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di Michele Paris
I più recenti dati sullo stato dei finanziamenti delle campagne elettorali dei candidati alle presidenziali negli Stati Uniti per il 2016 hanno confermato il netto dominio dei grandi donatori assieme al ruolo decisivo svolto da organizzazioni che appoggiano “esternamente” i singoli aspiranti alla nomination dei due partiti. La competizione per succedere a Barack Obama sarà così con ogni probabilità la più costosa della storia americana, con un livello di spesa complessivo stimato dai media d’oltreoceano pari a non meno di dieci miliardi di dollari, ovvero circa il 40% in più rispetto al ciclo elettorale del 2012.
La candidata che, al secondo trimestre dell’anno, ha incassato la cifra maggiore in donazioni è stata Hillary Clinton con 45 milioni di dollari. Il primato dell’ex segretario di Stato è però limitato al denaro raccolto dalla sua organizzazione, mentre se si considerano sia i fondi raccolti direttamente dai candidati sia quelli che affluiscono alle cosiddette “Super PACs”, ovvero strutture nominalmente indipendenti ma che operano in favore di un determinato candidato, gli equilibri appaiono differenti.
In questo caso, a dominare la scena è il favorito repubblicano, Jeb Bush, il quale ha attualmente in dotazione più di 114 milioni di dollari, dei quali ben 103 raccolti dalla Super PAC che lo appoggia, “Right to Rise USA”. Nel caso di Hillary, la Super PAC affiliata alla sua candidatura - “Priorities USA Action” - ha finora raccolto “solo” 15,6 milioni, anche se, a detta del suo staff, la previsione è di mettere assieme una cifra tra i 200 e i 300 milioni di dollari.
Il predominio di Jeb Bush e Hillary Clinton nella raccolta fondi è dovuto principalmente ai legami familiari e politici delle due dinastie a cui i candidati appartengono con le élites economiche americane. I candidati in casa democratica e repubblicana che seguono i due “front-runner” risultano infatti molto lontani in termini di finanziamenti ottenuti. Nel primo caso, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha in mano 15 milioni di dollari e il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, poco più di 52 milioni.
Il divario tra il denaro raccolto direttamente dalle proprie organizzazioni e dalle rispettive Super PACs risulta cruciale per delineare il profilo dei candidati. Secondo le norme che regolano i finanziamenti elettorali negli Stati Uniti, durante il ciclo delle primarie ogni singolo donatore può versare un massimo di 2.700 dollari direttamente a un candidato, ma le Super PACs possono raccogliere donazioni virtualmente illimitate. Il vantaggio delle Super PACs nella raccolta fondi evidenzia dunque la prevalenza di finanziatori benestanti che possono staccare sostanziosi assegni praticamente senza limiti.
Ciò è il risultato della decisiva sentenza della Corte Suprema USA del 2010 nel caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” che ha cancellato ogni limite alle donazioni di privati e corporation alle Super PACs dei candidati a pubblici uffici. Questa decisione ha determinato un ulteriore aumento dell’influenza dei poteri forti sul processo politico negli Stati Uniti ed è stata seguita nell’aprile del 2014 da un’altra sentenza che va in questa direzione, poiché ha abolito il limite complessivo di 123 mila dollari che ogni donatore può destinare a candidati e partiti durante ogni ciclo elettorale.
Per quanto riguarda Jeb Bush, perciò, il suo successo nella raccolta fondi è dovuto in larga misura alla generosità di un numero relativamente ristretto di milionari e miliardari che hanno donato cifre enormi. La stessa Hillary Clinton, peraltro, nonostante la sua campagna prosegua la tendenza dei candidati democratici nel fare meno affidamento sulle Super PACs rispetto a quelli repubblicani, non sembra poter contare su una mobilitazione massiccia di piccoli donatori.
Del denaro finora elargito direttamente alla campagna della favorita democratica, solo il 17% è venuto da sostenitori che hanno donato un massimo di 200 dollari, mentre il 65% è giunto da potenziali elettori, evidentemente facoltosi, che hanno donato il massimo previsto per legge di 2.700 dollari.
Ancora più irrisoria è la quota di denaro ottenuta da Jeb Bush dai piccoli donatori che si possono permettere meno di 200 dollari, ovvero il 3%, contro oltre l’80% di sostenitori che hanno già raggiunto il limite federale.Per Hillary Clinton e, soprattutto, per Jeb Bush, il profilo dei donatori appare tutt’altro che sorprendente. Entrambi appartengono a dinastie politiche ampiamente screditate, se non apertamente disprezzate, tra lavoratori e classe media negli Stati Uniti. Il loro status di favoriti e il successo nell’ambito della raccolta fondi a meno di sei mesi dall’inizio delle primarie è determinato perciò dalla possibilità di ottenere valanghe di denaro da pochi donatori con cui essi stessi o i loro familiari hanno stabilito proficui rapporti nel corso degli anni.
A fare affidamento su una manciata di ricchi finanziatori, quando non addirittura su un singolo benefattore, sono in ogni caso quasi tutti i numerosi candidati alla nomination, in particolare nel Partito Repubblicano.
Oscuri e spesso impopolari personaggi politici hanno così a disposizione decine di milioni di dollari per correre teoricamente per la Casa Bianca e ottenere ampio spazio sui media nazionali. Tra i repubblicani, dopo Jeb Bush, il candidato con il maggiore successo nel “fundraising” al 30 giugno scorso è Ted Cruz, con in mano un totale di 52,2 milioni, di cui 38 milioni (73%) raccolti dalla sua Super PAC.
