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di Emy Muzzi
LONDRA. Nella battaglia politica all’ultimo sangue per le prossime politiche del 7 Maggio il leader dei Labour Ed Miliband sferra l’ultimo attacco: guerra agli affitti alti. Sinora tra Ed ‘the Red’ (così lo chiamano i “rossi’ d’oltremanica), e il premier, ancora in carica, David Cameron, nessuno aveva osato sfidare gli interessi di ‘landlords’, speculatori e investitori che affittano case a prezzi inaccessibili. Ad un mese dal voto i Labour hanno fatto il passo decisivo.
E’ un sintomo questo che l’affitto è diventato il problema primario per milioni di cittadini britannici costretti a subire e pagare a caro prezzo le conseguenze di una legge scandalo che autorizza il possesso di un numero illimitato di proprietà in Gran Bretagna (anche per gli investitori stranieri) con conseguente, e altrettanto scandaloso, abbandono degli immobili utilizzati solo a scopo d’investimento.
Sono gli effetti disastrosi della crisi finanziaria del 2008 che, a partire dallo scandalo dei mutui subprime, ha messo a nudo il gioco cinico di una finanza malata, disonesta e pericolosa, che ha agito spostando gli interessi degli investitori dalla borsa alla casa. Un asset sicuro dove investire (o riciclare) dollari, yen, rubli, euro in alternativa alle rischiose e inaffidabili speculazioni sui mercati finanziari. Questo ha messo tutti noi, persone oneste, normali, che non accumulano illecitamente denaro e non speculano sulla pelle (e sui conti in banca) degli altri, in condizioni di non poter nemmeno sognare di comprarsi una casa.
Le case di lusso nelle zone più prestigiose di Londra, come ad esempio Knightsbridge, non hanno mai visto le luci accese. E’ il cosiddetto ‘Lights-out London’, il triste fenomeno del ‘compra e fuggi’ che diverte e rassicura gli speculatori del Real Estate e soddisfa sia il mercato immobiliare che i piccoli proprietari, perché la scarsità di case popolari garantisce affitti alti. Secondo una stima recente pubblicata dal The Guardian, le case disabitate soltanto a Londra sono 22mila a fronte di centinaia di migliaia di senzatetto e milioni di inglesi che pagano con un magro stipendio il mutuo al loro padrone di casa.
I dati allarmanti sono aggravati dal fatto che la democratica Gran Bretagna, a differenza dell’Italia, dà il diritto agli ‘housing benefits’ (aiuti di stato per la casa), ma recentemente il numero dei senzatetto è talmente alto che quasi nessuno riesce ad accedere alle case ‘comunali’. Si parla di centinaia di migliaia di famiglie in fila con in mano gli ultimi numeretti di un welfare ormai in via di smantellamento.
Il programma per gli affitti sostenibili è il colpo di coda di Miliband dopo mesi di omologazione passiva all’agenda elettorale imposta dai Conservatori e dagli indipendentisti xenofobi dell’UKIP: referendum sulla membership Ue, sanità pubblica, immigrazione, tasse. Ed The Red si è finora difeso come ha potuto, finché non ha trovato nell’affitto la reale ‘discriminante’ tra chi è di destra e chi è di sinistra, tra chi vuole mantenere lo status quo e l’egemonia di chi ha il capitale da investire nella proprietà e chi, invece, cerca di emancipare i lavoratori dalla schiavitù dell’affitto dando loro la possibilità futura dell’accesso alla proprietà.
Il piano Labour per calmierare il mercato affitti prevede contratti standard della durata di tre anni (la media attuale è di un anno), divieto alle agenzie immobiliari di incassare anticipi dagli affittuari prima della consegna della casa, tetto al rincaro affitti relazionato al tasso d’inflazione. Nel presentare il piano di fronte alle telecamere della BBC, Miliband si è scontrato con il sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson il quale vede nel ‘piano affitti’ una minaccia per il mercato immobiliare della capitale britannica.
