di Michele Paris

L’ex generale dell’esercito americano e già direttore della CIA, David Petraeus, potrebbe essere sottoposto a una formale incriminazione da parte del Dipartimento di Giustizia per avere passato informazioni riservate alla sua biografa ed ex amante, Paula Broadwell. A rivelare questa possibilità è stata un’esclusiva di qualche giorno fa del New York Times, che ha riportato al centro del dibattito politico di Washington una vicenda dai molti lati oscuri e rimasta in sospeso da quasi tre anni.

La rilevanza dell’eventuale provvedimento giudiziario, ipotizzato domenica dallo stesso ministro della Giustizia (“Attorney general”) Eric Holder, risulta evidente dall’importanza del personaggio coinvolto. Petraeus era stato il comandante delle forze di occupazione americane in Iraq a partire dal 2007, mentre tre anni più tardi sarebbe stato chiamato dal presidente Obama per sostituire alla guida delle truppe USA in Afghanistan il generale Stanley McChrystal, rimosso dall’incarico dopo la pubblicazione di una sua intervista apertamente critica verso la Casa Bianca.

Nel 2011, poi, Petraeus si era ufficialmente ritirato dall’esercito per essere nominato, sempre da Obama, direttore della CIA, dove è rimasto dal settembre dello stesso anno al novembre di quello successivo, quando si dimise dopo la diffusione della notizia della sua relazione extraconiugale con Paula Broadwell.

Secondo la versione ufficiale, Petraeus era finito sotto l’occhio dell’FBI pressoché casualmente. A innescare i suoi guai sarebbe stata infatti l’iniziativa di una seconda donna, residente a Tampa, in Florida, la quale nella primavera del 2012 aveva notificato al “Bureau” la ricezione di una manciata di e-mail anonime nelle quali veniva minacciata per avere flirtato in maniera impropria con il generale Petraeus.

La seconda donna, Jill Kelley, era una funzionaria del Dipartimento di Stato incaricata di coordinare i rapporti con il Comando delle Forze Speciali e, assieme al marito, aveva conosciuto Petraeus e la moglie, Holly, quando quest’ultimo era a capo del Comando Centrale, la cui sede si trova nella città sulla costa occidentale della Florida.

La successiva indagine dell’FBI aveva appurato che la persona che minacciava Jill Kelley era appunto Paula Broadwell e l’analisi del suo account di posta elettronica aveva portato alla luce altre e-mail dal contenuto esplicito provenienti dall’allora direttore della CIA, rivelando così la relazione tra i due.

Nel PC della Broadwell sarebbero stati poi rinvenuti alcuni documenti classificati ma la donna ha sempre negato di averli ricevuti da Petraeus e lo stesso ex generale, pur ammettendo l’affaire, ha a sua volta negato la circostanza.

A parte questi fatti, il caso era apparso subito ricco di interrogativi, tutt’altro che risolti a oltre due anni di distanza. Ad esempio, l’FBI pare avesse concluso che non vi erano ragioni per aprire un procedimento legale contro Petraeus ben prima che la vicenda diventasse di dominio pubblico. La sicurezza nazionale, insomma, non era stata messa in nessun modo in pericolo dal presunto trafugamento di documenti segreti da parte dell’ex generale, ma l’indagine si è comunque trascinata per parecchi mesi.

Inoltre, i vertici del Dipartimento di Giustizia e la stessa Casa Bianca erano stati informati molto tardivamente del coinvolgimento di Petraeus nell’indagine, mentre l’allora leader di maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, il deputato repubblicano Eric Cantor, ne aveva invece avuto notizia tempestivamente perché messo al corrente del caso da un agente dell’FBI amico di Jill Kelley. La vicenda, infine, era emersa sui giornali americani solo pochi giorni dopo la rielezione di Obama alla presidenza.

