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di Michele Paris
Mentre l’Unione Europea al termine di una riunione di emergenza nel fine settimana annunciava un oneroso accordo con il governo della Turchia per tenere gli immigrati fuori dai confini del vecchio continente, in quest’ultimo paese andava in scena l’ennesimo gravissimo giro di vite sui diritti democratici in nome delle manovre strategico-militari condotte dal presidente Erdogan e dal primo ministro Davutoglu. Un’intesa che era già stata prefigurata alcune settimane fa è stata suggellata a Bruxelles, dove i vertici UE hanno confermato il pagamento ad Ankara di una cifra pari a tre miliardi di euro che, nelle parole della cancelliera tedesca Merkel, dovrebbe contribuire a “far restare i migranti nella regione [mediorientale]” e, soprattutto, fuori dall’Europa.
Oltre al denaro, l’Europa intende offrire alla Turchia la ripresa dei vertici bilaterali, ma anche un’accelerazione sull’abolizione del visto d’ingresso nei paesi UE per i cittadini turchi e il ritorno al tavolo delle trattative per l’ingresso a pieno titolo di Ankara nell’Unione.
L’accordo, al di là delle rassicurazioni, dà in sostanza carta bianca a un regime sempre più autoritario per contrastare i flussi migratori, con modalità che, quasi certamente, provocheranno un numero maggiore di morti e il dilagare delle violazioni dei diritti umani di coloro che fuggono da situazioni disperate, la cui responsabilità, per quanto riguarda soprattutto la Siria, è da attribuire peraltro proprio alla Turchia e ai governi occidentali.
Se la decisione dell’UE risponda a un’illusoria convinzione che Erdogan sia in grado o abbia la volontà di stoppare gli immigrati diretti in Europa, sia pure con metodi repressivi, o risulti piuttosto un costoso espediente per favorire un’escalation del conflitto in Siria non appare del tutto chiaro. Quel che è certo, però, è che difficilmente i governi europei e i burocrati non eletti di Bruxelles siano all’oscuro sia della deriva autoritaria del governo Erdogan-Davutoglu sia dei metodi proposti da questi ultimi per fermare l’esodo di profughi dalla Siria.
Lo stesso presidente Erdogan, nel corso di una visita a Bruxelles ai primi di ottobre, aveva ad esempio esposto “tre passi” da compiere per risolvere la crisi migratoria in Medio Oriente. Il contenuto di tutte e tre le iniziative (illegali) smascherava in realtà le intenzioni di un governo molto più interessato a perseguire il cambio di regime a Damasco, visto che l’addestramento e la fornitura di armi all’opposizione anti-Assad, la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il confine con la Turchia e l’imposizione di una “no-fly zone” nella stessa area non farebbero altro che alimentare ulteriormente il caos in Siria.
Il denaro che sarà erogato dall’Unione Europea potrebbe così essere impiegato da Ankara a questi scopi, anche se la presenza della Russia oltre il confine meridionale rende per il momento complicate le ultime due proposte di Erdogan. Per questa ragione, il governo turco potrebbe finire soprattutto per intensificare il proprio sostegno finanziario, militare e logistico ai gruppi armati in Siria, inclusi quelli di orientamento jihadista come lo Stato Islamico (ISIS/Daesh).
Ad ogni modo, l’imbarazzo generato dall’accordo da tre miliardi di euro tra Bruxelles e Ankara è stato tale che quasi tutti i media ufficiali in Occidente hanno dovuto dedicare almeno un breve commento sull’apparente contraddizione tra la difesa dei valori democratici che guiderebbe le politiche dell’Unione e il deterioramento del clima democratico in Turchia.
Un qualche imbarazzo lo ha mostrato la stessa Merkel, quando, alla domanda di un giornalista curdo circa le violazioni dei diritti umani che si stanno moltiplicando sotto il governo dell’AKP, non avendo risposte adeguate a portata di mano, ha replicato che “questo argomento non è stato discusso a lungo” durante il vertice UE.
Nonostante la poca sorprendente indifferenza per l’argomento diritti umani della cancelliera tedesca, un qualche approfondimento degli eventi dei giorni scorsi in Turchia da parte dei governi dell’Unione sarebbe stato illuminante. Se non altro, ciò avrebbe potuto rappresentare un promemoria sulla doppiezza delle politiche di Bruxelles, caratterizzate da un lato da sanzioni a un paese come la Russia, intervenuta in Ucraina orientale indubbiamente per difendere i propri interessi ma comunque in risposta alla minaccia rappresentata dall’installazione di un regime golpista a Kiev da parte di Washington e Berlino, e dall’altro da una pioggia di denaro su un governo, come quello turco, responsabile di una lunga serie di violazioni dei diritti umani e delle norme del diritto internazionale.
Le vicende di due autorevoli giornalisti e di tre alti ufficiali turchi hanno infatti portato nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le tendenze repressive di Erdogan e del suo governo. Giovedì scorso, il direttore e il responsabile della sede di Ankara del quotidiano Cumhuriyet, rispettivamente Can Dündar e Erdem Gül, sono stati arrestati dopo un lungo interrogatorio a Istanbul per avere pubblicato nel mese di maggio alcune immagini che documentavano automezzi carichi di armi inviati in Siria sotto la supervisione dei servizi segreti turchi (MIT).
Le accuse formulate dalla giustizia turca nei confronti dei due giornalisti sono sbalorditive e includono: spionaggio, rivelazione di documenti riservati e affiliazione a un’organizzazione terroristica. Secondo il giornale turco il materiale era diretto verso alcuni gruppi fondamentalisti dell’opposizione siriana, com’è noto utilizzati da tempo dalla Turchia per cercare di abbattere il regime di Assad a Damasco.
