di Mario Lombardo

A ormai quasi un anno dalla fine ufficiale delle operazioni di combattimento NATO in Afghanistan, le condizioni del paese centro-asiatico continuano a rimanere estremamente precarie, con gli “insorti” Talebani che sembrano rappresentare sempre più una seria minaccia per il governo-fantoccio di Kabul. Le forze che si battono contro l’occupazione americana hanno suggellato un 2015 caratterizzato da considerevoli progressi sul fronte militare con un attentato suicida nella giornata di lunedì che è stato il singolo episodio più grave per le truppe USA da quasi tre anni e mezzo.

L’attacco ha preso di mira un convoglio, composto da soldati americani e dell’esercito afghano, che stava attraversando un villaggio nei pressi dell’aeroporto di Bagram, a una cinquantina di chilometri dalla capitale, dove sorge la più grande base USA del paese. Le vittime sono state alla fine sei - tutte americane - e tre i feriti.

Poche ore più tardi, i Talebani hanno lanciato almeno tre razzi su Kabul, due dei quali sono esplosi rispettivamente in un quartiere che ospita ministeri e rappresentanze diplomatiche straniere e non lontanto dalla super-fortificata ambasciata americana.

Queste e altre iniziative dei Talebani hanno significativamente seguito di alcuni giorni una visita a sopresa in Afghanistan del segretario alla Difesa USA, Ashton Carter, proprio per discutere con gli alti ufficiali americani il deteriorarsi della situazione nel paese occupato dal 2001. Un paio di mesi fa, d’altra parte, il presidente Obama aveva annunciato il rinvio del ritiro delle forze armate dall’Afghanistan per lasciare quasi 10 mila uomini almeno fino alla fine del prossimo anno.

L’attentato di Bagram è avvenuto nel pieno di un’altra offensiva Talebana nella provincia meridionale di Helmand, tradizionalmente considerata una roccaforte degli “insorti”. Già da domenica scorsa i Talebani controllerebbero la città di Sangin, assieme al 65% del territorio dell’intera provincia, almeno secondo quanto affermato nei giorni scorsi dal numero uno del consiglio provinciale di Helmand, Muhammad Kareem Atal.

Il senso di panico diffuso tra le autorità locali, assieme allo stato confusionario in cui versano le debolissime istituzioni afghane, è apparso evidente da un disperato appello lanciato domenica dal vice-governatore della provincia di Helmand, Mohammad Jan Rasulyar. Quest’ultimo, sostenendo di non avere a disposizione altri mezzi di comunicazione con Kabul, ha pubblicato un messaggio su Facebook per chiedere al presidente afgano, Ashraf Ghani, di inviare rinforzi ed evitare che la provincia cada interamente nelle mani dei Talebani.

Il giorno successivo, un portavoce del ministero della Difesa di Kabul ha poi assicurato che a Helmand era arrivato un contingente delle forze speciali afgane per condurre una controffensiva contro i Talebani. Martedì, nella base di Camp Shorabak sono giunti anche alcuni soldati britannici, in aggiunta a quelli americani già presenti a Helmand da qualche settimana.

La costante presenza di forze NATO a sostegno dell’esercito afgano, com’è evidente, smentisce la versione di Washington, secondo la quale i militari stranieri rimasti nel paese svolgerebbero soltanto il ruolo di consiglieri o addestratori.

In 14 anni di guerra, comunque, molti distretti della provincia di Helmand sono stati segnati da violente battaglie e le località che sfuggono per il momento al controllo Talebano sono state più volte minacciate, specialmente negli ultimi mesi. Secondo i media americani, la stessa capitale provinciale, Lashkar Gah, sarebbe ora nel mirino dei Talebani, assestati ai confini della città in previsione di un possibile assalto.

Le vicende di Helmand ricordano quelle recenti nella provincia settentrionale di Kunduz, dove i Talebani avevano per alcuni giorni occupato l’omonima capitale prima di operare una ritirata strategica di fronte al contrattacco dell’esercito di Kabul e delle forze speciali statunitensi.

Durante l’intervento, un aereo AC-130 americano aveva bombardato a lungo un ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz, uccidendo 42 persone tra pazienti e staff medico, in quello che è apparso a tutti gli effetti come un crimine di guerra.

L’aggravarsi della situazione in Afghanistan è stato confermato pochi giorni fa anche dal Pentagono. Un rapporto del dipartimento della Difesa USA ha descritto come le perdite subite dalle forze di sicurezza afgane siano aumentate di quasi il 30% rispetto all’anno precedente, già considerato tra i più sanguinosi dal 2001.

Inoltre, il punto critico rimane sempre lo stato dell’esercito e della polizia indigeni, secondo il Pentagono bisognosi di “maggiore assistenza per diventare una forza capace, credibile e indipendente”. Gli “insorti”, infatti, “stanno perfezionando le loro capacità nell’individuare e sfruttare i punti deboli delle forze afgane, rendendo la situazione ancora precaria in alcune aree chiave e a rischio di deterioramento in altre”.

Nella già ricordata provincia di Helmand, ad esempio, secondo alcune stime nel corso del 2015 sarebbero morti circa duemila soldati afgani. Per le autorità locali, inoltre, l’avanzata dei Talebani sarebbe facilitata dall’elevato numero di militari che decidono di disertare e, spesso, di unirsi agli stessi “insorti”.

Tutto questo accade nonostante gli Stati Uniti continuino a spendere ogni anno più di 4 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza afgane. La loro sostanziale inefficacia, causata principalmente dall’estraneità se non dall’aperta ostilità all’occupazione americana e della NATO, fornisce d’altronde la giustificazione per continuare a mantenere decine di migliaia di soldati stranieri nel paese a oltre 14 anni dall’inizio della guerra.

La situazione militare al limite del disastro, infine, non è diversa da quella economica e sociale. Come ha spiegato il rapporto di fine anno dell’ONU sull’Afghanistan diffuso questa settimana, sono i civili a pagare le conseguenze più pesanti dell’interminabile conflitto, visto che il numero di vittime continua a salire, così come quello di coloro che sono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni.

Inevitabilmente, un simile panorama si traduce in indicatori economici sempre più allarmanti, con povertà e disoccupazione in aumento anche a causa della progressiva riduzione del flusso di aiuti internazionali dai quali l’economia dell’Afghanistan è da tempo in larga misura dipendente.

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