di Michele Paris

Il terzo appuntamento della stagione delle primarie per i due principali partiti politici americani ha dato sabato indicazioni interessanti, contribuendo a chiarire i contorni della corsa alle nomination in vista del “Supermartedì” in programma il primo giorno di marzo. Ancora una volta, i sondaggi della vigilia hanno parzialmente fallito, se non nell’indicare i vincitori, quanto meno nel valutare le dimensioni del successo, andato, in casa Repubblicana, ancora una volta a Donald Trump, e, tra i Democratici, alla favorita Hillary Clinton.

Le primarie Repubblicane del South Carolina hanno dunque premiato il miliardario newyorchese con un margine di vantaggio superiore rispetto al previsto, nonostante le controversie che lo avevano coinvolto nei giorni scorsi. Trump aveva avuto ad esempio uno scambio di battute a distanza con Papa Francesco, il quale aveva suggerito che il candidato alla presidenza Repubblicano non sembrava avere inclinazioni cristiane viste le sue posizioni estreme sul tema dell’immigrazione.

Le rilevazioni ai seggi nello stato americano sud-orientale hanno anche rilevato come buona parte degli elettori che avevano deciso all’ultimo momento a chi assegnare il proprio voto avevano optato per un candidato diverso da Trump. Quest’ultimo ha invece raccolto il 32,5% dei consensi, infliggendo un distacco di esattamente dieci punti percentuali a coloro che di fatto sembrano essere rimasti gli unici due sfidanti per la nomination, ovvero i senatori di Florida e Texas, Marco Rubio e Ted Cruz, praticamente appaiati in seconda posizione.

La serata di sabato ha soprattutto segnato la fine della campagna di Jeb Bush, protagonista ancora una volta di una prestazione più che deludente dopo avere raccolto un misero 7,8%. Considerato a lungo nel corso del 2015 come il logico favorito, il fratello dell’ex presidente George W. Bush era in realtà tale solo per i media ufficiali, i vertici e i facoltosi finanziatori del Partito Repubblicano.

Della sua rinuncia dovrebbe beneficiare maggiormente Marco Rubio, ormai vicino a diventare il candidato unico dell’establishment di un partito che vede con timore l’eventualità che Trump o Cruz possano correre per la Casa Bianca a novembre. Le apprensioni per la vittoria della nomination di un candidato come Donald Trump sarebbero legate alle sue posizioni troppo estreme su varie questioni scottanti e che potrebbero quindi rendere complicata la raccolta di consensi al di là dell’elettorato Repubblicano, già di per sé non esattamente uniforme.

In realtà, le “sparate” di Trump e le opinioni espresse in campagna elettorale nella sostanza non sono quasi o per nulla differenti da quelle di un partito che ha fatto registrare una impressionante accelerazione verso destra nell’ultimo decennio. La paura dei suoi leader nei confronti di Trump è dovuta piuttosto al fatto che l’attuale “frontrunner” esponga in maniera troppo esplicita punti di vista di estrema destra e in odore di fascismo, così da diventare pressoché impresentabile sulla scena nazionale.

I dubbi Repubblicani su Trump dovranno ad ogni modo essere sciolti a breve. I suoi successi in New Hampshire e, ora, in South Carolina lo hanno decisamente lanciato al comando della corsa alla nomination, grazie anche alla strategia del suoi rivali, impegnati più che altro ad attaccarsi tra di loro per conquistare il ruolo di anti-Trump.

Un’eventuale offensiva contro Trump appare però tutt’altro che semplice e rischia anzi di trasformarsi in un boomerang. Il businessman di New York ha infatti costruito il suo vantaggio su una retorica populista e anti-establishment che ha mostrato tutta la sua efficacia proprio nel contrattacco alle critiche di rivali legati alla politica di Washington.