La Gendarmeria turca, ovvero la sezione delle forze armate che si occupa dell’ordine pubblico interno, nel gennaio del 2014 aveva intercettato in due occasioni alcuni veicoli pesanti in seguito a soffiate su possibili carichi illegali di armi da trasferire in Siria. Il governo, da parte sua, aveva smentito questa accusa, sostenendo che gli automezzi in questione trasportavano carichi “umanitari” destinati ai ribelli siriani di etnia turcomanna.
Accuse di spionaggio e di tradimento sono state dunque rivolte ai due giornalisti di Cumhuriyet, ma anche ai vertici della Gendarmeria turca che avevano autorizzato l’intercettazione dei carichi che sarebbero dovuti giungere ai terroristi attivi in Siria.
Anche due generali e un colonnello in pensione sono stati arrestati domenica a Istanbul con le accuse di avere “ottenuto informazioni confidenziali a scopo di spionaggio politico o militare, rivelato informazioni segrete relative alla sicurezza nazionale a scopo di spionaggio, tentato di rovesciare il governo della Repubblica turca o di impedirne il funzionamento, fondato o guidato un’organizzazione terroristica armata”.
Sul caso era già intervenuto anche Erdogan, il quale aveva definito l’indagine allora in corso ai danni dell’MIT un atto di “tradimento e spionaggio” da parte dei procuratori coinvolti, a loro volta sottoposti a indagine.
Soprattutto l’arresto dei due giornalisti ha suscitato indignazione anche tra la popolazione turca, già segnata da una campagna contro la libertà di stampa che, solo nelle ultime settimane, aveva registrato la chiusura di un gruppo editoriale vicino all’opposizione a pochi giorni dalle recenti elezioni anticipate vinte dall’AKP.
Nella giornata di domenica, una folla composta soprattutto da giornalisti ha sfilato per le strade di Istanbul per esprimere solidarietà a Can Dündar e Erdem Gül e per chiederne la scarcerazione. Il portavoce di un’associazione della stampa turca è stato tra coloro che hanno parlato durante l’evento, sottolineando come il governo stia trasformando il giornalismo – “necessità fondamentale per una società civile” – in un’attività criminale.
Alla manifestazione era presente anche il segretario generale di Reporter Senza Frontiere (RSF), Christophe Deloire, il quale ha ricordato come la Turchia occupi il 149esimo posto su 180 paesi elencati nella classifica della libertà di stampa stilata dalla stessa organizzazione con sede in Francia.
Deloire ha poi assicurato che RSF continuerà a esercitare pressioni sull’Unione Europea per adoperarsi per il rispetto del pluralismo e della libertà dei media in Turchia. Simili appelli ai governi europei sono giunti dagli stessi giornalisti di Cumhuriyet in carcere ma, anche considerandoli in buona fede, risultano pericolosamente illusori visti i precedenti dell’UE e lo stesso recente accordo tra Bruxelles e Ankara sui migranti.
A ben vedere, infatti, la legittimazione di Erdogan e del suo regime da parte europea non deve sorprendere alla luce del collasso delle forme di governo democratiche che sta avvenendo in gran parte dei paesi del vecchio continente.
A questo processo di erosione dei diritti democratici più fondamentali si è assistito drammaticamente proprio nella gestione della cosiddetta “emergenza” legata ai migranti, che Bruxelles chiede oggi alla Turchia di contribuire a risolvere, ma anche nell’implementazione in Francia di misure da stato di polizia dopo gli attentati di Parigi, versione finora più estrema di un assalto diffuso alle libertà civili e giustificato, come sempre, dalle necessità della “guerra al terrore”.
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di Michele Paris
A pochi giorni dall’abbattimento del caccia russo Su-24 da parte della Turchia, i contorni dell’episodio sembrano sempre più confermare i sospetti iniziali di una provocazione progettata a tavolino dal governo di Ankara nel disperato tentativo di fermare le operazioni militari di Mosca in Siria contro i terroristi che combattono il regime di Assad. La decisione presa ad altissimo livello dal governo turco ha riportato nel dibattito sulla crisi siriana tutte le ambiguità della politica estera promossa dal presidente Erdogan e i legami a dir poco sospetti della sua cerchia di potere con i gruppi fondamentalisti sunniti che operano a sud del confine, incluso lo stesso Stato Islamico (ISIS/Daesh).
I sospetti sui fatti di martedì sono stati ampiamente confermati non solo dalle dichiarazioni dei vertici politici e militari russi, ma anche dalla stessa contraddittoria versione fornita dalla Turchia. Il pilota russo sopravvissuto ha affermato che le autorità turche non avevano lanciato nessun avvertimento al velivolo prima dell’abbattimento. Ankara, da parte sua, giovedì ha diffuso dubbie registrazioni degli avvertimenti che sarebbero stati indirizzati ai due piloti russi. Nel materiale audio pubblicato dalla Associated Press non vi è inoltre traccia della risposta di questi ultimi.
Com’è stato ampiamente riportato dalla stampa occidentale “mainstream”, secondo i tracciati radar forniti da Ankara, se anche il jet russo avesse violato lo spazio aereo turco, sarebbe rimasto all’interno di esso per non più di 17 secondi, rendendo alquanto improbabile il fatto che la Turchia avesse potuto lanciare dieci avvertimenti ai piloti in cinque minuti. Anzi, ciò rivela semmai come siano stati gli F-16 turchi a violare lo spazio aereo siriano, nel quale hanno abbattuto il Su-24 russo, precipitato infatti ben all’interno del territorio della Siria.
Vista la situazione, appare chiaro che l’aereo da guerra russo non rappresentava alcuna minaccia alla sicurezza della Turchia. Nei casi poi di sconfinamenti che non indicano minacce, la pratica comune suggerisce iniziative ben diverse per risolvere un episodio di questo genere, a cominciare dall’invio di caccia del paese “invaso” per cercare di accompagnare al di fuori del proprio spazio aereo il velivolo “invasore”. Tanto più che, com’è stato fatto notare da Mosca, la Russia ha siglato un accordo con gli Stati Uniti per evitare incidenti durante le operazioni in Siria e tale accordo sembrava dover riguardare anche gli alleati di Washington che fanno parte della coalizione impegnata ufficialmente contro l’ISIS/Daesh.
Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha inoltre ricordato come lo stesso Erdogan avesse affermato pubblicamente nel 2012 che una breve violazione dello spazio aereo di un altro paese non giustificava l’abbattimento di un velivolo militare. Queste parole erano state pronunciate dall’allora primo ministro turco dopo che il governo di Damasco aveva ordinato l’abbattimento di un caccia di Ankara accusato di avere sconfinato in Siria.
Se si considera come accertata la provocazione da parte della Turchia, risulta fondamentale chiedersi quali siano i motivi che hanno spinto Erdogan e il premier Davutoglu a prendere una decisione così grave, ma anche se il governo dell’AKP abbia agito o meno in accordo con gli Stati Uniti e gli altri paesi NATO.
Per quanto riguarda il primo aspetto ci sono sostanzialmente due questioni da valutare. La prima ha a che fare con la necessità da parte turca di difendere le formazioni “ribelli” fondamentaliste siriane dagli attacchi russi. Ankara ha investito parecchio nella galassia integralista attiva in Siria, senza troppi scrupoli nell’appoggiare gruppi come il Fronte al-Nusra - ovvero la filiale siriana di al-Qaeda - e lo stesso ISIS/Daesh. La Turchia continua infatti a rappresentare un centro logistico e un territorio di passaggio fondamentale per i guerriglieri, il denaro e le armi dirette verso la Siria.
Come ha fatto notare il presidente russo Putin alcuni giorni fa, questa dissennata politica della Turchia non solo risponde alle esigenze strategiche del governo di Ankara, che consistono principalmente nella rimozione del regime di Assad, ma permette a una schiera di funzionari, uomini d’affari e politici che ruotano più o meno attorno all’AKP di realizzare considerevoli profitti.
Una delle principali fonti di finanziamento dell’ISIS/Daesh è rappresentata dalla vendita clandestina di greggio estratto dai pozzi petroliferi in Siria sottratti al controllo di Damasco. Questo petrolio sembra finire in gran parte proprio in Turchia, dove viene acquistato a prezzi decisamente inferiori a quelli di mercato e garantisce un flusso di denaro continuo nelle casse degli uomini del “califfo” al-Baghdadi.
Addirittura, lo stesso figlio del presidente Erdogan, Bilal, è stato nei giorni scorsi indicato come uno dei beneficiari di questo traffico illegale di greggio dalle aree controllate dall’ISIS/Daesh verso la Turchia. Putin, d’altra parte, nel corso del recente vertice dei G-20 proprio in Turchia aveva rivelato in una conferenza stampa come “alcuni paesi membri di questo consesso siano tra i principali finanziatori dell’ISIS/Daesh”.
A evidenziare questi legami non è stato solo il governo russo, ma anche quello americano, ad esempio con il sotto-segretario di Stato, David Cohen, che lo scorso ottobre aveva quantificato in circa un milione di dollari al giorno i guadagni dell’ISIS/Daesh provenienti dalla vendita di petrolio, principalmente alla Turchia.
I recenti bombardementi della Russia contro convogli che trasportavano greggio proveniente dai pozzi controllati dall’ISIS/Daesh avrebbero quindi provocato un danno strategico ed economico tutt’altro che indifferente per la Turchia, spingendo il suo governo a mettere in atto una clamorosa ritorsione.
L’altra motivazione che avrebbe indotto Ankara a ordinare l’abbattimento del caccia russo è legata invece agli sviluppi diplomatici e militari emersi dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre. Se l’intervento russo in Siria ha già messo in crisi la strategia di Erdogan in questo paese, le prospettive per la Turchia sono ulteriormente peggiorate in seguito al progetto del presidente francese Hollande di costituire una coalizione anti-ISIS/Daesh che includa Mosca.
La provocazione contro la Russia di martedì sarebbe perciò un tentativo di ostacolare queste manovre in atto tra Mosca e Parigi, tant’è vero che uno dei temi che hanno trovato maggiore spazio sui media ufficiali subito dopo l’abbattimento del Su-24 è stato proprio il complicarsi dei piani di Hollande per mettere in piedi un più ampio ed efficace fronte contro i terroristi attivi in Siria.
Nei piani di Erdogan, agitare una presunta minaccia russa alla sicurezza nazionale turca avrebbe dovuto convincere la NATO a intralciare la riconciliazione franco-russa e, nella migliore delle ipotesi, trascinare la stessa Alleanza direttamente nel conflitto siriano per ottenere un ridimensionamento dell’impegno militare russo e la creazione di una sospirata “no-fly zone” nel nord della Siria.
La scommessa di Erdogan è stata ad ogni modo estremamente rischiosa, oltre che sconsiderata, visto che, pur segnando una pericolosa escalation del conflitto siriano con possibili serie conseguenze future, almeno per il momento la risposta della NATO non è andata al di là di una dichiarazione di circostanza che ha espresso solidarietà alla Turchia per la violazione dello spazio aereo da parte della Russia.
A livello non ufficiale, diplomatici di vari paesi NATO sembrano anche avere espresso maggiori apprensioni per l’atteggiamento turco, avallando di fatto la versione proposta da Mosca per i fatti di martedì.
Le manovre di Erdogan che hanno portato all’abbattimento del jet russo, come anticipato in precedenza, sollevano però un importante interrogativo circa l’eventuale complicità di Washington. I commentatori si sono divisi su questo punto, con alcuni che hanno considerato impossibile un’iniziativa del genere senza il via libera degli Stati Uniti. Se non altro, infatti, il mancato sostegno americano avrebbe lasciato la Turchia completamente esposta a una possibile devastante reazione militare russa.