Per i Tories di Cameron, infatti, la soluzione al problema casa sarebbe dare il via ad una maxi speculazione edilizia con la costruzione di nuove case popolari fuori città ed estensione del diritto a poter comprare la proprietà a coloro che già vivono nelle case delle ‘housing associations’ (case popolari accessibili a basso costo tramite il sistema del welfare). Un intervento limitato che avvantaggia quei pochi che possono comprare o che già pagano un affitto bassissimo e protetto dalle speculazioni del mercato.
Se gli ultimi polls danno ai Labour un punto di vantaggio, 34% rispetto al 33% dei Conservatori, ‘Ed the Rent’ potrebbe tagliare il nastro del traguardo con il mattoncino rosso-brick con un margine ancora più ampio; sarebbe quel margine di elettorato che ogni mese consegna l’intero stipendio al padrone di casa e che sinora non aveva ancora sentito la parolina magica negli slogan elettorali: ‘rent’.
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di Michele Paris
Se il governo degli Stati Uniti avesse implementato integralmente le norme imposte dal presidente Obama nel 2013 al programma di bombardamenti con i droni in Pakistan, i due ostaggi di al-Qaeda uccisi lo scorso mese di gennaio da un raid della CIA nel paese centro-asiatico - l’americano Warren Weinstein e l’italiano Giovanni Lo Porto - sarebbero con ogni probabilità ancora in vita.
Questa è la conclusione a cui conduce una rivelazione pubblicata nel fine settimana dal Wall Street Journal, secondo la quale la CIA avrebbe ottenuto dalla Casa Bianca una speciale esenzione per continuare a seminare morte e terrore in Pakistan virtualmente senza nessuna restrizione.
Dopo le polemiche sorte in seguito all’ammissione da parte americana dell’assassinio con un drone nel settembre 2011 del cittadino USA Anwar al-Awlaki in Yemen, l’amministrazione Obama era stata costretta a mettere in piedi una campagna mediatica per limitare i danni e continuare a operare il proprio programma di morte in flagrante violazione del diritto internazionale.
Obama aveva perciò presentato in un intervento pubblico nel 2013 una serie di iniziative volte ufficialmente a fissare dei paletti all’utilizzo dei droni sul territorio di paesi sovrani per colpire sospettati di terrorismo. In realtà, l’iniziativa rispondeva alla necessità del governo di innescare un processo più o meno pubblico al fine di istituzionalizzare gli assassini mirati con i droni, dietro l’apparenza di regole più stringenti da applicare a un programma comunque illegale.
Tra le norme teoricamente imposte da Obama, la principale richiedeva alla CIA o al Pentagono - ovvero le due agenzie governative USA che gestiscono le operazioni con i droni all’estero - di verificare molto attentamente le informazioni di intelligence raccolte sui bersagli da colpire, in modo da autorizzare missioni solo contro sospetti che rappresentino una “minaccia imminente” per gli Stati Uniti.
Una simile misura avrebbe dovuto limitare al massimo le vittime civili, cioè i “danni collaterali”, causate in pratica da ogni bombardamento effettuato con i droni. Per questa ragione, i nuovi standard richiesti da Obama avrebbero dovuto far cessare ad esempio i cosiddetti “signature strikes”, quei bombardamenti operati in base a modelli di comportamento di maschi adulti in paesi come Pakistan o Yemen che lasciano intendere - dal punto di vista americano - di essere in presenza di possibili terroristi.
In altre parole, queste operazioni hanno come bersaglio non solo persone che non sono mai state accusate in maniera formale di un qualche crimine, ma di cui l’intelligence USA non conosce nemmeno l’identità. In questo modo, la morte di civili innocenti diventa impossibile da prevenire, tanto più in società dove le armi sono ampiamente diffuse tra la popolazione, come accade appunto nei paesi interessati dalle operazioni americane.
Ad ogni modo, per quanto riguarda le operazioni in Pakistan, la CIA era stata dispensata dal rispetto della regola di colpire esclusivamente “minacce imminenti” alla sicurezza nazionale USA. Per Obama, infatti, il solo fatto che un obiettivo dei droni possa far parte di al-Qaeda in questo paese, dove pare trovi rifugio la leadership dell’organizzazione fondamentalista, giustificherebbe assassini basati su informazioni di intelligence approssimative.