Dal 2012, dunque, gli investigatori federali stanno studiando la situazione di Petraeus e il già ricordato articolo del New York Times di qualche giorno fa ha rivelato che questi ultimi avrebbero finalmente raccomandato al Dipartimento di Giustizia di incriminare in maniera formale l’ex generale.

Dopo le dimissioni, Petraeus ha inziato a operare nel settore privato, pur continuando a svolgere il ruolo di consigliere per l’amministrazione Obama, in particolare sull’Iraq. L’indagine nei suoi confronti, secondo alcuni, gli ha però impedito finora di perseguire possibili incarichi di alto livello dopo che già nel 2012 si era parlato addirittura di una sua possibile candidatura alla Casa Bianca.

Petraeus gode di ottime relazioni con importanti membri ed ex membri del governo e del Congresso, sia democratici che repubblicani. In particolare, l’ex direttore della CIA ha costruito un solido rapporto con l’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, sempre più probabile candidata alla presidenza per i democratici nel 2016.

I suoi rapporti con la politica di Washington hanno fatto in modo in questi giorni che vari leader di entrambi gli schieramenti siano intervenuti pubblicamente per difenderlo. La senatrice democratica Dianne Feinstein, ex presidente della commissione per i Servizi Segreti, ha affermato ad esempio in diretta TV che Petraeus ha già “sofferto a sufficienza” e non dovrebbe essere perciò incriminato.

Ancora più accesi sono stati gli interventi in favore di Petraeus dei senatori repubblicani John McCain, Lindsey Graham e Richard Burr, tutti, come la stessa Feinstein, tra i più convinti accusatori di Bradley (Chelsea) Manning o Edward Snowden, rispettivamente condannato e incriminato con lo stesso capo d’accusa che potrebbe gravare sull’ex generale per avere rivelato informazioni classificate.

Allo stesso tempo, alcune testate americane hanno anche sostenuto che la condivisione con giornalisti o scrittori fidati di taluni documenti classificati da parte di esponenti di spicco dell’apparato della sicurezza nazionale è una pratica tutt’altro che insolita e praticamente mai episodi del genere sono oggetto di indagini federali.

La stessa amministrazione Obama, come peraltro quelle che l’hanno preceduta, favorisce “fughe di notizie” mirate quando intende far trapelare determinate informazioni con scopi ben precisi o per sondare la reazione dell’opinione pubblica a determinate situazioni.

Tutto nella vicenda di Petraeus, in definitiva, fa pensare a motivi più seri dietro all’indagine di quelli legati alla consegna di documenti riservati alla sua amante/biografa o, tantomento, alla stessa relazione extraconiugale intrattenuta con quest’ultima, fermo restando che Petraeus, in un sistema veramente democratico, meriterebbe di essere al centro di inchieste per reati ben più gravi visto il suo ruolo di spicco nella gestione della macchina da guerra - e di morte - degli Stati Uniti.

I molti punti oscuri della vicenda non permettono tuttavia un’analisi adeguata delle dinamiche all’interno della classe dirigente USA che hanno determinato la caduta di una personalità così importante. Lo stesso indugiare del Dipartimento di Giustizia circa l’opportunità di aprire un procedimento formale ai suoi danni sembra confermare l’esistenza di forze contrastanti che esprimono posizioni divergenti sull’intero caso.

Petraeus, oltretutto, continua a rifiutare un accordo con gli investigatori federali per ammettere le sue responsabilità ed evitare un vero e proprio processo, mostrandosi al contrario disponibile a dibattere in aula le circostanze della sua incriminazione.

Ancor più delle ambizioni politiche, in ogni caso, a segnare la sua sorte potrebbero essere state altre controversie che lo hanno visto protagonista negli anni scorsi. Limitandosi necessariamente a quanto è di dominio pubblico, va ricordato almeno che David Petraeus e l’allora primo consigliere di Obama in materia di anti-terrorismo, John Brennan, avevano avuto serie divergenze attorno alla campagna di assassini mirati condotta con i droni in Pakistan, Yemen e altrove.

