- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Quando nell’estate del 2013 il Parlamento di Londra fu chiamato a esprimersi sulla richiesta del governo Cameron di autorizzare l’aggressione militare contro il regime di Bashar al-Assad in Siria, il voto si risolse in una clamorosa sconfitta per il gabinetto conservatore-liberaldemocratico. I deputati britannici, riflettendo il diffusissimo sentimento anti-bellico nel paese, contribuirono di fatto a impedire un nuovo conflitto in Medio Oriente.
Ma a distanza di due anni è emerso come il governo abbia deciso di agire in maniera illegale e nella quasi totale segretezza, autorizzando la partecipazione delle proprie forze aeree alla campagna di bombardamenti guidata dagli Stati Uniti in territorio siriano.
Com’è noto, meno di un anno dopo la marcia indietro di Obama sulla guerra in Siria, il cui lancio doveva basarsi su accuse infondate rivolte a Damasco di avere utilizzato armi chimiche contro i “ribelli”, Washington avrebbe ugualmente avviato la propria offensiva nel paese mediorientale. La giustificazione, in questo caso, era stata il dilagare dello Stato Islamico (ISIS).
Nel settembre del 2014, il Parlamento britannico avrebbe dato a sua volta il via libera alla partecipazione delle proprie forze armate alla guerra aerea, ma solo ed esclusivamente in territorio iracheno. Il provvedimento approvato a Londra affermava, in maniera difficilmente equivocabile, che non veniva concessa alcuna autorizzazione a bombardare la Siria ma, per fare ciò, il governo avrebbe dovuto passare attraverso “un voto separato del Parlamento”.
La rivelazione che un certo numero di piloti britannici sono stati e continuano a essere coinvolti nella campagna di bombardamenti in Siria è giunta in seguito all’accoglimento di un’istanza presentata dall’organizzazione umanitaria Reprieve in base alla legge sulla libertà di informazione. Il Ministero della Difesa di Londra ha dovuto così ammettere che i propri uomini fin dall’autunno dello scorso anno avevano iniziato a partecipare a missioni di guerra ufficialmente proibite per le forze britanniche.
Inizialmente, una portavoce del premier aveva cercato di minimizzare la vicenda, sostenendo che fin dagli anni Cinquanta è “pratica comune” per il personale militare britannico partecipare a operazioni di guerra con paesi alleati. Dopo queste dichiarazioni era giunta però la conferma che Cameron era a conoscenza del fatto che soldati del Regno erano impegnati segretamente in operazioni aeree in Siria.
Lunedì, poi, il ministro della Difesa conservatore, Michael Fallon, è apparso alla Camera dei Comuni per rispondere alle domande dell’opposizione sulla questione dell’impiego di militari britannici in Siria. Nonostante le azioni del governo siano state palesemente ingannevoli nei confronti del Parlamento e dei cittadini, non solo Fallon ha potuto chiudere il suo intervento senza troppe difficoltà, ma ha rilanciato le intenzioni del suo gabinetto di intensificare l’impegno in Siria.
Il ministro ha ammesso che cinque piloti britannici hanno partecipato ai bombardamenti aerei in Siria contro l’ISIS e altri 75 soldati hanno preso parte a diverse operazioni militari in questo paese assieme agli alleati.
Fallon ha assicurato che le operazioni erano state preventivamente approvate dal governo e che sono rimaste regrete per “ragioni di sicurezza”. Se, però, al governo fossero state chieste informazioni in proposito da parte dei membri del Parlamento, ha aggiunto Fallon, “ogni dettaglio sarebbe stato certamente fornito”.
Le ragioni suggerite dal ministro della Difesa per avere preso una decisione illegale di estrema gravità sono state molteplici nel corso del suo intervento di lunedì, anche se nessuna legittima. Ad esempio, Fallon ha sostenuto che il voto contrario al governo nell’agosto del 2013 si riferiva a operazioni belliche contro le forze di Assad e non contro l’ISIS.
La campagna contro quest’ultima organizzazione sarebbe inoltre un altro motivo dell’impiego segreto di piloti britannici in Siria, visto che la Gran Bretagna - in questo caso con un voto favorevole del Parlamento - è parte integrante della coalizione messa assieme dagli Stati Uniti per combattere un nemico che opera in buona parte in questo paese.
Inevitabile è stato anche il riferimento alla recente strage in una località turistica della Tunisia, commessa da seguaci dell’ISIS, nella quale sono stati uccisi una trentina di cittadini britannici. Il colpo di genio di Fallon e del governo Cameron, però, è stato la giustificazione che le operazioni aeree a cui hanno partecipato i propri piloti non erano di iniziativa britannica, bensì delle forze alleate americane o canadesi, e ciò non comportava quindi la necessità di un’autorizzazione parlamentare.
Nonostante il fatto di avere agito in contravvenzione di ben due risoluzioni del Parlamento, né Fallon né tantomeno Cameron sono stati sfiorati da ipotesi di dimissioni. Gli stessi membri dell’opposizione, pur avendo espresso critiche più o meno deboli nei confronti del governo, non hanno sostanzialmente messo in discussione la posizione del ministro della Difesa.
