- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
Putin non scherza affatto. I raid aerei dell’aviazione russa in Siria colpiscono le postazioni islamiste e permettono all’esercito lealista di ricompattare i reparti. Obiettivo dei Sukhoy di Mosca sono sia l’Isis, che controlla la zona ad Est di Homs, sia le bande di Al-Nusra, frazione dissidente di al-Queda, addestrate dalla CIA, come ammette il senatore McCain. McCain sa di cosa parla, non solo per essere stato candidato alla presidenza USA, ma per essere l’incaricato di Obama per sovrintendere le operazioni di intelligence e militari in Siria.
Capziosa la presunta distinzione che Washington propone tra ISIS e Al-Nusra, le cui bande sono state protagoniste sin dall’inizio della guerra in Siria. L’irruzione dell’Isis sullo scenario siriano e iracheno ha certamente ridimensionato la centralità militare e politica degli islamisti al soldo della Casa Bianca, messa ulteriormente in crisi dalle frizioni interne al sottobosco islamista.
Ma questa dinamica, tutta interna al teatro di guerra, non modifica l’essenza della partecipazione di Al-Nusra nel conflitto, così come quella del cosiddetto Esercito libero siriano. Quest’ultimo, che non è un esercito (conta pochi aderenti) non è libero (dipende in tutto dall’occidente) e non è siriano, dal momento che vi operano diversi altri attori manovrati dall’Arabia Saudita) è stato un’invenzione politico-militare, così come l’Osservatorio sui diritti umani in Siria, con sede a Londra e foraggiato dal Mi-5 britannico, è stato il suo portavoce. Sono nomi diversi e frazioni diverse di una rete islamista voluta e sostenuta dall’Occidente per scalzare il governo siriano.
Per certi versi bizzarra la protesta di Washington che lamenta l’attacco agli uomini addestrati e pagati dalla CIA, come se Langley fosse un caposaldo dei diritti umani e della legittimità internazionale. Ma il frastuono che Francia (che bombarda senza ricevere proteste) e Stati Uniti alzano contro ipotetici oppositori siriani che verrebbero colpiti da Mosca allo scopo di rafforzare Assad, ha comunque il pregio di ricordare la verità sull’origine del conflitto.
Che si dimostra voluto, organizzato e finanziato da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e dalla monarchia saudita. Così come avvenuto in Libia e in Iraq, il rafforzamento delle organizzazioni terroristiche di stampo sunnita è stato il cuore dell’iniziativa politica e diplomatica di diverse capitali occidentali. Lo scopo era l’accerchiamento di Teheran e le vie per le quali si è proceduto sono state diverse, tutte destinate ad azzerare la catena di alleanze di Teheran in Medio Oriente; ovvero la Siria di Assad, gli Hezbollah libanesi, Hamas a Gaza, il governo sciita a Baghdad.
Obiettivo ultimo era quello di assegnare a Ryad il comando politico e militare sul Golfo e in Medio Oriente, che nella sconfitta sciita vedeva sia affermarsi la leadership religiosa sul mondo islamico che – più prosaicamente - quella economica, dal momento che l’isolamento di Teheran, la fine della Libia di Gheddafi, garantivano al petrolio delle monarchie del Golfo la supremazia assoluta sui mercati.
Il saldo positivo dell’operazione ha riguardato solo l’Irak, mentre sia Hezbollah che la Siria si sono dimostrati ossi decisamente duri da rodere. Il mutare dello scenario, che ha visto l’Isis, inventato a tavolino dagli Stati Uniti all’identico scopo rendersi autonomo e in qualche modo rivoltarsi contro il suo creatore (cosa già successa peraltro in Afghanistan con Mujaheddin e al-Queda).
Il progetto di califfato, sostenuto con armi e denaro dall’Arabia Saudita, si è andato via via consolidando e rafforzando e la fine del controllo di Washington su Al-Baghdadi, che nel frattempo ha riempito di orrore e minacce il Medio Oriente e lo stesso Occidente, ha obbligato Obama a cambiare rotta.
Nel frattempo, il raggiungimento dell’accordo con l’Iran ha reso non più strategico il suo ruolo per le strategie statunitensi; la riprovazione mondiale verso l’agire dei macellai del califfo ha reso prioritario la presa di distanza americana e le minacce dell’Isis anche contro gli USA hanno completato il quadro della rottura.Ci si potrebbe domandare come sia possibile che in quattro mesi gli Stati Uniti non abbiano chiuso la partita con Al-Baghdadi. Come sia possibile, cioè, che un esercito privo di aviazione e contraerea, di mezzi corazzati e intelligence militare, sia riuscito a mantenere sostanzialmente indenni i suoi reparti.
La risposta non è difficile, per quanto amara. Gli Stati Uniti hanno deciso di non schiantare l’Isis, non volendo azzerare militarmente le forze che ritengono possano in qualche modo rivelarsi funzionali in caso di cambiamenti repentini sul terreno.