Ciò è appunto quanto accaduto nel caso dell’attacco che a gennaio ha causato la morte di Weinstein e Lo Porto. Questa incursione, secondo la ricostruzione del Wall Street Journal, era avvenuta dopo che nelle settimane precedenti erano stati individuati in un edificio in Pakistan cinque presunti militanti jihadisti, di cui uno ritenuto un presunto leader di al-Qaeda nonostante la sua identità fosse sconosciuta agli americani.
Appena prima del blitz, uno dei cinque bersagli aveva abbandonato l’edificio, mentre altri tre erano visibili all’esterno e il presunto leader di al-Qaeda si trovava all’interno. I sensori installati sui droni, che percepiscono il calore corporeo, avevano escluso la presenza di altre persone nell’edificio ma dalle macerie seguite al bombardamento sono stati alla fine estratti sei corpi in totale.
Weinstein e Lo Porto, secondo alcuni, erano alloggiati in una stanza interrata, sfuggendo così ai sensori, ma, in realtà, l’operazione ha mostrato come i droni della CIA colpiscano sostanzialmente alla cieca.
Obama, da parte sua, nel corso della conferenza stampa della scorsa settimana in cui si era scusato per la morte dei due ostaggi occidentali aveva sostenuto che l’operazione era avvenuta “nel pieno rispetto delle norme che regolano i nostri sforzi nella regione contro il terrorismo”, senza spiegare evidentemente in quale misura queste regole relative ai droni siano rispettate o se vi siano eccezioni alla loro implementazione.
Secondo anonimi membri ed ex membri del governo USA sentiti dal Journal, peraltro, “molti dei cambiamenti annunciati [da Obama] nel 2013 non sono stati applicati o lo sono stati solo in parte”, a conferma che le promesse del presidente sono state per lo più una mossa di propaganda per tenere buona l’opinione pubblica e i suoi sostenitori nell’ala “liberal” del Partito Democratico.
L’assunzione di responsabilità da parte di Obama per le più recenti vittime innocenti dei droni non porterà comunque alcuna conseguenza legale o politica. Oltre al prevedibile servilismo del governo italiano, con il ministro degli Esteri Gentiloni che è riuscito al massimo a elogiare Washington per “l’impegno alla massima trasparenza”, la vicenda dimostra come gli assassini condotti con i droni dagli Stati Uniti siano ormai considerati legittimi da tutta la classe politica americana e occidentale in genere, così come dalla stampa ufficiale.
Negli Stati Uniti, un approfondimento apparso sabato sul New York Times ha chiarito a sufficienza come ci sia totale consenso a Washington sulla facoltà auto-attribuitasi dal governo USA di eliminare sommariamente chiunque venga da esso stesso designato in maniera unilaterale come un possibile “terrorista”.
L’articolo in questione evidenzia in particolare la doppiezza di giudizio dei membri del Congresso, soprattutto democratici. Molti di questi ultimi, che avevano criticato aspramente la CIA per gli abusi commessi nel corso degli interrogatori con metodi di tortura ai danni di sospettati di terrorismo, sono oggi accesi sostenitori del programma di assassini operato con i droni.
Ironicamente, in molti casi a dirigere i bombardamenti letali in Pakistan e altrove sono proprio le stesse persone all’interno dell’agenzia che avevano diretta responsabilità sulle torture e che erano stati i destinatari delle accuse dei parlamentari USA.
Deputati e senatori americani sono d’altra parte totalmente complici nelle operazioni illegali della CIA. In un “rituale macabro”, spiega il New York Times, una volta al mese i membri delle commissioni per i Servizi Segreti di Camera e Senato sono ospitati presso il quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, dove assistono a filmati di “persone fatte a pezzi”.
I membri del Congresso osservano i video dei bombardamenti con i droni e hanno la possibilità di esaminare “campioni” di informazioni di intelligence che giustificano ogni operazione, ma “non i documenti interni all’agenzia nei quali vengono discussi gli attacchi e le loro conseguenze”.