A seguire c’è un altro senatore cubano-americano ma della Florida, Marco Rubio, il quale ha basato la sua corsa alla nomination, come praticamente tutta la sua carriera politica, sul sostegno dell’imprenditore miliardario Norman Braman. Rubio ha attualmente in mano quasi 44 milioni di dollari, 32 dei quali (73%) a disposizione della sua Super PAC e di una organizzazione “no-profit” che lo appoggia.
Ancora più eclatante è il modo in cui risultano determinanti i ricchi donatori per Rick Perry, l’ex governatore ultra-reazionario del Texas, già candidato alla Casa Bianca nel 2012, quando fu costretto ad abbandonare miseramente la corsa in seguito a una serie di gaffe e al sostegno praticamente nullo riscontrato anche tra le frange più estreme del Partito Repubblicano.
Perry ha raccolto direttamente per la sua campagna appena 1,1 milioni di dollari, ma tre Super PACs a lui affiliate hanno messo assieme quasi 17 milioni, cioè il 94% del totale dei contributi ottenuti finora.
Gli unici casi di candidati che hanno ottenuto almeno un limitato successo tra gli elettori comuni sono il democratico Bernie Sanders e, in misura minore, i repubblicani Rand Paul e Ben Carson. L’entusiasmo generato dal primo, veterano del Congresso nominalmente indipendente e talvolta auto-definitosi “democratico-socialista”, testimonia del desiderio tra la popolazione americana di un’alternativa realmente progressista all’attuale sistema politico dominato dai grandi interessi economico-finanziari.
Sanders, tuttavia, oltre ai suoi orientamenti non esattamente rivoluzionari, ha scelto di incanalare la voglia di cambiamento diffusa negli Stati Uniti verso il vicolo cieco del Partito Democratico. Ad ogni modo, l’unico vero rivale di Hillary non ha per il momento nessuna Super PAC che lo appoggia e i 15 milioni a sua disposizione sono giunti da piccole donazioni indirizzate direttamente all’organizzazione coordinata dal suo staff.Il poco conosciuto Ben Carson ha un qualche seguito on-line tra i repubblicani, anche perché si presenta come una sorta di outsider, essendo un neurochirurgo e non un politico di professione. Nonostante ottenga attenzioni decisamente minori dai media nazionali, Carson ha raccolto in maniera diretta più di 10 milioni di dollari, praticamente la stessa cifra ottenuta senza l’aiuto delle Super PACs dal favorito Jeb Bush.
Il senatore del Kentucky di tendenze libertarie Rand Paul, infine, è attestato a 7 milioni di dollari dopo il secondo trimestre del 2015. Paul ha in realtà due Super PACs che lo sostengono ma non hanno ancora presentato i loro bilanci alla Commissione Elettorale Federale. A suo vantaggio ci sono soprattutto le campagne condotte negli ultimi anni contro l’invadenza dell’apparato di governo nella privacy degli americani, anche se gli attacchi al sistema portati da Paul vengono in gran parte da destra.
I numeri provvisori relativi ai finanziamenti elettorali negli Stati Uniti confermano dunque la realtà di un sistema politico totalmente bloccato, imperniato sullo strapotere dei ricchi americani, in grado di decidere successi e insuccessi dei candidati di entrambi gli schieramenti.
In questo scenario, è poco sorprendente che la metà o più degli americani non si rechi alle urne nemmeno in occasione di elezioni che attraggono un interesse smisurato da parte dei media, come le presidenziali. A determinare l’identità dei contendenti è infatti quasi sempre soltanto il denaro, mentre la scelta degli elettori, alla fine, si riduce a essere tra candidati virtualmente indistinguibili e al servizio dei poteri che hanno promosso e reso vincenti le loro costosissime campagne elettorali.
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di Emy Muzzi
LONDRA. Una democrazia può morire in tanti modi. Può finire come quella italiana dopo il ventennio berlusco-fascista e una serie di governi tecnici non eletti, oppure come quella britannica: cinque anni di sistematico isolamento antieuropeo, campagne xenofobe, distruzione dello stato sociale, costruzione di un muro insormontabile tra classi ricche e povere, aiuti alle banche e negazione dei diritti base del cittadino a partire dal sostegno alla casa, all’istruzione e alle future generazioni.
Gli inglesi del resto, confermando a Cameron la guida di questa ex-democrazia alla quale fino a ieri il mondo guardava con ammirazione, come un paese che ha da insegnare al mondo in termini di principi democratici e welfare, questa fine se la sono voluta. Hanno creduto alle balle elettorali anti-immigrazione senza prendersi la briga di leggere i dati ufficiali che attestano l’afflusso di immigrati in Gran Bretagna come uno dei più bassi dell’Unione Europea.
Ma discriminare gli stranieri dà sempre a coloro che cercano di arricchirsi, a chi non ha studiato e non parla altre lingue che la propria, l’illusione di poter eliminare la concorrenza esterna, di poter fare carriera senza ostacoli e finalmente di poter fare i soldi. La verità è che i soldi li fa chi è già ricco e appartiene ad una lobby o chi ruba (le due categorie sempre più spesso coincidono). Gli altri, il 90 per cento della popolazione, sognano e votare i ricchi dà loro l’illusione che un giorno lo diventeranno anche loro. É il trucco delle ‘pseudo-democrazie mediatiche’ che puntano sulle leadership carismatiche. Il cerone e le balle di Cameron hanno funzionato.
Adesso la ‘finanziaria di regime’ e la faccia beffarda del cancelliere dello scacchiere Osborne se la devono beccare; se ne devono fare una ragione. Non si può, sempre e solo dare addosso alla politica, al sistema, all’establishment per paura di inimicarsi la gente (o i lettori). Non serve più. Di fronte a un regime che si appresta a diventare peggio del thatcherismo, è necessario parlare alla gente, a chi li ha votati e a chi no. Capire perché milioni di persone che hanno disperato bisogno di una casa, che non riescono a trovare un lavoro decente, che vorrebbero mettere su famiglia hanno votato i Conservatori, ovvero un’elite in malafede che ha raccontato loro per cinque anni che la giusta soluzione per aiutarli è uscire dall’Ue, eliminare gli immigrati, finanziare la guerra in Siria, sostenere le banche e la finanza.
