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di Carlo Musilli
Tony Blair vuole cambiare posizione nella vecchia fattoria della storia militare. Ai tempi dell'invasione in Iraq, l'ex Primo ministro laburista era noto in patria come "il barboncino di Bush". Ora che il collare non serve più, è tempo delle lacrime da coccodrillo. In un'intervista alla Cnn, "Bush's Poodle" risponde con un mea culpa al giornalista che gli chiede se la seconda guerra del Golfo sia stata uno sbaglio, visto che la storia delle armi di distruzione di massa si è rivelata una menzogna.
"Mi scuso per il fatto che le informazioni di intelligence che avevamo ricevuto fossero sbagliate - dice Blair - perché anche se Saddam le armi chimiche le aveva usate largamente contro il suo popolo e contro altri, quel programma non esisteva. Chiedo scusa per alcuni errori di pianificazione e, certamente, per i nostri errori di valutazione di quello che sarebbe successo una volta rimosso il regime".
L'intervistatore chiede allora se proprio quella guerra sia stata la principale causa dell'ascesa dell'Isis. Secondo Blair, anche in questa affermazione "ci sono elementi di verità", perché (si noti il virtuosismo retorico della doppia negazione ndr) "non si può dire che chi ha deposto Saddam nel 2003 non abbia responsabilità per la situazione del 2015".
In ogni caso, pur ammettendo che il pretesto era un'invenzione e che le conseguenze sono state tragiche, l'ex Premier britannico non arriva a rinnegare la guerra in sé: "Trovo difficile chiedere scusa per la rimozione di Saddam - è la chiosa -, penso che anche oggi, nel 2015, la situazione sia migliore senza di lui piuttosto che con lui".
A quanto pare l'ex numero uno di Downing Street considera un danno collaterale accettabile il milione di civili uccisi fra il 2003 e il ritiro delle truppe Usa a fine 2011, pari al 5% dell'intera popolazione irachena (numeri tratti da "Body Count", rapporto pubblicato quest'anno da tre gruppi di scienziati sui costi della "guerra al Terrore").
Rimane però da chiarire perché mai Blair abbia rilasciato proprio ora un'intervista simile. Secondo Nicola Sturgeon, primo ministro di Edimburgo e leader del Partito nazionale scozzese, quella dell'ex numero uno laburista è una difesa preventiva, in attesa delle critiche che pioveranno su di lui quando saranno pubblicati i risultati della Chilcot Inquiry, un'inchiesta istituita nel giugno 2009 dall’allora primo ministro Gordon Brown sul coinvolgimento della Gran Bretagna nella guerra in Iraq.
Questa interpretazione lascia qualche dubbio, perché secondo molti commentatori la commissione d'inchiesta presieduta da Sir Chilcot - i cui membri non sono né indipendenti né politicamente eterogenei - confermerà i problemi nel determinare le cause della guerra e le carenze nella pianificazione, ma non accuserà il governo di allora di aver mentito al Parlamento o di aver agito illegalmente.
Semmai, a preoccupare Blair potrebbe essere la crociata infinita del Daily Mail, giornale popolare e conservatore da sempre contrario alla guerra in Iraq. In una recente edizione domenicale, il quotidiano ha scritto che l'ex Premier si era detto pronto a inviare truppe in Iraq addirittura un anno primo dell'inizio del conflitto, quando ancora ripeteva in televisione di voler cercare una soluzione diplomatica alla crisi. A riprova di tutto ciò, il giornale ha pubblicato una mail segreta inviata il 28 marzo 2002 da Colin Powell al Presidente americano: Blair, scrive l'allora segretario di Stato Usa, "sarà con noi" nell'intervento armato e assicura che "il Regno Unito seguirà la nostra guida". Da una seconda e-mail emerge invece che Bush avrebbe infiltrato alcune spie nel partito laburista britannico per aiutare Blair a manipolare l'opinione pubblica in favore della guerra.
Secondo il Mail on Sunday, questi documenti farebbero parte di un gruppo di messaggi segreti conservati nel server di posta elettronica usato da Hillary Clinton fra il 2009 e il 2013, quando l'attuale candidata alla Casa Bianca era segretario di Stato nelle prima amministrazione Obama.
