di Fabrizio Casari

Grazie alla determinazione di Papa Francesco, è finalmente stato dichiarato Beato Monsignor Oscar Arnulfo Romero. La messa officiata nella sua San Salvador, di fronte a 300.000 fedeli, in parte giunti da diversi paesi del centro-sud America, ha così chiuso i conti con i ritardi, le omissioni e le opposizioni aperte e nascoste che hanno operato in ogni modo affinché l’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero rimanesse solo una vittima. Invece fu molto più che una vittima, fu un martire.

Uomo dai radicati principi conservatori, Romero venne profondamente influenzato dall’osservazione di quanto avveniva in El Salvador negli anni ’80. Nel paese centroamericano, proprietà di 14 famiglie latifondiste che usavano il ferro e il fuoco per contenere le rivendicazioni sociali dei contadini, i militari e le bande paramilitari che dal latifondo venivano finanziate, s’incaricavano di mantenere le distanze tra la miseria e l’opulenza attraverso la diffusione su larga scala del terrore.

Lo spettro che agitavano era il comunismo, ma ciò di cui avevano paura era la fine della paura. E quell’uomo di chiesa, così devoto al suo credo spirituale e, proprio per questo, così attento alla lettura autentica del Vangelo, si occupava di ridurre la paura nei deboli, diventando così un nemico pericolosissimo per il potere.

E sebbene Romero non aderì mai all’impostazione evangelica e politica proposta dalla Teologia della Liberazione, non vi è dubbio che la constatazione quotidiana delle sofferenze del suo popolo di fronte alla repressione del regime genocida aveva in qualche modo messo in discussione i suoi precedenti convincimenti, lo aveva spinto verso un'interpretazione del suo sacerdozio diversissima da quella che avrebbe immaginato.

Monsignor Romero proponeva un ordine sociale più equo. Si sentiva - giustamente - il pastore delle sue anime e il difensore degli oppressi e provò a stabilire per la chiesa un ruolo di mediazione con il governo. Riteneva che l’influenza che la chiesa poteva esercitare su un paese così profondamente cattolico, potesse essere spesa anche sul piano diretto della difesa di un popolo vessato e massacrato da un regime che non era nemmeno in grado di concepire un esercizio del potere che non fosse ispirato dal terrore.

Monsignor Romero venne assassinato perché aveva scelto il sacerdozio con spirito di servizio verso il suo popolo. La sua lealtà alla Chiesa di Roma non venne mai messa in discussione, però comprese rapidamente come le scelte del Vaticano in America Latina configuravano una strettissima alleanza con le dittature militari in nome del comune obiettivo di lotta all’emancipazione sociale e, nel contempo, alla diffusione della Teologia della Liberazione che dalle istanze liberatrici si nutriva e che a sua volta alimentava.

I militari e il latifondo ebbero chiaro come, omelia dopo omelia, i fedeli accorrevano nella cattedrale alla ricerca di protezione e d’ispirazione. A tutti i suoi fedeli chiamava hermano (fratello). Monsignor Romero, proprio perché mai identificato con la sinistra, e dunque senza poter essere etichettato politicamente, appariva come l’uomo e il pastore di fedeli che si batteva al fianco dei più deboli scevro da qualunque disegno politico.

Per questo agli occhi degli Stati Uniti e del latifondo locale l’Arcivescovo era pericoloso al pari della guerriglia: ritenevano che il suo operato, la sua difesa strenua degli oppressi, fosse un veicolo di consenso poderoso per chi lottava contro il regime sanguinario salvadoregno.

L’assassinio di Monsignor Romero sì inserisce proprio in questo disegno: la chiesa disponeva e dispone di una presa enorme in tutta l’America Latina, particolarmente nell’area centroamericana. Di fronte ad una gerarchia ecclesiale che interrompeva la consuetudine che la vuole al fianco delle dittature militari, che sposava la causa degli sfruttati, che invocava la fine della repressione e che contestava le politiche del governo di destra, da Langley a San Salvador si decise che non c’era altro modo che silenziare con la morte Monsignor Romero.