In realtà a due mesi dalla vittoria che ha assicurato ai Tories la maggioranza assoluta per i prossimi cinque anni, Cameron si è già rimangiato la parola rivelando che in realtà non vuole un Brexit, mentre il ministro delle finanze Osborne ha dato agli elettori quello che hanno voluto: l’immobilità sociale e la fine di una democrazia storica.
Da Mercoledì 8 Luglio 2015, i giovani della Gran Bretagna, le future generazioni, le famiglie povere e della borghesia medio bassa sono ufficialmente fregati. Taglio agli ‘housing benfits’ per i giovani fino ai 21 anni (in sostanza, o si studia o si lavora per pagare l’affitto), sostituzione delle grants (borse di mantenimento allo studio) con i loans (prestiti) per fare un bel favore alle ‘student loans’ companies fallite e alle banche e contemporaneamente indebitare i giovani che dovranno ripagare i debiti (migliaia e migliaia di pounds) con gli interessi appena guadagnano due soldi: 21mila pound l’anno.
Il ‘sostegno’ Tories alle famiglie: i poveri non potranno avere più di due figli, aboliti i benefits dal terzo figlio in poi; è un modo per coltivare le future generazioni di ricchi ‘conservatives’ oppure, chissà, un omaggio al regime cinese che fino al primo ministro Hu Jintao obbligava le famiglie ad avere un solo figlio; forse l’anno prossimo Osborne perfezionerà la manovra finanziaria riservando i benefit solo ai figli maschi.
In compenso niente aumento su alcol, benzina e tabacco. E’ importante questo per i British poveri che hanno votato Tories nella speranza di diventare dei piccoli Lords: adesso possono ubriacarsi al pub, andare in ufficio in macchina e fumare una sigaretta sognando le case, e le cose, che non si potranno mai permettere, allo stesso prezzo dell’anno scorso.
Non è finita. Il Budget 2015 di Osborne nasconde nella tradizionale simbolica valigetta un’altra sorpresina: la riduzione della ‘corporation tax’ dal 20 al 18%, la più bassa del G20; una riduzione che secondo il ‘Chancellor of Exchequer’ porterà crescita e lavoro nel regno Unito; per ora è solo il via alla trasformazione del Regno Unito a paradiso fiscale per le multinazionali ed un inferno per gli inglesi.
In compenso Osborne ha aumentato il minimo sindacale introducendo il National Living Wage dagli attuali 6,50 pound fino a 7,20 nel 2017 e 9,00 nel 2020; ma questo ha un costo che viene pagato con il taglio allo stato sociale ed ha uno scopo ben preciso: quello di ‘fregare’ anche i sindacati e con essi il partito Laburista.
L’opposizione: inizialmente la leader ad interim dei Laburisti, Harriet Harman aveva opposto la manovra nel dibattito parlamentare. Poi si è rimangiata la parola. Ci ha ripensato: “Non possiamo fare opposizione a tappeto sulla manovra; dobbiamo prendere atto di quello che il paese vuole e delle motivazioni per cui la gente per la seconda volta non ha votato Labour: non si fidano di noi sul fronte dell’economia; non faremo pertanto opposizione sui tagli ai benefits dal terzo figlio in poi” ha dichiarato alla BBC.
I pretendenti al trono di leader del partito hanno, almeno per il momento, una posizione diversa: la ministra degli interni ombra, Yvette Cooper, accusa i Tories di aver mentito agli elettori promettendo durante la campagna elettorale che non avrebbero mai tagliato gli aiuti alle famiglie e ai figli. Secondo i dati forniti dalla Cooper che ha commissionato una ricerca alla House of Commons, i tagli sono due volte più pesanti per le donne rispetto agli uomini: del totale di 9,6 miliardi di sterline l’anno che le famiglie british si apprestano a pagare, 7miliardi peseranno sulle donne.
Andy Burnham, rivale della Cooper nella battaglia per la leadership, attacca il governo sulla divisione sociale e generazionale generata dai tagli selvaggi: “il national minimum wage parte dai 25 anni in su e taglia fuori i più giovani”. Inoltre, aggiungiamo noi, il progetto autoritario schiaccia i giovani sotto i 25, quelli non laureati, i quali hanno più bisogno di un aumento del salario minimo, mentre dai 25 anni in su milioni di laureati accedono a lavori medio alti dove lo stipendio minimo è già superato in partenza.
Un programma Tory sta procedendo come un carroarmato con la nuova proposta di legge anti-sciopero (Trade Unions Bill), un simpatico omaggio alla Thatcher: perché lo sciopero sia legale sarà necessario un minimo del 50% di partecipanti delle membership e un sostegno del 40% degli aventi diritto al voto in caso di sciopero nel settore pubblico.
Il disegno di legge stile 'Lady di ferro' prevede anche l’obbligo alla sostituzione dei lavoratori che scioperano, per non danneggiare il ‘business’: uno schiaffo ai lavoratori, al diritto del lavoro in sé, ma anche una sostanziale intimidazione dato che gli scioperanti verrebbero sostituiti da personale mandato da agenzie.
La lapidazione del diritto allo sciopero prevede anche un’altra sostanziale intimidazione: le cosiddette ‘picket lines’ non dovrebbero essere formate da più di 6 persone e sarebbe obbligatorio rendere noto il nome di uno dei membri del picchetto.