In questa prassi si esaurisce dunque il ruolo di supervisione sulla CIA delle apposite commissioni di Camera e Senato. I loro membri possono così sostenere che “gli assassini mirati sono sottoposti a un rigido controllo” ed essi stessi in larga maggioranza li “difendono fermamente in pubblico” e ne “garantiscono il sostanzioso budget annuale”.
Il Congresso, in realtà, esercita una funzione di sorveglianza molto meno rigorosa di quanto i suoi membri affermino, così che, osserva il Times senza allarmarsi particolarmente, “il fermo sostegno [che il programma con i droni raccoglie] al Campidoglio”, malgrado la palese illegalità, “è una delle ragioni per cui le missioni di morte della CIA risultano incorporate nei metodi di guerra americani” ed è perciò “improbabile [che esse] possano essere cambiate in maniera significativa”.
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di Mario Lombardo
A seguito di un’indagine giornalistica apparsa nel 2012 negli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia di Washington e l’FBI hanno ammesso questa settimana che, per almeno due decenni prima dell’anno 2000, gli esaminatori dei laboratori scientifici della polizia federale americana hanno presentato prove di colpevolezza fasulle a carico degli imputati in quasi tutti i procedimenti giudiziari recentemente sottoposti a revisione.
Le autorità federali hanno aperto indagini sulla correttezza di numerosi processi dopo che il Washington Post aveva rivelato come esami al microscopio dei capelli rinvenuti sulle scene dei crimini fossero tutt’altro che attendibili ma comunque presentati in aula come prove pressoché inconfutabili da parte dell’FBI.
In questo modo, centinaia o forse migliaia di persone innocenti hanno ricevuto sentenze di condanna per gravi crimini, come omicidio o stupro, in tutti gli Stati Uniti. I verdetti si erano spesso basati sulle testimonianze degli esperti dell’FBI, i quali garantivano appunto che i capelli esaminati appartenevano agli imputati anche se i test non davano in realtà alcuna certezza.
Le prime statistiche sono state rese note dall’Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori (NACDL) e dall’organizzazione Progetto Innocenza che hanno collaborato con il governo americano nella revisione delle prove scientifiche dei casi sospetti. I risultati fin qui noti riguardano oltre 200 processi, mentre circa 350 - su un totale di 2.500 - sarebbero stati riesaminati alla metà di aprile.
Dai dati diffusi questa settimana emerge che dei 28 specialisti dei laboratori dell’FBI coinvolti nei processi analizzati, 26 avevano esagerato l’importanza dei test tricologici, favorendo l’accusa in oltre il 95% dei casi. Tra di essi vi sono quelli di 32 imputati condannati a morte, di cui 14 già giustiziati o deceduti in carcere.
In definitiva, un numero potenzialmente enorme di imputati è stato condannato ingiustamente negli ultimi decenni negli Stati Uniti, a causa della determinazione con cui i procuratori hanno perseguito verdetti di colpevolezza, da ottenere anche basandosi su esami scientifici errati condotti dall’FBI.
La ricotruzione di uno dei casi in questione fatta dal quotidiano britannico Guardian riguarda la vicenda di George Perrot, il quale ha trascorso quasi 30 in carcere in seguito alla condanna per lo stupro di una donna anziana nel 1985 a Springfield, nel Massachusetts.
L’allora 17enne Perrot era finito alla sbarra nonostante non fosse stato rinvenuto alcun reperto biologico che lo collegasse alla scena del crimine. La stessa vittima aveva testimoniato che l’imputato non somigliava per nulla all’aggressore.
Durante il processo, tuttavia, un agente dell’FBI esperto di analisi tricologiche aveva spiegato alla corte che uno specialista sufficientemente addestrato era in grado di confermare quasi senza margine d’errore che un campione di capelli apparteneva a una determinata persona.
Ricorrendo a un gergo rigorosamente scientifico, l’agente dell’FBI aveva così spazzato via ogni dubbio, collegando Perrot al crimine di cui era accusato. La sua testimonianza, però, è risultata essere errata, come molte altre basate su questo genere di esami.