Con la stessa logica e lo stesso obiettivo, ovvero silenziare la chiesa che assumeva la difesa degli oppressi in El Salvador, vennero assassinati Ignacio Ellacurria - Rettore dell’università cattolica - e altri 5 sacerdoti e suore. Si voleva dimostrare che nemmeno vestire gli abiti sacri poteva essere considerato un lasciapassare per chi decideva di sfidare il potere dei militari e del latifondo.

E non vi sono dubbi che se i gorilla salvadoregni di D’Abuisson poterono pensare ad un atto come l’uccisione dell’Arcivescovo fu perché sapevano di avere il sostegno silente ma operativo del loro padrone, gli Stati Uniti di Ronald Reagan. Sapevano di avere il consenso del latifondo e dei militari salvadoregni e, soprattutto, sapevano che la chiesa guidata da Karol Wojtyla avrebbe limitato al minimo la protesta.

Il Papa polacco, infatti, era il miglior alleato di Reagan nella “guerra al comunismo” ingaggiata con particolare entusiasmo in Centroamerica e nell’Europa dell’Est e l’ostilità aperta dimostrata nei confronti dei Sandinisti in Nicaragua tolse ogni dubbio al riguardo. Con la stessa pervicacia, anni dopo, Monsignor Romero fu dapprima indicato come candidato al Nobel per la pace, ma alla fine gli venne preferita da Madre Teresa di Calcutta, decisamente più affine alla linea politica vaticana.

Avrebbero potuto colpirlo in ogni momento, Monsignor Romero non era protetto. Decisero di assassinarlo sull’altare, mentre celebrava la messa, proprio perché l’intelligenza non appartiene ai servi. Il 24 Marzo del 1980 venne assassinato nella cappella dell’ospedale della Divina provvidenza, nella colonia Miramonte di San Salvador.

Venne colpito dopo aver pronunciato quello che, a ragione, può essere definito il suo testamento: “Vogliamo che il governo prenda sul serio che non servono a nulla le riforme se sono bagnate con tanto sangue…In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti si alzano verso il cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino: in nome di Dio cessi la repressione!!”

Ucciderlo sull’altare, di fronte al suo popolo e al suo Dio, trasformò un sacerdote onesto e coraggioso in un martire, in una icona indimenticabile per tutti gli oppressi.

di Michele Paris

La caduta dell’importante città irachena di Ramadi nelle mani dello Stato Islamico (ISIS) questa settimana è stata la prova del sostanziale fallimento della strategia messa in atto dagli Stati Uniti per combattere i militanti jihadisti attraverso il sostegno all’esercito regolare del governo di Baghdad. Le forze armate irachene - finanziate, armate e addestrate da Washington - hanno infatti patito la più grave sconfitta per mano dell’ISIS a partire dallo scorso mese di giugno, quando l’organizzazione fondamentalista dilagò nel nord del paese mediorientale conquistando praticamente senza sforzi la città di Mosul.

A Ramadi, l’assedio dell’ISIS durava da qualche settimana e la débacle dell’esercito di Baghdad è apparsa ancora più umiliante vista la presenza di unità “di élite” a difesa della città e gli intensi bombardamenti condotti dagli americani che, tuttavia, non hanno evidentemente fatto nulla per modificare gli equilibri sul campo.

I nuovi progressi dell’ISIS in Iraq contrastano con i resoconti ufficiali più recenti che lo volevano sulla difensiva nella provincia a larga maggioranza sunnita di Anbar. Gli eventi dei giorni scorsi a Ramadi sono stati prevedibilmente accompagnati dalle notizie delle consuete atrocità ai danni della popolazione civile commesse dall’ISIS, i cui uomini hanno oltretutto messo le mani su equipaggiamenti militari pesanti abbandonati dalle truppe regolari in fuga.

Con l’ISIS a poco più di cento chilometri da Baghdad, il governo del primo ministro Haider al-Abadi è stato alla fine costretto ad autorizzare l’invio delle milizie sciite a Ramadi per cercare di riprendere il controllo della città popolata da una maggioranza sunnita.

Il ricorso alle forze paramilitari sciite, fortemente legate all’Iran, nella guerra all’ISIS viene visto con estremo sospetto dagli Stati Uniti, da dove anzi era stato spesso richiesto il ritiro dal fronte di queste milizie prima di fornire assistenza militare all’esercito regolare.