La TUC, Congresso delle Trade Unions, ha definito il disegno di legge un ritorno alla Germania degli anni ’30, tra l’altro in una fase in cui l’attività sindacale è al minimo storico. Proteste anche da Unite, il sindacato Labour, che per voce del segretario generale Len McCluskey annuncia battaglia contro un regime che “mette il sindacalismo fuori legge”.
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di Michele Paris
L’attesissimo accordo che dovrebbe mettere fine alla lunga contesa sul nucleare iraniano è stato finalmente siglato nella giornata di martedì dopo 18 giorni consecutivi di trattative e una serie di scadenze non rispettate. L’intesa è solo il primo passo di un lungo processo di implementazione di numerose condizioni, alcune delle quali accettate dai rappresentanti della Repubblica Islamica dopo essere state da essi stesse respinte nelle scorse settimane.
Sul piano generale, il nocciolo dell’accordo prevede che Teheran possa continuare a sviluppare un programma nucleare civile senza sopportare il peso di sanzioni internazionali in cambio di severe restrizioni imposte dai cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) e dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).
La data ultima prevista per il raggiungimento di un accordo doveva essere inizialmente il 30 giugno scorso ma persistenti contrasti su alcune questioni spinose hanno ripetutamente prolungato le trattative. Rivelazioni provenienti da Vienna al di fuori del circuito dei media ufficiali avevano evidenziato un chiaro irrigidimento della posizione degli Stati Uniti, intenzionati a chiedere concessioni maggiori all’Iran rispetto a quelle su cui le parti erano riuscite a convergere ai primi di aprile a Losanna.
L’amministrazione Obama aveva probabilmente sentito le pressioni dei “falchi” sul fronte domestico, contrari a qualsiasi accordo che non fosse una pura e semplice capitolazione dell’Iran, insistendo così sulla propria controparte per accettare termini decisamente penalizzanti.
Alla fine, come in molti avevano pronosticato, a prevalere è stata la volontà politica di mandare in porto un’intesa dalla portata strategica, ma anche economica, potenzialmente enorme. A giudicare dai dettagli circolati martedì, è sembrato l’Iran ad avere maggiore interesse in una soluzione pacifica della crisi, come ha indirettamente ammesso il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, il quale ha definito “storico” l’accordo da lui firmato ma evidentemente “non perfetto”.
Su due punti, in particolare, la volontà di Washington sembra avere prevalso. In primo luogo, la richiesta, apparentemente ferma, fatta nei giorni scorsi dalla delegazione iraniana di cancellare l’embargo sulle armi e sulla tecnologia missilistica non è stata accettata, almeno per il momento. La Reuters ha per prima riportato che il testo dell’accordo prevede il mantenimento per cinque anni dell’embargo sulle armi e per otto anni del divieto fatto all’Iran di acquistare tecnologia missilistica.
Le sanzioni economiche internazionali saranno poi eliminate, consentendo all’Iran di esportare petrolio liberamente e di utilizzare il sistema finanziario globale, ma viene fissato un meccanismo di “snapback” per ripristinare in maniera relativamente agevole le misure punitive finora applicate. Una speciale commissione internazionale, formata da USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Unione Europea e Iran, dovrà esprimersi in caso di presunte violazioni dell’accordo da parte di Teheran e il voto favorevole di una maggioranza semplice potrebbe riattivare le sanzioni entro 65 giorni.
Un altro aspetto delicato dell’accordo è poi l’accesso degli ispettori dell’AIEA alle installazioni militari iraniane. Il numero uno dell’agenzia, Yukiya Amano, ha annunciato martedì una “road map” sottoscritta con la Repubblica Islamica per avere l’autorizzazione a visitare i siti militari e, ufficialmente, fare chiarezza su eventuali test nucleari a fini bellici condotti in passato.
L’Iran, che aveva anche in questo caso escluso una simile eventualità, potrebbe non accordare il permesso di visitare i propri siti militari agli ispettori, anche se eventuali controversie su questo punto dovranno essere risolte dalla già citata commissione internazionale.
L’entusiasmo con cui Amano, notoriamente poco più che un burattino di Washington, ha salutato l’accordo con Teheran sulle ispezioni alle installazioni militari rende molto dubbia la buona fede dell’AIEA. Su tale questione è legittimo dunque sospettare che gli Stati Uniti si riservino la facoltà di minacciare ed esercitare ulteriori pressioni sull’Iran di fronte al minimo segnale di una presunta mancata collaborazione.Per quanto riguarda il potenziale nucleare, l’Iran dovrà rispettare pesanti limitazione delle proprie capacità di arricchimento dell’uranio per 15 anni, dopodiché dovrebbe teoricamente veder sparire ogni vincolo. L’Iran, infine, si impegna a ridurre di ben due terzi il numero di centrifughe in funzione per l’arricchimento dell’uranio nell’impianto di Natanz. Il numero delle centrifughe che resteranno attive - poco più di cinquemila - risulta nettamente inferiore a quello ipotizzato dalle autorità iraniane, incluso l’ayatollah Ali Khamenei, nel recente passato.
L’accordo appena raggiunto a Vienna, pur non essendo un trattato vincolante, dovrà essere approvato dal Congresso degli Stati Uniti, i cui membri avranno 60 giorni di tempo per esaminarlo. Questa disposizione è il risultato di una legge approvata a Washington e firmata da Obama per cercare di ammorbidire l’opposizione a un’intesa con l’Iran ampiamente diffusa tra deputati e senatori di entrambi gli schieramenti, particolarmente sensibili alle pressioni israeliane.
La leadership repubblicana ha ribadito in questi giorni il clima ostile al Congresso per qualsiasi accordo, ma un eventuale voto contrario di Camera e Senato potrebbe essere neutralizzato dal veto di Obama.