Secondo la comunità scientifica, simili esami non sono infatti affidabili e capelli di persone diverse possono apparire simili, così che i test tricologici devono essere incrociati con più accurate prove del DNA. Uno studio realizzato dall’FBI già nel 2002 aveva peraltro accertato come nell’11% dei casi i propri test del DNA avessero smentito quelli del capello ritenuti validi.
Nella città di Washington, l’unica giurisdizione negli USA dove finora sono stati riaperti tutti i casi con condanne basate su esami di laboratorio di capelli, a partire dal 2009 cinque imputati su sette, i cui processi includevano testimonianze errate di esperti dell’FBI, sono stati scagionati grazie al test del DNA. Tutti e cinque avevano già scontato condanne dai 20 ai 30 anni di carcere per omicidio o stupro.
Per il co-fondatore del gruppo Progetto Innocenza, “l’uso per tre decenni da parte dell’FBI dell’esame del capello al microscopio per incriminare gli imputati nei procedimenti penali è stato un completo disastro”.
Nei casi caratterizzati da errori, le autorità federali stanno offrendo ora la possibilità di eseguire test del DNA sugli imputati, ma solo se richiesti da un giudice o dall’accusa. Solo gli stati della California e del Texas prevedono però esplicitamente la possibilità di ricorrere in appello nel caso esperti di laboratorio ritrattino le loro testimonianze o quando vi siano progressi scientifici tali da screditare prove precedenti.
Lo scandalo delle false prove prodotte dall’FBI per ottenere condanne in procedimenti penali non fa dunque che confermare la natura brutale e sostanzialmente anti-democratica del sistema giudiziario statunitense.
L’America è il paese che ospita il maggior numero di detenuti al mondo in rapporto alla propria popolazione e continua a eseguire condanne a morte senza sosta.
In alcuni stati, addirittura, la recente difficoltà nel reperire le sostanze chimiche da utilizzare nella procedura per l’iniezione letale ha portato al ripristino nei loro ordinamenti della possibilità di mettere a morte i condannati con metodi ancora più barbari ampiamente utilizzati in passato, come la fucilazione e la camera a gas.
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di Michele Paris
La coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, e impegnata nell’aggressione contro lo Yemen, tra martedì e mercoledì ha interrotto e poi ripreso le operazioni aeree di bombardamento in un possibile segnale delle contraddizioni che caratterizzano l’iniziativa di Riyadh che da circa un mese ha aperto un nuovo fronte di guerra in Medio Oriente.
Nella serata di martedì, un comunicato del ministero della Difesa saudita aveva annunciato lo stop alle bombe, poiché la cosiddetta “Operazione Tempesta Decisiva” aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi.
Gli attacchi delle ultime quattro settimane avrebbero cioè “annientato la minaccia alla sicurezza del regno e dei paesi vicini grazie alla distruzione delle armi pesanti e dei missili balistici finiti nelle mani degli Houthi e delle truppe fedeli all’ex presidente, Ali Abdullah Saleh”.
Il regime saudita aveva inoltre annunciato l’inizio della seconda fase dell’operazione relativa allo Yemen, denominata “Restituzione della speranza”, basata ufficialmente sulla ricostruzione del più povero dei paesi arabi e sul lancio di un processo politico. La fine dei bombardamenti avrebbe dovuto consentire anche l’ingresso degli aiuti umanitari nel paese, dove il bilancio stilato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di quasi 950 morti, in gran parte civili, 3.500 feriti e svariate migliaia di sfollati.
Molti giornali internazionali avevano però messo in guardia dalla possibile ripresa delle operazioni militari, vista la sostanziale inefficacia dell’intervento saudita nel fermare l’avanzata dei “ribelli” sciiti Houthi nello Yemen.
Infatti, nemmeno 24 ore dopo l’annuncio di Riyadh le bombe sono tornate a cadere sullo Yemen. Facendo seguito a una minaccia già lanciata martedì, gli aerei sauditi hanno nuovamente colpito le postazioni Houthi in risposta a un attacco scatenato da questi ultimi contro una brigata dell’esercito governativo yemenita nella città di Taiz.