Prova ne sia che la reazione militare statunitense contro l’Isis è stata a dir poco blanda se paragonata alla storia militare recente delle guerre a stelle e strisce. Basta mettere a confronto quantità e qualità delle operazioni aeree con i precedenti impegni dell'America nelle guerre in Medio Oriente e nei Balcani.
Durante la prima guerra del Golfo, gli Stati Uniti effettuavano in media 1.125 attacchi aerei al giorno. In Kosovo, circa 135 al giorno. Nel 2003, sempre in Iraq, nella campagna chiamata "colpisci e terrorizza" i raid Usa erano in media 800 al giorno. Contro l’Isis, invece, solo 14 al giorno.
Troppo pochi per sperare di fermare il Califfo in marcia verso Baghdad. Non solo. Secondo il senatore John McCain, “il 75% dei piloti tornano alla base senza aver utilizzato tutta la potenza di fuoco, e questo a causa di ritardi nella catena di comando". Gli stessi piloti USA hanno denunciato che "per ricevere l’autorizzazione ad attaccare un obiettivo Isis, sono necessari anche 60 minuti". Un'enormità che avrebbe fatto sfuggire più di una volta l'obiettivo da centrare, trattandosi soprattutto di unità militari di fanteria motorizzata.
Gli USA sembrano quindi non voler annientare l’Isis anche perché probabilmente ritengono che avere un attore di quel calibro possa rivelarsi come uno straordinario strumento di pressione sull’universo sciita, sia per tenere viva la minaccia militare su Hezbollah, sia nel caso Teheran non confermi le sue intenzioni riconciliatorie o cerchi di allungare le mani sull’Irak.
I russi, invece, attaccano sul serio e colpiscono. Naturalmente fanno il loro interessi. Intendono difendere le basi militari di Latakia (aerea), quella di Jableh, dove hanno dei sottomarini, e il porto di Taurus, dove Mosca ha una sua base navale. Eredità di un’alleanza strategica della ex Unione Sovietica con la Siria di Assad padre, il legame tra Mosca e Damasco non è mai venuto meno e la presenza militare russa (unica al di fuori dei suoi confini) è questione che Putin non intende discutere né sul piano politico e diplomatico, men che mai su quello militare.Mosca peraltro, che è a conoscenza della presenza di circa tremila combattenti di origine caucasica nelle file del califfato, ha già dimostrato nella guerra in Afghanistan prima e in Cecenia poi come ritiene di dover affrontare l’espansionismo militare islamista.
Putin ha quindi proposto a Stati Uniti ed Europa una coalizione internazionale per aggredire la minaccia del califfato, sfidando le capitali occidentali a dimostrare militarmente quanto affermano politicamente. Lo Zar, inoltre, non fa mistero di essere disposto a sporcarsi le mani in Siria anche tenendo a mente un miglioramento complessivo delle relazioni con l’Occidente che porti a breve-medio termine a riconsiderare le sanzioni sull’Ucraina.
Ma lo sfondo sul quale la strategia di Putin vuole inserirsi è più ampio; prevede un ruolo di primo piano di Mosca nella cogestione della governance internazionale, non riconoscendo ai soli Stati Uniti il ruolo di gendarme unico mondiale.
Ruolo, quello degli USA, ormai in discussione per manifesta incapacità, visti i disastri prodotti nei diversi scenari internazionali. E, comunque, non più corrispondente ad un mondo multipolare nel quale l’irruzione nella scena economica e politica di interi continenti non può rimanere senza un’adeguata compartecipazione alla governante globale. Questo, prima ancora che la sorte dei suoi uomini in Siria, preoccupa Washington.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con un’iniziativa di grande coraggio, i dipendenti di Fiat-Chrysler (FCA) negli Stati Uniti hanno respinto in maniera molto netta il nuovo contratto di lavoro recentemente negoziato tra la dirigenza della compagnia e il sindacato autombilistico UAW. La bocciatura potrebbe segnare una tappa importante nella mobilitazione dei lavoratori americani in questo settore dopo decenni di sconfitte e pesanti concessioni, anche se i vertici del sindacato sono già al lavoro per aggirare l’opposizione incontrata nelle fabbriche e far digerire un contratto che soddisfi, in primo luogo, le esigenze dell’azienda.
La proposta di contratto era stata annunciata a metà settembre nel corso di un’eccezionale conferenza stampa congiunta tra l’amministratore delegato di FCA, Sergio Marchionne, e il presidente di UAW, Dennis Williams. In quell’occasione, entrambi avevano sottolineato come l’azienda e il sindacato avessero una visione sostanzialmente identica e, evidentemente, divergente da quella dei 36 mila dipendenti.