E' possibile che Blair tema la pubblicazione di carteggi ancor più compromettenti? Forse. Di sicuro, ormai il guinzaglio da barboncino non è più utile come un tempo e chiedere scusa per le decisioni scellerate di inizio millennio non fa male a nessuno. Male che vada, è inutile.
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di Michele Paris
La visita di questa settimana in Gran Bretagna del presidente cinese, Xi Jinping, è stata contrassegnata da un’eccezionale accoglienza riservata sia dal governo Cameron sia della casa reale, a conferma dell’importanza dei crescenti legami commerciali e finanziari tra coloro che possono essere considerati rispettivamente l’alleato più fedele e il principale rivale degli Stati Uniti.
Dopo l’arrivo all’aeroporto di Heathrow nella serata di lunedì, Xi è stato ricevuto il giorno successivo dalla regina Elisabetta, dal duca di Edimburgo e dal primo ministro, David Cameron, per poi essere accompagnato dalla stessa sovrana nella carrozza reale fino a Buckingham Palace, dove è stato ospitato assieme alla moglie per tutta la sua permanenza a Londra.
Martedì, poi, il leader cinese ha preso parte a un “banchetto di stato” con i membri del governo e della famiglia reale, ad esclusione del principe Carlo, secondo i media britannici tenuto lontano per evitare imbarazzi all’ospite d’onore, visto il sostegno espresso più volte dall’erede al trono per la causa tibetana. Nella giornata di mercoledì, invece, Xi ha incontrato Cameron, prima di volare a Manchester per visitare alcuni progetti di investimento assieme al Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne.
Sempre martedì, Xi ha parlato ai membri delle due camere del Parlamento britannico, affermando come i due paesi stiano diventando “sempre più interdipendenti” e dando vita a “una comunità di interessi condivisi”. Il presidente cinese ha fatto inoltre riferimento a due questioni cruciali nei rapporti bilaterali, l’adesione come membro fondatore della Gran Bretagna alla Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB) e la scelta di Londra come primo mercato di bond cinesi in yuan al di fuori della madrepatria.
Il governo conservatore britannico si è ritrovato esposto a critiche e pressioni a causa della cordialissima accoglienza riservata a Xi Jinping, tanto che vari esponenti del gabinetto hanno cercato di giustificare il consolidamento dei rapporti con Pechino. Il Ministro degli Esteri, Philip Hammond, ha ad esempio sostenuto in un’intervista alla BBC che “i legami con la Cina sono decisamente nel nostro interesse” e che il suo governo guarda a questo paese per assicurarsi “investimenti in infrastrutture”.
Per il governo Cameron, un rapporto più solido con la Cina potrebbe d’altra parte sbloccare fino a 30 miliardi di sterline in accordi commerciali e investimenti in Gran Bretagna, creando circa 4 mila nuovi posti di lavoro in vari settori.
La visita di Xi e gli affari conclusi questa settimana erano stati in parte preparati da una trasferta in Cina a settembre di Osborne, durante la quale il ministro conservatore aveva assicurato che la Gran Bretagna intende diventare il “partner occidentale numero uno” di Pechino.Come per molti altri paesi, dunque, la Cina rappresenta anche per la Gran Bretagna una straordinaria opportunità dal punto di vista economico, in particolare sul fronte degli investimenti diretti. Attualmente, la Cina è già il secondo paese da cui la Gran Bretagna importa il maggior numero di prodotti, dopo la Germania, mentre l’export britannico verso la Cina è più che raddoppiato tra il 2010 e il 2014, salendo a quasi 16 miliardi di sterline.
Allo stesso modo, negli ultimi tre anni gli investimenti cinesi in Gran Bretagna sono aumentati a ritmi vertiginosi, mentre le interconnessioni finanziarie tra i due paesi hanno raggiunto livelli decisamente consistenti, come conferma il fatto che le banche del Regno hanno un’esposizione verso la Cina superiore a quella combinata verso USA e UE. Secondo il Tesoro britannico, infine, la Cina dovrebbe superare gli Stati Uniti come secondo partner commerciale di Londra entro i prossimi dieci anni.