Nonostante le intenzioni dell’Arabia Saudita appaiano difficili da decifrare, l’evoluzione delle operazioni nello Yemen osservata nei giorni scorsi sembra mostrare molte meno certezze da parte dei vertici del regno rispetto alle posizioni ufficiali.
Riyadh aveva ad esempio respinto in maniera sommaria una proposta presentata qualche giorno fa dall’Iran per una soluzione pacifica della crisi nello Yemen. Martedì, però, la decisione di sospendere le operazioni militari è giunta poche ore dopo che il vice-ministro degli Esteri di Teheran, Hossein Amir Abdollahian, aveva anticipato all’agenzia di stampa iraniana Tasnim la probabile entrata in vigore di un cessate il fuoco.
Se al momento non ci sono prove di una possibile intesa tra i due paesi rivali sullo Yemen, non è da escludere che l’Arabia Saudita stia valutando una qualche marcia indietro.
D’altra parte, alquanto dubbio appare il raggiungimento da parte saudita dell’obiettivo di gettare le basi per il reintegro dell’impopolare presidente-fantoccio Abd Rabbu Manosur Hadi, costretto prima alle dimissioni e poi alla fuga dall’offensiva degli Houthi iniziata lo scorso mese di settembre.
Del tutto plausibile sembra dunque che lo stop ai bombardamenti annunciato martedì sia motivato dalle conseguenze di una campagna che ha fatto poco o nulla per indebolire gli Houthi ma che, invece, ha provocato la devastazione nello Yemen.
L’altissimo numero di vittime civili e l’evidenza di svariate incursioni che hanno avuto come bersaglio obiettivi tutt’altro che militari hanno provocato l’orrore nella comunità internazionale, mentre nello Yemen hanno suscitato l’ostilità di gran parte della popolazione, ad esclusione degli ambienti militari e politici anti-Houthi che vedono nell’intervento saudita l’unica possibilità di riconquistare il potere perduto.
Su Riyadh sono così aumentate le pressioni per interrompere le operazioni militari. Dagli stessi Stati Uniti erano apparsi chiari i malumori per l’iniziativa militare yemenita, soprattutto in relazione a possibili riflessi negativi sul negoziato per il nucleare dell’Iran in dirittura d’arrivo.
La complicità dell’amministrazione Obama nell’aggressione saudita allo Yemen è comunque innegabile, visto che Washington ha garantito assistenza nell’identificazione dei bersagli da colpire e ha collaborato nel blocco navale ai danni del paese della penisola arabica, da ultimo proprio qualche giorno fa quando è stato rafforzato il dispiegamento di navi da guerra USA al largo delle coste per impedire possibili trasferimenti di armi agli Houthi da parte dell’Iran.
In ogni caso, molti giornali avevano riportato nei giorni scorsi colloqui tra i vertici del governo americano e le autorità saudite. Il segretario di Stato, John Kerry, avrebbe ad esempio discusso più volte con Riyadh della crisi nello Yemen, mentre il direttore della CIA, John Brennan, ha recentemente visitato la capitale saudita.
Il presidente Obama, poi, ha incontrato lunedì alla Casa Bianca il principe di Abu Dhabi Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahyan, al quale, secondo la stampa americana, avrebbe manifestato le proprie perplessità per una campagna a cui anche gli Emirati Arabi hanno dato il pieno sostegno.
La ripresa dei bombardamenti nella giornata di mercoledì ha comunque rimesso in discussione - almeno in parte - gli sviluppi delle ore precedenti, anche se l’eventuale prosecuzione delle incursioni aeree difficilmente potrà cambiare la situazione sul campo.
Gli unici risultati prodotti da quattro settimane di campagna militare nello Yemen, così, sono stati esclusivamente massacri di civili, il precipitare della crisi umanitaria e significativi progressi dell’organizzazione jihadista al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), combattuta dagli Houthi e teoricamente nemico giurato di Arabia Saudita e Stati Uniti.