Mentre il primo intendeva espandere la flotta di droni assegnata alla CIA, Brennan preferiva limitare il ruolo dell’intelligence in questo settore dell’anti-terrorismo, per lasciarlo soprattutto nelle mani delle forze armate, teoricamente sottoposte a regole più trasparenti e quindi più facilmente controllabili dal potere civile. Brennan, com’è noto, a inizio 2013 è diventato direttore della CIA dopo le dimissioni di Petraeus e un breve interregno del vice di quest’ultimo, Michael Morell.

Petraeus, infine, qualche settimana fa era stato accreditato dalla stampa americana di posizioni relativamente critiche sugli interrogatori della CIA con metodi di tortura. L’ex generale si era anche rifiutato di sottoscrivere una risposta alla diffusione del rapporto sulle torture, recentemente pubblicato dalla commissione di controllo sui Servizi Segreti del Senato, promossa da altri ex direttori della CIA per difendere gli interrogatori.

Anche su questo argomento, Petraeus potrebbe essersi scontrato con i vertici dell’agenzia di Langley e con la stessa Casa Bianca, dove lavorava John Brennan, visto che questi ultimi avevano tutti più o meno apertamente combattuto il lavoro di indagine della commissione e la pubblicazione del rapporto sui crimini della CIA.

di Michele Paris

L’operazione più o meno mascherata di cambio di regime in Sri Lanka diretta da Washington sembra essere riuscita alla perfezione dopo che le elezioni presidenziali di giovedì scorso hanno decretato la sconfitta di Mahinda Rajapaksa e il successo del candidato dell’opposizione, Maithripala Sirisena. Apparentemente senza resistenza, il presidente uscente ha ammesso la sconfitta il giorno successivo, abbandonando il palazzo presidenziale per consentire un passaggio di consegne senza scosse alla guida del paese del sud-est asiatico.

L’ex ministro della Sanità Sirisena ha ottenuto il 51,3% dei voti, contro il 47,6% del suo ex compagno di partito Rajapaksa, rimosso dalla carica di presidente dopo dieci anni e un progressivo consolidamento del potere. Piuttosto elevata è risultata l’affluenza alle urne, attestatasi attorno all’81,5% rispetto al 74,5% di cinque anni fa.

Dietro ai commenti dei giornali internazionali di questi giorni circa il probabile “riequilibrio” della politica estera di Colombo in seguito all’insediamento del nuovo governo si nasconde in realtà un vero e proprio ribaltamento delle alleanze di questo paese o, per lo meno, ciò è quanto si aspettano gli Stati Uniti e l’India.

Rajapaksa aveva costruito in questi anni una strettissima partnership con la Cina, concretizzatasi, come ha scritto qualche giorno fa Bloomberg News, in un aumento dei prestiti allo Sri Lanka di cinquanta volte in dieci anni e in investimenti diretti pari a 4 miliardi di dollari.

Ciò ha provocato parecchi malumori a Washington e, soprattutto, a Delhi, dove il vicino sud-orientale è tradizionalmente considerato all’interno della sfera di influenza indiana. Più in generale, lo Sri Lanka si trova al centro di rotte marittime strategiche, il controllo delle quali consente potenzialmente di ostacolare i traffici da e per la Cina.

Le manovre americane in concerto con l’opposizione cingalese sono andate a buon fine grazie alla vasta ostilità popolare per le tendenze dittatoriali dell’amministrazione Rajapaksa. Sirisena ha ottenuto un largo consenso nei distretti operai della capitale, nonché nelle aree a maggioranza musulmana e Tamil, dove il risentimento nei confronti del presidente uscente rimane fortissimo dopo il brutale soffocamento della ribellione delle “Tigri” nel 2009.