La presenza di Xi in Gran Bretagna è stata così l’occasione per promuovere vari accordi, tra cui spiccano quelli relativi agli investimenti cinesi nel settore dell’energia atomica. Londra intende cercare finanziamenti per una serie di progetti di reattori nucleari per un valore di un centinaio di miliardi di sterline nel prossimo decennio. Prevedibilmente, più di un giornale britannico ha ricordato come l’afflusso di capitale cinese in questo ambito abbia implicazioni per la sicurezza nazionale del paese, tanto che sezioni delle forze armate e della comunità dell’intelligence sembrano avere espresso le proprie perplessità.
Il crescente orientamento di Londra verso la Cina è comunque un dato di fatto acquisito per il governo Cameron. La conferma di ciò era giunta tra l’altro con il già ricordato annuncio qualche mese fa della partecipazione della Gran Bretagna all’AIIB, nelle intenzioni cinesi vera e propria alternativa a istituzioni come la Banca Mondiale o la Banca Asiatica per lo Sviluppo, tradizionalmente dominate dagli Stati Uniti. La decisione era stata presa nonostante il parere contrario e le pressioni di Washington e aveva scatenato una corsa tra i paesi occidentali ad aderire al nuovo istituto internazionale patrocinato da Pechino.
Come dimostra la nascita dell’AIIB, la capacità della Cina di attrarre nella propria orbita economico-finanziaria molti paesi alleati degli Stati Uniti produce significative conseguenze strategiche, emerse chiaramente nel dibattito scaturito dalla visita di Xi Jinping a Londra. Tanto più che l’avvicinamento a Pechino di paesi come Gran Bretagna o Australia, tradizionalmente allineati agli interessi dell’imperialismo USA, si sovrappone alla cosiddetta “svolta” asiatica di Washington, ovvero la serie di iniziative e progetti diplomatici, economici e militari per contenere l’espansionismo cinese che, spesso, si basano o dovrebbero basarsi sulla collaborazione con questi stessi paesi.
I malumori degli Stati Uniti per questa evoluzione devono essere stati presi in considerazione dal governo Cameron, come confermano le dichiarazioni del primo ministro e di alcuni membri del suo gabinetto per garantire che la “relazione speciale” con Washington non esclude la costruzione di una “solida partnership” con la Cina.Il fatto che il governo britannico, nonostante le rassicurazioni, abbia ritenuto di dovere intraprendere un percorso di avvicinamento così deciso verso Pechino contro le indicazioni USA testimonia a sufficienza di quali interessi siano in gioco nella competizione per intercettare il capitale cinese o penetrare nello sterminato mercato del colosso asiatico.
Questi processi suggeriscono anche e soprattutto una tendenza verso l’inasprimento delle relazioni internazionali, anche tra paesi alleati, a causa della crisi strutturale del capitalismo. Un deterioramento dei rapporti che, tra USA e Gran Bretagna, appare ancora relativamente trascurabile, anche se, a ben vedere, l’insofferenza di Washington nei confronti dell’atteggiamento fin troppo accondiscendente di Londra verso la Cina si è intravista in maniera chiara in questi giorni.
Sempre il Financial Times, ad esempio, questa settimana ha citato un anonimo ex membro “molto influente” del governo americano, il quale ha sostenuto senza mezzi termini che l’eccessiva “deferenza” del governo Cameron nei confronti di Xi “potrebbe in futuro creare più di un problema per la Gran Bretagna”.
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di Mario Lombardo
Dopo quasi un decennio di ininterrotto governo, il Partito Conservatore canadese del primo ministro, Stephen Harper, è stato letteralmente travolto dal Partito Liberale centrista nelle elezioni federali di lunedì. Il 43enne leader Liberale e prossimo capo del governo, Justin Trudeau, è stato in grado di capitalizzare un diffusissimo senso di repulsione nei confronti delle politiche reazionarie della maggioranza uscente, resuscitando un partito che solo quattro anni fa aveva fatto registrare il peggior risultato della propria storia.
Il Partito Liberale ha conquistato circa il 40% dei voti espressi, assicurandosi la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni di Ottawa con 184 seggi sui 338 complessivi. Nella precedente tornata elettorale, i liberali avevano ottenuto appena 34 seggi ed erano diventati clamorosamente il terzo partito canadese, dietro anche al Nuovo Partito Democratico (NDP) di ispirazione social-democratica.