Altri, al contrario, ritengono che la decisione di Ankara sia stata l’ennesimo esempio della natura impulsiva e imprevedibile di un Erdogan che continua ad assistere al clamoroso fallimento della propria politica siriana. In tal caso, quest’ultimo avrebbe voluto costringere Washington e la NATO ad agire al proprio fianco dopo avere presentato il fatto compiuto della presunta “aggressione” russa, seguita dall’abbattimento del Su-24.
Secondo questa interpretazione, la prova che l’amministrazione Obama e la NATO non fossero al corrente dell’abbattimento dell’aereo russo starebbe nella risposta cauta che ne è seguita. La freddezza occidentale dipenderebbe allora dal ruolo destabilizzante della Turchia in relazione alla Siria, dovuto in primo luogo al persistente appoggio garantito ai jihadisti, ma anche al timore delle conseguenze di un gesto simile, ossia un rafforzamento dell’impegno russo a favore del regime di Assad.
Infatti, le prime iniziative di Mosca dopo la provocazione turca sono state l’intensificazione dei bombardamenti contro i “ribelli” anti-Assad fondamentalisti - o “moderati”, secondo il giudizio dei governi in Occidente - e soprattutto l’annuncio del dispiegamento del sofisticato sistema di difesa missilistico S-400 nel nord della Siria.
Quest’ultima misura deve apparire particolarmente allarmante ad Ankara e in Occidente, visto che segnerebbe l’istituzione di fatto di una “no-fly zone” russa nelle stesse aree della Siria dove Erdogan - assieme agli ambienti “neo-con” americani - intendeva crearla, restringendo dunque le opzioni degli Stati Uniti e dei loro alleati per giungere al cambio di regime a Damasco.
Al di là del coordinamento o meno con Washington da parte di Ankara nell’abbattere il caccia russo, nonché delle tensioni crescenti tra gli alleati che vogliono disfarsi di Assad tramite le formazioni che compongono l’opposizione armata in Siria, gli obiettivi strategici di questi ultimi coincidono in larga misura e le differenze che stanno emergendo appaiono per lo più di natura tattica.
Gli Stati Uniti e la Turchia, in particolare, hanno mostrato di essere entrambi pronti a scatenare una guerra dalle conseguenze incalcolabili contro una potenza nucleare come la Russia pur di difendere i propri interessi sullo scacchiere mediorientale.
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di Fabrizio Casari
Il neoliberista Maurizio Macrì, leader di Cambiemos, ha vinto il ballottaggio elettorale contro Daniel Scioli, rappresentante del centrosinistra argentino. Sebbene non si possa parlare di risultato inaspettato, di sovversione dei pronostici, la vittoria di Macrì, divide nettamente in due il Paese, dato del resto confermato da uno scarso 3% di differenza numerica nell’affermazione elettorale. Macrì, inoltre, non godrà nemmeno di una maggioranza nei due rami del Parlamento, che restano al centrosinistra, e avrà quindi dei margini di manovra limitati, pur essendo ampi i poteri della presidenza.
Figlio di immigrati italiani calabresi, Macrì è l’uomo che c’ha messo la faccia, ma il disegno politico, il denaro e le alleanze che hanno reso possibile la su vittoria vengono dai settori interni ed esteri in nome e per conto dei quali il nuovo presidente di origine italiana dovrà governare. Interessi che hanno nomi e cognomi, a cominciare dagli Stati Uniti, passando per i grandi gruppi editoriali e industriali argentini e le lobbies finanziarie statunitensi.
La vittoria di Macrì, pur se scarna, è per gli Stati Uniti di fondamentale importanza, perché l’Argentina è stata uno dei due giganti latinoamericani (insieme al Brasile) che ha dato vita al rifiuto dell’ALCA, al processo di democratizzazione del continente ed alla fine dell’assoggettamento di esso alla volontà politica della Casa Bianca, divenendo uno dei protagonisti del processo d’integrazione latinoamericana.
Gli Stati Uniti ritengono che possa cominciare da Buenos Aires la rincorsa della destra latinoamericana, che vede nel voto argentino l’inizio della marcia verso il revanscismo continentale, che nei piani di Washington dovrebbe proseguire con la crisi degli organismi comunitari, attori principali dell’integrazione latinoamericana. Obiettivo da perseguirsi attraverso la cacciata dei governi progressisti, dal Brasile alla Bolivia, dall’Ecuador fino al Venezuela.
A breve termine Washington e i suoi alleati ritengono di poter bissare il successo argentino con le prossime elezioni parlamentari in Venezuela, puntando sulle difficoltà economiche del governo di Nicolas Maduro e ritenendo di poter incassare il risultato di due anni di golpismo strisciante, violenza e accaparramento, menzogne e propaganda, paramilitari e speculatori impegnati a distruggere l’opera politica e sociale del governo bolivariano in favore degli ultimi.
Non a caso, per cominciare bene, Macrì ha lanciato minacce alla Bolivia di Evo Morales e al Venezuela di Maduro. Per quest’ultima ha chiesto addirittura l’esclusione dal Mercosur, indicandola colpevole di violare i diritti umani. L’applicazione della “clausola democratica” invocata da Macrì ha bisogno però del voto unanime del Mercosur e già l’Uruguay ha fatto sapere che non se ne parla nemmeno, figuriamoci gli altri membri. Dunque Macrì non ha ancora ricevuto l’investitura ma ha già preso la prima sberla. Non sarà l’unica: l’uomo è tutto meno che un genio della politica.
In una replica più ampia, chiede sanzioni al Venezuela per mancato rispetto dei diritti umani, ma non tiene conto che il governo di Caracas è stato da poco nominato membro del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite con il voto di 131 paesi su 192. Tutti accecati dal chavismo? Del resto, a chiarire meglio l’idea che Macrì ha dei diritti umani, vi è la proposta di chiudere con una generale amnistia nei processi ai militari che si macchiarono di ogni atrocità per tenere in piedi la dittatura genocida guidata da Videla.