Nella campagna dello scorso marzo che portò alla riconquista di Tikrit, ad esempio, Washington aveva insistito sul governo di Baghdad per ordinare il ripiegamento delle milizie sciite in cambio dell’avvio di una campagna di bombardamenti aerei contri le postazioni dell’ISIS.

Queste stesse formazioni appaiono però ora indispensabili alla luce della caduta di Ramadi, dal momento che nei mesi scorsi hanno dimostrato di essere l’unica forza in Iraq in grado di contrastare in maniera efficace l’ISIS.

Le milizie sciite sono raggruppate nelle cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare e rispondono nominalmente al primo ministro Abadi, anche se, in realtà, sono in gran parte appoggiate direttamente da Teheran.

Una sintesi efficace della situazione in cui si è venuto a trovare il governo di Baghdad è stata fatta a Patrick Cockburn del britannico The Independent da un ex ministro iracheno, secondo il quale “le pressioni stanno aumentando per sciogliere le restrizioni imposte dagli USA al governo circa i rapporti con Hashid [le milizie sciite]”, poiché “risulta abbastanza evidente che esse sono le uniche forze in grado di contrastare l’ISIS”.

Il governo americano, da parte sua, ha finora mantenuto la propria posizione ufficiale al riguardo, rifiutando di fornire appoggio aereo e d’intelligence alle formazioni sostenute dall’Iran.

Il convergere delle forze paramilitari sciite irachene a Ramadi solleva non poche preoccupazioni per possibili nuove violenze settarie. Ogni campagna militare in cui queste milizie erano state protagoniste nei mesi scorsi aveva fatto registrare brutalità e ritorsioni nei confronti della popolazione sunnita, considerata spesso come simpatizzante dell’ISIS.

Questa percezione era stata rafforzata dal fatto che, ancor prima dell’offensiva dell’ISIS dello scorso anno, le province sunnite irachene erano state attraversate da un’ondata di ribellione nei confronti del governo centrale a guida sciita, accusato di operare discriminazioni su base settaria.

Ad ogni modo, oltre a riconsegnare all’Iran un ruolo di spicco nella lotta all’ISIS in Iraq, l’appello del governo di Baghdad alle milizie sciite segna anche l’inizio di una probabile crisi per il premier Abadi. Quest’ultimo era stato di fatto imposto dagli Stati Uniti nel settembre dello scorso anno, ufficialmente per ridurre le tensioni settarie nel paese dopo gli anni in cui esse erano state alimentate sotto la leadership di Nouri al-Maliki, ritenuto troppo vicino all’Iran malgrado egli stesso fosse stato inizialmente installato da Washington.

La posizione di Abadi risulta dunque gravemente idebolita dopo gli sviluppi degli ultimi giorni e apre la strada agli attacchi della fazione all’interno del suo partito - Dawa - che denuncia le eccessive concessioni fatte alle minoranze sunnita e curda, nonché il fallimento della strategia anti-ISIS prescritta dagli USA.

La crisi in cui continua a dibattersi l’Iraq è in definitiva la conseguenza delle manovre americane messe in atto fin dall’invasione del 2003, passando per il conflitto nella vicina Siria, dove forze fondamentaliste violente come l’ISIS sono state coltivate appositamente per provocare un cambio di regime.

I nuovi scenari osservati con la perdita della città di Ramadi rischiano quindi di rinvigorire le divisioni settarie in Iraq, tradizionalmente sfruttate dagli Stati Uniti, aggravando nel contempo le frizioni tra Teheran e Washington, da dove, inevitabilmente, il quasi naufragio della strategia anti-ISIS dell’amministrazione Obama ha già suscitato polemiche negli ambienti dei “neo-con”, impegnati a chiedere il ritorno in massa delle truppe americane nel martoriato paese mediorientale.

di Mario Lombardo

La presunta “gaffe” sull’invasione dell’Iraq del 2003 che ha visto protagonista qualche giorno fa il probabile favorito nella corsa alla Casa Bianca per il Partito Repubblicano, Jeb Bush, continua ad animare il dibattito politico negli Stati Uniti proprio mentre i candidati stanno cercando di raccogliere la maggiore quantità possibile di denaro in vista delle primarie che prenderanno il via il prossimo mese di gennaio.