Proprio quest’ultima formazione e il suo leader, l’ex ministro nel governo provinciale del Québec, Tom Mulcair, erano stati per settimane indicati dai sondaggi come i possibili vincitori di un voto che si presentava piuttosto equilibrato. Alla fine, l’NDP ha invece visto dimezzarsi i propri seggi in seguito alla perdita di oltre un terzo dei consensi su scala nazionale. Particolarmente grave e sintomatica è stata la batosta patita a favore dei Liberali in Québec, provincia che aveva fatto da trampolino di lancio per il partito nel 2011.
Il vero tracollo l’ha fatto segnare però il Partito Conservatore che è passato da 166 a 99 seggi. Subito dopo la chiusura delle urne, Harper ha prevedibilmente rassegnato le proprie dimissioni da leader del partito. La misura della sconfitta dell’ormai ex partito di governo canadese è stata data, tra l’altro, da un lungo elenco di trombati eccellenti in svariati distretti elettorali (“ridings”), come il ministro delle Finanze, Joe Oliver, a Toronto, e quello dell’Immigrazione, Chris Alexander, in una cittadina dell’Ontario meridionale.
Il Partito Liberale, in definitiva, ha beneficiato di una campagna elettorale condotta in maniera energica e con toni costantemente positivi da Trudeau, figlio di Pierre Trudeau, primo ministro canadese quasi ininterrottamente dal 1968 al 1984. I Conservatori avevano cercato in tutti i modi di dipingere Trudeau come troppo giovane e inesperto, ma il leader Liberale ha sfruttato i suoi presunti punti deboli per cavalcare il desiderio di cambiamento tra gli elettori.
A pesare sulle sorti di Harper e del suo partito sono state però soprattutto le politiche attuate in questi anni, fatte di austerity, militarismo e attacchi ai diritti democratici dei cittadini in nome della lotta al terrorismo. Inoltre, un recente scandalo sulle spese gonfiate di alcuni senatori Conservatori ha contribuito al disastro, così come e ancor più il rallentamento di un’economia basata sull’industria estrattiva e fortemente penalizzata dal crollo delle quotazioni del petrolio.La promozione del Partito Liberale come l’alternativa progressista cercata dagli elettori canadesi è stata possibile anche grazie alle principali organizzazioni sindacali che hanno appoggiato Trudeau. L’NDP, poi, è sembrato giocarsi nel peggiore dei modi la possibilità di conquistare per la prima volta il potere, impostando una campagna elettorale in parte appiattita sulle posizioni dei Conservatori, principalmente per convincere la borghesia canadese della capacità del partito di governare sotto la leadership di Mulcair.
Come i Conservatori, l’NDP aveva così promesso il pareggio di bilancio per i prossimi quattro anni, altri tagli al carico fiscale delle imprese e nessun aumento delle tasse per i più ricchi. Il risultato di questa strategia è stato inevitabilmente quello di consentire ai Liberali di proporsi come il vero partito anti-austerity.
La proposta forse decisiva lanciata da Trudeau è stata quella di rompere apertamente con il rigore, promettendo nei prossimi tre anni altrettanti deficit di almeno 10 miliardi di dollari per finanziare una serie di opere pubbliche.
Se durante la lunghissima campagna elettorale si è discusso ad esempio dell’inclinazione islamofoba del Partito Conservatore e dei tentativi di alimentare simili sentimenti retrogradi da parte di Harper, altre questioni fondamentali sono rimaste praticamente fuori dal dibattito politico.
Per cominciare, la progressiva integrazione del Canada nel sistema militare americano non è stata sollevata in maniera seria. Il governo Harper ha quasi sempre assecondato gli obiettivi strategici dell’imperialismo americano, dall’Ucraina alla Siria e all’Iraq, coinvolgendo il proprio paese in pericolosi e impopolari conflitti oltreoceano.