Proprio la campagna militare contro le Tigri Tamil aveva offerto agli Stati Uniti e ai loro alleati la possibilità di esercitare pressioni su un Rajapaksa avvicinatosi pericolosamente alla Cina. Poco meno di un anno fa, infatti, l’amministrazione Obama aveva sponsorizzato alle Nazioni Unite una mozione di condanna del governo dello Sri Lanka per le diffuse violazioni dei diritti umani durante le fasi finali della guerra civile.

Gli stessi USA, tuttavia, avevano appoggiato Rajapaksa nella sua guerra contro la minoranza Tamil, salvo poi accusarlo di crimini contro i civili in una delle consuete manipolazioni della questione dei diritti umani da parte dei governi occidentali in base alle necessità strategiche del momento.

A decidere il proprio destino era stato inaspettatamente lo stesso Rajapaksa, il quale lo scorso novembre aveva indetto nuove elezioni dopo avere modificato la costituzione in modo da consentirgli di correre per un terzo mandato. Il presidente intendeva così consolidare il potere di fronte alla crescente opposizione popolare a causa degli spazi democratici sempre più ristretti nel paese e delle conseguenze dell’implementazione di misure di “rigore” dettate dal Fondo Monetario Internazionale, protagonista nel 2009 di un prestito erogato allo Sri Lanka da quasi 3 miliardi di dollari.

Pochi giorni dopo l’annuncio delle elezioni, dunque, Sirisena aveva dato le dimissioni dal governo e dalla carica di segretario generale del Partito della Libertà dello Sri Lanka (SLFP) di Rajapaksa per diventare il candidato alla presidenza dell’opposizione.

Secondo molti, la scelta di Sirisena come candidato comune dell’opposizione sarebbe stata pilotata dalla ex presidente ed ex primo ministro, Chandrika Kumaratunga, anch’essa già membro dell’SLFP ma con profondi legami con gli Stati Uniti e, in particolare, con la famiglia Clinton.

Attorno a Sirisena si sono raccolti i principali partiti di opposizione, a cominciare dal Partito Nazionale Unito (UNP) di centro-destra, ma anche il partito estremista buddista JHU e il Partito Democratico dell’ex generale e sfidante di Rajapaksa nelle presidenziali del 2010, Sarath Fonseka. Forse determinante per il successo di Sirisena è stato poi il sostegno ottenuto da vari partiti musulmani e Tamil.

La defezione di Sirisena dal partito di governo ha provocato un’ondata di diserzioni che ha riguardato decine di parlamentari e una manciata di ministri. Una dinamica, quest’ultima, che rivela come una parte molto consistente della classe dirigente cingalese abbia deciso di imprimere una svolta alla politica estera del proprio paese, con lo scopo di allinearlo a Washington.

Questa intenzione è evidente anche dalle dichiarazioni dello stesso neo-presidente, intenzionato ad esempio a “rompere l’isolamento” internazionale dello Sri Lanka o a “rivedere” i progetti cinesi di investimento nel paese.

La stessa accettazione della sconfitta da parte di Rajapaksa riflette le pressioni esercitate dagli Stati Uniti sul suo governo, apparse chiare ad esempio dall’intervento pubblico poco prima del voto del segretario di Stato USA, John Kerry, per invitare il regime a garantire elezioni “credibili e trasparenti”, nonché senza violenze o intimidazioni.

Rajapaksa, tuttavia, deve avere pensato a un colpo di mano per rimanere alla guida del paese, vista anche la sua scarsa predisposizione per le norme democratiche. Nel 2010, ad esempio, dopo la vittoria su Fonseka aveva ordinato l’arresto del rivale quando quest’ultimo aveva cercato di denunciare irregolarità nel voto.

In questa occasione, Rajapaksa si è però trovato di fronte a forze ben più importanti sia internamente che a livello internazionale. Visti i precedenti in molti altri paesi, un intervento per mantenere il presidente al potere avrebbe con ogni probabilità dato vita a una sorta di “rivoluzione colorata” pilotata dall’Occidente anche in Sri Lanka.