A fargli eco, con scarso tempismo, non appena saputo della vittoria di Macrì, un editoriale del quotidiano La Naciòn ha già chiesto di porre fine ai processi, suscitando il ripudio generale ma fornendo, al contempo, un’idea chiara di come i finanziatori occulti del nuovo presidente sono già in fila a chiedere la restituzione del dovuto.
Il fatto è che Macrì riceve indicazioni dagli avanzi del golpismo di mezzo continente, tra cui spiccano i paramilitari colombiani legati ad Uribe e la destra brasiliana, che vedono nel ritorno delle dittature militari l’unica possibilità di resurrezione per una destra xenofoba e mercantilista a chiare tinte nazistoidi. A completare il quadretto degli orrori c’è poi una consigliera particolare, la moglie di Leopoldo Lopez, leader golpista dell’ultra destra venezuelana giudicato e condannato a Caracas per aver organizzato le guarimbas che misero a ferro e fuoco il Venezuela nel Febbraio del 2014 e dove vennero uccisi uomini delle forze dell’ordine e civili.
Ma dietro a questi comprimari c’è, come sempre c’è stata, la politica statunitense. A ben vedere, nella scelta di utilizzare alleati impresentabili, Obama non si dimostra diverso dai suoi predecessori. Pur avendo avuto l’occasione storica di aprire una nuova stagione nelle relazioni continentali, ha preferito associare come sempre gli USA a una destra fascistoide e razzista, che addirittura attraverso alcuni suoi esponenti europei come Aznar, gli ha dettato l’agenda politica nel continente.
L’obiettivo finale è ambizioso: sconfiggere i governi progressisti e riportare così le lancette della storia indietro di 12 anni, per chiudere con la stagione dell’integrazione latinoamericana, con le politiche economiche e sociali che hanno ridotto enormemente la forbice sociale nel continente e che grazie alle politiche keynesiane lo hanno tenuto al riparo dalla spaventosa crisi finanziaria che ha colpito USA ed Europa. Un continente con meno fame e molta più uguaglianza, infatti, non produce la disperazione e l’obbedienza utile a mercati di riserva.
Va quindi ridisegnato in chiave di sottomissione se si vogliono ripristinare le politiche turbo-liberiste, soddisfacendo così le ansie speculative della finanza internazionale e la sete di potere delle combriccole della destra continentale, che per compiacere i suoi padroni statunitensi e raccogliere le briciole che cadono dalle loro tavole, prepara le condizioni per la ripresa di un mercato nel quale scaricare le eccedenze di mercato statunitensi che hanno bisogno di difendersi dalle conseguenze finanziarie di una nuova crisi finanziaria globale alle porte.
L’Argentina è il laboratorio per eccellenza del ritorno al passato, simbolicamente incarnato dalla postura golpista delle formazioni di destra che, dentro l’Argentina e nel resto del continente, vedono la vittoria di Macrì come una loro vittoria, l’inizio della loro vendetta. Ciononostante Macrì non avrà un cammino facile. L’intenzione di abbandonare l’Alba e Unasur per consentire l’ingresso nell’Alleanza del Pacifico e riportare il Mercosur sotto l’influenza della UE sarà un processo complesso il cui esito è tutt’altro che certo, visti i rapporti di forza parlamentari.
E anche sul piano interno le cose non appaiono semplici. Il tentativo di rimettere l’economia in mano alle lobbies che, internamente ed esternamente sono pronte a divorarsi di nuovo il Paese, sarà irto di difficoltà. L’intenzione annunciata di sostanziale rivisitazione delle riforme sociali impulsate dal kirchnerismo, che hanno portato innumerevoli benefici agli strati più umili della popolazione, troverà certamente un dura opposizione dalla metà del paese che non vuol vedere rientrare dalla finestra il darwinismo sociale uscito dalla porta.
Macrì non potrà eliminare le politiche di assistenza senza pagare un duro prezzo, così come non potrà regalare agli speculatori le imprese strategiche nazionalizzate dal peronismo kirchnerista. Proprio pochi giorni fa, prudentemente, è stata approvata una legge che prevede la cessione di rami strategici dell’economia nazionale ai privati solo con il voto favorevole dei due rami del Parlamento, nessuno dei quali Macrì controlla.
Certo, si deve riconoscere che il Paese esprimeva segnali evidenti di stanchezza. Ci si aspettava una sconfitta persino più ampia del centrosinistra. Non solo le difficoltà della congiuntura mondiale e il carico di problemi economici strutturali del Paese, ma anche le scelte di politiche progressiste in economia, hanno contribuito all’identificazione con la destra delle classi medie e alte; che vivono sognando il modello americano e rimpiangendo di non essere nati al nord del Rio Bravo e vedono le politiche sociali come la peggiore delle minacce ai loro privilegi.
Le politiche d’inclusione sociale, del resto, drenano risorse pubbliche importanti sottraendole ai potenziali bacini di business, colpendo così la media e grande imprenditoria, che quindi scatena tutto l’odio sociale ed ideologico di cui dispone trasformando la vita politica del Paese in un ring dove sferra l’offensiva senza esclusione di colpi.
Finisce, comunque, l’era del kirchnerismo. Che, nonostante il susseguirsi di governi che hanno incontrato il favore della maggioranza degli argentini, non è stato in grado di proiettare la sua opera politica otre il limite dei mandati presidenziali esercitati da Cristina, di incarnare un progetto di trasformazione che andasse più in là della sua leadership. Questo è stato certamente un limite strutturale del kirchnerismo, come del resto lo fu del peronismo. Per ora, quindi, la destra purulenta e golpista festeggia. Si tratta di capire se e quanto durerà.