La docilità dell’opposizione ha così contribuito al contrattacco del governo, intenzionato a non fare nessuna marcia indietro. Quando lunedì alla Camera è stato chiesto ad esempio a Fallon se la Difesa intendeva sospendere la partecipazione dei piloti britannici alle operazioni militari in Siria finché il governo non avesse ottenuto un voto favorevole del Parlamento, il ministro ha escluso categoricamente questa possibilità.
Anzi, il governo appare “determinato a impiegare tutte le forze a disposizione per fare ancora di più per combattere l’ISIS” in Siria. Secondo i media britannici, Cameron e Fallon potrebbero chiedere al Parlamento già in autunno l’autorizzazione per condurre incursioni militari “dirette” – ovvero interamente sotto il comando di Londra – contro l’ISIS anche in Siria.
Il primo ministro, parlando domenica al network americano NBC, ha ribadito la necessità di “distruggere il Califfato” in Iraq e in Siria ma, per quanto riguarda le operazioni in quest’ultimo paese, con l’accordo del Parlamento.
Il gabinetto conservatore è ben consapevole di avere agito nella completa illegalità e, pur affrontando la vicenda con un mix di arroganza e ostentata sicurezza, intende ricomporre la relativa frattura creatasi con il Parlamento per timore che altre decisioni unilaterali nell’ambito della guerra in Medio Oriente alimentino ulteriori sentimenti anti-bellici nella popolazione.
Il vero obiettivo del governo Cameron, in ogni caso, coincide con quello degli alleati americani in Iraq e in Siria, vale a dire l’intensificazione dello sforzo militare per rovesciare il regime di Assad, anche se dietro il paravento della lotta all’ISIS.
La classe dirigente di Londra, così come quella di Washington, non intende perciò accettare vincoli legali né l’opinione della popolazione nell’avanzamento dei propri interessi, tanto che alcune voci all’interno dell’establishment della sicurezza in Gran Bretagna già prospettano un’ulteriore escalation del conflitto in atto.
L’ex comandante delle forze armate del Regno, Lord Richards, solo qualche giorno fa ha ad esempio affermato in un’intervista alla BBC che una strategia efficace per sconfiggere l’ISIS dovrà prima poi includere il dispiegamento di truppe di terra.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Uno dei riflessi dell’accordo sul nucleare iraniano, siglato la scorsa settimana a Vienna e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU lunedì, è stata la reazione più o meno accesa degli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, preoccupati per le conseguenze strategiche vere o presunte del riavvicinamento tra Washington e Teheran. Israele e Arabia Saudita, in particolare, continuano a nutrire serie preoccupazioni sul ruolo da protagonista che la Repubblica Islamica potrebbe tornare a giocare nella regione, costringendo l’amministrazione Obama a intervenire con iniziative volte a placare le ansie degli inquieti alleati.
Non solo il fronte interno americano è apparso subito caldo all’indomani della firma dell’intesa nella capitale austriaca, con la maggioranza repubblicana al Congresso e parte dei democratici pronti a bocciare il testo dell’accordo, ma soprattutto il governo israeliano ha sparato a zero su quello che i giornali d’oltreoceano hanno definito come il principale successo in politica estera del presidente Obama.
Note sono ormai le sfuriate del premier Netanyahu, intervenuto più volte pubblicamente per condannare l’accordo di Vienna, bollandolo come uno “storico errore” e assicurando di essere pronto a morire pur di bloccarne l’implementazione. Lo stesso primo ministro è apparso anche in alcuni show domenicali negli Stati Uniti nel fine settimana, ribadendo le sue dichiarazioni deliranti circa il pericolo rappresentato dalla “macchina del terrore iraniana”.
Secondo Israele, l’accordo sottoscritto con il gruppo dei P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) dopo quasi due anni di negoziati consentirebbe alla Repubblica Islamica di proseguire i progetti per la costruzione di ordigni nucleari e di mettere le mani su oltre 100 miliardi di dollari congelati all’estero a causa delle sanzioni, con i quali potrebbe finanziare e armare forze nemiche di Tel Aviv, come Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza.
Decisamente più sommesse sono state al contrario le reazioni pubbliche della monarchia saudita, con poche voci che hanno esplicitamente criticato gli USA. Una di queste è stata quella dell’ex potente capo dei servizi segreti sauditi, Bandar bin Sultan, per il quale l’accordo sul nucleare permetterà all’Iran di “seminare il caos nella regione”.
Sia Israele sia l’Arabia Saudita sono evidentemente impegnati in un esercizio di rovesciamento della realtà mediorientale, dove a destabilizzare la regione e a generare caos e morte sarebbe Teheran e non i governi di questi due stessi paesi, alternativamente responsabili - assieme agli Stati Uniti - del massacro indiscriminato di civili palestinesi, della dissoluzione dello stato siriano, dell’aggressione contro lo Yemen e del proliferare di organizzazioni fondamentaliste.
Nel caso di Israele, oltretutto, l’iprocrisia sfiora l’incredibile, poiché questo paese, oltre ad agire regolarmente in violazione del diritto internazionale, possiede un numero imprecisato di armi nucleari non dichiarate e, a differenza dell’Iran, non ha mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione.
L’atteggiamento di Tel Aviv e Riyadh rischia dunque di ostacolare l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare ma, dal momento che per molti versi i disegni strategici dei due paesi coincidono sostanzialmente con quelli americani, gli Stati Uniti non possono che provare a ricucire gli strappi con entrambi. A questo scopo, lunedì ha preso il via la trasferta in Medio Oriente del segretario alla Difesa, Ashton Carter. La prima tappa di quest’ultimo è Israele, da dove raggiungerà la Giordania e, infine, l’Arabia Saudita.