Nella giornata di domenica, in ogni caso, un alleato del neo-presidente Sirisena ha affermato che Rajapaksa aveva dato ordine ai vertici militari di schierare truppe nel paese in seguito ad una sua possibile dichiarazione unilaterale di vittoria nelle elezioni. Dopo il rifiuto degli alti ufficiali cingalesi, Rajapaksa deve avere realizzato di non avere altre possibilità di rimanere al suo posto, convincendosi così ad ammettere la sconfitta e a passare la mano al suo ex ministro.

L’indisponibilità dei militari ad assecondare l’ormai decaduto presidente è estremamente indicativa delle forze schierate contro Rajapaksa e le sue politiche di allineamento alla Cina. Anche le forze armate, cioè, devono avere scommesso sulla svolta strategica a favore degli Stati Uniti e dell’India, visto che il loro impegno per la democrazia è molto poco credibile, come confermano i massacri di cui si sono rese responsabili nel corso della guerra contro la minoranza Tamil nel 2009.

Ciò che resta da verificare sarà ora la capacità effettiva di Sirisena di operare lo sganciamento da Pechino richiesto da Washington e Delhi. La Cina, infatti, svolge ormai un ruolo pressoché imprescindibile nell’economia cingalese e difficilmente potrà essere sostituita in questo ambito dai nuovi sponsor del regime entrante a Colombo.

di Rosa Ana De Santis

I professionisti della geopolitica, a poche ore dalla tragedia di Charlie, hanno numerosi scenari in cui misurare la loro competenza. Un duello a tratti esaltante e di raffinato sapore accademico sulla miglior lettura del panorama internazionale e di come, di fatto, gli Stati Uniti abbiano lasciato alle porte dell’Europa terre di nessuno, paesi ad alta instabilità, abbandonati in pasto alle bombe e a primavere arabe fallite, che hanno solo aggiornato oppressioni e rivitalizzato il fondamentalismo islamico

Fin troppo evidente che scontiamo la sconfitta solenne della strategia bellica di Bush lasciata in eredità ad Obama. Ma sorprendente che a parte Salvini nessuno impugni con competenza e decenza il tema della religiosità di questo terrorismo per portarlo nell’agone del dibattito in un modo che non sia certamente quello della retorica anti immigrazione. Semplice perfino, ma troppo dimesso nei toni.

Gli attentatori Said e Cherif Kouachi sono francesi a tutti gli effetti. Godono di tutti i diritti di cittadinanza, nonostante peraltro alcune ombre passate. Sono entrambi reduci dalla «Jihad» in Siria e non da Mare Nostrum. Non sono esuli, né rifugiati ma zelanti fedeli. L’urlo di morte “Allah Akbar” non è un urlo qualsiasi. Non è un incitamento di guerra come altri rivolto a nemici, ma un anatema che si scaglia contro degli infedeli. Non importa se siano cittadini, patrioti della stessa Francia, persino fratelli musulmani.

Sono infedeli perché tradiscono l’ideale fanatico della teocrazia, perché come occidentali hanno scelto di secolarizzare, tanto tempo fa,  la loro vita e di restituire lo Stato a Cesare e la Chiesa a Dio. Una divisione che solo nel piccolo Stato Vaticano non è del tutto chiarita. Ma per fortuna lì non si fa catechismo per futuri kamikaze. Questa valutazione non soddisfa i complottisti e i raffinati dottori della geopolitica, eppure recupera un concetto vecchissimo che l’Europa ha vissuto, ha pagato e ha risolto con l’Illuminismo.

I killer, gli sgozzatori dell’Isis, quali che siano le loro sovrane regie, sono formati scientificamente al martirio. Sono istruiti a credere che il miglior sistema di governo sia quello d’ispirazione religiosa. Forse perché la religione è lo strumento più temibile e più semplice per tenere il dominio sul popolo in nome della paura, della repressione e del primo terrorismo che è tutto psicologico. E la mentalizzazione di questo concetto ha confermato con dolore il potere che una mente grande come quella del maestro Marx aveva ben analizzato.