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di Mario Lombardo
La crisi in Siria ha fatto registrare nella mattinata di martedì una drammatica e preoccupante escalation in seguito all’abbattimento da parte della Turchia di un aereo da guerra russo che avrebbe sconfinato all’interno del proprio territorio. L’episodio, non nuovo da parte di Ankara, ha mostrato in maniera chiara come l’aggravarsi della situazione siriana, con l’intervento militare di numerosi paesi a difesa dei rispettivi interessi strategici, rischia di provocare scontri che possono portare a un pericoloso allargamento del conflitto.
Le circostanze dell’abbattimento del jet di Mosca sono state descritte in maniera differente dalle autorità turche e da quelle russe. Per il governo islamista di Ankara, due F-16 turchi avrebbero colpito un SU-24 russo dopo che quest’ultimo era entrato nello spazio aereo della Turchia nei pressi del confine con la Siria. Lo Stato Maggiore turco ha sostenuto che il velivolo russo avrebbe ignorato dieci avvertimenti in cinque minuti prima di essere abbattuto.
Il Ministero della Difesa russo ha invece affermato con decisione che il jet stava sorvolando il territorio siriano in una zona dove sono in corso scontri tra le forze del regime di Assad e gruppi “ribelli”. Inoltre, il fuoco che ha colpito il SU-24 che volava a seimila metri di altezza proveniva da terra. Quest’ultima affermazione è stata succesivamente smentita e anche il governo russo ha indicato due F-16 turchi come i responsabili dell’abbattimento.
I due piloti sono riusciti a lanciarsi con il paracadute prima dello schianto dell’aereo in territorio siriano. Uno di loro sarebbe però deceduto, mentre l’altro sembra essere nelle mani di un gruppo “ribelle” di etnia turcomanna. Secondo alcune testimonianze provenienti dall’opposizione siriana, anche il secondo pilota sarebbe stato ucciso e, stando a fonti del governo moscovita, un terzo militare russo sarebbe stato ucciso mentre cercava i due piloti.
La gravità dell’accaduto ha spinto il presidente russo Putin a intervenire pubblicamente già nel primo pomeriggio di martedì durante un incontro a Sochi con il re della Giordania, Abdullah. Il capo del Cremlino ha definito l’abbattimento come “una pugnalata nella schiena” da parte della Turchia che avrà “conseguenze serie” sui rapporti tra i due paesi. Mosca e Ankara solo lunedì avevano annunciato la volontà di rafforzare la cooperazione per fronteggiare le sfide regionali e globali, in previsione di un vertice strategico tra i due ministri degli Esteri che avrebbe dovuto tenersi a Istanbul nella giornata di mercoledì e che è stato invece cancellato.
Il SU-24 abbattuto, ha continuato Putin, stava conducendo operazioni belliche contro lo Stato Islamico (ISIS) nella regione montagnosa settentrionale di Latakia, dove sono attivi combattenti fondamentalisti in gran parte di nazionalità russa.
Putin ha poi attaccato il presidente turco Erdogan e il primo ministro Davutoglu per essersi rivolti subito alla NATO invece di contattare la Russia, “come se fossimo stati noi ad abbattere un loro aereo e non viceversa”. Il presidente russo ha anche confermato le prime dichiarazioni del ministero della Difesa, cioè che il jet non aveva sconfinato nello spazio aereo turco ed è precipitato in territorio siriano a sei chilometri dal confine, mentre al momento dell’abbattimento si trovava a un chilometro dal confine.
Il governo turco, da parte sua, ha convocato un alto diplomatico dell’ambasciata russa per chiedere spiegazioni sul presunto sconfinamento. Le tensioni tra i due paesi erano peraltro già vicine ai livelli di guardia a causa degli effetti negativi dell’intervento russo sui piani di Erdogan per la Siria. Ankara aveva già convocato l’ambasciatore di Mosca la scorsa settimana in seguito a bombardamenti russi molto vicini al confine turco.
La Turchia ha comunque chiesto e ottenuto una riunione di emergenza del consiglio della NATO. Viste le possibili gravi conseguenze dell’abbattimento e alla luce dei timori per un’escalation del confronto, prima del vertice un portavoce dell’Alleanza aveva tenuto a precisare che la riunione era stata indetta solo per consentire alla Turchia di spiegare l’accaduto e non vi era nessun riferimento all’Articolo IV del trattato, il quale scatta nel caso sia minacciata l’integrità territoriale, l’indipendenza o la sicurezza di un paese membro.
Il comunicato diffuso dalla NATO dopo il summit di emergenza nel tardo pomeriggio di martedì si è limitato a esprimere solidarietà alla Turchia per la violazione del suo spazio aereo da parte dell’aereo russo. I rappresentanti dei vari paesi membri hanno prevedibilmente riconosciuto il diritto della Turchia alla difesa del proprio territorio, ma allo stesso tempo sono prevalsi gli appelli alla calma.
Come hanno riferito alcuni giornali, svariati ambasciatori dei paesi NATO riunitisi a Bruxelles hanno parlato in privato dell’importanza di evitare una retorica troppo accesa che possa mettere a repentaglio i tentativi della Francia di costituire una coalizione militare con la Russia per combattere l’ISIS in Siria.
Il comunicato relativamente blando uscito dalla riunione di martedì è apparso infatti ben diverso da quello emesso solo lo scorso mese di ottobre, quando un’altra denuncia turca di un’invasione del proprio spazio aereo da parte russa era stata seguita da una “forte protesta” e dalla richiesta fatta a Mosca di “cessare” e “desistere” da quello che veniva definito un “comportamento irresponsabile”.
Nel pomeriggio di martedì è intervenuto anche il premier turco Davutoglu, il quale ha ribadito l’obbligo da parte della Turchia di difendere il proprio territorio, come se il presunto sconfinamento di un jet russo impegnato contro le formazioni jihadiste oltreconfine potesse rappresentare una minaccia esistenziale per il paese eurasiatico.