Parallelamente a ciò, il governo uscente ha creato un clima di assedio nel paese, ingigantendo la minaccia del terrorismo fondamentalista anche in seguito ad alcuni episodi di violenza dai contorni peraltro non chiarissimi. In questo quadro, la scorsa primavera i Conservatori erano riusciti ad approvare la famigerata Legge C-51, la quale assegna tra l’altro ai servizi di sicurezza un accesso pressoché illimitato alle comunicazioni personali dei cittadini e ampi poteri discrezionali nel perseguimento di qualsiasi genere di “minaccia” alla sicurezza nazionale.
Tutti i partiti del panorama politico canadese hanno di fatto assicurato di voler conservare la legge, con i Liberali che tutt’al più si sono limitati a proporre maggiori poteri di “supervisione” per il Parlamento nell’implementazione delle misure previste dal provvedimento.
In generale, la débacle dei Conservatori, oltre che alla crescente ostilità di ampie fasce della popolazione, è dovuta anche al cambiamento di attitudine di almeno una parte delle élite canadesi, preoccupate per le conseguenze in termini di tensioni sociali delle rovinose politiche perseguite negli ultimi nove anni.L’orientamento di queste sezioni della classe dirigente del paese nordamericano a favore dei Liberali era apparso evidente anche dal sostegno o, quanto meno, dalla simpatia espressa per Trudeau da svariati giornali di tendenze conservatrici o che rappresentano i poteri forti canadesi.
Il Partito appena uscito vincitore dal voto, d’altra parte, come i Democratici a sud del confine e quelli di centro-sinistra in Europa, ha una lunga storia di promesse di stampo progressista puntualmente tradite una volta al governo. Esemplare in questo senso era stata l’esperienza dell’esecutivo Liberale guidato dal primo ministro Jean Chrétien tra il 1993 e il 2003, caratterizzata da tagli alla spesa pubblica superati solo successivamente da quelli implementati da Harper.
Viste perciò le pressioni degli ambienti finanziari internazionali e del business domestico, il clima economico non esattamente incoraggiante e le tensioni crescenti tra le potenze mondiali sullo scacchiere internazionale, appare più che legittimo dubitare della volontà e della capacità del Partito Liberale di Justin Trudeau di mettere in atto le promesse di cambiamento per invertire la rotta segnata dalla dolorosa esperienza di governo di Stephen Harper.
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di Michele Paris
La nuova esplosione degli scontri tra le forze di sicurezza israeliane e la popolazione palestinese è coincisa con gli sforzi in atto per riparare le relazioni tra Tel Aviv e Washington dopo le frizioni tra le amministrazioni Obama e Netanyahu, principalmente attorno all’accordo sul nucleare iraniano.
Le violenze registrate da alcune settimane sono le più gravi da svariati anni a questa parte e sono state alimentate in parte dal possibile cambiamento dello status del sito di Gerusalemme Est che ospita la Moschea di al-Aqsa - la Spianata delle Moschee - il luogo più sacro dell’Islam al di fuori dell’Arabia Saudita.
In particolare, a scatenare quella che in molti vedono come una nuova rivolta palestinese sono stati i timori che Israele potesse prendere la decisione di consentire agli ebrei di pregare sul sito che questi ultimi chiamano “Monte del Tempio” e che, secondo la religione ebraica, ospitava appunto due templi biblici andati distrutti.
Secondo il trattato di pace siglato tra Israele e Giordania nel 1994, gli affari religiosi in quest’area sono amministrati dai musulmani, mentre gli ebrei hanno facoltà di recarvisi ma non di pregare. Netanyahu, da parte sua, di fronte alla reazione palestinese ha affermato di volere mantenere lo status quo, anche se il tradizionale disprezzo delle regole di Israele rende più che legittima una certa diffidenza.
Al di là dei motivi immediati che li hanno scatenati, gli incidenti sono comunque il risultato inevitabile delle politiche repressive di Israele, assieme alle condizioni di vita con cui i palestinesi sono costretti a fare i conti quotidianamente.
Le tensioni, in ogni caso, sono esplose con una serie di atti di violenza, caratterizzati da sporadici attacchi di palestinesi e, soprattutto, dalla consueta durissima repressione delle forze di sicurezza di Israele. Dall’inizio di ottobre, più di quaranta palestinesi sono stati uccisi, spesso in maniera arbitraria e, secondo molte testimonianze, senza che le vittime rappresentassero una reale minaccia. Gli israeliani che hanno perso la vita nello stesso periodo di tempo sono invece otto.