Il viaggio di Carter è accompagnato dalle voci di un’offerta, fatta probabilmente dallo stesso Obama a Netanyahu nel corso di un colloquio telefonico la scorsa settimana, di consolidare la partnership tra i due alleati nell’ambito della sicurezza. In concreto, Washington intende placare la rabbia di Netanyahu con maggiori aiuti militari, secondo alcuni passando dagli attuali 3 miliardi di dollari all’anno a 4,5 miliardi.
L’amministrazione Obama teme che le manovre del governo di estrema destra di Tel Aviv possano riuscire a far naufragare l’accordo sul nucleare ora all’esame del Congresso americano, i cui membri saranno chiamati a votarlo entro 60 giorni. Inoltre, non del tutto da escludere continua a essere una possibile iniziativa militare unilaterale da parte di Israele contro le installazioni nucleari iraniane, con conseguenze difficili da calcolare.
Ad ogni modo, secondo quanto riportato dai giornali americani nei giorni scorsi, Netanyahu non appare ancora pronto a discutere i nuovi “aiuti” militari con gli alleati americani, ma preferisce appunto attendere l’esito del voto al Congresso sull’accordo con l’Iran.
Apparentemente più malleabili sembrano essere invece i vertici sauditi, forse non convinti dell’opportunità della soluzione pacifica della vicenda del nucleare iraniano ma ben disposti verso il rafforzamento dei legami militari con Washington. Già a maggio, infatti, Obama aveva ospitato a Camp David un summit con i rappresentanti delle monarchie assolute del Golfo Persico, confermando l’impegno americano per la sicurezza di queste ultime.
La settimana scorsa, poi, il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, si era recato a Washington per altre discussioni su questi argomenti che, prevedibilmente, saranno sull’agenda del numero uno del Pentagono nella sua imminente visita a Riyadh. Carter, da parte sua, alla vigilia della partenza per il Medio Oriente ha ricordato come “nelle 100 pagine [dell’accordo sul nucleare] non ci sia nulla che limiti gli Stati Uniti nella difesa dei propri alleati, incluso Israele”.
Come ha spiegato domenica il Wall Street Journal, infatti, gli USA starebbero valutando di accelerare “le forniture di armi ai paesi arabi del Golfo Persico”, nonché i “piani per sviluppare un sistema regionale integrato di difesa missilistica”.
A ciò vanno aggiunte anche le decine di miliardi di dollari spesi negli ultimi anni da questi stessi regimi per acquistare nuovi armamenti letali dagli Stati Uniti. Una vera e propria corsa al riarmo, quella in atto in Medio Oriente con il beneplacito di Washington, che stride fortemente sia con le intenzioni di pace manifestate dall’amministrazione Obama all’indomani della firma sull’accordo con l’Iran sia con l’ostinazione con cui gli USA e i loro alleati nei P5+1 hanno perseguito a Vienna il mantenimento dell’embargo sulle armi che pesa sulla Repubblica Islamica.
L’importanza assegnata dalla Casa Bianca ai rapporti con Israele e le monarchie del Golfo, in funzione della necessità di vedere ratificato l’accordo sul nucleare, è comunque evidente dagli sforzi diplomatici in atto. Dopo la trasferta di Carter, ai primi di agosto toccherà al segretario di Stato, John Kerry, fare visita agli alleati arabi, in preparazione dei probabili colloqui che il presidente Obama terrà a settembre con alcuni esponenti di questi ultimi – e forse con lo stesso Netanyahu – a margine dell’annuale Assemblea Generale dell’ONU.
Paesi come Israele e Arabia Saudita, come gli Stati Uniti e gli altri paesi impegnati nei negoziati di Vienna, sono perfettamente a conoscenza del fatto che l’Iran non stia sviluppando alcun programma nucleare a scopi militari, così che il loro agitarsi per far fallire l’accordo nasconde apprensioni di diversa natura.
Entrambi, cioè, paventano la scelta strategica americana in questo ambito perché un’eventuale distensione tra Teheran e Washington potrebbe determinare un ridimensionamento della loro posizione di principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, con tutte le conseguenze sfavorevoli che ne deriverebbero in termini di equilibri militari, politici e strategici.
L’amministrazione Obama è però determinata a mandare in porto l’accordo appena firmato, visto che l’esplorazione di un processo di allentamento delle tensioni con l’Iran è strettamente legata alle sfide immediate e future alla posizione dominante degli USA nel pianeta rappresentate da Cina e Russia e, ancor più, da una possibile integrazione economico-politica euroasiatica.
Una qualche riconciliazione con la Repubblica Islamica potrebbe comportare per il governo americano anche la neutralizzazione di un rivale importante, favorita dagli orientamenti relativamente filo-occidentali della leadership moderata del presidente Hassan Rouhani e del suo ministro degli Esteri, Mohammad Javaz Zarif, e il tentativo quanto meno di rallentare lo spostamento definitivo di questo stesso paese verso l’asse Mosca-Pechino in fase di formazione.