Il contratto era stato poi sottoposto ai leader delle sezioni locali del sindacato e il voto tra i lavoratori organizzato in fretta e furia, in modo da impedire una lettura integrale del testo e l’allargarsi del dibattito sui contenuti.
Nelle ultime due settimane, però, i lavoratori di un impianto dopo l’altro in tutti gli Stati Uniti hanno sonoramente bocciato il contratto promosso da UAW, sia pure di fronte alle pressioni dello stesso sindacato, dei vertici dell’azienda, dei politici e dei media ufficiali. I dati definitivi sono stati diffusi giovedì. I “no” sono stati complessivamente il 65%, anche se in alcune fabbriche la percentuale ha superato agevolmente il 70% e in almeno due casi addirittura l’80%.
Soltanto in pochissimi impianti a prevalere è stato il “sì”, tra cui uno solo tra quelli ritenuti più importanti, il Warren Truck, nell’area metropolitana di Detroit. Qui, tuttavia, molti lavoratori hanno chiesto un riconteggio dopo avere denunciato scorrettezze nelle operazioni di voto.
Ad ogni modo, era dal 1982 che i lavoratori di Fiat-Chrysler e, in precedenza, di Chrysler, non respingevano un contratto negoziato da UAW. Già nel 2011, peraltro, gli operai specializzati di Chrysler avevano bocciato la proposta di contratto ma il sindacato, andando contro le sue stesse regole, aveva deciso ugualmente la ratifica.
L’esito registrato quest’anno è l’inevitabile risultato dei malumori diffusi tra la grande maggioranza degli iscritti dopo anni in cui UAW ha collaborato con l’azienda nell’implementare condizioni di lavoro sempre più dure, così come ripetuti attacchi alla sicurezza economica e alla certezza di una dignitosa copertura sanitaria.
Inoltre, i lavoratori di FCA, ma anche quelli di Ford e General Motors (GM), non vedono un adeguamento dei loro stipendi da un decennio, nonostante le tre compagnie siedano su una montagna di profitti dopo la ristrutturazione promossa dall’amministrazione Obama nel 2009.
La bocciatura del contratto è dunque la conseguenza di una serie di fattori che hanno contribuito al peggioramente delle condizioni di vita dei lavoratori, non solo nel settore dell’auto. I giornali americani hanno però evidenziato come a far pendere l’ago della bilancia per il “no” sia stato il mancato rispetto della promessa, fatta da UAW nel 2011, di mettere un tetto al numero di lavoratori con il livello più basso di retribuzione.In FCA, in particolare, questi ultimi costituiscono ben il 40% della forza lavoro e percepiscono tra i 16 e i 18 dollari l’ora, contro i 28,5 di quelli in azienda da prima del 2007. Nel contratto da poco negoziato, UAW e FCA si erano accordati per un percorso pluriennale per portare gradualmente gli stipendi più bassi a un massimo di 25 dollari, senza eliminare l’odiato sistema dei “due livelli” ma, di fatto, istituendone un altro con vari livelli retributivi.
L’altra questione scottante prevista dal nuovo contratto e fortemente avversata dai lavoratori è poi la fine dell’assistenza sanitaria garantita dall’azienda. FCA e UAW avevano concordato un piano per il trasferimento di tutti i lavoratori su un fondo cooperativo gestito dal sindacato stesso e che da qualche tempo offre l’assistenza sanitaria ai pensionati del settore automobilistico.
Questa soluzione, che comporta un aumento delle spese sostenute dai lavoratori e un peggioramento di quantità e qualità delle cure, è particolarmente gradita all’azienda, poiché permetterebbe di risparmiare sensibilmente sui costi sanitari per i dipendenti.
Tanto più che la riforma sanitaria di Obama prevede a breve una super-tassa a carico delle aziende sui cosiddetti piani assicurativi “Cadillac”, ovvero quelli più costosi ma che, in realtà, forniscono ai lavoratori e alle loro famiglie nient’altro che coperture adeguate.
Ancora, se il nuovo contratto prevede una generica promessa da parte di FCA di investire 5,3 miliardi di dollari negli impianti in territorio americano nei prossimi cinque anni, a prevalere sono state le giustificate preoccupazioni per i progetti dichiarati dell’azienda di stravolgere le linee di produzione in varie fabbriche, con la minaccia di trasferire alcuni modelli in Messico.
I lavoratori hanno così rimandato al mittente la proprosta di contratto, facendo prevalere la solidarietà e il desiderio di lottare per condizioni complessivamente migliori su incentivi offerti per piegare la loro resistenza. Tra di essi ci sono un bonus di tremila dollari legato alla ratifica del contratto e altre somme una tantum vincolate al raggiungimento di obiettivi di qualità e produzione, nonché ai profitti dell’azienda.