Questo terrorismo di fucilazioni, sgozzamenti, treni e discoteche che saltano, non è solo legato all’economia delle armi, ai territori conquistati, alla resistenza contro gli invasori e i droni americani ed europei. E’ una battaglia di civiltà in grande stile e quanto prima lo comprenderemo, come nel suo editoriale segnala con passione Eugenio Scalfari, quanto meglio sapremo difenderci contro chi dentro il cuore delle nostre democrazie, perfettibili certamente, parziali, zoppicanti ma ben salde nella testa delle persone, si nasconde sotto i panni della cittadinanza europea per condurre una crociata religiosa.

Ne siamo stati esperti come cristiani in un orrendo passato di violenza ed è un fatto, non un dettaglio neutro e trascurabile, se oggi tutto questo ritorna in nome di Allah e non di Gesù.

Cosi mentre Salvini mette il binocolo su Lampedusa per scovare il terrorista, non si accorge che la clandestinità di cui aver paura è quella di cittadini regolarissimi ingaggiati per una battaglia di religione dentro qualche garage delle nostre città. Magari padanissime e leghiste fino a morire.

Non abbiano paura di denunciarlo, come hanno fatto, gli imam. Molti, alcuni. Non abbiano timore di chiudere le moschee e di cacciare i fiancheggiatori di questi barbari del duemila. Perché la fede, anche la loro, sarà salva solo se non sarà sovrapponibile alla religione e al potere temporale. Che lo vogliano o no questa è la lezione che l’Occidente, che su molto altro ha da imparare, può invece dare a tutti.

Le guerre di religione patite nel cuore dell’Europa sono morte sul nascere di una primavera della ragione, molti secoli fa. E i lumi che brillarono allora, sono gli stessi accesi sui colleghi caduti martiri in nome di alcun Allah, ma di valori condivisi da tutti, non importa il credo della fede. Voler portare o no il velo ad esempio. Non essere lapidati per adulterio, solo se donne. Non essere uccisi per apostasia, altro esempio. Non pensare che il martirio sia qualcosa di diverso dal suicidio. E tanto altro ancora per cui basta rievocare la Bastiglia. La libertà, l’eguaglianza e la fraternità.


di Michele Paris

Gli scenari emersi subito dopo l’orrenda strage di mercoledì nella redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo appaiono prevedibilmente simili a quelli registrati virtualmente ovunque nell’ultimo decennio dopo ogni singolo episodio classificato come atto di “terrorismo”. Non solo la rivelazione dell’identità e il modus operandi dei reponsabili dell’attacco hanno come sempre aggiunto più dubbi che certezze alla vicenda, ma anche le reazioni dei governi e dei media ufficiali hanno innescato nuovamente il consueto squallido tentativo di occultare le cause reali di simili episodi di violenza e le questioni cruciali che dovrebbero essere sollevate.

Quasi automaticamente, per cominciare, l’individuazione degli autori dell’attentato che ha provocato dodici vittime a Parigi si è accompagnata alla diffusione della notizia che i giovani e, in particolare, uno di essi, erano ben noti alle forze di sicurezza francesi.

Ciò era accaduto, solo per citare gli episodi più recenti, nel mese di ottobre anche a Ottawa, in Canada, e lo scorso dicembre a Sydney, in Australia. A differenza di questi ultimi due casi, tuttavia, il massacro parigino alimenta maggiori interrogativi, visto che la dinamica dei fatti ha messo in luce come i responsabili avessero pianificato in maniera dettagliata e professionale l’assalto, condotto con armi automatiche non sono esattamente facili da reperire.