Per perseguire questo obiettivo, tuttavia, Washington dovrà muoversi con estrema cautela per non danneggiare in maniera irreparabile i rapporti con i propri alleati mediorientali, come ha già in qualche modo avvertito l’Arabia Saudita attraverso recenti accordi economico-militari negoziati con Mosca. Questo equilibrio precario ancora tutto da raggiungere, perciò, rende già da ora estremamente complicata la scommessa americana suggellata con il neonato accordo sul nucleare iraniano.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
I più recenti dati sullo stato dei finanziamenti delle campagne elettorali dei candidati alle presidenziali negli Stati Uniti per il 2016 hanno confermato il netto dominio dei grandi donatori assieme al ruolo decisivo svolto da organizzazioni che appoggiano “esternamente” i singoli aspiranti alla nomination dei due partiti. La competizione per succedere a Barack Obama sarà così con ogni probabilità la più costosa della storia americana, con un livello di spesa complessivo stimato dai media d’oltreoceano pari a non meno di dieci miliardi di dollari, ovvero circa il 40% in più rispetto al ciclo elettorale del 2012.
La candidata che, al secondo trimestre dell’anno, ha incassato la cifra maggiore in donazioni è stata Hillary Clinton con 45 milioni di dollari. Il primato dell’ex segretario di Stato è però limitato al denaro raccolto dalla sua organizzazione, mentre se si considerano sia i fondi raccolti direttamente dai candidati sia quelli che affluiscono alle cosiddette “Super PACs”, ovvero strutture nominalmente indipendenti ma che operano in favore di un determinato candidato, gli equilibri appaiono differenti.
In questo caso, a dominare la scena è il favorito repubblicano, Jeb Bush, il quale ha attualmente in dotazione più di 114 milioni di dollari, dei quali ben 103 raccolti dalla Super PAC che lo appoggia, “Right to Rise USA”. Nel caso di Hillary, la Super PAC affiliata alla sua candidatura - “Priorities USA Action” - ha finora raccolto “solo” 15,6 milioni, anche se, a detta del suo staff, la previsione è di mettere assieme una cifra tra i 200 e i 300 milioni di dollari.
Il predominio di Jeb Bush e Hillary Clinton nella raccolta fondi è dovuto principalmente ai legami familiari e politici delle due dinastie a cui i candidati appartengono con le élites economiche americane. I candidati in casa democratica e repubblicana che seguono i due “front-runner” risultano infatti molto lontani in termini di finanziamenti ottenuti. Nel primo caso, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha in mano 15 milioni di dollari e il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, poco più di 52 milioni.
Il divario tra il denaro raccolto direttamente dalle proprie organizzazioni e dalle rispettive Super PACs risulta cruciale per delineare il profilo dei candidati. Secondo le norme che regolano i finanziamenti elettorali negli Stati Uniti, durante il ciclo delle primarie ogni singolo donatore può versare un massimo di 2.700 dollari direttamente a un candidato, ma le Super PACs possono raccogliere donazioni virtualmente illimitate. Il vantaggio delle Super PACs nella raccolta fondi evidenzia dunque la prevalenza di finanziatori benestanti che possono staccare sostanziosi assegni praticamente senza limiti.
Ciò è il risultato della decisiva sentenza della Corte Suprema USA del 2010 nel caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” che ha cancellato ogni limite alle donazioni di privati e corporation alle Super PACs dei candidati a pubblici uffici. Questa decisione ha determinato un ulteriore aumento dell’influenza dei poteri forti sul processo politico negli Stati Uniti ed è stata seguita nell’aprile del 2014 da un’altra sentenza che va in questa direzione, poiché ha abolito il limite complessivo di 123 mila dollari che ogni donatore può destinare a candidati e partiti durante ogni ciclo elettorale.
Per quanto riguarda Jeb Bush, perciò, il suo successo nella raccolta fondi è dovuto in larga misura alla generosità di un numero relativamente ristretto di milionari e miliardari che hanno donato cifre enormi. La stessa Hillary Clinton, peraltro, nonostante la sua campagna prosegua la tendenza dei candidati democratici nel fare meno affidamento sulle Super PACs rispetto a quelli repubblicani, non sembra poter contare su una mobilitazione massiccia di piccoli donatori.
Del denaro finora elargito direttamente alla campagna della favorita democratica, solo il 17% è venuto da sostenitori che hanno donato un massimo di 200 dollari, mentre il 65% è giunto da potenziali elettori, evidentemente facoltosi, che hanno donato il massimo previsto per legge di 2.700 dollari.
Ancora più irrisoria è la quota di denaro ottenuta da Jeb Bush dai piccoli donatori che si possono permettere meno di 200 dollari, ovvero il 3%, contro oltre l’80% di sostenitori che hanno già raggiunto il limite federale.
Per Hillary Clinton e, soprattutto, per Jeb Bush, il profilo dei donatori appare tutt’altro che sorprendente. Entrambi appartengono a dinastie politiche ampiamente screditate, se non apertamente disprezzate, tra lavoratori e classe media negli Stati Uniti. Il loro status di favoriti e il successo nell’ambito della raccolta fondi a meno di sei mesi dall’inizio delle primarie è determinato perciò dalla possibilità di ottenere valanghe di denaro da pochi donatori con cui essi stessi o i loro familiari hanno stabilito proficui rapporti nel corso degli anni.
A fare affidamento su una manciata di ricchi finanziatori, quando non addirittura su un singolo benefattore, sono in ogni caso quasi tutti i numerosi candidati alla nomination, in particolare nel Partito Repubblicano.