Particolare impressione continuano a suscitare le notizie relative alla sparatoria del fine settimana in una stazione degli autobus nella città di Beersheba, nel sud del paese. Qui, un individuo armato ha ucciso un soldato israeliano e ferito una decina di persone prima di essere a sua volta ucciso.Le forze di sicurezza hanno risposto al fuoco uccidendo anche un immigrato eritreo che, secondo la versione ufficiale, era stato inizialmente identificato come il secondo attentatore ma che, in realtà, nulla aveva a che fare con l’attacco armato e non aveva nemmeno tenuto alcun comportamento sospetto.
Lunedì, le autorità di Tel Aviv hanno diffuso la notizia che il primo attentatore ucciso era un cittadino arabo beduino di Israele, nonostante questa popolazione, gravemente penalizzata dalle politiche di apartheid israeliane, molto raramente risulta protagonista di episodi di violenza.
Negli ultimi giorni, intanto, è scoppiata una polemica diplomatica in seguito alla richiesta presentata all’ONU da parte dei palestinesi per il dispiegamento di una forza internazionale di protezione nell’area in cui sorge la Moschea di al-Aqsa. La Francia, a sua volta, ha sostenuto una risoluzione simile che è stata però nettamente respinta da Tel Aviv, con il governo israeliano che ha addirittura convocato l’ambasciatore di Parigi per esprimere la propria contrarietà alla proposta.
Com’è evidente, Israele non intende cooperare con l’ONU o gli stessi governi europei in questo senso per non dovere convivere con l’ostacolo di una presenza che, in teoria, costringerebbe il gabinetto Netanyahu e le forze di sicurezza al rispetto del diritto internazionale.
Gli Stati Uniti hanno anch’essi bocciato l’idea di una presenza internazionale nella Spianata delle Moschee, come ha affermato il segretario di Stato, John Kerry, alla vigilia di un incontro prima con Netanyahu in Germania e in seguito con il presidente palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), e il re di Giordania, Abdullah.
Lo stesso Kerry ha invitato le due parti a evitare un’escalation del conflitto, utilizzando come al solito toni molto cauti, visto il potenziale esplosivo della situazione anche in rapporto alla necessità di non aprire un ulteriore fronte in Medio Oriente mentre sono in corso gli sforzi per cercare di rovesciare il regime di Assad in Siria.
Anche se nuovamente impegnati in una violenta repressione dei palestinesi, gli israeliani hanno comunque incassato ancora una volta il sostanziale appoggio degli USA. Anzi, dopo le tensioni tra Obama e Netanyahu, soprattutto a causa dell’accordo sul nucleare iraniano, i segnali degli ultimi giorni indicano un tentativo di pacificazione.
In questo quadro, significativo è stato l’incontro di domenica a Tel Aviv tra il primo ministro di Israele e il nuovo capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, alla sua prima visita all’estero da quando ha assunto l’incarico a inizio ottobre.
I due hanno discusso di un pacchetto di aiuti militari da destinare a Israele per un decennio a partire dal 2017, quando terminerà l’attuale programma di forniture da tre miliardi di dollari all’anno. Il nuovo pacchetto dovrebbe essere aumentato ad almeno 3,7 miliardi di dollari ogni dodici mesi e, secondo le assurde motivazioni ufficiali, compensare l’accresciuta minaccia che l’Iran potrebbe rappresentare per Israele dopo che le sanzioni internazionali saranno cancellate.I negoziati tra Washington e Tel Aviv erano stati congelati da Netanyahu mesi fa proprio in seguito ai falliti tentativi del premier di far naufragare la trattativa con la Repubblica Islamica. Il dialogo tra Israele e Stati Uniti proseguirà nelle prossime settimane, con il ministro della Difesa, Moshe Yaalon che sarà nella capitale americana a fine mese, mentre lo stesso Netanyahu verrà ricevuto alla Casa Bianca da Obama il 9 novembre.
Il consolidamento dei rapporti tra i due alleati è ribadito anche dall’inaugurazione della tradizionale esercitazione militare denominata “Blue Flag” che va in scena due volte all’anno. In questa occasione, “i partecipanti avranno la possibilità di provare la pianificazione e l’esecuzione di operazioni aeree di vasta portata”.