I suoi colleghi di partito, poi, non brillano per capacità politiche. Ted Cruz, inoltre, senza avere l’appoggio del partito si trova a dover competere per la stessa fetta di elettorato ultra-conservatore che ha mostrato di preferirgli Trump. Rubio, da parte sua, è un candidato costruito interamente a tavolino da una manciata di multi-miliardari che ne manovrano ogni singola mossa. Il 44enne senatore cubano-americano, però, con la rinuncia di Jeb Bush potrebbe incassare già nei prossimi giorni il sostegno politico e, soprattutto, economico dei sostenitori dell’ex governatore della Florida, consentendogli di giocarsi il tutto per tutto in una sfida che, in definitiva, continua a essere decisa dal denaro e dai media.

Se i Repubblicani si sono scontrati sabato in South Carolina, in questo stato i Democratici si presenteranno agli elettori sabato prossimo, mentre nel fine settimana sono stati impegnati nei caucuses del Nevada. Qui, Hillary Clinton partiva con un vantaggio che alcuni mesi fa aveva toccato i 40 punti percentuali sul senatore del Vermont, Bernie Sanders.

Il divario a favore dell’ex segretario di Stato di Obama è stato alla fine di poco più del 5% (52,7% a 47,2%), anche se superiore a molti sondaggi che indicavano una competizione ancora più equilibrata. A deciderne l’esito sono stati vari fattori, tra cui i principali sembrano essere la maggiore capacità organizzativa della campagna elettorale di Hillary, il cui staff è presente da un anno in Nevada, e l’appoggio precoce ottenuto dalle più importanti organizzazioni sindacali dello stato.

A giudicare dalla copertura mediatica della corsa alla nomination del Partito Democratico, poi, Hillary ha avuto un certo successo nel portare la sfida con Sanders sul terreno delle cosiddette “politiche identitarie”. Nelle ore immediatamente successive alla batosta del New Hampshire, la ex first lady aveva cercato cioè di sollevare la questione razziale e, in misura minore, quella delle discriminazioni di sesso.

La speranza era quella di indebolire il messaggio vincente del suo rivale, basato quasi interamente sulla lotta alle disparità sociali e di reddito. Con l’aiuto soprattutto della stampa e della galassia di commentatori e pseudo-intellettuali “liberal”, le differenze razziali sono così tornate a diventare il tema centrale del dibattito politico, quanto meno sul fronte Democratico, come se tali questioni fossero svincolate da quelle economiche e di classe.

In questo modo, Hillary e il suo team si sono garantiti la maggioranza dei consensi tra le minoranze in Nevada, anche se per quanto riguarda gli ispanici i dati appaiono contradditori se non favorevoli a Sanders. Gli afro-americani, piuttosto, hanno premiato la favorita Democratica e il loro voto potrebbe risultare decisivo nell’imminente appuntamento del South Carolina, dove comunque Hillary è accreditata da tempo di un vantaggio molto netto sul suo sfidante.

Sanders, da parte sua, ha provato a dare una lettura più equilibrata del risultato del Nevada, facendo notare come il recupero su Hillary sia stato comunque notevole e come la sua candidatura abbia raccolto consensi importanti in tutte le fasce sociali, razziali e di genere dell’elettorato.

La corsa del senatore del Vermont si fa però ancora più complicata in previsione del Supermartedì. Contro la sua candidatura sono schierati poteri fortissimi all’interno del Partito Democratico e negli ambienti che ruotano attorno ad esso. Sanders è in realtà un politico affidabile per la classe dirigente americana, come confermano i suoi trascorsi al Congresso da più o meno fedele sostenitore delle politiche Democratiche.

Tuttavia, la sua campagna elettorale incentrata sulla lotta contro Wall Street e le disuguaglianze sociali e di reddito sta generando grande entusiasmo tra i giovani e le fasce più disagiate della popolazione, minacciando potenzialmente di innescare un movimento politico indipendente che potrebbe sfuggire di mano e destabilizzare l’intero sistema politico-economico americano.

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