Oscuri e spesso impopolari personaggi politici hanno così a disposizione decine di milioni di dollari per correre teoricamente per la Casa Bianca e ottenere ampio spazio sui media nazionali. Tra i repubblicani, dopo Jeb Bush, il candidato con il maggiore successo nel “fundraising” al 30 giugno scorso è Ted Cruz, con in mano un totale di 52,2 milioni, di cui 38 milioni (73%) raccolti dalla sua Super PAC.
A seguire c’è un altro senatore cubano-americano ma della Florida, Marco Rubio, il quale ha basato la sua corsa alla nomination, come praticamente tutta la sua carriera politica, sul sostegno dell’imprenditore miliardario Norman Braman. Rubio ha attualmente in mano quasi 44 milioni di dollari, 32 dei quali (73%) a disposizione della sua Super PAC e di una organizzazione “no-profit” che lo appoggia.
Ancora più eclatante è il modo in cui risultano determinanti i ricchi donatori per Rick Perry, l’ex governatore ultra-reazionario del Texas, già candidato alla Casa Bianca nel 2012, quando fu costretto ad abbandonare miseramente la corsa in seguito a una serie di gaffe e al sostegno praticamente nullo riscontrato anche tra le frange più estreme del Partito Repubblicano.
Perry ha raccolto direttamente per la sua campagna appena 1,1 milioni di dollari, ma tre Super PACs a lui affiliate hanno messo assieme quasi 17 milioni, cioè il 94% del totale dei contributi ottenuti finora.
Gli unici casi di candidati che hanno ottenuto almeno un limitato successo tra gli elettori comuni sono il democratico Bernie Sanders e, in misura minore, i repubblicani Rand Paul e Ben Carson. L’entusiasmo generato dal primo, veterano del Congresso nominalmente indipendente e talvolta auto-definitosi “democratico-socialista”, testimonia del desiderio tra la popolazione americana di un’alternativa realmente progressista all’attuale sistema politico dominato dai grandi interessi economico-finanziari.
Sanders, tuttavia, oltre ai suoi orientamenti non esattamente rivoluzionari, ha scelto di incanalare la voglia di cambiamento diffusa negli Stati Uniti verso il vicolo cieco del Partito Democratico. Ad ogni modo, l’unico vero rivale di Hillary non ha per il momento nessuna Super PAC che lo appoggia e i 15 milioni a sua disposizione sono giunti da piccole donazioni indirizzate direttamente all’organizzazione coordinata dal suo staff.
Il poco conosciuto Ben Carson ha un qualche seguito on-line tra i repubblicani, anche perché si presenta come una sorta di outsider, essendo un neurochirurgo e non un politico di professione. Nonostante ottenga attenzioni decisamente minori dai media nazionali, Carson ha raccolto in maniera diretta più di 10 milioni di dollari, praticamente la stessa cifra ottenuta senza l’aiuto delle Super PACs dal favorito Jeb Bush.
Il senatore del Kentucky di tendenze libertarie Rand Paul, infine, è attestato a 7 milioni di dollari dopo il secondo trimestre del 2015. Paul ha in realtà due Super PACs che lo sostengono ma non hanno ancora presentato i loro bilanci alla Commissione Elettorale Federale. A suo vantaggio ci sono soprattutto le campagne condotte negli ultimi anni contro l’invadenza dell’apparato di governo nella privacy degli americani, anche se gli attacchi al sistema portati da Paul vengono in gran parte da destra.
I numeri provvisori relativi ai finanziamenti elettorali negli Stati Uniti confermano dunque la realtà di un sistema politico totalmente bloccato, imperniato sullo strapotere dei ricchi americani, in grado di decidere successi e insuccessi dei candidati di entrambi gli schieramenti.
In questo scenario, è poco sorprendente che la metà o più degli americani non si rechi alle urne nemmeno in occasione di elezioni che attraggono un interesse smisurato da parte dei media, come le presidenziali. A determinare l’identità dei contendenti è infatti quasi sempre soltanto il denaro, mentre la scelta degli elettori, alla fine, si riduce a essere tra candidati virtualmente indistinguibili e al servizio dei poteri che hanno promosso e reso vincenti le loro costosissime campagne elettorali.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emy Muzzi
LONDRA. Una democrazia può morire in tanti modi. Può finire come quella italiana dopo il ventennio berlusco-fascista e una serie di governi tecnici non eletti, oppure come quella britannica: cinque anni di sistematico isolamento antieuropeo, campagne xenofobe, distruzione dello stato sociale, costruzione di un muro insormontabile tra classi ricche e povere, aiuti alle banche e negazione dei diritti base del cittadino a partire dal sostegno alla casa, all’istruzione e alle future generazioni.
Gli inglesi del resto, confermando a Cameron la guida di questa ex-democrazia alla quale fino a ieri il mondo guardava con ammirazione, come un paese che ha da insegnare al mondo in termini di principi democratici e welfare, questa fine se la sono voluta. Hanno creduto alle balle elettorali anti-immigrazione senza prendersi la briga di leggere i dati ufficiali che attestano l’afflusso di immigrati in Gran Bretagna come uno dei più bassi dell’Unione Europea.
