di Michele Paris

Il tema dominante della visita di questi giorni in Europa del presidente americano Obama è senza dubbio rappresentato dai timori di Washington per le rivalità, le divisioni e la grave crisi che stanno attraversando i paesi dell’Unione sotto le pressioni di un’economia in affanno. I tre giorni in Gran Bretagna sono stati caratterizzati dalla questione della possibile uscita di Londra dall’UE (“Brexit”), mentre gli incontri tra domenica e lunedì con i leader di Germania, Francia e Italia hanno al centro, tra l’altro, il trattato di libero scambio transatlantico (TTIP), la lotta al terrorismo e il tentativo di mantenere un fronte unito contro la Russia di Putin.

In un’intervista a un quotidiano tedesco alla vigilia dell’arrivo in Germania, Obama ha ribadito che, pur non essendo suo compito “dire all’Europa come gestire l’Europa”, di un’Unione “forte, unita e democratica” finisce per beneficiarne anche gli Stati Uniti.

Se le preoccupazioni per la democrazia europea non sono in realtà in cima alla lista delle priorità dell’inquilino della Casa Bianca, visto anche che l’UE è stata in questi anni lo strumento per l’implementazione di durissime misure anti-democratiche in molti paesi membri, la necessità di mantenere una certa coesione all’interno dell’Unione ed evitare la sua disintegrazione corrisponde di certo agli interessi americani.

L’importanza di questo punto è apparso chiarissimo dalle parole pronunciate sulla “Brexit” negli interventi pubblici di Obama in Gran Bretagna settimana scorsa. La sua visione sulla questione, che sarà sottoposta a referendum popolare il 23 giugno prossimo, era stata esposta anche in un insolito articolo scritto dallo stesso presidente USA per il giornale filo-Conservatore Daily Telegraph.

L’invasione così palese di un leader americano negli affari politici interni alla Gran Bretagna ha ben pochi precedenti e ha confermato appunto le ansie che sta vivendo la classe dirigente di Washington in previsione delle conseguenze di un possibile abbandono dell’Unione Europa da parte dell’alleato.

Nell’articolo pubblicato venerdì, Obama ha ricordato la lunga amicizia e l’alleanza tra USA e Regno Unito, per poi collegare significativamente la creazione dell’UE a quella delle altre istituzioni internazionali post-belliche che per decenni hanno garantito la stabilità dell’Occidente sotto la guida del capitalismo americano.

In seguito, Obama ha portato un attacco frontale ai sostenitori della “Brexit”, ricordando come “l’influente voce della Gran Bretagna assicuri la forza dell’Europa nel mondo” e che il vecchio continente rimanga “aperto… e strettamente legato ai propri alleati dall’altra parte dell’Atlantico”. Solo il mantenimento di questa alleanza, ha spiegato Obama, consente di far fronte alle sfide del “terrorismo”, alla minaccia di “aggressioni”, presumibilmente da parte della Russia, e alla crisi “economica e dei migranti”.

Gli interessi americani sono risultati poi evidenti nel riferimento alla NATO, dal momento che la forza dell’Alleanza, secondo il presidente Democratico, può essere garantita solo da una solida partnership con il Regno Unito e, di conseguenza, con il resto dell’Europa. In sostanza, la conservazione della NATO come strumento della proiezione degli interessi statunitensi sarebbe messa a rischio da un’eventuale spaccatura nel fronte degli alleati occidentali di Washington.

Lo stesso discorso vale in definitiva anche per la questione economica, essendo gli interessi economici dei poteri forti negli Stati Uniti indissolubilmente legati a quelli promossi dall’apparato militare. Da qui, l’impegno di Obama per ridare slancio a un trattato commerciale transatlantico, i cui scopi sono principalmente la subordinazione del mercato europeo al capitalismo americano e il tentativo di impedire la piena integrazione delle economie dei paesi UE – a cominciare dalla Germania – con la Russia, la Cina e il continente asiatico in genere.

In questa prospettiva, appare chiaro l’obiettivo dell’impegno di Obama per sventare il pericolo “Brexit”. Dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione potrebbero infatti innescarsi minacciose forze centrifughe, peraltro già latenti e a tratti manifeste fin dall’esplosione della crisi economico-finanziaria del 2008, che potrebbero spaccare l’Europa e riportare nel continente rivalità sopite dopo il secondo conflitto mondiale.

Un simile scenario comporterebbe quasi certamente un certo allontanamento di alcuni paesi dagli Stati Uniti, soprattutto sul fronte economico e commerciale, mettendo a repentaglio i sogni “egemonici” di Washington e i progetti di marginalizzazione di una potenza come la Russia.

Il pensiero americano in questo senso va indubbiamente alla Germania, già tra i paesi più scettici, almeno a livello non ufficiale, verso le politiche di confronto con Mosca, se non altro per i profondi legami che caratterizza(va)no le rispettive economie.