Ferma restando l’impossibilità al momento di accertare la verità, è evidente che i fatti di martedì mattina possono essere letti attraverso i vantaggi e gli svantaggi che da essi potrebbero derivare per le due parti coinvolte.
Per quanto riguarda la Russia, il cui governo sta conducendo una campagna militare in larga misura per la difesa dei propri interessi strategici in Medio Oriente, se si escludono eventuali errori di manovra da parte dei piloti del jet abbattuto, non sono per nulla chiare le ragioni che avrebbero potuto motivare uno sconfinamento in territorio turco nel pieno delle operazioni contro i gruppi “ribelli”.
Mosca, in sostanza, difficilmente potrebbe aver pensato di ricavare un qualche beneficio da una provocazione di questo genere, tanto più essendo perfettamente a conoscenza delle posizioni di Erdogan e del suo governo circa la situazione in Siria.
La Turchia, come già anticipato, ha visto infatti andare in crisi i propri piani per combattere il regime di Damasco in seguito all’intervento militare russo, a cominciare dalla creazione di una “no-fly zone” nel nord della Siria da utilizzare come territorio da cui organizzare un’offensiva contro le forze di Assad.
Proprio per alimentare la presunta minaccia alla propria sicurezza proveniente dalla Siria, il governo turco ha già messo in atto svariate provocazioni in passato, così da convincere i propri alleati occidentali, primi tra tutti gli Stati Uniti, ad agire in maniera più incisiva contro Damasco.
Nel marzo del 2014, gli F-16 turchi furono protagonisti di un altro abbattimento, in quell’occasione di un jet siriano che, secondo Ankara, aveva sconfinato nel proprio spazio aereo. Il regime di Assad aveva negato con forza la versione dell’incidente proposta dalla Turchia, la quale intendeva appunto utilizzare l’episodio per fare pressioni sulla NATO e intervenire a difesa dell’alleato sotto minaccia.
La crisi interna scatenata dal fallimento della politica mediorientale di Erdogan e Davutoglu, tutt’altro che superata dopo le recenti elezioni vinte nettamente dal loro partito (AKP), potrebbe dunque rappresentare anche in questa occasione la molla che ha spinto il governo di Ankara a prendere una decisione così grave nei confronti della Russia.
L’abbattimento del jet russo segna in ogni caso una pericosola complicazione della guerra in Siria e, forse, un passo avanti verso un catastrofico scontro diretto tra le parti che combattono a favore e contro il regime di Assad, queste ultime attraverso l’appoggio di gruppi fondamentalisti.
La delicatezza stessa della situazione siriana e le implicazioni di un’eventuale escalation, come ritengono molti osservatori, potrebbero però consigliare, almeno per il momento, iniziative meno gravi di quanto ci si potrebbe attendere. Da parte russa, nonostante i toni minacciosi di Putin, il già complicato coinvolgimento nelle operazioni in Siria suggerisce ritorsioni relativamente contenute nei confronti di Ankara, come ad esempio la presa di mira di formazioni anti-Assad sostenute dalla Turchia.
Martedì, comunque, Mosca ha annunciato la sospensione di ogni contatto di tipo militare con la Turchia, mentre un incrociatore russo sarà inviato al largo della costa siriana e avrà l’incarico di “distruggere qualsiasi obiettivo che rappresenti una potenziale minaccia”.
Per quanto riguarda gli alleati di Erdogan, tra i quali, come si è visto al termine della riunione di emergenza della NATO, sono giunti inviti alla calma nella giornata di martedì, è ipotizzabile invece che l’episodio verrà sfruttato quanto meno per esercitare ulteriori pressioni sulla Russia e convincere Putin a percorere una strada che, sulla Siria, converga sempre più con gli obiettivi strategici occidentali e della Turchia stessa.
Di ciò se ne è avuto conferma dalle dichiarazioni giunte sia dallo stesso vertice NATO sia da Washington. Nel primo caso, il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, ha esortato la Russia a concentrare il proprio sforzo bellico sull’ISIS, riproponendo la tesi che Mosca bombardi principalmente i gruppi moderati e secolari che si batterebbe contro Assad. L’identico concetto lo ha ribadito infine anche il presidente americano Obama nel corso dell’incontro negli Stati Uniti con il suo omologo francese Hollande.
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di Michele Paris
La risposta del governo britannico alla minaccia terroristica che graverebbe sul continente europeo è apparsa chiara da alcuni annunci e decisioni prese in questi giorni dal primo ministro, David Cameron, e dai membri del suo gabinetto. Londra darà cioè un nuovo impulso al militarismo fin dal prossimo futuro, sia sotto forma di nuove spese per rafforzare le proprie forze armate sia intervenendo direttamente nel teatro di guerra siriano. Il tutto mentre la spesa pubblica per i programmi sociali sul fronte domestico continuerà a essere tagliata in maniera drastica.
Lo stesso premier ha fatto sapere che il bilancio della Difesa aumenterà del 7% nei prossimi dieci anni, salendo a 178 miliardi di sterline. I programmi di spesa in questo ambito sono delineati in due documenti strategici presentati nella giornata di lunedì e anticipati dalla stampa già il giorno precedente.
Per cominciare, il governo intende acquistare 138 aerei da guerra F-35 dalla Lockheed Martin, così da averne 24 operativi per il 2023, vale a dire molto prima e in numero maggiore di quanto era previsto in precedenza. Inoltre, la “vita” dei jet Typhoon sarà prolungata di un decennio fino al 2040, in una mossa che amplierà significativamente la capacità di fuoco aereo britannica. Gli acquisti di Londra riguarderanno anche due nuove portaerei e nove aerei da pattuglia P8 della Boeing, utilizzabili per operazioni di sorveglianza e per manovre belliche contro navi e sottomarini.
Tra i piani del governo Conservatori vi è poi quello di creare entro il 2025 due brigate d’assalto composte da 5 mila uomini ciascuna, dotate di 600 veicoli blindati e pronte a intervenire in tempi brevissimi.