Sull’intesa peseranno poi le manovre di Israele, da dove le prime reazioni nella giornata di martedì sono state nuovamente all’insegna dell’isteria. Il premier Netanyahu ha definito l’accordo un “pessimo errore di proporzioni storiche”, mentre inquietante è stato il commento affidato a un “tweet” dalla vice ministro degli Esteri, Tzipi Hotovely, la quale ha avvertito che “lo stato di Israele prenderà tutte le misure [possibili] per cercare di impedire l’approvazione dell’accordo”.
La decisione strategica presa dall’amministrazione Obama di sancire uno storico riavvicinamento all’Iran, sia pure tra dubbi e pressioni contrastanti, dovrà fare i conti con i riflessi negativi nelle relazioni non solo con Israele ma anche con le monarchie arabe sunnite del Golfo Persico, a cominciare dall’Arabia Saudita, che vedono con apprensione il ritorno del rivale sciita a svolgere un ruolo da protagonista nella regione mediorientale.
Come ha spiegato Obama in un messaggio televisivo trasmesso martedì, “l’accordo offre la possibilità di muoverci verso una nuova direzione”. Il riequilibrio strategico in Medio Oriente potrebbe infatti essere significativo, sulla spinta dei rapporti commerciali da ristabilire con un paese di 77 milioni di abitanti e con ingenti risorse energetiche.
La Casa Bianca ha dunque valutato più opportuno scegliere la strada diplomatica, non tanto, come ha affermato lo stesso presidente americano, per costruire “un mondo più sicuro”, bensì come opzione migliore per promuovere gli interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente e non solo.
L’aver messo relativamente in secondo piano le richieste di alleati tradizionali come Israele e Arabia Saudita per inseguire per quasi due anni un accordo con un nemico storico indica motivazioni fortissime dietro la disponibilità USA a siglare un accordo con la Repubblica Islamica. Motivazioni che vanno ricercate in varie direzioni e che sono legate, tra l’altro, a un possibile processo di transizione politica senza Assad in Siria, all’indebolimento dell’asse della resistenza sciita e, forse principalmente, al tentativo di impedire o rallentare l’integrazione dell’Iran con Russia e Cina.Gli obiettivi che Washington intende raggiungere con un accordo sul nucleare che, a ben vedere, non ha mai riguardato veramente l’inesistente programma militare di Teheran, sono comunque tutt’altro che a portata di mano, non da ultimo a causa del declinante potere americano.
L’amministrazione Obama e l’apparato militare statunitense sono ben consapevoli delle difficoltà che si prospettano e, come dimostrano alcune condizioni comprese nell’accordo, gli USA non si trasformeranno nottetempo in un alleato dell’Iran, ma continueranno a mantenere alto il livello di pressione su questo paese per provare ad assicurarsi, per quanto possibile, un qualche allineamento di Teheran ai proprio interessi.
Per questa ragione, al di là delle complesse questioni tecniche che dovranno essere implementate a partire dalle prossime settimane, la retorica americana nei confronti dell’Iran potrebbe non cambiare di molto nell’immediato futuro, D’altra parte, solo pochi giorni prima della firma di un accordo che appariva ormai a portata di mano, il capo di Stato Maggiore americano uscente, generale Martin Dempsey, aveva indirizzato una nuova aperta minaccia militare contro l’Iran, ostentando i piani e le capacità belliche del suo paese, in grado di distruggere deliberatamente l’intero programma militare della Repubblica Islamica.
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di Michele Paris
Con la consueta amichevole stretta di mano tra i delegati del sindacato automobilistico americano UAW (United Auto Workers) e i vertici di General Motors (GM), lunedì a Detroit si sono aperte ufficialmente le trattative per il rinnovo di un contratto di lavoro che interessa circa 140 mila persone. Nei prossimi giorni sarà dato il via ufficiale anche ai negoziati con Ford e Fiat-Chrysler e la questione principale al centro delle discussioni sarà legata ai livelli di retribuzione, in netta discesa negli ultimi anni nonostante l’impennata dei profitti delle tre compagnie.
In cima alla lista delle richieste dei lavoratori c’è appunto il desiderio più che legittimo di recuperare i mancati adeguamenti dei loro stipendi a partire dalla stipula dell’ultimo contratto, avvenuta nel 2011, e di mettere fine all’odiato sistema dei “due livelli” retributivi.
Quest’ultimo era stato introdotto nel 2007 grazie alla connivenza del sindacato per abbassare drasticamente il costo del personale delle compagnie automobilistiche. In base a esso, gli stipendi di circa 40 mila lavoratori assunti dopo il 2007 sono stati di 15,8 dollari l’ora, poi saliti a 19,3 dollari nel 2011, contro livelli che vanno dai 28,5 ai 33 dollari per quelli entrati in Ford, GM o Fiat-Chrysler prima di questa data.
Ai dipendenti più anziani, non viene poi riconosciuto un aumento dello stipendio base da ben otto anni, anche se tutti hanno beneficiato in questi anni di premi una tantum grazie ai ritrovati profitti dei tre colossi dell’auto.
Il sistema dei “due livelli” ha portato enormi benefici alle compagnie, consentendo loro di ridurre al 6,7% nel 2014 la quota del costo del personale in relazione al totale di un singolo veicolo prodotto, contro il 15% nel 2008. Questa dinamica ha sostanzialmente equiparato il costo del lavoro di Ford, GM e Fiat-Chrysler a quello sostenuto dalle case automobilistiche asiatiche e tedesche che operano vari impianti soprattutto negli stati americani del sud, pressoché privi di sindacati e governati da politici particolarmente ben disposti verso il business.