La visita di Obama, e soprattutto il suo intervento in Gran Bretagna, si è comunque innestata su un dibattito interno particolarmente acceso a meno di due mesi dal referendum sulla “Brexit”. Contro il presidente Obama si è scagliato ad esempio duramente e in maniera strumentale il sindaco di Londra, nonché pretendente alla leadership del Partito Conservatore, Boris Johnson. Quest’ultimo ha definito “ipocriti” gli inviti del presidente USA a sacrificare la “sovranità” britannica in una maniera che gli USA “non si sognerebbero mai di fare”.

I toni di Johnson, uno degli esponenti di maggiore spicco della fazione dei Conservatori favorevole alla “Brexit”, sono stati particolarmente accesi e con accenti razzisti, quando in un commento apparso sul Sun di Rupert Murdoch ha definito Obama “mezzo kenyano” e, dunque, ostile alla Gran Bretagna per il suo passato di potenza coloniale.

Ugualmente pesanti sono state le parole del numero due del ministero della Difesa di Londra, Penny Mordaunt, la quale sempre al Telegraph ha affermato che le opinioni di Obama circa “l’impatto dei legami con l’UE sulla nostra sicurezza e sugli interessi del Regno Unito e degli Stati Uniti tradiscono una dolorosa ignoranza”.

A testimonianza dei sentimenti contrastanti suscitati dalla visita di Obama e, più in generale, dal rapporto degli USA con l’Europa, il presidente americano ha trovato un clima tutt’altro che disteso anche in Germania. Il suo arrivo ad Hannover per la tradizionale fiera dedicata alla tecnologia industriale, è stato preceduto dalla mobilitazione di gruppi di protesta contro la ratifica del TTIP (Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti), già oggetto di imponenti manifestazioni in Germania nei mesi scorsi.

Nonostante le parole di elogio avute da Obama per la cancelliera Merkel, anche alcuni esponenti del governo di Berlino sono apparsi tutt’altro che ben disposti sulla questione del TTIP, quanto meno nella sua forma attuale. Il vice-cancelliere e ministro dell’Economia Socialdemocratico, Sigmar Gabriel, ha ad esempio ricordato le condizioni che favoriscono il capitale USA a discapito di quello tedesco, così che, se non dovessero esserci concessioni da parte americana, il trattato di libero scambio potrebbe essere destinato a un clamoroso fallimento.

di Carlo Musilli

Un’onda nera sconvolge l’assetto politico dell’Austria e mette in allarme l’Italia sul fronte migranti. Per la prima volta dal dopoguerra, a Vienna non siederà un presidente socialdemocratico o conservatore. In base alle proiezioni, ieri al primo turno delle presidenziali ha trionfato Norbert Hofer, candidato della formazione di estrema destra Fpoe (“Partito della Libertà”), la più votata del Paese con il 36,7% delle preferenze. Al secondo turno Hofer si scontrerà con il verde Alexander van der Bellen, che è arrivato secondo con circa il 19,7%.

Dal punto di vista austriaco, il dato politico più rilevante è la disfatta dei due grandi partiti tradizionali, socialdemocratici e popolari, protagonisti della grande coalizione che governa l’Austria dal 2007. Dopo essersi scontrate in tutti i ballottaggi per le presidenziali dal 1945 in poi, le due formazioni storiche hanno ceduto di schianto e all’unisono, non riuscendo a portare i rispettivi candidati oltre l’11%.

È vero, in Austria il presidente della Repubblica ha pochi poteri effettivi e svolge prevalentemente un ruolo di rappresentanza (è il capo delle forze armate, nomina il cancelliere e, in alcune circostanze, può sciogliere il Parlamento), per cui nell’immediato non dovrebbero arrivare cambiamenti di rotta drastici da parte di Vienna. Ma le elezioni politiche si terranno nel 2018 e sarebbe folle sottovalutare l’ascesa del Fpoe, partito dichiaratamente xenofobo e anti-immigrati che domenica ha raggiunto il suo miglior risultato di sempre a livello nazionale.

Se fra due anni la formazione di Hofer si imporrà nuovamente (al momento, secondo i sondaggi, è al 30%), l’Austria si aggiungerà alla lista dei Paesi europei che Bruxelles ha spinto nelle braccia del populismo di destra, un club di cui già fanno parte l’Ungheria neofascista del dispotico Viktor Orban e la Polonia guidata dal partito reazionario “Diritto e Giustizia”.

L’avanzata della demagogia fascistoide, del resto, è dimostrata anche dalle impennate del Front National lepenista in Francia e dai risultati ottenuti in Gran Bretagna dall’Ukip di Nigel Farage, promotore del referendum con cui a giugno il Regno Unito potrebbe decidere di abbandonare l’Unione europea.

Il successo di questi partiti è dovuto anche al fallimento di Bruxelles nella gestione dei flussi migratori in arrivo. Non a caso Hofer, un 45enne che ha la simpatica abitudine di girare armato di pistola, ha definito “fatale” l’accordo sui migranti fra Ue e Turchia e ha fatto sapere che il suo primo obiettivo è impedire che l’Austria diventi una “terra d’immigrazione”. Non solo: per far capire che non scherza ha assicurato che - se sarà eletto - sfiducerà il governo a meno che non vengano adottate misure più restrittive sui migranti.