Ancora più importante appare l’impegno economico relativo all’intelligence e all’antiterrorismo. Le operazioni di questo genere beneficeranno di un incremento dei fondi pari addirittura al 30% fino al 2020, passando dagli 11,7 miliardi di sterline originariamente stanziati a 15,1 miliardi.
A tutto ciò vanno aggiunti 80 miliardi di sterline già preventivati per il rinnovamento dell’arsenale nucleare britannico, tra cui spicca l’aggiunta di quattro nuovi sottomarini nucleari, definito recentemente da Cameron la “suprema polizza assicurativa” del paese.
I giornali del Regno hanno sottolineato in questi giorni come la revisione di spesa precedente nel 2010 prevedesse un considerevole ridimensionamento del bilancio militare per contribuire alla riduzione del deficit pubblico. Mentre i tagli alla spesa in altri ambiti e che colpiscono i redditi più bassi non hanno quasi mai suscitato particolari proteste, quelli militari avevano causato diffusi malumori tra i vertici delle forze armate e tra sezioni di una classe dirigente preoccupata per il ruolo declinante della Gran Bretagna a livello internazionale.
Improvvisamente, Cameron sostiene oggi che Londra può tornare a permettersi spese militari da grande potenza. Che il vento avesse iniziato a cambiare era apparso chiaro già qualche mese fa, quando il governo si era impegnato a rispettare l’obiettivo indicato dalla NATO di spendere annualmente almeno il 2% del PIL nazionale in ambito militare.
Se l’incremento degli stanziamenti destinati ai militari viene presentato come assolutamente necessario per garantire la sicurezza del Regno Unito, è evidente il carattere classista delle politiche di spesa del governo Conservatore. Oltre a servire per promuovere gli interessi delle élites britanniche, la pioggia di sterline a beneficio dell’apparato militare e di intelligence contrasta drammaticamente con gli assalti al welfare, alla sanità e all’educazione pubblica condotti da Cameron in questi anni.
Proprio questa settimana, un paio di giorni dopo l’annuncio ufficiale delle aumentate spese militari, il Cancelliere dello Scacchiere (Ministro delle Finanze), George Osborne, delineerà inoltre un ulteriore piano d’attacco alla spesa pubblica, fatto di altri 20 miliardi di sterline di tagli, nel quadro dello sforzo per giungere a un attivo di bilancio nel 2020.
Mentre il denaro per le spese militari risulta dunque reperibile, le autorità locali e i ministeri che erogano servizi sociali fondamentali per gli strati più disagiati della popolazione del Regno continueranno a essere privati di fondi. Osborne ha infatti appena salutato l’accordo con 11 tra ministeri e dipartimenti per l’implementazione di tagli dei loro budget tra il 25% e il 40% che finiranno nella prossima “spending review”. Per comprendere la portata di queste riduzioni di spesa è opportuno ricordare che esse vanno a sommarsi a quelle già decise negli anni scorsi e che avevano spesso superato il 30% dei bilanci totali.
Per quanto riguarda i nuovi piani di spesa militari, in ogni caso, l’attacco terroristico del 13 novembre scorso a Parigi e il clima di assedio alimentato in tutta Europa da media e governi hanno fornito l’occasione per darne l’annuncio in questi giorni.
Allo stesso modo, il gravissimo attentato ha permesso a Cameron di resuscitare la richiesta di allargare l’impegno militare britannico in Medio Oriente - ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS) - dall’Iraq alla Siria. Nel primo paese le operazioni sono in corso da oltre un anno ma nel secondo l’ambizione del governo ad autorizzare i bombardamenti aerei è stata finora frustrata.
Dopo l’umiliazione del 2013, quando il Parlamento di Londra bocciò l’aggressione militare contro la Siria in seguito alle accuse infondate rivolte al regime di Assad di avere usato armi chimiche contro i civili, Cameron era stato molto cauto nell’approcciare la crisi in questo paese.
Alcuni mesi fa la questione dell’allargamento delle operazioni alla Siria era tornata all’ordine del giorno, con una richiesta di autorizzazione da presentare al Parlamento preparata dal governo. Recentemente, però, l’iniziativa era stata condannata da una commissione della Camera dei Comuni, la quale citava tra l’altro il pericolo di complicare una crisi già quasi inestricabile e il rischio di un conflitto diretto con la Russia da poco attiva militarmente al fianco di Damasco.
Proprio quando la risoluzione di guerra all’ISIS in Siria sembrava morta e sepolta, la strage di Parigi l’ha rimessa in carreggiata e potrebbe approdare al Parlamento di Londra già la prossima settimana. Osborne, tuttavia, ha avvertito che il governo chiederà un voto sulla proposta solo quando sarà certo di ottenere i voti necessari per l’approvazione.
Nel frattempo, il premier Cameron ha anticipato il maggiore coinvolgimento britannico in Siria nel corso dell’incontro di lunedì a Parigi con il presidente francese, François Hollande. Il leader Conservatore si è detto convinto che la Gran Bretagna debba unirsi alla Francia nel bombardare l’ISIS in Siria e ha offerto ai caccia transalpini l’uso della base della RAF di Akrotiri, a Cipro.
Cameron, dopo avere fatto visita con Hollande al teatro Bataclan, dove gli attentatori hanno fatto quasi un centinaio di vittime, ha anche auspicato l’adozione di misure di sorveglianza ancora più severe. Soprattutto, il primo ministro ha definito fondamentale la condivisione tra i membri dell’UE delle informazioni relative a tutti i passeggeri degli aerei che viaggiano da e per l’Europa, nonostante, come è emerso nei giorni scorsi, i servizi di sicurezza francesi fossero stati chiaramente allertati da più parti circa i movimenti e la pericolosità dei responsabili degli attacchi di Parigi.