Ma discriminare gli stranieri dà sempre a coloro che cercano di arricchirsi, a chi non ha studiato e non parla altre lingue che la propria, l’illusione di poter eliminare la concorrenza esterna, di poter fare carriera senza ostacoli e finalmente di poter fare i soldi. La verità è che i soldi li fa chi è già ricco e appartiene ad una lobby o chi ruba (le due categorie sempre più spesso coincidono). Gli altri, il 90 per cento della popolazione, sognano e votare i ricchi dà loro l’illusione che un giorno lo diventeranno anche loro. É il trucco delle ‘pseudo-democrazie mediatiche’ che puntano sulle leadership carismatiche. Il cerone e le balle di Cameron hanno funzionato.
Adesso la ‘finanziaria di regime’ e la faccia beffarda del cancelliere dello scacchiere Osborne se la devono beccare; se ne devono fare una ragione. Non si può, sempre e solo dare addosso alla politica, al sistema, all’establishment per paura di inimicarsi la gente (o i lettori). Non serve più. Di fronte a un regime che si appresta a diventare peggio del thatcherismo, è necessario parlare alla gente, a chi li ha votati e a chi no. Capire perché milioni di persone che hanno disperato bisogno di una casa, che non riescono a trovare un lavoro decente, che vorrebbero mettere su famiglia hanno votato i Conservatori, ovvero un’elite in malafede che ha raccontato loro per cinque anni che la giusta soluzione per aiutarli è uscire dall’Ue, eliminare gli immigrati, finanziare la guerra in Siria, sostenere le banche e la finanza.
In realtà a due mesi dalla vittoria che ha assicurato ai Tories la maggioranza assoluta per i prossimi cinque anni, Cameron si è già rimangiato la parola rivelando che in realtà non vuole un Brexit, mentre il ministro delle finanze Osborne ha dato agli elettori quello che hanno voluto: l’immobilità sociale e la fine di una democrazia storica.
Da Mercoledì 8 Luglio 2015, i giovani della Gran Bretagna, le future generazioni, le famiglie povere e della borghesia medio bassa sono ufficialmente fregati. Taglio agli ‘housing benfits’ per i giovani fino ai 21 anni (in sostanza, o si studia o si lavora per pagare l’affitto), sostituzione delle grants (borse di mantenimento allo studio) con i loans (prestiti) per fare un bel favore alle ‘student loans’ companies fallite e alle banche e contemporaneamente indebitare i giovani che dovranno ripagare i debiti (migliaia e migliaia di pounds) con gli interessi appena guadagnano due soldi: 21mila pound l’anno.
Il ‘sostegno’ Tories alle famiglie: i poveri non potranno avere più di due figli, aboliti i benefits dal terzo figlio in poi; è un modo per coltivare le future generazioni di ricchi ‘conservatives’ oppure, chissà, un omaggio al regime cinese che fino al primo ministro Hu Jintao obbligava le famiglie ad avere un solo figlio; forse l’anno prossimo Osborne perfezionerà la manovra finanziaria riservando i benefit solo ai figli maschi.
In compenso niente aumento su alcol, benzina e tabacco. E’ importante questo per i British poveri che hanno votato Tories nella speranza di diventare dei piccoli Lords: adesso possono ubriacarsi al pub, andare in ufficio in macchina e fumare una sigaretta sognando le case, e le cose, che non si potranno mai permettere, allo stesso prezzo dell’anno scorso.
Non è finita. Il Budget 2015 di Osborne nasconde nella tradizionale simbolica valigetta un’altra sorpresina: la riduzione della ‘corporation tax’ dal 20 al 18%, la più bassa del G20; una riduzione che secondo il ‘Chancellor of Exchequer’ porterà crescita e lavoro nel regno Unito; per ora è solo il via alla trasformazione del Regno Unito a paradiso fiscale per le multinazionali ed un inferno per gli inglesi.
In compenso Osborne ha aumentato il minimo sindacale introducendo il National Living Wage dagli attuali 6,50 pound fino a 7,20 nel 2017 e 9,00 nel 2020; ma questo ha un costo che viene pagato con il taglio allo stato sociale ed ha uno scopo ben preciso: quello di ‘fregare’ anche i sindacati e con essi il partito Laburista.
L’opposizione: inizialmente la leader ad interim dei Laburisti, Harriet Harman aveva opposto la manovra nel dibattito parlamentare. Poi si è rimangiata la parola. Ci ha ripensato: “Non possiamo fare opposizione a tappeto sulla manovra; dobbiamo prendere atto di quello che il paese vuole e delle motivazioni per cui la gente per la seconda volta non ha votato Labour: non si fidano di noi sul fronte dell’economia; non faremo pertanto opposizione sui tagli ai benefits dal terzo figlio in poi” ha dichiarato alla BBC.
I pretendenti al trono di leader del partito hanno, almeno per il momento, una posizione diversa: la ministra degli interni ombra, Yvette Cooper, accusa i Tories di aver mentito agli elettori promettendo durante la campagna elettorale che non avrebbero mai tagliato gli aiuti alle famiglie e ai figli. Secondo i dati forniti dalla Cooper che ha commissionato una ricerca alla House of Commons, i tagli sono due volte più pesanti per le donne rispetto agli uomini: del totale di 9,6 miliardi di sterline l’anno che le famiglie british si apprestano a pagare, 7miliardi peseranno sulle donne.
