di Michele Paris

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha inaugurato lunedì il suo nuovo anno giudiziario, durante il quale una serie di casi delicati saranno ancora una volta sottoposti all’attenzione dei nove giudici. L’apertura dei lavori del tribunale costituzionale americano giunge nel pieno di una discussione interna al Partito Repubblicano decisamente insolita nell’ultimo decennio, relativa cioè alle credenziali conservatrici del presidente della Corte (“Chief Justice”), John Roberts, nominato da George W. Bush nel 2005.

La polemica su Roberts è sintomatica del consolidarsi delle posizioni di estrema destra tra i repubblicani, con riflessi preoccupanti su tutto il panorama politico USA. Il malcontento nei confronti del presidente della Corte Suprema è stato espresso in maniera particolare da vari candidati alla nomination repubblicana, tra cui soprattutto il senatore del Texas, Ted Cruz, e l’ex governatore dell’Arkansas, nonché fondamentalista cristiano, Mike Huckabee.

Inoltre, decine di attivisti conservatori hanno recentemente sottoscritto una lettera aperta del giurista Edwin Meese, già ministro della Giustizia durante la presidenza Reagan, per invitare il prossimo presidente degli Stati Uniti a nominare giudici della Corte Suprema con un orientamento ideologico simile a quello che caratterizza gli attuali membri più a destra della Corte, tra i quali non figura il presidente Roberts.

Per una parte della destra americana, la colpa di quest’ultimo consiste nell’avere votato assieme alla maggioranza della Corte in un caso del 2012 che aveva sostanzialmente confermato la costituzionalità della riforma sanitaria di Obama (ACA). Per il resto, comunque, Roberts può vantare un curriculum all’insegna della reazione, visto che, come ha scritto domenica il Washington Post, negli anni scorsi “ha votato per restringere il diritto all’aborto, smantellare le restrizioni ai finanziamenti delle campagne elettorali, garantire il diritto al possesso di armi…”.

In quella che può essere considerata una Corte Suprema tra le più reazionarie della storia americana, nonostante qualche “successo” attribuito alla minoranza progressista, Roberts “ha mostrato di essere uno dei giudici moderni più impegnati nella difesa dei diritti del business”, mentre è considerato un fermo sostenitore della pena di morte.

Il suo voto a favore della riforma sanitaria non ha in ogni caso rappresentato un gesto progressista o una qualche conversione, ma è stato semplicemente una presa d’atto della natura in gran parte regressiva della legge, salvata perché sostanzialmente gradita a una parte dei grandi interessi economici. Grazie a Obamacare, compagnie assicurative e grandi aziende private possono infatti contare rispettivamente su milioni di nuovi clienti e su una drastica riduzione delle spese sanitarie per i loro dipendenti.

Solo negli ultimi mesi, d’altronde, la Corte Suprema di John Roberts, pur avendo dichiarato legale in tutti gli Stati Uniti i matrimoni gay, ha dato prova della propria natura reazionaria. A partire da giugno, ad esempio, è stata confermata la costituzionalità delle condanne a morte per iniezione letale tramite un sedativo di dubbia efficacia, ha invalidato le regolamentazioni sulle emissioni inquinanti delle fabbriche stabilite dall’Agenzia federale per la Protezione dell’Ambiente (EPA) e ha garantito al governo la possibilità di negare arbitrariamente il permesso di residenza per ragioni di “sicurezza nazionale” a individui che ne avrebbero tutto il diritto, come i coniugi di cittadini americani.

La Corte Suprema guidata da Roberts e da una maggioranza composta di altri tre giudici ultra-conservatori – Samuel Alito, Antonin Scalia, Clarence Thomas – e da Anthony Kennedy, teoricamente centrista ma spesso in sintonia con i colleghi di estrema destra, si appresta così a iniziare un altro anno giudiziario che minaccia di essere segnato da nuovi gravi attacchi ai diritti democratici negli Stati Uniti.

Per cominciare, un nuovo colpo alla separazione tra stato e fede religiosa appare pressoché scontato. Una sentenza del 2014 della stessa Corte Suprema nel caso “Burwell contro Hobby Lobby” ha infatti generato quasi automaticamente un nuovo caso relativo al diritto dei lavoratori dipendenti di ricevere strumenti contraccettivi nell’ambito dell’assistenza sanitaria fornita dai loro datori di lavoro.

Con il parere espresso lo scorso anno, i giudici del supremo tribunale USA avevano ribaltato il principio della libertà religiosa, garantendo a un’azienda privata la facoltà di non rispettare l’obbligo di fornire contraccettivi ai propri dipendenti nel caso in cui i proprietari di essa affermino che ciò vada contro i principi della loro fede.