La settimana scorsa l’ex governatore della Florida aveva riposto a una domanda di una giornalista di FoxNews affermando sostanzialmente che, nel caso fosse stato al posto del fratello, George W. Bush, avrebbe anch’egli scatenato una guerra contro il regime di Saddam Hussein.

Jeb Bush, per spiegare la sua presa di posizione, aveva fatto riferimento alle informazioni di intelligence nelle mani del governo americano all’epoca, ovvero i rapporti “inesatti” sul possesso di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad. Inoltre, lo stesso candidato alla presidenza aveva ricordato come praticamente tutti gli attuali contendenti per la Casa Bianca avessero appoggiato la decisione di invadere l’Iraq, compresa la favorita alla nomination per il Partito Democratico, Hillary Clinton.

Successivamente, Jeb Bush ha cercato di rimediare alla sua dichiarazione, dando risposte con sfumature diverse alla stessa domanda, sostenendo ad esempio di avere male interpretato la questione sottopostagli da FoxNews per poi proporre finalmente una versione definitiva nel corso di un’apparizione pubblica in Arizona. Il figlio dell’ex presidente George H. W. Bush non avrebbe cioè deciso l’invasione dell’Iraq “se avessimo saputo quello che sappiamo oggi”.

Per precisare che il chiarimento non è dovuto a nessun genere di sentimento anti-militarista o di rispetto per le norme del diritto internazionale, il più giovane della famiglia Bush a correre per la Casa Bianca non solo ha garantito il suo sostegno alla campagna militare americana in corso in Iraq, ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS), ma ha anche auspicato un impegno ancora maggiore.

Le parole iniziali di Jeb Bush erano state in ogni caso sfruttate dagli altri candidati alla nomination repubblicana per distanziarsi dal collega di partito che gode dei favori della maggior parte dei multi-milionari e miliardari che ruotano attorno al partito. Se l’intelligence USA avesse prodotto informazioni corrette, avevano assicurato, nessuno di loro avrebbe autorizzato uno dei più gravi crimini del 21esimo secolo.

In seguito, tuttavia, il chiarimento della posizione di Jeb Bush ha in definitiva portato tutti i candidati sullo stesso piano in relazione alla guerra in Iraq, confermando l’unanimità all’interno della classe dirigente americana circa gli obiettivi dell’imperialismo a stelle e strisce.

L’unico candidato repubblicano che ha mantenuto una posizione in parte differente è stato il senatore di tendenze libertarie del Kentucky, Rand Paul, il quale, riferendosi non solo alla vicenda di Saddam ma anche a quella attuale di Assad in Siria, ha ricordato come il rovesciamento di “dittatori secolari” da parte del suo paese non faccia altro che generare “caos”.

La “gaffe” di Jeb Bush, comunque, non ha fatto che evidenziare la vulnerabilità di un candidato che, pur essendo dato dai media come favorito e avendo raccolto già decine di milioni di dollari in donazioni, è irrimediabilmente legato all’eredità tossica di quello che è stato probabilmente il presidente più impopolare nella storia degli Stati Uniti.

Ancor più, la diatriba di questi giorni mostra il persistente punto di vista della classe politica americana sull’avventura irachena inaugurata nel 2003 e sui metodi di proiezione del potere degli Stati Uniti in Medio Oriente e non solo.

Estremamente rivelatrice in questo senso è stata un’intervista sullo stesso argomento rilasciata nel fine settimana da un altro candidato alla nomination repubblicana, il senatore al primo mandato della Florida, Marco Rubio.

Anch’egli interrogato da un giornalista di FoxNews sull’invasione dell’Iraq, dopo qualche indugio Rubio ha escluso che la decisione presa da George W. Bush nel 2003 possa essere considerata un “errore”.

Lo stesso senatore di estrema destra ha poi sviluppato il suo punto di vista, ripetendo infine che l’allora presidente aveva di fronte a sé informazioni di intelligence che descrivevano la presenza di “armi di distruzione di massa” in Iraq, paese oltretutto “governato da un uomo che aveva commesso atrocità in passato con armi di distruzione di massa”.