Una minaccia particolarmente preoccupante per l’Italia, visto che Vienna ha già iniziato la costruzione di una barriera di 250 metri alla frontiera del Brennero, dove ieri si sono verificati nuovi scontri fra polizia austriaca e manifestanti italiani “no border”. Il ministro degli Esteri Sebastian Kurz ha spiegato che per l’Austria la priorità è proteggere i confini esterni dell’Ue, sottolineando che Vienna “sarà costretta a introdurre i controlli al Brennero” se non si riuscirà a ridurre il numero degli irregolari dalla rotta mediterranea. L’Italia protesta, Bruxelles rimane a guardare.

Del resto, nemmeno il primo Paese d’Europa è estraneo a queste dinamiche. Lo scorso marzo, in Germania, alle elezioni regionali la destra populista anti-migranti dell'Afd (Alternativa per la Germania) è riuscita per la prima volta a entrare nei parlamenti regionali di tre lander. La Cdu di Angela Merkel, invece, ha perso in due lander su tre e continua a veder calare i consensi dopo la decisione di aprire le frontiere tedesche a tutti i richiedenti asilo provenienti dalla Siria.

Il calo nei sondaggi sembra aver già avuto effetto sulla cancelleira, che, secondo Der Spiegel, “confiderebbe” nella chiusura del Brennero da parte dell'Austria qualora centinaia di migranti intendessero raggiungere la Germania dall'Italia. Purtroppo, milioni di elettori austriaci sono d’accordo con lei.

di Michele Paris

Le primarie nello Stato di New York hanno premiato come previsto i candidati in testa nella corsa alla nomination per la Casa Bianca sia tra i Democratici che i Repubblicani. Per Hillary Clinton e Donald Trump, le rispettive e più o meno scontate vittorie di martedì hanno messo fine, almeno per il momento, alle ansie e ai timori delle ultime settimane e che sembravano poter intaccare il loro status di favoriti.

A giudicare dalle reazioni dei media negli Stati Uniti, le prime elezioni primarie competitive a New York da molti anni a questa parte hanno dato un impulso decisivo alle campagne dei due “frontrunners”. Trump, in particolare, dopo settimane durante le quali erano stati pubblicati centinaia di commenti e analisi che presagivano un percorso sempre più complicato verso la nomination, si ritroverebbe ora con il successo finale a portata di mano.

Le dimensioni dell’affermazione nel suo stato, in effetti, pesano come un macigno sulle speranze dei suoi due rivali, il senatore del Texas, Ted Cruz, e il governatore dell’Ohio, John Kasich. Il superamento in quasi tutti i distretti elettorali del 50% dei consensi ha permesso a Trump di aggiudicarsi ben 89 delegati sui 92 in palio. Il businessman newyorchese ha chiuso con oltre il 60% dei voti nello stato, mentre a ottenere i restanti delegati è stato Kasich (25%). Cruz è rimasto invece a bocca asciutta, fermandosi al 14,5%.

L’esito del voto di New York è indubbiamente dovuto in parte al fatto che Trump giocava in casa e che il suo principale sfidante, Cruz, è attestato su posizioni ideologiche lontane anni luce dalla maggioranza dei Repubblicani dello Stato. Vista la storia di queste primarie e della sua ascesa, a influire sullo sfondamento di Trump a New York è stato però probabilmente anche l’effetto delle polemiche con l’establishment del partito in cui è stato di nuovo coinvolto alla vigilia del voto.

In questo caso, lo scontro era avvenuto sulle nomine, in vari stati americani, dei delegati da inviare alla convention Repubblicana di luglio, quasi sempre favorevoli a Cruz e determinanti in un eventuale voto per l’assegnazione della nomination una volta svincolati dai risultati di primarie e “caucuses”. Trump ha trasformato la polemica nell’ennesimo conflitto con i vertici di un partito che cerca di ostacolarlo in tutti modi, così che quelli che sono stati definiti come grattacapi dalla stampa sono diventati un punto di forza per la sua campagna, vista la disposizione decisamente anti-sistema dell’elettorato americano di entrambi gli schieramenti.

L’onda del successo a New York potrebbe avere effetti positivi sulla corsa di Trump ma, come minimo, per scongiurare ribaltoni alla convention dovrà confermare i margini di vittoria di martedì in molti degli appuntamenti a venire, a cominciare dalle primarie di martedì prossimo in vari stati a lui comunque favorevoli: Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania e Rhode Island. L’obiettivo del partito e dei due contendenti resta quello di impedire a Trump di aggiudicarsi la maggioranza assoluta dei delegati durante primarie e “caucuses”, e dunque lasciare liberi questi ultimi di votare il loro candidato preferito alla convention di Cleveland.