La posizione della UAW alla vigilia delle trattive per il rinnovo del contratto che scadrà a settembre appare a dir poco ambigua. Ufficialmente i suoi vertici vogliono cancellare il sistema dei “due livelli” retributivi o, quanto meno, ridurre la distanza tra gli importi erogati ai dipendenti più anziani e a quelli assunti recentemente. D’altro canto, però, ci sono voci che il sindacato possa addirittura accettare un “terzo livello”, secondo il quale i futuri dipendenti potrebbero guadagnare appena 10 dollari l’ora.
Questa iniziativa favorirebbe altre nuove assunzioni in Ford, GM e Fiat-Chrysler, assicurando nuovi potenziali iscritti alla UAW in vista dell’entrata in vigore in Michigan e in Indiana di nuove leggi, approvate negli scorsi anni da legislature statali repubblicane, che rendono volontario e non più obbligatorio il pagamento delle quote sindacali da parte dei lavoratori.
Visti dunque i rapporti più che amichevoli tra i vertici della UAW e la dirigenza delle tre compagnie, la sfida principale del sindacato sarà quella di tenere sotto controllo le pressioni dei propri iscritti per ottenere una parte dei profitti generati in questi anni dal loro stesso lavoro.
I negoziati appaiono particolarmente complicati con Fiat-Chrysler, non solo per le ben note aspirazioni di Sergio Marchionne a perseguire una nuova fusione che avrebbe ulteriori probabili conseguenze negative sulla forza lavoro, ma anche per la situazione attuale all’interno dell’azienda, parzialmente diversa da quella di Ford e GM.Circa il 45% dei dipendenti di Fiat-Chrysler fa parte del secondo livello retributivo, ovvero quello più basso, a differenza di Ford e GM che sono attestate rispettivamente al 28% e al 19%. In concreto, Fiat-Chrysler ha un costo orario del lavoro – inclusa la copertura sanitaria e altri benefit – attorno ai 47 dollari per dipendente, contro i 55 di GM e i 57 di Ford.
Fiat-Chrysler potrebbe dunque opporre la maggiore resistenza al tentativo di ridurre le differenze retributive tra i propri dipendenti, visto il possibile impatto. Secondo uno studio indipendente, infatti, un aumento di 5 dollari l’ora per ogni lavoratore significherebbe un aumento dei costi pari a 400 milioni l’anno.
In ogni caso, sia i vertici aziendali sia quelli sindacali continuano a manifestare l’intenzione di mantenere alto il livello di competitività delle tre compagnie, senza perciò “danneggiarlo” con “eccessive” richieste di aumenti degli stipendi. Le compagnie automobilistiche hanno tuttavia fatto registrare più di 70 miliardi di dollari di utili dal 2011 a oggi e buona parte di questo denaro è stato impiegato per il riacquisto di proprie azioni (“buyback”) o per pagare dividendi agli azionisti.
Pochi giorni prima dell’inaugurazione delle discussioni per il rinnovo del contratto, inoltre, una manovra di Ford è apparsa particolarmente inquietante. La compagnia, con un annuncio intimidatorio nei confronti dei proprio dipendenti, ha fatto sapere di voler chiudere un impianto nei sobborghi di Detroit, dove vengono realizzati i modelli Focus e C-Max, per trasferire la produzione in Messico.
In questo impianto lavorano più di 4 mila persone e la minaccia di chiusura è un modo nemmeno troppo velato per minare la resistenza dei lavoratori ed estrarre nuove concessioni durante le imminenti trattative con la UAW.
Le tre compagnie, così, hanno tutta l’intenzione di tenere bassi i costi del personale, congelando ancora gli aumenti delle retribuzioni per sostituirli con premi legati alla produttività e ai profitti. Questo concetto lo ha riassunto alla perfezione lo stesso Marchionne, il quale, dopo avere incassato più di 70 milioni di dollari in compensi nel 2014, ha respinto l’idea che ai lavoratori siano riconosciuti “diritti acquisiti” relativi all’aumento della paga oraria.
Per i dipendenti di Ford, GM e Fiat-Chrysler si prospetta oltretutto un ridimensionamento dell’assistenza sanitaria che ricevono tramite il loro contratto di lavoro. I costi sanitari sono infatti nel mirino del management, tanto più che dal 2018 entrerà in vigore una tassa del 40%, stabilita dalla riforma di Obama del 2010, sui piani di assicurazione più generosi offerti dalle aziende private, cioè i cosiddetti “Cadillac plans”.
In questo caso, è stata la stessa UAW a proporre una via d’uscita vantaggiosa solo per le tre compagnie. Il presidente del sindacato, Dennis Williams, ha cioè prospettato la creazione di un’assicurazione sanitaria collettiva per i 140 mila dipendenti di Ford, GM e Fiat-Chrysler, gestita da un fondo simile a quello già operato dalla UAW per garantire la copertura dei lavoratori in pensione (VEBA).
Un simile progetto rappresenterebbe una nuova lucrosa opportunità per i vertici della UAW, i quali si ritroverebbero svariati altri miliardi di dollari da gestire in investimenti, anche se l’assistenza sanitaria per i lavoratori diventerebbe più onerosa e, con ogni probabilità, di qualità inferiore.
Attualmente, negli Stati Uniti i lavoratori dell’industria automobilistica pagano di tasca propria circa il 6% delle prestazioni sanitarie di cui usufruiscono, attraverso contributi e franchigie, a fronte dell’11% pagato dai pensionati coperti dal fondo VEBA e del 15% dalla media degli americani assicurati.