Senza dubbio scosso dal risultato del voto, il presidente di UAW, Dennis Williams, ha incontrato giovedì i rappresentanti sindacali delle varie fabbriche FCA per pianificare le prossime mosse. A detta degli osservatori, sarebbero possibili tre opzioni: il ritorno al tavolo delle trattative con Marchionne, la proclamazione di uno sciopero per fare sfogare la rabbia dei lavoratori o il congelamento dell’accordo con FCA per passare al negoziato con Ford o GM.
In tutti e tre i casi, l’intenzione di UAW non è in nessun modo quella di ottenere un contratto sensibilmente migliore, bensì di conquistare un qualche spazio di manovra per forzare un nuovo voto e ottenere un’approvazione tramite un mix di intimidazioni, minacce di chiusure e licenziamenti, propaganda e, tutt’al più, qualche concessione trascurabile.
Il negoziato con Ford e GM potrebbe in particolare produrre un contratto leggermente più favorevole ai lavoratori, viste le migliori condizioni economiche di queste due compagnie rispetto a FCA e il numero minore di dipendenti al livello retributivo più basso di cui dispongono.
In ogni caso, numerosi editoriali apparsi nei giorni scorsi sui giornali “mainstream” d’oltreoceano hanno mostrato sorpresa se non sbalordimento per la presa di posizione dei lavoratori contro UAW. In particolare, l’apprensione riguarda il possibile contagio della rivolta contro UAW ai lavoratori di Ford e GM e, più in generale, per la crescente incapacità da parte dei sindacati di svolgere le funzioni a loro assegnate nel sistema capitalistico e che consistono nel contenimento del conflitto sociale e nel dissipare le resistenze all’implementazione delle decisioni di azionisti e dirigenti.Il quotidiano Detroit News, ad esempio, ha riassunto l’attitudine della classe dirigente USA verso i dipendenti dell’industria automobilistica, messi in guardia dal fare “richieste eccessive”. Williams, al contrario, avrebbe compreso come la soluzione più idonea alla questione del contratto, “senza mettere l’azienda a rischio”, sia “un aumento moderato degli stipendi unito alla condivisione dei profitti”.
Dove UAW avrebbe sbagliato, in definitiva, non è nell’assecondare sostanzialmente le esigenze dei vertici della compagnia contro gli interessi dei suoi iscritti, ma nell’avere orchestrato un’inefficace operazione di propaganda per “vendere” l’accordo, lasciando spazio agli oppositori che hanno dominato il dibattito, specialmente sui social media.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
La conquista dell’importante città afgana di Kunduz da parte dei Talebani nella giornata di lunedì ha rappresentato una grave umiliazione sia per il governo di Kabul sia per le forze di occupazione guidate dagli Stati Uniti. Nonostante quasi 14 anni di guerra, centinaia di migliaia di truppe impiegate e di dollari spesi per sostenere un regime-fantoccio filo-occidentale, per la prima volta dal 2001 i Talebani sono riusciti a strappare al controllo governativo uno dei capoluoghi delle province in cui è suddiviso il paese centro-asiatico.
L’azione delle forze talebane ha ancora una volta messo in luce in maniera impietosa lo stato delle forze di sicurezza afgane, armate e addestrate dall’Occidente. Queste ultime potevano contare infatti su circa tremila uomini a Kunduz, ma sono state sopraffatte da poche centinaia di guerriglieri integralisti.
Da qualche tempo, la città settentrionale che conta 300 mila abitanti era stata circondata dai Talebani, i quali, dopo avere “liberato” le aree del centro, hanno costretto i soldati dell’esercito regolare a rifugiarsi presso l’aeroporto, a sua volta teatro di un’accesa battaglia in queste ore. Anche la primavera scorsa i Talebani avevano tentato di prendere Kunduz, ma in più di un’occasione erano stati respinti dall’esercito in collaborazione con alcune milizie locali.
La notizia del rovescio ha subito attivato i vertici delle forze NATO di occupazione, costretti a inviare truppe per difendere l’aeroporto di Kunduz e a cercare di riconquistare l’intera città. Il deteriorarsi della situazione ha fatto registrare così l’aperta violazione dei termini dell’intesa tra Kabul e Washington, secondo la quale le rimanenti forze di occupazione dal primo gennaio di quest’anno non possono essere più impiegate in operazioni di combattimento.
Un portavoce della “coalizione” occupante ha però sostenuto che l’intervento a fianco dell’esercito afgano rientrerebbe negli incarichi tuttora consentiti alle forze NATO, poiché l’operazione in corso sarebbe di natura “difensiva”. Secondo un ufficiale delle forze armate locali, a Kunduz starebbero combattendo un centinaio di membri delle Forze Speciali USA, assieme a un certo numero di soldati americani e di altri paesi non meglio identificati.
Tra martedì e mercoledì, poi, le forze NATO hanno condotto alcune incursioni aeree contro i Talebani, anche se il presidente afgano, Ashraf Ghani, ha escluso per il momento una campagna sostenuta di bombardamenti aerei a causa del rischio di vittime civili in un’area urbana come quella di Kunduz.
