di Mario Lombardo

Il discorso di lunedì del presidente americano Obama al Pentagono ha preceduto di poche ore l’arrivo a Mosca del segretario di Stato, John Kerry, per una visita, a detta del Cremlino, voluta dalla stessa Casa Bianca allo scopo di testare la possibilità di proseguire i negoziati per una soluzione politica della crisi in Siria. I toni usati da Obama sono stati però tutt’altro che pacifici e la sua apparizione presso il centro nevralgico della macchina da guerra USA è apparso a molti come un tentativo di placare gli animi dei “falchi” che all’interno della classe dirigente americana chiedono un intervento più incisivo in Medio Oriente, ufficialmente per sconfiggere lo Stato Islamico (ISIS/Daesh).

La presunta efficacia dei bombardamenti dei jet americani e degli alleati di Washington contro l’ISIS/Daesh nelle ultime settimane è stata al centro del discorso del presidente, assieme alla promessa di colpire ancora più duramente i fondamentalisti che continuano a controllare una porzione significativa di territorio tra la Siria e l’Iraq.

I media ufficiali hanno descritto l’intervento di Obama come una sorta di nuova dichiarazione di guerra all’ISIS/Daesh, senza interrogarsi sugli oltre dodici mesi di conflitto già trascorsi con risultati oggettivamente trascurabili.

Il discorso di Obama ha comunque suggellato un’escalation interventista iniziata almeno dall’attentato di Parigi del 13 novembre scorso e che ha avuto un’ulteriore impennata dopo la strage di San Bernardino, in California, a inizio dicembre. Dopo la decisione presa dalla Casa Bianca di inviare nella regione altre truppe delle Forze Speciali, attualmente attive in territorio siriano, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno approvato l’intervento delle rispettive forze aeree nel paese sconvolto dalla guerra contro il regime di Assad.

L’intensificazione del conflitto annunciata sinistramente da Obama questa settimana mette dunque di fronte sempre più nel teatro di guerra in Siria un numero crescente di potenze con interessi contrastanti, rendendo complicato anche solo l’avvio di un percorso diplomatico.

La questione più scottante riguarda sempre il futuro del presidente siriano Assad e il ruolo che dovrebbe svolgere nel potenziale processo di transizione che si sta cercando di negoziare. Lo scontro sulla posizione del leader alauita (sciita) consiste in realtà nell’orientamento strategico che la nuova Siria dovrà avere, se rimarrà cioè allineata all’Iran e alla Russia o diventerà invece un altro fantoccio filo-americano.

Washington e i regimi sunniti mediorientali intendono ovviamente liquidare Assad, anche se soprattutto gli Stati Uniti sembrano avere ammorbidito la loro posizione in proposito, lasciando intendere che il presidente siriano potrebbe rimanere al suo posto durante il periodo iniziale della transizione politica.

Molto meno concilianti sono al contrario la Turchia, l’Arabia Saudita e le altre monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico, le quali gradirebbero un’uscita di scena immediata di Assad, preferibilmente in maniera volontaria oppure attraverso la forza delle armi dei gruppi fondamentalisti che esse stesse appoggiano.

Questa identica posizione è stata assunta recentemente anche da svariate formazioni dell’opposizione siriana, riunitesi a Riyadh per trovare un accordo su una linea comune in vista dell’avvio delle trattative con i rappresentanti del governo di Damasco. Nonostante la dichiarazione congiunta emessa al termine dei lavori, il summit è stato caratterizzato da aspre divisioni interne all’opposizione, a conferma della sostanziale impossibilità di creare un fronte unito che possa presentarsi come interlocutore credibile nel processo di pace.

Questa difficoltà deriva dal fatto che praticamente nessuno dei gruppi che combattono contro Assad dispone di una reale base popolare in Siria, essendo piuttosto e in larga misura guerriglieri e mercenari al servizio di potenze straniere o fondamentalisti ugualmente sovvenzionati da Ankara, Abu Dhabi, Doha o Riyadh. Non a caso, infatti, sia il governo russo che quello iraniano hanno condannato il meeting nella capitale saudita, dove a loro dire erano presenti anche i rappresentanti di organizzazioni terroristiche.

Il futuro di Assad è stato in ogni caso discusso martedì a Mosca tra Kerry e il suo omolgo russo, Sergey Lavrov, e tra il numero uno della diplomazia USA e il presidente russo Putin. Sia Kerry che Lavrov hanno auspicato il raggiungimento di un compromesso tra Stati Uniti e Russia, visto che almeno a livello ufficiale entrambe le potenze considerano l’ISIS/Daesh come una minaccia globale.

Per il Cremlino, inoltre, l’attitudine dell’amministrazione Obama sarebbe cambiata negli ultimi tempi e risulterebbe evidente una minore ostilità nei confronti della Russia, con implicazioni potenzialmente positive riguardo la situazione in Siria.

In realtà, la relativa moderazione della Casa Bianca, a fronte delle spinte per scatenare una nuova guerra totale provenienti dal Partito Repubblicano e da molti anche tra quello Democratico, nasconde l’intenzione di giungere tramite il negoziato allo stesso obiettivo finora mancato con la forza. E questo obiettivo – la rimozione di Assad – continua a essere diametralmente opposto a quello perseguito dalla Russia.

I tentennamenti di Obama e le oscillazioni del suo governo tra gli sforzi diplomatici e una strisciante escalation militare vanno letti probabilmente secondo un’ottica interna. Se, da un lato, l’attenzione della Casa Bianca sembra essersi posata in gran parte sulla competizione con la Cina in Asia orientale e l’appetito per trascinare gli Stati Uniti in un nuovo conflitto rovinoso in Medio Oriente con decine di migliaia di soldati sul campo è decisamente scarso, dall’altro Obama deve far fronte in qualche modo alle pressioni interne e mostrare il proprio impegno a risolvere la crisi siriana senza sacrificare gli interessi americani.

Ad ogni modo, la fluidità della situazione è confermata dal fatto che fino a martedì non era ancora chiaro se il prossimo round di negoziati sulla Siria, previsto per il fine settimana a New York, avrebbe avuto luogo. La decisione di procedere in questo senso è giunta solo in seguito al vertice di Mosca, anche se già la prima questione sulla quale servirà un’intesa per fare qualche passo avanti rischia di mandare in crisi l’intero processo.

Come stabilito nel precedente incontro di Vienna, i governi coinvolti nelle discussioni dovranno accordarsi su una lista comune di formazioni terroriste operanti in Siria che saranno escluse dai negoziati. Il compito di stilare questo elenco è stato assegnato alla Giordania, sul cui governo in molti stanno esercitando forti pressioni per includere i gruppi preferiti o escludere quelli sgraditi.

Anche tra USA e Russia sembra esserci poco accordo su questo punto. Una delle critiche che Washington rivolge puntualmente a Mosca è infatti quella di bombardare forze anti-Assad diverse dall’ISIS/Daesh, tra le quali spiccano però formazioni integraliste violente come il Fronte al-Nusra - filiale ufficiale di al-Qaeda in Siria - Ahrar al-Sham e altre di importanza relativamente minore, ovvero una galassia jihadista, spesso propaganda come “moderata”, utilizzata più o meno apertamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati come forza d’urto per abbattere il regime di Assad a Damasco.

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