In definitiva, i round di negoziati che prenderanno il via nei prossimi giorni tra la UAW e i giganti dell’auto segneranno una nuova tappa nel tentativo della classe dirigente americana di trasformare gli Stati Uniti in un paese dove il costo della manodopera risulti sostanzialmente allineato a quello dei paesi meno avanzati. Con la minaccia della perdita del posto di lavoro e con la complicità del loro stesso sindacato, i lavoratori USA saranno esposti a pressioni enormi per accettare condizioni sempre più difficili e svantaggiose, così da garantire la “competività” e i profitti miliardari delle loro aziende.
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di Fabrizio Casari
Una Europa con il sangue agli occhi e livida di rabbia ha preferito annullare la riunione dei 28 paesi membri e rifugiarsi nell’Eurogruppo per cercare di nascondere il livore contro Atene, che con la sua proposta di piano straordinario di aiuti ha letteralmente messo Bruxelles con le spalle al muro, determinando così un rilancio idrofobo e antigreco per tenere uniti i 28. L’eurovertice di ieri ha certificato, per la prima volta, una spaccatura nel gruppo dirigente della Ue. Slovacchia o Finlandia, o simili, votano con Berlino sapendo che questo eviterà di spulciare nei loro conti, spesso altrettanto disastrosi come e più di quelli greci.
Da un punto di vista numerico, l’appoggio di costoro è relativamente importante, dal momento che alcuni dei paesi più oltranzisti schierati al fianco di Berlino contano meno di quanto votino, ma in sede di Eurogruppo assumono un peso a sostegno dei tedeschi che serve a bilanciare lo smarcamento di Parigi e l’incertezza di Roma. E’ poi chiaro che la rigidità di Berlino con Parigi sia in qualche modo la risposta rabbiosa verso l’Eliseo che ha offerto già da due settimane collaborazione ad Atene. Ovvio comunque che la differenza tra Parigi e Berlino non andrà oltre la contingenza, dal momento che non può assumere valenza prospettica in assenza di leadership francese e italiana degna di nome.
Le proposte di Bruxelles sono decisamente peggiorative rispetto a quelle di Atene e impongono, né più né meno, il commissariamento europeo della Grecia, sotto il nome dell’accettazione del terzo “Memorandum”. A fronte di 86 miliardi di Euro di aiuti si propongono ispezioni degli uomini della Troika, approvazione preventiva da parte di Bruxelles delle leggi che il Parlamento greco dovesse adottare e rinvio a data da destinarsi dell’eventuale rateizzazione - e non ristrutturazione - del debito greco (cosa che, sebbene non a chiare lettere, era visibilmente presente nella proposta di Tsipras).
Nella “proposta” in discussione all’Eurogruppo si ordina ad Atene il trasferimento di 50 miliardi di Euro in beni pubblici ad un fondo straniero e persino la riforma del Codice di Procedura Civile, evidente grimaldello per modifiche sostanziali alla Carta costituzionale greca utili allo smantellamento dei diritti individuali e collettivi nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale su cui calare come falchi. Siamo di fronte ad un delirio imperiale con i tratti della rappresaglia verso un paese che ha deciso di esprimere il suo volere. Un piano quasi impossibile da accettare e comunque contrario agli stessi trattati fondativi della Ue, lanciato con la speranza che sia la Grecia a rifiutarlo e così sfilarsi dll'eurozona.
Il Premier greco gioca una partita difficilissima sotto il waterboarding di Bruxelles. Ma si è già dimostrato abile scacchista e forse anche nell’occasione sorprenderà tutti con la capacità di non alzarsi dal tavolo e portare a casa un risultato, quale che sia, che non comporti l’uscita dall’area euro. Magari anche tornando ad Atene con la lettera di dimissioni e la convocazione di nuove elezioni, forte dei sondaggi che lo danno al 46% dei voti. Intanto potrebbe chiedere un prestito ponte straordinario per scongiurare la chiusura definitiva degli sportelli delle banche greche.
E’ palese come la questione non sia affatto finanziaria, non rappresentando l’ammontare del debito greco (320 miliardi di euro) più del 3 per cento del debito europeo. Ed è bene considerare che l'eventuale default greco costerebbe decisamente di più. Per meglio definire l'ordine di grandezza del problema, si consideri che in due giorni di crisi borsistica cinese di miliardi ne sono stati bruciati 2500. C'è poi da ricordare che i precedenti “aiuti europei” sono stati assegnati ai governanti amici di Bruxelles, che proprio seguendo i “consigli” della Troika hanno ridotto il PIL del 25%, peggiorando quindi tutti i fondamentali dell’economia ellenica e aprendo la più grande crisi umanitaria del vecchio continente. I famosi 250 miliardi di Euro dati alla Grecia sono una barzelletta: quei soldi non sono mai arrivati alla Grecia, sono finiti a ripianare l’esposizione delle banche tedesche, francesi e italiane verso la Grecia. Per questo oggi Tsipras chiede la consegna degli aiuti al governo e non agli istituti di credito.
L’obiettivo immediato dell’Eurogruppo è quello di far cadere il governo Tsipras proponendo una resa incondizionata. L’ordine di avere entro cinque giorni l’approvazione del Parlamento greco ha tre obiettivi. Il primo è quello di spaccare Syriza, cosa fino ad ora non riuscita con i precedenti ricatti, e aprire così ad una nuova maggioranza di governo che riporti gli uomini di Goldman Sachs (come Samaras, nei cui confronti non a caso mai si esercitarono pressioni simili) nello scenario di governo. Il secondo è quello di non offrire subito il sostegno finanziario per impedire che le banche elleniche possano riaprire già da martedì, tentando così di stringere il nodo scorsoio alla gola dei greci e sperare d’innescare una rivolta contro il governo, magari con l’aiuto dell’estrema sinistra, sempre pronta a perdere il senso della sua esistenza di fronte alla storia.
