di Michele Paris

L’imminente probabile implementazione dell’accordo internazionale sul programma nucleare dell’Iran sta incontrando una serie di ostacoli e imprevisti che indicano il permanere di forti resistenze, soprattutto negli Stati Uniti, al relativo riavvicinamento tra Washington e Teheran. Il più recente episodio dai contorni significativi in questo senso si è chiuso apparentemente mercoledì con la liberazione da parte dell’Iran di dieci marinai americani che il giorno prima erano a bordo di due navi finite nelle acque della Repubblica Islamica nel Golfo Persico.

Le due imbarcazioni stavano navigando dal Kuwait al Bahrain quando, secondo i vertici militari USA, almeno una di esse avrebbe avuto un guasto meccanico che l’ha fatta finire fuori rotta. A come anche la seconda nave sia entrata nelle acque territoriali iraniane non è stata data spiegazione.

Martedì, i media ufficiali negli Stati Uniti hanno riportato la vicenda dando ampio spazio ai tentativi dei militari e dell’amministrazione Obama di minimizzare l’incidente. Il New York Times, però, pur senza trarre conseguenze ha spiegato che “le acque attraversate dalle due navi sono in un luogo nel quale gli USA, l’Iran e molti paesi del Golfo [Persico] raccolgono spesso informazioni di intelligence”.

Le imbarcazioni sono state sequestrate dalla divisione navale delle Guardie della Rivoluzione (IRGC) e i membri dell’equipaggio messi in stato di fermo sull’isola di Farsi, dove sorge un’importante base militare iraniana.

Fonti del governo americano avevano subito assicurato che i propri uomini sarebbero stati liberati in tempi brevi e che i due paesi erano in costante contatto per risolvere la mini-crisi. Lo stesso segretario di Stato, John Kerry, avrebbe discusso telefonicamente della vicenda con il suo omologo, Mohammad Javad Zarif, il quale, secondo la stampa iraniana, ha a sua volta chiesto a Washington scuse formali.

Nella mattinata di mercoledì, alcuni siti di news hanno riportato dichiarazioni di esponenti dell’IRGC che lasciavano intendere possibili ritardi nella liberazione dei marinai americani. Alla fine, questi ultimi sono potuti invece tornare ai loro reparti, verosimilmente solo con qualche ora di ritardo rispetto a quanto ipotizzato dai media negli Stati Uniti.

La gestione della vicenda da parte iraniana suggerisce un possibile conflitto tra i vari centri di potere della Repubblica Islamica, tanto più che il comandante della marina dell’IRGC, ammiraglio Ali Fadavi, aveva sostenuto che la portaerei americana Truman, localizzata nel Golfo Persico, aveva “agito in maniera provocatoria e non professionale” dopo il sequestro delle due navi. Lo stesso comandante ha tuttavia alla fine confermato la versione del guasto tecnico per spiegare lo sconfinamento.

La possibile provocazione americana potrebbe in definitiva avere alimentato lo scontro interno all’Iran circa l’atteggiamento da tenere nei confronti degli USA, con le Guardie della Rivoluzione considerate su posizioni critiche verso l’intesa sul nucleare, negoziata dal governo del presidente, Hassan Rouhani.

Se delle eventuali spaccature interne alla Repubblica Ismanica se ne è avuto soltanto il presentimento, la questione appena risolta nel Golfo Persico ha invece messo ancora chiaramente in evidenza quelle che caratterizzano la classe dirigente americana. Già lo stesso sconfinamento non autorizzato nelle acque di un paese sovrano potrebbe indicare un’iniziativa non coordinata con un’amministrazione Obama pronta a iniziare il processo previsto dall’accordo sul nucleare sottoscritto a Vienna lo scorso mese di luglio.

Soprattutto, però, l’azione sostanzialmente legittima della marina iraniana ha innescato una valanga di reazioni isteriche, quanto insensate, della destra Repubblicana a Washington. Svariati candidati alla presidenza e i soliti “falchi” del Congresso hanno tuonato contro la Casa Bianca, mettendo in guardia Obama dal trattare la liberazione dei marinai, che avrebbe dovuto essere immediata e senza condizioni, o dall’esibire nuovamente debolezza di fronte all’Iran.