Già martedì sono circolate notizie relative alla riconquista di vari edifici strategici della città da parte delle forze governative. Un ufficiale americano sentito martedì dal Washington Post ha allo stesso modo assicurato che i Talebani saranno cacciati da Kunduz in poche settimane e che l’operazione avrebbe solo uno scopo propagandistico per dimostrare la loro resistenza.
Altre fonti, soprattutto afgane, non sembrano essere però altrettanto ottimiste. Un funzionario governativo residente a Kunduz, ad esempio, ha avvertito che la riconquista della città richiederà un’operazione su vasta scala, cosa non agevole, per lo meno senza il supporto attivo delle forze NATO, viste le condizioni in cui versa l’esercito di Kabul.Anzi, la stampa americana ha avvertito mercoledì del pericolo di un effetto domino, con la vicina provincia di Baghlan in pericolo di cadere nelle mani dei Talebani. Qui, la popolazione avrebbe cominciato ad abbandonare le proprie abitazioni nel timore che il governo possa perdere il controllo. Per il momento, i Talebani hanno consolidato le loro posizioni nel nord della provincia, ostacolando seriamente il transito dei rinforzi dell’esercito diretti a Kunduz.
Se i Talebani al loro ingresso a Kunduz lunedì hanno annunciato che non ci sarebbero stati saccheggi o esecuzioni sommarie, il bilancio in pochi giorni è già significativo, con più di 30 morti e oltre 200 feriti, di cui la gran parte civili.
La beffa patita da Kabul e dalla NATO a inizio settimana è resa ancora più pesante dal peso strategico di Kunduz, una località situata in un’importante area agricola dell’Afghanistan e crocevia tra Asia orientale e occidentale, ma anche settentrionale e meridionale. Inoltre, il blitz è giunto a poche settimane dalla diffusione della notizia della morte del Mullah Omar che, secondo molti osservatori, avrebbe dovuto avere effetti negativi sulla resistenza talebana.
La facilità con cui i Talebani sono entrati in città lunedì ha immediatamente scatenato polemiche sia a Kabul sia a Washington. Il governo afgano e il presidente Ghani sono finiti sotto accusa per l’incompetenza del governatore della provincia di Kunduz e delle forze di sicurezza stanziate in quest’area nel nord del paese.
Il gabinetto afgano è d’altra parte estremamente fragile, con una coalizione mediata dagli Stati Uniti che vede la condivisione teorica del potere tra il presidente e il secondo classificato nelle ultime elezioni presidenziali, Abdullah Abdullah. Proprio quest’ultimo, la cui base di potere è tra le etnie Tagika e Hazara nel nord del paese, si trovava alle Nazioni Unite nella giornata di lunedì e nel suo discorso di fronte all’Assemblea Generale ha chiamato in causa il Pakistan, invitando il governo di Islamabad a fare di più per combattere i fondamentalisti che trovano rifugio oltre confine e sferrano i propri attacchi in Afghanistan.
L’occupazione talebana di Kunduz giunge d’altronde in un momento estremamente delicato per l’evoluzione del panorama afgano. Oltre ai riflessi negativi su questo paese delle imprese belliche e delle manovre strategiche americane, a cominciare dal possibile arrivo anche in Afghanistan di un certo numero di guerriglieri dello Stato Islamico (ISIS), a rendere più precaria la situazione è il continuo stallo dei negoziati tra il governo di Kabul e la leadership talebana.
La difficoltà anche ad avviare una qualche discussione è dovuta in buona parte alle esitazioni proprio del Pakistan, i cui dubbi sono legati a questioni strategiche più ampie. Islamabad, anche se fin dal 2001 ha rinunciato ufficialmente ad appoggiare i Talebani, continua a vedere questi ultimi come un’arma per esercitare la propria influenza sul vicino Afghanistan.
Tale questione risulta tanto più scottante alla luce del ruolo sempre più importante giocato a Kabul dall’India, ovvero l’arcirivale del Pakistan. L’impegno di Delhi in Afghanistan è favorito dagli Stati Uniti, impegnati a costruire un’alleanza strategica con l’India nell’ambito dell’offensiva diplomatica e militare volta a isolare la Cina.Le scelte strategiche dell’amministrazione Obama sembrano dunque far passare in secondo piano l’alleanza già di per sé complicata con il Pakistan, generando a Islamabad sospetti e inquietudini che, a loro volta, stanno determinando, da un lato, un rafforzamento dei tradizionali legami con la Cina e, dall’altro, un disinteresse nel processo di pace in Afghanistan.
Negli Stati Uniti, infine, la caduta di Kunduz ha ridato prevedibilmente fiato ai “falchi” dell’interventismo a stelle a strisce. I leader repubblicani al Congresso, in particolare, hanno in primo luogo criticato la decisione di Obama di procedere con il ritiro delle forze di combattimento dall’Afghanistan a fine 2014.