La portata dello scontro tra Europa a guida tedesca e la Grecia è esclusivamente politica e non ha nessun criterio dal punto di vista economico, anche perché non avrebbe nessun senso imporre ad un paese con circa il 180% del debito sul PIL una politica recessiva. In discussione c’è il comando imperiale tedesco. A conferma di ciò, basta ricordare come nei giorni scorsi, i giornalisti da riporto di Bruxelles avevano raccontato di un piano Tsipras non diverso nella sostanza da quello di Junker. Non era ovviamente vero, ma la domanda che tutti dovrebbero porsi è questa: come mai se i piani sono simili quello di Junker va bene e quello greco non va bene?La risposta è semplice: non si riconosce alla Grecia nemmeno la possibilità di esporre un piano, l’obbedienza è l’unica risposta ammessa. Inoltre, nella sostanza, si vuole determinare con la forza l’illegittimità di un governo di sinistra che agisca come tale, dunque che faccia uso degli strumenti democratici di consultazione del suo popolo e che chieda un deciso cambio di rotta nelle politiche di rigore che, in cinque anni, hanno ridotto il paese in ginocchio e peggiorato tutti i suoi indici finanziari, sociali e politici. La sinistra è prevista solo se agisce come la destra, vedi Francia o Italia.
La Grecia, che tra le altre risorse ha dimostrato di disporre di un Primo Ministro con stoffa da statista, ha proposto un piano che prevede oltre alla ricapitalizzazione delle quattro banche (da accorpare a due) e all’aumento ragionevole dell’Iva, una riforma progressiva in cinque anni del sistema pensionistico.
Atene chiede 74 miliardi di Euro, di cui 14 per la ricapitalizzazione degli istituti di credito e 60 per gli investimenti. Dunque, gli investimenti non sarebbero di fantomatiche mano invisibili del mercato (ovvero banche europee) ma pubblici, voluti e gestiti da un governo sovrano. Intollerabile per Berlino, quindi per Bruxelles.
Perché ove ciò succedesse, è evidente che il governo greco potrebbe operare nella direzione del Programma di Salonicco, ovvero il programma elettorale di Syriza e i risultati in termini di ripresa dell’economia non tarderebbero a manifestarsi. Ma questo diverrebbe la prova provata di quanto siano le politiche ultramonetariste di Bruxelles che impediscono all’Europa di uscire dalla crisi cominciata nel 2010 ed aprirebbero la porta ad una nuova stagione della sinistra in Spagna e forse in Italia, il che comporterebbe l’implosione della guida tedesca del continente.
L’Unione Europea sa benissimo che ormai risulta essere, agli occhi della maggioranza dei cittadini del vecchio continente, una istituzione dannosa, un insulto alla democrazia continentale e un tradimento all’idea federalista che aveva progettato e disegnato l’unione continentale in forma di comunità unitaria e solidale.
Nelle ultime 48 ore la stampa tedesca e quella britannica hanno rilanciato le minacce di Schaeuble, che hanno una doppia valenza: nei confronti della Grecia, colpevole di aver consultato i suoi cittadini su ordini provenienti da Berlino e, internamente, nei confronti della Merkel, per tentare il sorpasso interno nel partito.
Agli occhi di Schaeuble la Cancelliera si sarebbe resa disponibile ad un accordo perché avrebbe ceduto alle pressioni di Obama, che gli ha ripetutamente fatto presente come ben prima che della ragioneria degli euroburocrati, la permanenza della Grecia nell’Unione Europea è questione di primaria importanza sotto il profilo geostrategico, con ciò intendendo la NATO e il suo fianco sud. La situazione in Turchia e il nuovo braccio di ferro con Mosca non consigliano gli USA ad un atteggiamento indifferente sulla tenuta della Grecia. La Merkel, che ha una lungimiranza che si misura solo sul suo consenso interno, si è prontamente allineata a Schaeuble, sapendo che risulterà più conveniente, ai fini della politica interna, arrivare ad un accordo non voluto che dirsi favorevole al raggiungimento dello stesso. Meglio dirsi sconfitta che complice.
Intanto, dal documento in discussione è stata cancellata l’ipotesi di uscita temporanea della Grecia dall’Euro causa insostenibilità legale del provvedimento. Sarebbe bene che se un Ministro delle Finanze che vuole comandare sull’Europa propone una mossa illegale ed illegittima proprio per i trattati europei, fosse immediatamente rimosso per manifesta incompatibilità tra il suo personale livore e le norme esistenti. Un dilettante ad alta intensità di crudeltà privo delle caratteristiche necessarie per una funzione così importante.
Mentre scriviamo non è ancora chiaro quale sarà la stesura definitiva del piano dell’eurogruppo, ma conoscendo la forza negoziale di Hollande o Renzi si possono ipotizzare modifiche di non grande sostanza. Emerge però, al di là di come si concluderà la vicenda greca, un fallimento dell’idea di Europa unita ormai visibile a tutti.
Nata per contenere l’espansionismo tedesco, che lungo i secoli ha sempre manifestato l’ansia di dominazione sull’intero continente, ha finito per consegnare al neocolonialismo tedesco le sorti di tutta l’Europa. Una Europa incapace di produrre iniziativa riguardo tutti i dossier più importanti della politica internazionale e non in grado di affrontare i temi della sua identità politica e del senso stesso della sua unità monetaria.
E’ ormai evidente come la forza economica e politica della Germania sia ottenuta a danno del resto d’Europa e come quindi il rafforzamento della guida tedesca sia antagonista allo sviluppo economico e sociale dell’Unione europea. Ridurre le tentazioni egemoniche teutoniche é di nuovo, come in passato, un gesto necessario allo sviluppo della democrazia europea.