Al di là dell’eventuale proseguimento dei bombardamenti o di una nuova sospensione delle incursioni aeree, resta sempre percorribile per Riyadh l’opzione di un’invasione dello Yemen con truppe di terra. Altri osservatori hanno al contrario collegato la decisione di martedì con i possibili spiragli di una soluzione politica alla crisi emersi in seguito alla nomina da parte del presidente in esilio Hadi dell’ex primo ministro, Khaled Bahah, alla carica di vice-presidente.
Secondo la stampa internazionale, quest’ultimo sarebbe una figura meno controversa di Hadi e in grado di raccogliere consensi in tutto il panorama politico yemenita, forse perchè aveva cavalcato l’ondata rivoluzionaria che nel 2011 chiedeva le dimissioni del presidente Saleh, nonostante egli stesso facesse parte del partito al potere.
Bahah era finito tuttavia agli arresti domiciliari dopo l’offensiva che a gennaio aveva portato alla conquista della capitale, Sanaa, da parte degli Houthi, i quali, a fronte di settimane di bombardamenti, non sembrano ancora disposti a fare troppe concessioni all’Arabia Saudita e ai suoi alleati sunniti.
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di Mario Lombardo
Il presidente cinese, Xi Jinping, all’inzio di questa settimana è stato accolto in maniera quasi trionfale dalla classe politica pakistana nel corso di una visita più volte rimandata a Islamabad e da molti definita dai connotati storici o, quanto meno, con il potenziale di innescare un riassetto delle relazioni strategiche nel continente asiatico.
Il leader cinese è giunto in Pakistan con un pacchetto di prestiti e progetti d’investimento in infrastrutture pari a qualcosa come 45 miliardi di dollari. In particolare, l’obiettivo di Pechino è quello di sviluppare il cosiddetto “corridoio economico” che dovrebbe collegare i due paesi partendo dal porto pakistano di Gwadar, sul Mare Arabico, per giungere alla provincia nord-occidentale cinese di Xinjiang.
Secondo il ministro pakistano per la Programmazione, Ahsan Iqbal, 28 dei 45 miliardi di dollari promessi dalla Cina andranno in progetti che dovrebbero essere completati già entro il 2018. Tra di essi spiccano quelli per infrastrutture destinate a risolvere la cronica carenza di energia elettrica che affligge il Pakistan, i cui abitanti e le cui aziende devono fare i conti con black-out quasi giornalieri.
Il presidente Xi è atterrato lunedì a Islamabad, dove, assieme al primo ministro pakistano Nawaz Sharif ha siglato una cinquantina di accordi commerciali e per nuovi progetti. Una dichiarazione congiunta ha specificato alcuni dei punti sui quali i due paesi intendono cooperare, a cominciare dall’incremento degli scambi commerciali dagli attuali 15 miliardi di dollari annui ad almeno 20 miliardi nei prossimi tre anni. A questo scopo, Cina e Pakistan hanno concordato di accelerare il secondo round delle discussioni già inaugurate per la firma di un trattato bilaterale di libero scambio.
Pechino e Islamabad intendono poi rafforzare i già robusti legami militari attraverso una maggiore collaborazione nell’ambito delle esercitazioni, dell’addestramento del personale e della fornitura di tecnologia ed equipaggiamenti.
Cruciali sono inoltre anche gli accordi di cooperazione riguardo all’energia atomica e alla sicurezza. Nel primo caso, i rapporti risultano già intensi, con la Cina che ha contribuito alla costruzione di sei reattori in funzione e fornirà assistenza, tra l’altro, anche nella realizzazione di una nuova centrale nucleare che sorgerà a Karachi.
In merito alla sicurezza e alla lotta alla minaccia fondamentalista, gli interessi dei due paesi appaiono strettamente legati, come ha ribadito Xi nel suo discorso senza precedenti di martedì di fronte a una sessione congiunta del parlamento di Islamabad. Non solo la stabilizzazione del Pakistan è il requisito fondamentale per la creazione di uno spazio economico che può generare benefici comuni, ma, nell’immediato, la Cina conta sull’impegno del proprio vicino per annientare la minaccia di gruppi estremisti che operano da entrambi i lati del confine, come il Movimento Islamico del Turkestan Orientale.