Andy Burnham, rivale della Cooper nella battaglia per la leadership, attacca il governo sulla divisione sociale e generazionale generata dai tagli selvaggi: “il national minimum wage parte dai 25 anni in su e taglia fuori i più giovani”. Inoltre, aggiungiamo noi, il progetto autoritario schiaccia i giovani sotto i 25, quelli non laureati, i quali hanno più bisogno di un aumento del salario minimo, mentre dai 25 anni in su milioni di laureati accedono a lavori medio alti dove lo stipendio minimo è già superato in partenza.
Un programma Tory sta procedendo come un carroarmato con la nuova proposta di legge anti-sciopero (Trade Unions Bill), un simpatico omaggio alla Thatcher: perché lo sciopero sia legale sarà necessario un minimo del 50% di partecipanti delle membership e un sostegno del 40% degli aventi diritto al voto in caso di sciopero nel settore pubblico.
Il disegno di legge stile 'Lady di ferro' prevede anche l’obbligo alla sostituzione dei lavoratori che scioperano, per non danneggiare il ‘business’: uno schiaffo ai lavoratori, al diritto del lavoro in sé, ma anche una sostanziale intimidazione dato che gli scioperanti verrebbero sostituiti da personale mandato da agenzie.
La lapidazione del diritto allo sciopero prevede anche un’altra sostanziale intimidazione: le cosiddette ‘picket lines’ non dovrebbero essere formate da più di 6 persone e sarebbe obbligatorio rendere noto il nome di uno dei membri del picchetto.
La TUC, Congresso delle Trade Unions, ha definito il disegno di legge un ritorno alla Germania degli anni ’30, tra l’altro in una fase in cui l’attività sindacale è al minimo storico. Proteste anche da Unite, il sindacato Labour, che per voce del segretario generale Len McCluskey annuncia battaglia contro un regime che “mette il sindacalismo fuori legge”.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’attesissimo accordo che dovrebbe mettere fine alla lunga contesa sul nucleare iraniano è stato finalmente siglato nella giornata di martedì dopo 18 giorni consecutivi di trattative e una serie di scadenze non rispettate. L’intesa è solo il primo passo di un lungo processo di implementazione di numerose condizioni, alcune delle quali accettate dai rappresentanti della Repubblica Islamica dopo essere state da essi stesse respinte nelle scorse settimane.
Sul piano generale, il nocciolo dell’accordo prevede che Teheran possa continuare a sviluppare un programma nucleare civile senza sopportare il peso di sanzioni internazionali in cambio di severe restrizioni imposte dai cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) e dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).
La data ultima prevista per il raggiungimento di un accordo doveva essere inizialmente il 30 giugno scorso ma persistenti contrasti su alcune questioni spinose hanno ripetutamente prolungato le trattative. Rivelazioni provenienti da Vienna al di fuori del circuito dei media ufficiali avevano evidenziato un chiaro irrigidimento della posizione degli Stati Uniti, intenzionati a chiedere concessioni maggiori all’Iran rispetto a quelle su cui le parti erano riuscite a convergere ai primi di aprile a Losanna.
L’amministrazione Obama aveva probabilmente sentito le pressioni dei “falchi” sul fronte domestico, contrari a qualsiasi accordo che non fosse una pura e semplice capitolazione dell’Iran, insistendo così sulla propria controparte per accettare termini decisamente penalizzanti.
Alla fine, come in molti avevano pronosticato, a prevalere è stata la volontà politica di mandare in porto un’intesa dalla portata strategica, ma anche economica, potenzialmente enorme. A giudicare dai dettagli circolati martedì, è sembrato l’Iran ad avere maggiore interesse in una soluzione pacifica della crisi, come ha indirettamente ammesso il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, il quale ha definito “storico” l’accordo da lui firmato ma evidentemente “non perfetto”.
Su due punti, in particolare, la volontà di Washington sembra avere prevalso. In primo luogo, la richiesta, apparentemente ferma, fatta nei giorni scorsi dalla delegazione iraniana di cancellare l’embargo sulle armi e sulla tecnologia missilistica non è stata accettata, almeno per il momento. La Reuters ha per prima riportato che il testo dell’accordo prevede il mantenimento per cinque anni dell’embargo sulle armi e per otto anni del divieto fatto all’Iran di acquistare tecnologia missilistica.
Le sanzioni economiche internazionali saranno poi eliminate, consentendo all’Iran di esportare petrolio liberamente e di utilizzare il sistema finanziario globale, ma viene fissato un meccanismo di “snapback” per ripristinare in maniera relativamente agevole le misure punitive finora applicate. Una speciale commissione internazionale, formata da USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Unione Europea e Iran, dovrà esprimersi in caso di presunte violazioni dell’accordo da parte di Teheran e il voto favorevole di una maggioranza semplice potrebbe riattivare le sanzioni entro 65 giorni.
Un altro aspetto delicato dell’accordo è poi l’accesso degli ispettori dell’AIEA alle installazioni militari iraniane. Il numero uno dell’agenzia, Yukiya Amano, ha annunciato martedì una “road map” sottoscritta con la Repubblica Islamica per avere l’autorizzazione a visitare i siti militari e, ufficialmente, fare chiarezza su eventuali test nucleari a fini bellici condotti in passato.