In definitiva, l’intera controversia scatenata dalle dichiarazioni della settimana scorsa di Jeb Bush è servita a mettere ancora una volta in luce come nei circoli del potere di Washington e, in larga misura, nei principali media la versione ufficiale accettata pressoché universalmente della guerra in Iraq del 2003 continui a essere quella dell’errore dell’intelligence USA nel collegare il regime di Saddam alle “armi di distruzione di massa”, così come ad al-Qaeda.

Secondo questa versione, se solo i servizi segreti americani avessero fornito informazioni più precise all’amministrazione Bush, l’immane tragedia che ha vissuto la popolazione irachena sarebbe stata risparmiata.

In realtà, i presunti “errori” dell’intelligence americana servono a nascondere quelle che erano le intenzioni del presidente Bush e della sua cerchia di “neo-con” guerrafondai, a cominciare dall’ex vice-presidente Cheney.

Il loro obiettivo, ancor prima degli stessi attentati dell’11 settembre 2001, era la rimozione di Saddam Hussein ma per poterlo raggiungere era necessario fabbricare un pretesto valido, così da superare la profonda opposizione popolare nei confronti di una nuova guerra in Medio Oriente.

Per fare ciò, il governo di Washington poté contare su una stampa “mainstream” ben disposta a fare da cassa di risonanza alla propaganda ufficiale.

Nessun “errore” ci fu, quindi. Piuttosto, i servizi segreti non fecero altro che consegnare all’amministrazione Bush quello che quest’ultima voleva e le finte “prove” create ad arte della colpevolezza di Saddam sarebbero state in seguito accettate per buone da praticamente tutta la classe politica d’oltreoceano, da Jeb Bush a Hillary Clinton.

Che i candidati alla presidenza degli Stati Uniti nelle prossime elezioni continuino a convalidare questa tesi rappresenta una grave minaccia per la popolazione americana, così come per quelle mediorientali e di tutto il pianeta. Il governo americano, come ha già fatto peraltro più di una volta dopo la distruzione dell’Iraq, sarà infatti pronto a costruire prove inventate di presunti crimini per aggredire paesi rivali, chiunque sia il prossimo inquilino della Casa Bianca.

di Emy Muzzi

Londra. Nel tentativo di venire a capo della disfatta Labour e di capire cosa ci riservano gli scenari post elettorali in Gran Bretagna, Altrenotizie ha incontrato Tony Travers, professore di politiche governative alla London School of Economics e direttore "LSE London”, centro di ricerca di livello mondiale che sforna studi ed analisi di impatto mondiale sugli assetti di politica, geopolitica ed economia. LSE London sta lavorando ad un’analisi del comportamento dell’elettorato a queste elezioni politiche che segnano il ‘disincanto’ degli elettori verso i Labour.

Professor Travers, in questi giorni coincitati di dimissioni, candidature e ritiro candidature alla guida dei Labour il partito sembra allo sbaraglio. Quali scelte dovrebbero fare i Labour del post-Miliband per sopravvivere alla disfatta elettorale?

“Sicuramente la questione è più profonda e radicale dell’andare a destra, verso i New Labour di Tony Blair o più a sinistra verso i sindacati. Andrei oltre tutto questo per dire che il Labour Party ha bisogno di andare avanti con un leader nuovo e giovane che non abbia alcun legame con la leadership del partito dal 1997 al 2010.

Perché?

“Per via dell’eredità del passato. Penso che Tony Blair sia stato un leader importante; del resto ha vinto tre elezioni. Ma la ragione principale è il coinvolgimento di Blair con la guerra in Iraq, ed anche per via del fatto che i labour erano al governo nel momento in cui è scoppiata la crisi finanziaria globale”.

I sindacati (Unite in particolare) hanno portato Ed Miliband alla leadership a scapito del fratello David, ma portano fondi e voti; come può il partito svincolarsi visto che, anche attraverso la campagna contro la privatizzazione della sanità pubblica  (NHS) hanno un ruolo fondamentale?