Secondo questa prospettiva, la disastrosa situazione del paese occupato dal 2001 sarebbe cioè la conseguenza di un impegno insufficiente e non della devastazione provocata da quattordici anni di guerra per sottomettere un’intera popolazione agli interessi dell’imperialismo americano.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Con una presa di posizione straordinaria e fortemente rivelatrice, qualche giorno fa un anonimo generale britannico in servizio ha prospettato in un’intervista al Sunday Times di Londra una possibile rivolta delle forze armate nell’eventualità di un futuro governo guidato dal neo-leader laburista, Jeremy Corbyn. Se il Partito Laburista dovesse vincere le elezioni del 2020 e Corbyn, la cui agenda politica teorica è considerata di “estrema sinistra”, diventare primo ministro, secondo il generale si verificherebbero “dimissioni di massa ad ogni livello” nelle forze armate e, ancora peggio, ci si troverebbe di fronte alla “reale prospettiva di un evento che risulterebbe di fatto un ammutinamento”.
La descrizione di quanto potrebbe accadere il giorno dopo l’insediamento di un governo Corbyn continua con scenari da colpo di stato. “Si assisterebbe”, prosegue l’alto ufficiale britannico, “a una significativa rottura delle convenzioni, con i generali che sfiderebbero Corbyn pubblicamente e in maniera diretta su questioni di importanza vitale”.
Lo stesso generale elenca poi alcune di tali questioni, come la liquidazione del programma “Trident”, relativo al mantenimento e allo sviluppo dell’arsenale nucleare britannico, “l’uscita dalla NATO” e i progetti per “indebolire e ridurre il numero delle forze armate”.
Se Corbyn dovesse prendere iniziative in questo senso, “l’Esercito semplicemente non lo accetterebbe”. Lo Stato Maggiore, cioè, “non permetterebbe a un primo ministro di mettere a rischio la sicurezza di questo paese” e si ricorrerebbe a “qualsiasi mezzo per impedirlo, con le buone o con le cattive”. In defintiva, conclude il generale, “non è possibile mettere nelle mani di un ribelle la sicurezza di un paese”.
L’identità del generale, come già ricordato, non è stata fornita ma il Sunday Times ha fatto sapere che si tratta di un ufficiale che ha svolto servizio in Irlanda del Nord negli anni Ottanta e Novanta. Il Ministero della Difesa ha da parte sua diffuso una blanda dichiarazione di condanna delle parole del generale, descrivendo “inaccettabile” il fatto che un ufficiale rilasci commenti di natura politica su un potenziale governo futuro.
Il Ministero ha però deciso di non aprire un’inchiesta per identificare il responsabile delle dichiarazioni al Sunday Times, in quanto ciò sarebbe impossible visto l’elevato numero di generali. In realtà, la scelta sostanzialmente di ignorare l’intervista e le minacce di golpe appare deliberata, allo scopo di non irritare i militari.
Dopo i tagli di questi anni alla Difesa, in effetti, oggi in Gran Bretagna restano appena un centinaio di generali in servizio e ancora meno sono quelli che hanno servito in Irlanda del Nord negli anni Ottanta e Novanta.A queste già gravissime dichiarazioni, il Sunday Times ha aggiunto le rivelazioni dei vertici dei servizi di intelligence, anch’essi protetti dall’anonimato. Questi ultimi “si rifiuterebbero di sottoporre a Corbyn le informazioni relative a operazioni in corso”, viste le sue “simpatie per i terroristi”. Il riferimento, in questo caso, è a dichiarazioni rilasciate tempo fa da Corbyn, il quale in un particolare contesto si era riferito a Hamas e a Hezbollah come “amici”.
Il giornale londinese prosegue poi sostenendo che nessun membro nella “comunità dell’intelligence consegnerebbe a Corbyn, o a chiunque nel suo gabinetto, informazioni che preferirebbe non dare”, mentre “qualsiasi informazione decidesse di fornirgli sarebbe di carattere generale” e dipendente “dalla sua avversione per i servizi di sicurezza britannici”.
L’articolo pubblicato dal giornale di Rupert Murdoch rientra nell’ambito di una campagna di discredito diretta contro la leadership di Jeremy Corbyn, eletto a grandissima maggioranza dai membri e da simpatizzanti del Partito Laburista un paio di settimane fa. Presentatosi con un’agenda marcatamente progressista, Corbyn è stato subito preso di mira dagli ambienti di destra britannici, ma anche dalla maggioranza “centrista” e fedele a Tony Blair del suo stesso partito.
A questo scenario va ascritta anche la notizia, riportata sempre dal Sunday Times e rimbalzata sul resto della stampa, che almeno la metà dei membri del governo-ombra appena nominato da Corbyn intende votare, contro le indicazioni di quest’ultimo, a favore di una risoluzione che il governo Cameron si appresta a presentare al parlamento per l’autorizzazione ai bombardamenti contro lo Stato Islamico (ISIS) in territorio siriano.
