni per lo strapotere di Erdogan, allo stesso modo negli ambienti finanziari internazionali stanno emergendo ora i timori per l’impossibilità di creare ad Ankara un esecutivo stabile che sia in grado di mettere in atto le “riforme” ritenute necessarie per far fronte a una situazione economica sempre più precaria.