Per il generale Dunford, in definitiva, nonostante “gli alti e bassi” del rapporto tra USA e Israele, “le relazioni militari sono rimaste salde” e “le sfide che dovremo affrontare, le affronteremo insieme”.
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di Michele Paris
Nella notte italiana tra martedì e mercoledì è andato in scena a Las Vegas il primo dibattito televisivo tra i cinque candidati alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Democratico. Lo show, organizzato dalla CNN, secondo i commentatori americani avrebbe visto prevalere nettamente Hillary Clinton, anche se la serata ha rivelato più che altro una certa inquietudine dovuta alle pressioni provenienti dagli elettori che chiedono sempre più politiche di marca progressista a un sistema arroccato nella difesa dei privilegi di una piccola cerchia di super-ricchi.
Le pressioni sull’ex segretario di Stato riguardavano in realtà anche la necessità di sfoderare una prestazione di rilievo davanti alle telecamere, viste le difficoltà incontrate negli ultimi mesi dalla sua campagna elettorale. Hillary ha in primo luogo dovuto fare i conti con le ripercussioni legate al persistere della polemica repubblicana sulle responsabilità dell’attacco integralista all’ambasciata USA di Bengasi, in Libia, del settembre 2012.
Inoltre, da alcuni mesi infuria la controversia sull’utilizzo da parte di Hillary di un account di posta elettronica privato per la corrispondenza ufficiale quando era segretario di Stato. La concorrenza in casa democratica, poi, è apparsa molto più agguerrita del previsto in seguito all’ascesa nei sondaggi del senatore del Vermont, Bernie Sanders, in grado di suscitare l’entusiasmo di un numero relativamente elevato di potenziali elettori delle primarie con il suo messaggio marcatamente “liberal”.
Soprattutto, la ex first lady, per la sua vicinanza al mondo degli affari e per le politiche guerrafondaie perseguite nel corso della sua carriera e di quella del marito, suscita aperta repulsione tra molti negli Stati Uniti e il fatto che sia diventata da subito la favorita d’obbligo per la nomination democratica dipende quasi esclusivamente dalla copertura mediatica che può vantare e, soprattutto, dall’appoggio di facoltosi finanziatori.
In generale, il dibattito di martedì ha visto tutti i partecipanti adottare una retorica progressista per cercare di intercettare il desiderio di giustizia sociale e di contenimento delle disuguaglianze di reddito diffuso tra la popolazione americana. L’apparente spostamento a sinistra del dibattito politico tra i candidati democratici dipende, oltre che dalla disposizione di lavoratori e classe media nel paese, anche dall’inaspettato successo fin qui della campagna di Sanders.
Il senatore nominalmente indipendente è stato infatti il bersaglio di svariati attacchi portati da Hillary Clinton durante il dibattito, finendo per apparire spesso sulla difensiva. L’indubbia maggiore dimestichezza di Hillary su palcoscenici simili ha messo in luce la vulnerabilità di Sanders in un processo di selezione del potere che predilige l’apparenza, ma ha anche a tratti evidenziato come siano in larga misura vuote le pretese di quest’ultimo di rappresentare una candidatura “anti-establishment”.
La Clinton ha ad esempio ricordato come Sanders si sia opposto in passato a leggi sulla restrizione del diritto di portare armi da fuoco, mentre durante la serata è emersa nettamente l’affinità del senatore del Vermont con la politica estera dell’amministrazione Obama, in particolare riguardo la Siria.
Sanders, da parte sua, ha cercato di attaccare la rivale collegandola a Wall Street e agli eccessi dell’industria finanziaria USA. I due sfidanti hanno poi bollato come “ingenui” i rispettivi piani per tenere sotto controllo le grandi banche, anche se la discussione ha indubbiamente risollevato la questione della vicinanza di Hillary a questo ambiente.