L’irruzione in maniera così clamorosa della Cina nella realtà economica pakistana appare dunque estremamente significativa, nonostante i due paesi siano tradizionalmente alleati, alla luce dell’importanza strategica attribuita a Islamabad dagli Stati Uniti dopo l’invasione dell’Afghanistan nell’autunno del 2001.
Ancor più, la visita di Xi va inserita in un contesto geo-strategico in pieno fermento, segnato dall’accordo sempre più vicino sul nucleare dell’Iran, con il conseguente “reintegro” a tutti gli effetti di Teheran nella comunità internazionale, dalla freddezza del Pakistan nei confronti dell’avventura bellica in Yemen di un altro alleato di ferro, come l’Arabia Saudita, e dal consolidamento della partnership dalla portata epocale tra Cina e Russia.
Il peso degli investimenti cinesi prospettati per il Pakistan è da considerarsi eccezionale vista l’immagine non esattamente di stabilità e affidabilità che distingue quest’ultimo paese. Come ha spiegato un’attenta analisi dell’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar sulla testata on-line Asia Times, ciò indica come il rilancio del Pakistan sia diventato un “motivo di serio interesse dalla prospettiva delle esigenze di sicurezza interne della Cina”, ma anche come Pechino si consideri ormai pienamente uno dei garanti della stabilità dell’Asia centrale, requisito peraltro essenziale alla “promozione delle proprie politiche regionali e globali”.
Questa rinnovata attenzione verso il Pakistan comporta, almeno nelle intenzioni di Pechino, nientemeno che il tentativo di “liquidare l’influenza americana” su Islamabad. Uno sforzo strategicamente necessario vista la natura anti-cinese della “svolta” asiatica intrapresa da qualche anno da Washington.
Sul piano strettamente economico, d’altra parte, gli Stati Uniti non sono in alcun modo in grado di competere con la Cina. Secondo i dati del Congresso USA, infatti, a partire dal 2002 il governo americano avrebbe sborsato un totale di 31 miiardi di dollari in aiuti al Pakistan, di cui due terzi destinati oltretutto a questioni legate alla “sicurezza”, con la conseguenza di avere inasprito il conflitto interno e ostacolato ancor più i progressi economici e sociali del paese.
Allo stesso modo, a minare i rapporti con Islamabad hanno contribuito anche le incertezze delle amministrazioni succedutesi a Washington, la mancanza di rispetto per la sovrantà del paese, mostrata più volte dagli USA nell’ultimo decennio, e l’urgenza della costruzione di una nuova partnership strategica con l’India, ovvero il nemico storico del Pakistan, anche in questo caso principalmente in funzione anti-cinese.
Per la Cina, in sostanza, il Pakistan rappresenta una porta d’accesso fondamentale ai mercati mondiali, offrendo soprattutto la possibilità di avere un’alternativa alle rotte marittime che transitano attraverso lo stretto di Malacca, esposto alla minaccia di blocco da parte americana in situazioni di crisi.
Per questa ragione, ha aggiunto il già citato articolo apparso qualche giorno fa su Asia Times, Pechino ritiene “cruciale” fare in modo che Washington non abbia alcuna capacità di bloccare lo sbocco cinese verso i mercati globali attraverso il Pakistan.
La strategia cinese va comunque inquadrata in un panorama più ampio, come confermano gli sforzi già ben avviati per stabilire relazioni salde con altri paesi dell’Asia centrale, facendo però attenzione ad “armonizzare le proprie mosse” con quelle della Russia, la quale considera quest’area come la propria area di influenza.
Il coordinamento delle strategie centro-asiatiche di Cina e Russia, con l’obiettivo di contrastare le iniziative americane, è visibile proprio in Pakistan. Un paio di giorni prima della visita di Xi a Islamabad, infatti, i ministri della Difesa di Russia e Pakistan hanno sottoscritto a Mosca un accordo per un’esercitazione militare congiunta, la prima in assoluto tra le forze armate dei due paesi, a segnalare l’avvio di un possibile disgelo nelle loro relazioni bilaterali storicamente complicate.