Per i Democratici, la netta affermazione di Hillary Clinton ha un peso notevole dal punto di vista psicologico, anche se non aggiunge molto agli equilibri numerici. L’ex segretario di Stato ha aumentato di una trentina di delegati il suo margine di vantaggio già piuttosto consistente sul senatore del Vermont, Bernie Sanders. Soprattutto, però, ha fermato un’emorragia che durava da varie settimane, nelle quali Sanders aveva prevalso in sette delle ultime otto sfide.

Martedì, Sanders ha sopravanzato Hillary in 49 delle 62 contee in cui è suddiviso lo stato di New York, ma quest’ultima ha portato a casa quelle più popolose, affermandosi in tutti e cinque i “boroughs” della città di New York, così come nelle contee di Long Island e in quelle a nord della metropoli.

Alcuni giornali negli Stati Uniti hanno provato a spiegare come Sanders, nativo di Brooklyn, abbia perso la sfida decisiva di New York commettendo una serie di errori strategici: dagli attacchi con toni accesi a Hillary a qualche incerta dichiarazione pubblica alla trasferta-lampo in Vaticano di settimana scorsa.

Anche in questo stato, però, Sanders è stato in grado di mobilitare un numero di sostenitori di gran lunga superiore a quelli accorsi per gli altri candidati Democratici e Repubblicani. I sondaggi su scala nazionale, poi, hanno evidenziato come Sanders abbia in pratica chiuso il gap che lo separava da Hillary nel gradimento degli elettori.

A influire in maniera forse decisiva sulla sua sconfitta con un distacco di quasi 16 punti percentuali potrebbero essere state invece le regole elettorali previste dal Partito Democratico di New York, scritte appositamente per salvaguardare lo status quo.

Qui come in altri stati, infatti, nelle primarie del partito possono votare solo gli elettori registrati come Democratici, mentre i circa 3 milioni registrati come “indipendenti” risultano esclusi. Proprio questa fetta di elettorato ufficialmente non allineato a nessun partito ha costituito finora la base d’appoggio più solida del cammino di Sanders, il quale ha ottenuto la maggioranza dei consensi tra gli elettori registrati come Democratici solo nel suo stato, il Vermont.

Non solo, nello stato di New York chi non era registrato nelle liste elettorali poteva farlo entro un termine scaduto 25 giorni prima del voto, quando cioè le campagne dei due candidati non avevano praticamente nemmeno iniziato a operare. Ciò ha favorito Hillary, molto più nota di Sanders in uno Stato per il quale venne eletta al Senato di Washington. Ancora peggio, poi, gli elettori registrati come “indipendenti” avevano la possibilità di cambiare la loro affiliazione e quindi votare nelle primarie Democratiche (o Repubblicane) entro il 25 ottobre dello scorso anno, quasi sei mesi fa, quando Sanders sembrava destinato a svolgere un ruolo minore nella corsa alla nomination.

Rilevanti, anche se con ogni probabilità non decisive, sono state infine le numerosissime irregolarità segnalate nelle operazioni di voto in molti seggi. Oltre a carenza di personale e macchine per la votazione non funzionanti, il dato più preoccupante è stato quello della sparizione di decine di migliaia di elettori dalle liste degli aventi diritto. Solo a Brooklyn, i Democratici hanno visto diminuire di ben 60 mila il numero di elettori registrati per il proprio partito negli ultimi mesi, laddove in quasi tutte le contee dello stato di New York è stato registrato un aumento.

Dopo il voto di New York, Hillary Clinton ha comunque mostrato di sentirsi ormai vicinissima alla nomination, come ha affermato per la prima volta in maniera esplicita nel suo intervento alla chiusura delle urne. La ex first lady è data in vantaggio in tutti e cinque gli stati del nord-est che voteranno martedì prossimo e anche quelli a cui Sanders puntava (Connecticut, Pennsylvania, Rhode Island) potrebbero non essere più competitivi dopo il risultato di New York.

Sanders, da parte sua, ha chiuso la serata di martedì con una dichiarazione di circostanza per poi ritirarsi nella sua residenza in Vermont, lasciando intendere forse per la prima volta di voler riflettere su un possibile ritiro tra qualche settimana e sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Hillary e del Partito Democratico, di cui è entrato a far parte in maniera formale solo lo scorso anno.

Con Hillary prossima alla nomination, il ruolo di Sanders avrà un certo rilievo in vista delle presidenziali di novembre. Il Partito Democratico si aspetta evidentemente che il veterano senatore appoggi senza riserve la sua rivale nelle primarie e, di certo, egli stesso aveva pensato fin dal lancio della sua campagna al momento in cui si sarebbe fermato e avrebbe dato il suo “endorsement” a Hillary. D’altra parte, la sua candidatura ha avuto fin dall’inizio il compito di esprimere il malcontento e le frustrazioni della sinistra USA per poi convogliarle in maniera inoffensiva all’interno del Partito Democratico.