“Innanzitutto bisogna chiarire che sì, la NHS può essere anche una bandiera della campagna elettorale, ma non porta necessariamente alla vittoria; questa è una delle lezioni di questo risultato elettorale. Penso che le relazioni tra Labour e Trade Unions siano complicate da decenni. Questo ha danneggiato il partito negli anni ’70; in seguito sono state le leggi-sindacato della Thatcher a favorire - involontariamente e paradossalmente - i Labour, perché, indebolendo le Unions riducevano anche la loro influenza sul partito.

Chi, tra i candidati alla guida Labour è il meno ‘influenzato’?

“Beh, vediamo, Liz Kendall è lontana dall’eredità di partito di cui  parlavamo, ed anche David Lammy; sono entrambi lontani dalle ultime leadership e sufficientemente distanti dalle passate amministrazioni Blair-Brown”.

LSE London sta elaborando un’analisi sul comportamento di voto. A cosa si deve ciò che lei ha definito ‘disincanto’ rispetto ai Labour?

“Nel nord dell’Inghilterra c’è stato uno spostamento di voti dai Labour all’UKIP in un contesto in cui i Liberal Democratici hanno perso sia dai Conservatori che dai Labour stessi. Questo si deve al fatto che in termini di contenuti i Labour hanno incentrato la loro comunicazione sul fatto di essere il partito in favore dei poveri contro i ricchi escludendo del tutto gli aspiranti middle-class che rappresentano poi gran parte dell’elettorato. Si tratta di non aver avuto l’abilità di comunicare con successo, e questo lo hanno riconosciuto anche loro stessi”.

Ma nel frattempo l’opposizione in Parlamento è di fatto divisa tra Labour e SNP. Si rischia l’immobilità?

“Questo aspetto non è ancora stato discusso sui media, ma è vero che l’opposizione è spaccata in due fazioni in lotta tra loro e che gli stessi laburisti sono spaccati in due fazioni. Questo è un grosso vantaggio per Cameron in Parlamento,

Lei ha detto che i risultati di queste elezioni sono un passo ulteriore verso la fine del sistema bipartitico inglese. Possiamo considerarlo già finito?

“Da tempo parlo della fine del two-party system. Ma se da una parte la percentuale del consenso elettorale per entrambi Laburisti e Conservatori diminuisce e nuovi pariti emergono, dall’altra i nuovi soggetti in campo non hanno ancora raggiunto grandi dimensioni. Lo stesso SNP ha 56 seggi contro 331 della maggioranza Tory e 232 dei Labour. In sostanza il sistema bipartitico continua a funzionare anche se lo share dei voti diminuisce progressivamente. Credo che questo durerà più a lungo di quanto abbiamo previsto...”

Questo complica il pieno svolgimento della dialettica democratica e del dibattito parlamentare?


“Io ho fiducia nella democrazia britannica perché è l’elettorato che fa la democrazia non i partiti politici. Del resto abbiamo avuto maggioranze assolute molto più problematiche come ad esempio sotto la Thatcher”.



di Mario Lombardo

La Camera dei Rappresentanti del Congresso di Washington questa settimana ha approvato a larga maggioranza il cosiddetto USA Freedom Act che dovrebbe mettere fine alla raccolta di massa di dati telefonici dei cittadini americani da parte dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA).

In realtà, il provvedimento non solo rischia di istituzionalizzare ancor più una pratica gravemente lesiva della privacy, sia pure con modeste limitazioni, ma lascia intatte le facoltà della NSA di sorvegliare le comunicazioni elettroniche che avvengono ogni giorno in ogni angolo del pianeta.

Il Freedom Act è stato licenziato con 338 voti a favore e 88 contrari e, se approvato anche dal Senato, modificherà una norma contenuta nella sezione 215 del famigerato Patriot Act del 2001 che autorizza l’intercettazione indiscriminata dei “metadati” telefonici gestiti dalle compagnie americane.

Questo emendamento potrebbe fare in modo che il governo non possa più raccogliere e archiviare direttamente i dati, i quali verranno invece conservati dalle stesse compagnie di telecomunicazioni. Le agenzie governative potranno tuttavia continuare ad accedere alle informazioni, ma dopo avere ottenuto l’approvazione del Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), che si riunisce e delibera nella totale segretezza. La NSA o l’FBI dovranno anche sottoporre alle compagnie richieste relativamente mirate, sulla base cioè di “termini specifici” legati a ipotetiche minacce terroristiche.