L’attitudine di Corbyn e della fazione a lui fedele all’interno del “Labour” è apparsa comunque evidente dalle reazioni decisamente sottotono alle dichiarazioni minacciose dell’anonimo generale. Inoltre, sotto pressione, Corbyn ha più volte assicurato che, in quanto leader del Partito Laburista ed eventualmente primo ministro, non intende perseguire a tutti i costi i progetti di riforma dell’apparato della sicurezza nazionale britannica promessi.
Per il bene e l’unità del partito, insomma, il neo-leader laburista appare più che disposto al compromesso, sia pure di fronte a un nettissimo spostamento a sinistra dell’elettorato che gravita attorno al suo partito e della popolazione in generale. A conferma di ciò vi è anche la nomina a ministri-ombra di numerose personalità della destra del partito.L’articolo del Sunday Times è ad ogni modo un chiarissimo avvertimento e rivela la disposizione della classe dirigente britannica nei confronti di chiunque, dall’interno o dall’esterno, minacci la propria posizione e i propri interessi. I militari, in questo caso, sembrano pronti a rompere con le regole democratiche per evitare deviazioni dalle politiche atlanticiste e pro-business sposate dalle élite del Regno, nonostante la crescente opposizione a esse tra la popolazione.
Questo scivolamento verso forme di governo sempre più autoritarie era stato preannunciato, tra l’altro, solo qualche settimana fa con la diffusione della notizia che, nel mese di agosto, le forze armate di Londra avevano portato a termine l’assassinio extra-giudiziario di due cittadini britannici in Siria, presumibilmente membri dell’ISIS, con un missile lanciato da un drone.
L’eccezionale rivelazione non aveva praticamente suscitato alcuna reazione di sdegno tra la stampa e la classe politica, nonostante non solo l’esecuzione fosse stata decisa dall’esecutivo in gran segreto e senza il coinvolgimento di un tribunale, ma le stesse forze armate non disponevano nemmeno dell’autorizzazione del Parlamento a condurre operazioni belliche in territorio siriano.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Lo scandalo delle emissioni truccate dei motori diesel installati sulle auto della Volkswagen sta assestando un colpo pesantissimo alla credibilità e alla situazione economica del colosso tedesco. Esploso negli Stati Uniti, il caso si è rapidamente allargato fino a includere le vetture vendute praticamente in tutto il pianeta, con l’amministratore delegato della compagnia, Martin Winterkorn, costretto a un’umiliante ammissione pubblica di responsabilità.
Winterkorn ha rassegnato le proprie dimissioni nella giornata di mercoledì, affermando di accettare la responsabilità per le “irregolarità riscontrate nei motori diesel”, ma dichiarando la sua estraneità ai fatti. Tra i possibili sostituti, la stampa tedesca ha citato il numero uno di Porsche, Matthias Müller, o quello di Audi, Rupert Stadler.
L’inganno rilevato dall’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente americana (EPA) ha a che fare con un software installato sulle auto diesel che determina una riduzione delle emissioni inquinanti durante i test di laboratorio, mentre in modalità normale queste stesse emissioni aumentano fino a 40 volte.
Se, ad esempio, l’Unione Europea riconosce che le auto possono in generale inquinare di più rispetto ai dati rilevati nelle prove di emissione, quanto fatto da Volkswagen appare una vera e propria truffa. I modelli interessati risultano essere, tra gli altri, Passat, Golf, Jetta e Beetle, ma anche Audi A3.
La manipolazione dei dati sulle emissioni aveva l’obiettivo di rendere i modelli Volkswagen più appetibili sul mercato, in particolare su quello americano, dove i limiti sono più stringenti rispetto all’Europa e i motori diesel risultano decisamente meno diffusi.
L’attivazione del meccanismo che consente di limitare le emissioni durante la guida può infatti provocare effetti non particolarmente graditi a molti automobilisti, come una riduzione dell’accelerazione del veicolo o l’aumento della rumorosità e dei consumi.
Inizialmente, i livelli ingannevoli di emissione sembravano dover riguardare circa mezzo milione di auto vendute solo negli Stati Uniti, ma l’azienda ha dovutto ammettere che tutti i veicoli con un motore modello EA-189, ovvero 11 milioni, sono equipaggiati con lo stesso software.