Le aspettative che la candidatura di Sanders ha sollevato in ampie fasce della popolazione e, in particolare, tra giovani e lavoratori a basso reddito, rende però questa scelta, tipica delle primarie americane per entrambi i partiti, piuttosto complicata o, quanto meno, imbarazzante. Sanders ha presentato agli americani un’agenda per molti versi progressista come non accadeva da decenni, combinando politiche di redistribuzione sociale con attacchi a Hillary Clinton in quanto rappresentante di Wall Street e dei poteri forti del paese.

Forse involontariamente, vista la sua sostanziale fedeltà al Partito Democratico nei decenni trascorsi al Congresso, ciò ha contribuito a portare i riflettori sulla vera natura di Hillary, già di per sé ampiamente disprezzata da moltissimi americani, indebolendo ancor più la sua posizione di candidata alla Casa Bianca.

Questo aspetto è sicuramente da considerare, soprattutto alla luce del fatto che il confronto che si prospetta a novembre sarà tra due candidati – Hillary Clinton e Donald Trump – tra i più impopolari nella storia politica americana. Un recente sondaggio di NBC News e Wall Street Journal ha rilevato come Hillary sia vista con sfavore dal 56% degli intervistati e positivamente solo dal 32%, con un saldo negativo pari al 24%. In una situazione peggiore si trova solo Trump, con un saldo negativo del 41%, mentre Sanders è in positivo del 9%.

Hillary, inoltre, suscita sentimenti negativi tra la maggioranza degli elettori maschi, tra le donne e tra i bianchi (sia uomini che donne). Un bilancio positivo lo può vantare solo tra gli appartenenti a minoranze, come neri e ispanici. Proprio il favore che Hillary raccoglie tra questi ultimi è stato determinante nel portarla a un passo dalla nomination e ciò dipende non tanto da inesistenti iniziative sue e del marito per l’emancipazione delle minoranze etniche negli Stati Uniti. Anzi, ad esempio, la “riforma” giudiziaria di Bill Clinton del 1994 ha se mai determinato un’impennata nel numero di detenuti tra gli americani di colore negli ultimi due decenni.

Il relativo successo di Hillary tra neri e “latinos” dipende in larga misura dalla promozione delle politiche identitarie da parte del Partito Democratico in questi anni, non a caso in parallelo con lo spostamento a destra registrato sulle questioni economiche, sociali e della sicurezza nazionale.

Questo contribuisce a spiegare perché gli appartenenti a minoranze etniche compongano una fetta molto consistente degli elettori registrati come Democratici, i quali a loro volta sono stati gli unici a poter votare in alcune primarie che sembrano avere deciso le sorti della nomination in casa Democratica, come appunto quelle nello stato di New York di questa settimana.

di Mario Lombardo

L’instabilità che caratterizza da ormai parecchi anni il quadro politico australiano si è ulteriormente aggravata martedì, quando il primo ministro conservatore, Malcolm Turnbull, dopo appena sette mesi alla guida del governo federale ha annunciato lo scioglimento di entrambi i rami del Parlamento di Canberra ed elezioni anticipate, da tenersi “molto probabilmente” il 2 luglio prossimo.

Il gabinetto australiano è sostenuto da una coalizione formata dal Partito Liberale del premier e dal suo tradizionale partner, il Partito Nazionale, espressione della borghesia rurale del paese. Turnbull aveva sostituito a capo del governo il collega, Tony Abbott, lo scorso mese di settembre dopo un voto interno al partito nel tentativo di fermare il crollo dei consensi dei Liberali sotto la guida dell’ex leader che aveva vinto le elezioni nel 2013.

La ragione principale del voto anticipato è da ricercare nella crisi di un governo di centro-destra che vede insabbiata al Senato la propria agenda, fatta di austerity e proposte di “ristrutturazione” dell’economia, del welfare e del mercato del lavoro, a causa dell’ostruzionismo dell’opposizione, composta dal Partito Laburista, dai Verdi e da una manciata di indipendenti.

Fin dalla sconfitta dei Laburisti nel 2013, il governo Liberale-Nazionale si è ritrovato a subire le pressioni dei grandi poteri economico-finanziari domestici e internazionali per smantellare le protezioni garantite dal sistema australiano ai lavoratori e, in generale, alle classi più disagiate. L’impopolarità delle iniziative in discussione, sfruttata dai partiti di opposizione, è però tale che il governo non è finora riuscito a mantenere i propri impegni e a superare gli ostacoli incontrati in Parlamento.

Turnbull ha così innescato deliberatamente un meccanismo costituzionale per giustificare nuove elezioni, vale a dire la bocciatura per due volte in Senato di un provvedimento approvato dalla Camera dei Rappresentanti. La legge in questione era stata affidata al Senato il mese scorso con la convocazione da parte del Governatore-Generale, ovvero il rappresentante della regina d’Inghilterra e, di fatto, capo di stato australiano, di una sessione parlamentare straordinaria della durata di tre settimane. In questo periodo di tempo, la legge, che prevedeva il ripristino di una commissione anti-sindacale nel settore dell’edilizia, è stata respinta in due occasioni, di cui l’ultima nella serata di lunedì con una maggioranza di 36 a 34.