Inoltre, il Freedom Act istituisce una figura non ben definita che dovrebbe teoricamente rappresentare l’interesse dei cittadini di fronte al FISC, dove però continueranno a non apparire coloro che sono oggetto dei provvedimenti di sorveglianza del governo. Le compagnie telefoniche avranno poi la possibilità di rendere pubbliche le richieste che riceveranno dalle agenzie di intelligence, sia pure con serie restrizioni.

La leadership repubblicana alla Camera aveva di fatto blindato il Freedom Act, impedendo il voto in aula su qualsiasi emendamento, nonostante alcuni deputati avessero manifestato l’intenzione di presentare modifiche migliorative.

La quasi unanimità con cui è stata votata mercoledì la nuova legge alla Camera dovrebbe ora lasciare spazio alle divisioni che vengono registrate al Senato, soprattutto all’interno della stessa maggioranza repubblicana. Le pressioni per giungere a un provvedimento definitivo sono però notevoli, visto che il prossimo primo giugno scadrà proprio l’autorizzazione della NSA alla raccolta in blocco dei dati telefonici basata sulla sezione 215 del Patriot Act.

Un semplice rinnovo dell’autorizzazione sembra essere improbabile, poiché settimana scorsa una corte d’appello federale aveva dichiarato illegale il programma di sorveglianza autorizzato da questa legge. Un qualche compromesso dovrebbe quindi uscire dal Senato oppure, secondo i giornali americani, il Patriot Act potrebbe essere prorogato per un breve periodo in attesa di un accordo.

Politici e commentatori che appoggiano il Freedom Act insistono nel sottolineare l’importanza della legge nel raggiungere un punto di equilibrio tra la privacy dei cittadini americani e la necessità di difendere gli Stati Uniti dalla minaccia del terrorismo, anche se esistono prove abbondanti che le operazioni della NSA non hanno aiutato a sventare praticamente nessun attentato terroristico.

In realtà, le modifiche approvate questa settimana dalla Camera non sono altro che un giochetto politico per consentire alla NSA di continuare a intercettare a tappeto le comunicazioni di persone innocenti, dando l’impressione di avere rimediato agli eccessi dell’intelligence rivelati al mondo grazie al coraggio di Edward Snowden.

Oltre al fatto che le agenzie governative potranno comunque accedere alle informazioni desiderate grazie anche alla solerte collaborazione delle compagnie telefoniche e di un tribunale (FISC) che asseconda in pratica tutte le richieste sottoposte alla propria attenzione, la sorveglianza di massa continuerà a essere autorizzata da altre due leggi tuttora in vigore e che resteranno inalterate.

La prima è la sezione 702 del FISA Amendments Act, il quale, come suggerisce il nome, nel 2008 ha emendato la legge sulla Sorveglianza dell’Intelligence Straniera del 1978. In base a questa disposizione, il governo può intercettare le comunicazioni elettroniche di cittadini non americani che si trovano in un paese diverso dagli Stati Uniti anche in assenza di un ragionevole sospetto.

Nonostante questi limiti, la sorveglianza condotta secondo la sezione 702 può riguardare anche cittadini americani, se ciò viene fatto in maniera “non intenzionale”.

La vera perla nel ventaglio di norme pseudo-legali a disposizione della NSA è però l’oscuro Ordine Esecutivo 12333, firmato dal presidente Reagan nel 1981.

Questa sorta di decreto legge è stato modificato più volte negli anni successivi e dimostra come la gran parte dei programmi di sorveglianza di massa in America avvenga di fatto senza nemmeno l’apparenza di un qualche controllo o autorizzazione di un organo legislativo.

L’Ordine Esecutivo 12333 consente intercettazioni virtualmente illimitate ai danni di chiunque si trovi al di fuori degli Stati Uniti ma, anche in questo caso, nella rete finiscono puntualmente i cittadini americani, dal momento che la NSA inghiotte indiscriminatamente tutti i dati che transitano sui server delle compagnie private, spesso situati fisicamente in un paese straniero.


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