L’Iran, che aveva anche in questo caso escluso una simile eventualità, potrebbe non accordare il permesso di visitare i propri siti militari agli ispettori, anche se eventuali controversie su questo punto dovranno essere risolte dalla già citata commissione internazionale.
L’entusiasmo con cui Amano, notoriamente poco più che un burattino di Washington, ha salutato l’accordo con Teheran sulle ispezioni alle installazioni militari rende molto dubbia la buona fede dell’AIEA. Su tale questione è legittimo dunque sospettare che gli Stati Uniti si riservino la facoltà di minacciare ed esercitare ulteriori pressioni sull’Iran di fronte al minimo segnale di una presunta mancata collaborazione.
Per quanto riguarda il potenziale nucleare, l’Iran dovrà rispettare pesanti limitazione delle proprie capacità di arricchimento dell’uranio per 15 anni, dopodiché dovrebbe teoricamente veder sparire ogni vincolo. L’Iran, infine, si impegna a ridurre di ben due terzi il numero di centrifughe in funzione per l’arricchimento dell’uranio nell’impianto di Natanz. Il numero delle centrifughe che resteranno attive - poco più di cinquemila - risulta nettamente inferiore a quello ipotizzato dalle autorità iraniane, incluso l’ayatollah Ali Khamenei, nel recente passato.
L’accordo appena raggiunto a Vienna, pur non essendo un trattato vincolante, dovrà essere approvato dal Congresso degli Stati Uniti, i cui membri avranno 60 giorni di tempo per esaminarlo. Questa disposizione è il risultato di una legge approvata a Washington e firmata da Obama per cercare di ammorbidire l’opposizione a un’intesa con l’Iran ampiamente diffusa tra deputati e senatori di entrambi gli schieramenti, particolarmente sensibili alle pressioni israeliane.
La leadership repubblicana ha ribadito in questi giorni il clima ostile al Congresso per qualsiasi accordo, ma un eventuale voto contrario di Camera e Senato potrebbe essere neutralizzato dal veto di Obama.
Sull’intesa peseranno poi le manovre di Israele, da dove le prime reazioni nella giornata di martedì sono state nuovamente all’insegna dell’isteria. Il premier Netanyahu ha definito l’accordo un “pessimo errore di proporzioni storiche”, mentre inquietante è stato il commento affidato a un “tweet” dalla vice ministro degli Esteri, Tzipi Hotovely, la quale ha avvertito che “lo stato di Israele prenderà tutte le misure [possibili] per cercare di impedire l’approvazione dell’accordo”.
La decisione strategica presa dall’amministrazione Obama di sancire uno storico riavvicinamento all’Iran, sia pure tra dubbi e pressioni contrastanti, dovrà fare i conti con i riflessi negativi nelle relazioni non solo con Israele ma anche con le monarchie arabe sunnite del Golfo Persico, a cominciare dall’Arabia Saudita, che vedono con apprensione il ritorno del rivale sciita a svolgere un ruolo da protagonista nella regione mediorientale.
Come ha spiegato Obama in un messaggio televisivo trasmesso martedì, “l’accordo offre la possibilità di muoverci verso una nuova direzione”. Il riequilibrio strategico in Medio Oriente potrebbe infatti essere significativo, sulla spinta dei rapporti commerciali da ristabilire con un paese di 77 milioni di abitanti e con ingenti risorse energetiche.
La Casa Bianca ha dunque valutato più opportuno scegliere la strada diplomatica, non tanto, come ha affermato lo stesso presidente americano, per costruire “un mondo più sicuro”, bensì come opzione migliore per promuovere gli interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente e non solo.
L’aver messo relativamente in secondo piano le richieste di alleati tradizionali come Israele e Arabia Saudita per inseguire per quasi due anni un accordo con un nemico storico indica motivazioni fortissime dietro la disponibilità USA a siglare un accordo con la Repubblica Islamica. Motivazioni che vanno ricercate in varie direzioni e che sono legate, tra l’altro, a un possibile processo di transizione politica senza Assad in Siria, all’indebolimento dell’asse della resistenza sciita e, forse principalmente, al tentativo di impedire o rallentare l’integrazione dell’Iran con Russia e Cina.
Gli obiettivi che Washington intende raggiungere con un accordo sul nucleare che, a ben vedere, non ha mai riguardato veramente l’inesistente programma militare di Teheran, sono comunque tutt’altro che a portata di mano, non da ultimo a causa del declinante potere americano.
L’amministrazione Obama e l’apparato militare statunitense sono ben consapevoli delle difficoltà che si prospettano e, come dimostrano alcune condizioni comprese nell’accordo, gli USA non si trasformeranno nottetempo in un alleato dell’Iran, ma continueranno a mantenere alto il livello di pressione su questo paese per provare ad assicurarsi, per quanto possibile, un qualche allineamento di Teheran ai proprio interessi.
Per questa ragione, al di là delle complesse questioni tecniche che dovranno essere implementate a partire dalle prossime settimane, la retorica americana nei confronti dell’Iran potrebbe non cambiare di molto nell’immediato futuro, D’altra parte, solo pochi giorni prima della firma di un accordo che appariva ormai a portata di mano, il capo di Stato Maggiore americano uscente, generale Martin Dempsey, aveva indirizzato una nuova aperta minaccia militare contro l’Iran, ostentando i piani e le capacità belliche del suo paese, in grado di distruggere deliberatamente l’intero programma militare della Repubblica Islamica.