Dopo il voto tutt’altro che sorprendente, il primo ministro ha deciso di anticipare la presentazione del prossimo bilancio federale al 3 maggio e dopodiché, come ha spiegato egli stesso, entro il giorno 11 dello stesso mese chiederà “al Governatore-Generale di sciogliere entrambi i rami del Parlamento”.

Lo scioglimento contemporaneo di Camera e Senato è un evento piuttosto raro in Australia, dove le elezioni generali con cadenza triennale prevedono solitamente il rinnovo completo della prima e solo della metà dei membri del secondo, il cui mandato dura sei anni. L’ultimo “doppio scioglimento” del Parlamento australiano risale al 1987 e questa pratica è avvenuta solo sei volte dal 1901, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna.

L’obiettivo dei Liberali di rompere lo stallo politico appare dunque evidente e già nelle scorse settimane era stata approvata una modifica alla legge elettorale per rendere più difficile l’elezione di candidati indipendenti o di partiti minori al Senato. In caso di “doppio scioglimento”, però, la soglia di sbarramento per entrare al Senato si abbassa al 7%, dal 14% previsto in una normale tornata elettorale, favorendo comunque i candidati dei partiti più piccoli.

Quella di Turnbull appare ad ogni modo una scommessa molto rischiosa, visto che il rapido deteriorarsi dell’indice di popolarità del suo governo dopo i brevi entusiasmi iniziali rende del tutto possibile un esito simile a quello del 2013, quando i Liberali-Nazionali furono in grado di ottenere la maggioranza assoluta solo alla Camera dei Rappresentanti ma non al Senato. A giudicare dai sondaggi pubblicati dalla stampa australiana in questi giorni, addirittura, la coalizione di governo potrebbe essere sconfitta dai Laburisti, dati alla pari o, in alcuni casi, leggermente in vantaggio sui Liberali-Nazionali.

Il Partito Laburista non gode tuttavia di particolari favori nel paese, se non nella misura in cui beneficia automaticamente dell’ostilità nei confronti del centro-destra al governo. Il “Labor” australiano era uscito con le ossa rotte dal voto del 2013, dopo una serie di avvicendamenti ai propri vertici e alla guida del governo, ma soprattutto a causa del perseguimento, o del tentativo di perseguire, disastrose politiche di austerity.

Il leader Laburista, Bill Shorten, ha comunque cercato subito di sfruttare il malcontento diffuso nei confronti del governo, dichiarando che il suo partito si batterà per “posti di lavoro dignitosi, scuole e sanità migliori” e contro “gli interessi delle grandi banche”.

In realtà, i Laburisti sono anch’essi decisi a garantire la “stabilità finanziaria” dell’Australia. Qualche giorno fa, ad esempio, il ministro-ombra del Tesoro, Chris Bowen, aveva risposto alle minacce di “downgrade” di Moody’s affermando l’impegno di un eventuale governo del suo partito a prendere “decisioni difficili” nell’ambito “delle entrate e della spesa sociale”. Anche Shorten, poi, ha criticato questa settimana il premier Turnbull per la sua “indecisione” e l’incapacità di implementare la propria agenda, con un velato riferimento all’urgenza di approvare misure impopolari che vengono richieste da più parti.

Il Partito Liberale, invece, sembra deciso a impostare una campagna elettorale basata sulla necessità di “modernizzare” il sistema Australia, sia pure mascherata da una certa dose di populismo, come hanno dimostrato le prime indiscrezioni su un possibile aumento delle tasse per i redditi più alti. La proposta di bilancio che verrà presentata in Parlamento il 3 maggio sarà una vera e propria piattaforma elettorale dei conservatori. Come ha spiegato il leader di questi ultimi al Senato, George Brandis, il bilancio “non prevederà il genere di spesa irresponsabile e livelli di tassazione esagerati che sembrano essere al centro dei piani economici del Labor”.

Sull’esito delle elezioni di luglio influirà in maniera decisiva il costante rallentamento dell’economia dell’Australia, principalmente a causa del crollo delle quotazioni delle risorse del sottosuolo che il paese esporta. Ugualmente, anche lo stesso clima d’instabilità politica che regna da anni a Canberra è determinato in fin dei conti dall’incapacità, se non impossibilità, della classe dirigente indigena ad attuare le misure a sostegno del capitalismo australiano, colpito duramente dalla crisi economica, di fronte alla ferma opposizione popolare.

Alla questione economica si sovrappone poi quella diplomatico-militare-strategica, legata in maniera inestricabile alla natura e al posizionamento internazionale di questo paese. La sua classe dirigente è esposta infatti anche alle pressioni degli Stati Uniti, ovvero il principale alleato di Canberra, che vedono l’Australia come uno dei pilastri della loro strategia anti-cinese in Estremo Oriente.