Il nuovo caso che verrà discusso nei prossimi mesi riguarda organizzazioni e istituti affiliati a una chiesa o a una fede religiosa, come ospedali o università, i quali, grazie alla disposizione dell’amministrazione Obama a piegarsi di fronte al fondamentalismo religioso, possono già negare l’accesso ai contraccettivi per i loro dipendenti, ma sono tenuti a notificare al governo il loro rifiuto. Assurdamente, questa sola condizione violerebbe i loro principi religiosi, anche perché in tal caso sarebbe il governo stesso a garantire il diritto dei lavoratori a una copertura sanitaria completa.

Una questione collegata in parte a quest’ultima che la Corte Suprema prenderà probabilmente in considerazione riguarda poi il diritto all’aborto, ugualmente minato in maniera sensibile negli ultimi anni in America. Una sentenza della Corte Suprema del 1973 (“Roe contro Wade”) riconosce la legalità dell’interruzione di gravidanza come libera scelta finché il feto non sia in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero o, anche di là di questo limite, nel caso in cui sia in pericolo la salute della madre.

Di fronte a questo ostacolo legale, gli oppositori dell’aborto stanno mettendo in atto da qualche tempo una strategia diversa, adottando cioè in vari stati regolamentazioni eccessivamente stringenti che rendono quasi impossibili le attività delle cliniche che praticano le interruzioni di gravidanza.

Molte strutture hanno infatti già cessato le operazioni negli ultimi anni, costringendo soprattutto le donne a basso reddito a rinunciare all’aborto, viste le difficoltà nel sostenere ingenti spese per raggiungere cliniche molto lontane, spesso al di fuori dei confini del loro stato.

La costituzionalità di queste leggi potrebbe essere così giudicata dalla Corte Suprema, la quale dovrebbe discutere quelle approvate in Texas nel 2013. Da allora, in questo stato più grande della Francia quasi la metà delle strutture che praticano aborti ha chiuso i battenti, causando quello che la legge USA considera “un onere eccessivo” per le donne che intendono valersi di un diritto fondamentale riconosciuto.

In un altro ambito, la Corte Suprema potrebbe prendere nuovamente di mira i sindacati, già al centro di attacchi anche in molti stati a maggioranza repubblicana. Nel caso “Friedrichs contro California Teachers Association” verrà messa in discussione una pratica comune fin dal 1977 negli Stati Uniti, secondo la quale, una volta che la maggioranza dei lavororatori del settore pubblico in una determinata categoria o realtà locale scelga di essere rappresentata da un sindacato, quest’ultimo può esigere il pagamento di una quota anche dai non iscritti come riconoscimento dei benefici che essi godono grazie alle trattive contrattuali.

Se più di un membro della Corte vanta un’attitudine marcatamente anti-sindacale, giudici come Roberts o Kennedy potrebbero allinearsi in questo caso con i quattro colleghi “liberal” – Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg, Elena Kagan, Sonya Sotomayor – e assicurare il flusso di denaro a organizzazioni che svolgono sempre più il ruolo di sicuri alleati dei vertici aziendali o, nel caso del settore pubblico, della classe politica.

Molto dibattute in America, infine, sono altre due questioni su cui con ogni probabilità si esprimeranno i giudici. La prima riguarda le modalità con cui delimitare i distretti elettorali. Secondo la pratica corrente, i vari distretti devono avere grosso modo lo stesso numero di abitanti, ma una causa in corso ha messo in discussione questo principio, ipotizzando invece una suddivisione basata sul numero di coloro a cui è riconosciuto il diritto di voto.

La diatriba appare del tutto politica, poiché una revisione delle regole favorirebbe il Partito Repubblicano. Infatti, in questo modo verrebbero penalizzati i distretti più urbanizzati, generalmente più propensi a votare per il Partito Democratico e popolati da un numero consistente di immigrati senza residenza e diritto di voto.

L’altro caso è “Fisher contro University of Texas at Austin”, già considerato nel 2013 dalla Corte Suprema e rinviato ai tribunali inferiori. Qui, a essere messa in discussione è la cosiddetta “affirmative action” in ambito accademico, ovvero quell’insieme di pratiche adottate dalle università per garantire un equilibrio razziale tra i loro iscritti.

Lo scorso anno, una corte d’appello aveva confermato la legittimità dei metodi con cui l’università di Austin, nel Texas, considera la razza come uno dei fattori per decidere l’ammissione di un certo numero di candidati. Il fatto che la Corte abbia deciso di accettare nuovamente il caso potrebbe indicare una volontà di liquidare la “affirmative action”.

A complicare gli scenari, tuttavia, vi è il fatto che tale pratica non ha a che fare soltanto con il razzismo, visto che essa dagli anni Sessanta viene utilizzata dalla classe dirigente americana per cooptare al proprio interno un certo numero di individui soprattutto di colore, così da creare l’apparenza di un sistema che offre chances di successo a chiunque, contenendo di conseguenza le tensioni sociali provocate da una segregazione di fatto ancora presente in molte parti degli Stati Uniti.

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