A seguito dell’indagine dell’EPA, svariati altri paesi hanno annunciato iniziative, come l’Italia, la Germania, la Francia e la Corea del Sud. Sempre negli USA, anche i procuratori di alcuni stati, tra cui quello di New York, stanno creando commissioni d’inchiesta sulla vicenda, mentre il senatore democratico della Florida, Bill Nelson, ha chiesto alle agenzie federali di regolamentazione di intervenire per tutelare i possessori delle auto Volkswagen.Il danneggiamento dell’immagine della Volkswagen appare particolarmente significativo, poiché l’azienda tedesca è riuscita a conquistare una posizione di assoluto rilievo nel mercato automobilistico mondiale grazie alla reputazione di qualità e affidabilità dei propri modelli, in media più cari rispetto a quelli dei concorrenti.
Le responsabilità interne a Volkswagen non sono ancora chiare. Winterkorn è sembrato assegnare la colpa della truffa ad altri non identificati dirigenti della compagnia. L’amministratore delegato, prima delle dimissioni, aveva parlato di “gravi errori di alcuni” e promesso sia di collaborare con le autorità sia di condurre un’indagine interna sui fatti che hanno portato alla falsificazione dei test di emissione.
Winterkorn è tuttavia considerato un tecnico esperto e non un manager con una formazione finanziaria. In quanto tale, il “CEO” pare avesse il controllo di tutti gli aspetti tecnici dei veicoli realizzati dalla sua azienda.
La posizione di Winterkorn, nonostante il raddoppio delle vendite e il triplicarsi dei profitti negli ultimi otto anni, non era peraltro saldissima nemmeno prima dell’esplosione dello scandalo. Quest’anno, Winterkorn era stato infatti al centro di una lotta interna di potere con l’allora numero uno del Consiglio di Sorveglianza della compagnia, Ferdinand Piëch.
Alla fine, la famiglia Porsche, che detiene la maggioranza di Volkswagen, aveva appoggiato Winterkorn, costringendo Piëch alle dimissioni. Proprio venerdì il Consiglio avrebbe inoltre dovuto riunirsi per allungare di altri due anni il contratto del manager 68enne.
Le ripercussioni finanziarie su Volkswagen potrebbero essere dunque consistenti. L’azienda ha già fatto sapere di avere messo da parte 6,5 miliardi di euro - pari a sei mesi di profitti - per far fronte alle spese legali e ad altri costi legati allo scandalo. I giornali americani hanno poi ipotizzato che il governo potrebbe decretare una sanzione fino a 18 miliardi di dollari. Il titolo Volkswagen, intanto, nei primi giorni della settimana è letteralmenre crollato, spazzando via oltre 25 miliardi di dollari di capitalizzazione.
La vastità dello scandalo appena emerso ha spinto molti a dubitare del fatto che Volkswagen sia l’unica casa automobilistica ad avere manomesso deliberatamente i livelli di emissione. A questo scopo, i governi che si sono mossi in questi giorni hanno annunciato indagini simili anche sui modelli delle altre compagnie.
Ad ogni modo, la truffa di Volkswagen non rappresenta un’eccezione nel settore automobilistico, nel quale anzi gli episodi che hanno visto le varie compagnie impegnate nell’architettare inganni per limitare i costi o evitare guai legali sono innumerevoli e, spesso, con conseguenze molto gravi.
Uno degli scandali più recenti è ad esempio quello cha ha coinvolto General Motors (GM) negli Stati Uniti, dove la compagnia di Detroit ha per anni occultato un difetto all’accensione di vari modelli. In milioni di automobili la chiave poteva facilmente ruotare e causare lo spegnimento del motore, lasciando il guidatore senza nessun controllo sulla vettura.
Il difetto, ben noto ai vertici della compagnia, ha provocato almeno 124 morti e centinaia di feriti. Proprio pochi giorni fa, il dipartimento di Giustizia americano ha annunciato un accordo con GM che prevede il pagamento di una multa di soli 900 milioni di dollari, mentre nessun dirigente subirà conseguenze penali.Sempre negli USA, il fornitore giapponese di air-bag Tataka è stato al centro di una causa legale per il funzionamento errato di questo dispositivo. Anche in questo caso era stato registrato un accordo con il governo di Washington. Tataka ha dovuto richiamare oltre 30 milioni di automobili dopo che il difetto era costato la vita a sei persone, di cui cinque in America.
In più di un’occasione, infine, Toyota - cioè la rivale di Volkswagen per il primato nel numero di auto vendute nel mondo - è stata costretta a richiamare milioni di veicoli a causa di un malfunzionamento che provocava improvvise accelerazioni fuori dal controllo del guidatore.
Nonostante i sensibili progressi tecnologici del settore automobilistico di questi anni, dunque, gli incidenti provocati dal cattivo funzionamento delle vetture o gli elevati livelli di emissioni e inquinamento persistono in tutto il mondo, molto spesso, come conferma il caso Volkswagen, a causa del comportamento deliberato delle stesse case automobilistiche.
La feroce competizione sui mercati e la subordinazione alle ragioni del profitto di qualsiasi miglioramento tecnico implementato sembra in definitiva impedire uno sviluppo razionale e sicuro dell’industria automobilistica.