Praticamente nessun giornale “mainstream” americano ha fatto notare come, in presenza dell’ammissione della violazione delle acque territoriali iraniane da parte dei vertici militari USA, la responsabilità dell’accaduto è da attribuire interamente alla marina statunitense che, oltretutto, da tempo mantiene una presenza minacciosa al largo delle acque della Repubblica Islamica.

La destra Repubblicana rappresenta d’altra parte quelle sezioni dell’apparato di potere negli Stati Uniti che vedono con estrema diffidenza la distensione con l’Iran. Ogni passo in questo senso, secondo loro, rappresenta una deviazione inaccettabile dall’obiettivo di sottomettere Teheran senza condizioni alle necessità strategiche americane, anche per non mettere a repentaglio le relazioni con alleati già abbastanza irritati, come Arabia Saudita e Israele.

Proprio queste frange, riferibili alla galassia “neo-con”, sono dietro ad altre iniziative e dichiarazioni che hanno animato il fronte anti-Iraniano di Washington nell’ultimo periodo. Il tempismo di simili interventi è tale da coincidere con la delicata fase che dovrebbe segnare l’entrata in vigore dei termini dell’accordo sul nucleare.

Proprio a inizio settimana, ad esempio, l’Iran avrebbe pressoché ultimato la disattivazione del reattore installato nel controverso impianto nucleare di Arak, come previsto appunto dall’intesa. In precedenza, più di 11 tonnellate di uranio a basso arricchimento in possesso della Repubblica Islamica erano state inviate in Russia.

Se l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) certificherà, come dovrebbe fare già nei prossimi giorni, il rispetto da parte iraniana degli obblighi iniziali previsti dall’accordo, avrà inizio la fase dell’allentamento delle sanzioni economiche internazionali che gravano da anni su Teheran.

In molti, dagli Stati Uniti a Israele alle monarchie del Golfo Persico, intendono però cercare di sabotare l’accordo. Se a Tel Aviv i toni anti-iraniani sembrano essersi relativamente attenuati, quanto meno a livello pubblico, il regime saudita è nel pieno di una campagna provocatoria per far naufragare il processo di distensione, come ha dimostrato tra l’altro l’esecuzione del religioso sciita Nimr al-Nimr a inizio anno.

A Washington, invece, gli oppositori dell’amministrazione Obama sul fronte iraniano stanno provando ad attuare un nuovo pacchetto di sanzioni, nella speranza di provocare la reazione di Teheran e spingere la Repubblica Islamica ad abbandonare l’accordo.

Al Congresso, sia i Repubblicani sia una buona parte dei Democratici sono decisi a votare un pacchetto di misure punitive in risposta al recente test con missili balistici condotto dall’Iran. Deputati e senatori si sono inoltre lamentati con la Casa Bianca, colpevole a loro dire di voler ritardare o impedire del tutto l’adozione delle sanzioni per il timore di far saltare l’accordo sul nucleare.

In realtà, lo stesso dipartimento del Tesoro USA sembrava essere sul punto di mettere sulla lista nera altre compagnie e cittadini privati iraniani per i loro legami con il programma di missili balistici, ma il Dipartimento di Stato sarebbe in seguito intervenuto per eliminare ogni ostacolo all’entrata in vigore dell’accordo di Vienna. Quest’ultimo, in ogni caso, non fa alcun riferimento alla questione dei missili balistici dell’Iran.

Se, dunque, l’annosa disputa sul programma nucleare di Teheran appare sempre più vicina a imboccare l’inizio del percorso che dovrebbe teoricamente portare alla sua pacifica soluzione, gli ostacoli che restano sono ancora numerosi.

Inoltre, anche se l’amministrazione Obama e i suoi partner che hanno negoziato l’intesa a Vienna sembrano decisi a seguire per il momento la strada della diplomazia, il conseguente reintegro a tutti gli effetti dell’Iran nei meccanismi strategici ed economici internazionali non sarà privo di complicazioni, vista la persistente divergenza di interessi in Medio Oriente e su scala globale dei (quasi) ex rivali di Washington e Teheran.

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