Come molti paesi asiatici, e forse ancor più di essi, l’Australia si trova di fronte a un dilemma, aggravato dalla crisi economica e dalle manovre strategiche americane. L’Australia, cioè, risulta ormai dipendente da Pechino sul fronte economico-commerciale, essendo la Cina il primo mercato del proprio export, ma è allo stesso tempo uno storico partner strategico di Washington.

Non solo, l’amministrazione Obama sta chiedendo all’Australia di fare molto di più per contrastare l’ascesa cinese nel continente asiatico, da ultimo sollecitando la partecipazione alle provocatorie operazioni navali USA nel Mar Cinese Meridionale che intendono mettere in discussione le rivendicazioni di Pechino su una serie di isole contese con altri paesi.

Il governo di Canberra si è finora rifiutato di prendere una decisione in questo senso, anche se l’opposizione Laburista si è detta in larga misura a favore, e lo stesso Turnbull ha cercato di mantenere una posizione relativamente moderata sulla rivalità tra USA e Cina, come ha confermato la prudenza che ha caratterizzato la recente prima visita in terra cinese del premier.

Questo atteggiamento sarà sempre più difficile da mantenere per i leader della politica, dell’industria e della finanza australiani, i quali in ogni caso sono divisi, a seconda dei rispettivi interessi, tra coloro che auspicano il mantenimento di relazioni più che cordiali con la Cina e quelli che spingono per un allineamento incondizionato alle posizioni degli Stati Uniti.

Quel che è certo è che i media e le campagne elettorali dei principali partiti australiani eviteranno quasi del tutto di sollevare le delicate questioni strategiche con cui deve fare i conti il loro paese, anche se esse rischiano seriamente di trascinarlo in una guerra rovinosa in un futuro non troppo lontano.

di Michele Paris

La visita di questa settimana del presidente americano Obama in Arabia Saudita si inserisce in un clima caratterizzato da un evidente raffreddamento delle relazioni bilaterali tra i due paesi alleati. Alle ragioni che già da tempo hanno relativamente incrinato il rapporto tra Riyadh e l’amministrazione Democratica, si sono aggiunte nuove questioni negli ultimi giorni, anch’esse legate però come le prime al parziale cambio di prospettive e scelte strategiche degli Stati Uniti in merito alla proiezione dei propri interessi in Medio Oriente.

Tutti o quasi gli osservatori fanno risalire l’origine dei dissapori tra gli USA e la casa regnante saudita alla rivoluzione in Egitto che nel 2011 portò alla deposizione del presidente Hosni Mubarak. Se Washington in quell’occasione aveva appoggiato quest’ultimo fino a quando era stato possibile, l’ondata di manifestazioni di piazza aveva alla fine spinto Obama a voltare le spalle al fedele alleato nel paese nordafricano.

Questa decisione aveva suscitato le ire e i timori di un regime costretto improvvisamente a fare i conti con le scosse della “Primavera Araba” e l’emergere sulla scena regionale degli odiati Fratelli Musulmani che sarebbero di lì a poco giunti al potere in Egitto.

Da allora, l’agenda dei due super-alleati si sarebbe discostata come mai era successo da molti decenni, sia pure sempre in termini relativi e ferma restando la sostanziale comunanza di vedute sul piano strategico mediorientale. Se Washington non ha mai messo in discussione il legame multiforme col suo principale partner - dopo Israele - nella regione, fondato sulla stabilità garantita dai “petrodollari”, almeno altri due fattori hanno contribuito ad alimentare le tensioni e a far salire il livello di diffidenza nei confronti dell’amministrazione Obama.

Il primo risale all’estate del 2013, quando, in seguito alle accuse contro il regime del presidente siriano Assad di avere utilizzato armi chimiche contro i “ribelli”, Obama aveva annunciato l’avvio di bombardamenti aerei per poi fare una clamorosa marcia indietro una volta accertata l’opposizione popolare e dello stesso Congresso americano. Le accuse, peraltro, erano apparse da subito dubbie e in seguito sarebbe emerso che, con ogni probabilità, l’uso di agenti chimici era da attribuire agli stessi “ribelli” anti-Assad, protagonisti di una provocazione, con il sostegno almeno della Turchia, per istigare un intervento armato esterno contro Damasco.

L’altro fattore che ha definitivamente messo in allarme la monarchia saudita è stato l’accordo sul nucleare iraniano che, al di là delle aspettative e degli obiettivi di Washington, ha gettato le basi per consentire alla Repubblica Islamica, ovvero il principale rivale regionale di Riyadh, di tornare a svolgere un ruolo di primo piano sulla scena internazionale.

La prospettiva saudita, basata sull’esportazione del fondamentalismo sunnita wahhabita e sulla demonizzazione dei paesi e delle minoranze sciite per favorire la promozione dei propri interessi, ha finito insomma per scontrarsi con i nuovi disegni strategici delineati a Washington.

Il caso dell’Iran è estremamente indicativo in questo senso. In linea con l’atteggiamento saudita, gli Stati Uniti non hanno mai pensato per un solo istante ad accettare Teheran come un legittimo attore sulla scena mediorientale, malgrado il desiderio mostrato da Obama di raggiungere un compromesso sul nucleare.