Complessivamente, né Sanders né gli altri tre candidati uomini hanno però calcato la mano contro Hillary, nonostante gli argomenti non sarebbero mancati. Sanders, anzi, a un certo punto della serata ha preso le parti dell’ex senatrice di New York, quando si è detto “stanco” di assistere alla polemica delle e-mail del Dipartimento di Stato.A fare compagnia a Hillary Clinton e a Bernie Sanders a Las Vegas vi erano gli altri tre candidati ufficiali alla nomination democratica: l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, l’ex senatore della Virginia, Jim Webb, e l’ex senatore ed ex governatore del Rhode Island, Lincoln Chafee.
Molti americani hanno probabilmente conosciuto solo martedì i tre candidati minori, i quali, pur cercando di differenziare in qualche modo le loro posizioni da quelle di Hillary e di Sanders, hanno finito per fare da contorno ai due protagonisti della sfida in ambito democratico.
Se il dibattito non ha registrato particolari attacchi personali tra i candidati, come è accaduto invece frequentemente nei primi due già andati in scena tra gli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca, nondimeno il confronto di Las Vegas ha fornito qualche motivo di interesse per lo più ai media ufficiali e agli addetti ai lavori.
La retorica “liberal” ostentata da Hillary durante la serata, così come nelle ultime settimane, è poco più di una farsa per occultare l’inclinazione chiaramente e tradizionalmente destrorsa della famiglia Clinton, sia sui temi economici sia su quelli legati alla sicurezza nazionale e alla politica estera.
Lo stesso Bernie Sanders è a sua volta parte integrante del sistema da quasi tre decenni e, pur auto-definendosi talvolta “socialista”, ha quasi sempre votato con il Partito Democratico, di cui non fa parte in maniera formale. Non solo, Sanders ha nel suo curriculum al Congresso di Washington voti censurabili, come quelli a favore dell’aggressione americana contro la Serbia nel 1999 e della cosiddetta Autorizzazione all’Uso della Forza Militare dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che consentì l’invasione dell’Afghanistan e il lancio della “guerra al terrore”.
In questi mesi di campagna elettorale, Sanders ha cercato spesso di evitare le questioni di politica estera ma, quando pressato, ha espresso il proprio apprezzamento per la gestione delle varie crisi in Medio Oriente da parte del presidente Obama, mentre ha garantito di essere disposto a utilizzare, se eletto, tutto il potenziale della macchina da guerra americana per difendere gli interessi della classe dirigente del suo paese.Com’è evidente, gli attacchi portati da Sanders contro i miliardari e gli appelli alla riduzione delle esplosive disuguaglianze sociali che caratterizzano gli Stati Uniti stridono con il suo sostanziale abbraccio dell’imperialismo a stelle e strisce, visto che i due aspetti sono intrinsecamente legati tra di loro.
Il primo dibattito democratico in vista delle primarie del 2016, caratterizzato da una discussione vagamente orientata a sinistra, ha comunque messo in chiaro come la classe politica americana senta le pressioni di una popolazione che continua in larga misura a pagare le conseguenze della crisi strutturale del capitalismo esplosa nel 2008.
Anche se ogni soluzione o iniziativa per invertire la rotta risulta praticamente impossibile all’interno di un sistema politico dominato da due partiti espressione delle élite economico-finanziarie americane, la cifra di questa situazione è emersa soprattutto in una circostanza apparentemente trascurabile durante il dibattito.
Ciò è accaduto quando il moderatore della serata, il conduttore della CNN Anderson Cooper, ha introdotto nella discussione la definizione di “capitalismo” in relazione agli orientamenti ideologici dei candidati. Pur rimanendo assenti condanne esplicite del capitalismo come sistema, si è assistito a una moderata critica di esso, quanto meno per gli standard della politica ufficiale americana.
A differenza degli anni scorsi, infatti, i politici interpellati sulla questione si sono astenuti dall’esprimere un appoggio incondizionato al capitalismo, ritenendo invece di dover mitigare le loro opinioni o condannandone le distorsioni. Hillary Clinton, ad esempio, ha avvertito della necessità di “salvare il capitalismo da se stesso di tanto in tanto” per poi manifestare ammirazione e sostegno per le piccole e medie imprese.
Sanders, invece, dopo avere elogiato lo spirito imprenditoriale americano, ha sorvolato sulle proprie inclinazioni “socialiste”, dichiarandosi comunque oppositore del “capitalismo da casinò” che si pratica a Wall Street.