Allo stesso tempo, però, lo scarso appetito per un nuovo conflitto su larga scala e l’aumento delle rivalità globali con potenze ben maggiori, come Cina e Russia, ha sostanzialmente convinto almeno una parte della classe dirigente USA a puntare per il momento sulla collaborazione con l’Iran per neutralizzare lo scontro o, nella più ottimistica delle ipotesi e nel medio-lungo periodo, per indurre un cambio di regime strisciante attraverso la penetrazione del capitale occidentale in questo paese.

Ciò ha verosimilmente scatenato il panico in Arabia Saudita, dove si continua a percepire qualsiasi minimo scostamento degli Stati Uniti dalle politiche di appoggio incondizionato al regime e di opposizione totale all’arco della resistenza sciita come una sorta di tradimento e un pericolo esistenziale.

Che l’isteria dei regnanti di Riyadh sia a dir poco eccessiva appare in ogni caso evidente dall’appoggio che gli USA continuano ad assicurare a un regime tra i più anti-democratici, oscurantisti e violenti del pianeta. Ad esempio, le compagnie americane continuano a far segnare numeri da record in relazione alle forniture di armi ed equipaggiamenti strategici destinati all’Arabia Saudita.

Washington, poi, collabora attivamente sul fronte militare e dell’intelligence con questo paese nel conflitto in atto contro lo Yemen, caratterizzato da innumerevoli episodi classificabili come crimini di guerra. Inoltre, l’amministrazione Obama, nonostante evidenti contrarietà, ha in sostanza coperto le responsabilità saudite nel sostenere finanziariamente e logisticamente i gruppi fondamentalisti sunniti anti-Assad in Siria.

Le frizioni tra i due alleati sono ad ogni modo tornate sulle prime pagine dei giornali in questi giorni, dopo l’apparire della notizia della minaccia, pronunciata dal ministro degli Esteri di Riyadh, Adel al-Jubeir, nel corso di una visita a Washington qualche settimana fa, di vendere 750 miliardi di dollari in titoli del tesoro USA detenuti dall’Arabia Saudita.

L’avvertimento del ministro saudita potrebbe avverarsi se il Congresso di Washington dovesse approvare una proposta di legge che intende privare i governi stranieri dell’immunità nei procedimenti giudiziari legati a episodi di terrorismo avvenuti in territorio americano. Il provvedimento è stato presentato da due senatori - il Democratico di New York, Chuck Schumer, e il Repubblicano del Texas, John Cornyn - con l’obiettivo principale di far luce sulle responsabilità dell’Arabia Saudita negli attentati dell’11 settembre 2001.

Dei possibili legami tra questo paese e i responsabili degli attacchi, di cui 15 su 19 erano di nazionalità saudita, si discute da tempo e informazioni al riguardo potrebbero essere contenute nelle 28 pagine tuttora classificate del rapporto del Congresso USA sull’11 settembre. I famigliari delle vittime hanno intentato varie cause nei confronti dell’Arabia Saudita ma finora sono state tutte fermate in base a una legge del 1976 che garantisce appunto l’immunità ai governi stranieri.

Le pressioni affinché questa sezione del rapporto venga finalmente resa pubblica sono aumentate nelle ultime settimane, come ha confermato anche un recente speciale trasmesso nel corso della nota trasmissione della CBS, “60 Minutes”. Nel programma non sono emersi nuovi dati relativi alle responsabilità saudite, ma significativo è stato il fatto che svariati ex membri del Congresso ed ex esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale USA abbiano chiesto apertamente la declassificazione del materiale segreto.

Tra gli intervistati vi erano l’ex senatore Democratico Robert Graham e l’ex deputato Repubblicano ed ex direttore della CIA, Porter Goss, nonché tre membri della commissione sull’11 settembre, i Democratici Robert Kerrey e Timothy Roemer e il Repubblicano John Lehman.

Questi personaggi hanno tuttora legami con il governo, l’intelligence o i vertici militari americani, così che le loro dichiarazioni non sono da considerarsi di semplici cittadini privati. Anzi, i loro appelli pubblici alla pubblicazione di documenti scottanti sull’Arabia Saudita indicano come vi siano sezioni all’interno del governo americano che intendono lanciare un segnale sia all’amministrazione Obama, che si oppone alla declassificazione, sia all’alleato mediorientale, il cui comportamento viene considerato ormai come un elemento di disturbo degli obiettivi strategici di Washington.

Tutt’altro che accidentale è dunque il fatto che la trasmissione della CBS e la notizia della minaccia saudita di disfarsi del debito USA siano apparse alla vigilia del viaggio di Obama a Riyadh. Le tensioni tra i due paesi saranno perciò al centro delle discussioni nei prossimi giorni, anche se solo gli sviluppi futuri potranno chiarire se il presidente uscente sarà riuscito a rassicurare e, soprattutto, a convincere a cambiare rotta una sempre più diffidente monarchia saudita.


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