Uno dei tre uomini, il 34enne di origine algerina, Chérif Kouachi, era poi passato attraverso il sistema giudiziario transalpino a partire almeno dal 2005, per avere dapprima tentato di unirsi alle forze anti-americane in Iraq e successivamente a causa dei suoi legami con un’organizzazione islamista che cercava di inviare fedeli musulmani a combattere nello stesso paese mediorientale occupato.

Chiedersi come individui conosciuti dai servizi di sicurezza di un paese come la Francia, teoricamente in primissima linea contro la minaccia “terroristica”, possano essere sfuggiti al controllo e mettere in atto un attentato così clamoroso e ben studiato appare oggi quasi un esercizio scontato, anche se scontate e fin troppo banali appaiono in realtà le spiegazioni solitamente offerte dalle autorità e che hanno quasi sempre a che fare con presunti “errori” o “falle” dei servizi di intelligence.

La storia proposta dai giornali dei sospettati delle morti nell’edificio che ospita il settimanale Charlie Hebdo consente in ogni caso di fare una riflessione sul processo di radicalizzazione attraverso il quale continuano a passare molti giovani musulmani.

L’attentato potrebbe essere stato commesso da individui disorientati dalle vicende politiche e belliche che hanno riguardato i paesi islamici in questi ultimi decenni, così come dall’alienazione vissuta dai musulmani in Europa, negli Stati Uniti, in Canada o in Australia in parallelo con l’adozione di misure discriminatorie nei loro confronti e con il ricorso da parte delle classi dirigenti a iniziative di natura xenofoba se non apertamente razzista.

Allo stesso tempo, la scrupolosa pianificazione dell’attentato nell’11esimo arrondissement di Parigi sembra non poter escludere nemmeno l’ipotesi che gli uomini armati siano stati appoggiati in qualche modo da entità organizzate che perseguono una precisa agenda destabilizzatoria.

Qualunque sia la verità, le operazioni portate a compimento dall’estremismo islamista come quella di mercoledì - se la matrice dell’attentato sarà effettivamente confermata - non possono essere comprese senza un’analisi delle conseguenze delle decisioni di politica estera prese dai governi occidentali.

Parigi, così come Washington e Londra, da tempo sono protagoniste di un gioco molto pericoloso in Medio Oriente e in Africa del nord, dove i rapporti ambigui, per non dire di aperta collaborazione, con organizzazioni jihadiste vengono sfruttati deliberatamente per avanzare i propri interessi.

Questa sorta di partnership si concretizza spesso nella fornitura diretta di armi a cellule integraliste che, in Libia come in Siria, hanno svolto o continuano a svolgere il ruolo di alleati nella lotta per il rovesciamento di regimi ostili.

Ancora più stretti sono addirittura i rapporti tra paesi come la Turchia o le monarchie assolute del Golfo Persico alleate dell’Occidente e questi gruppi fondamentalisti, utilizzati per il lavoro sporco contro i rivali regionali (Iran, Siria), salvo poi pagarne le conseguenze quando sfuggono al loro controllo.

Quali che siano i legami, i mandanti o le simpatie degli attentatori di Parigi, è indubbio che l’attentato contro Charlie Hebdo vada inserito in questo panorama inquietante, al cui delineamento lo stesso governo francese ha contribuito in maniera decisiva.

I governi sia di Sarkozy che di Hollande hanno d’altra parte promosso la fornitura di armi, denaro e addestramento ai “ribelli” prima libici poi siriani, inclusi quelli di tendenze ultra-fondamentaliste, alimentando di fatto una minaccia jihadista che ha finito per bussare alla porta dei loro stessi benefattori occidentali.

Piuttosto che cercare di fare chiarezza su questi aspetti, tuttavia, giornali e televisioni operano da casse di risonanza per governi che sfruttano ogni occasione per implementare, da un lato, misure sempre più anti-democratiche con la scusa di combattere la minaccia del terrorismo e per alimentare, dall’altro, tendenze di estrema destra già ampiamente riscontrabili in tutta Europa.

In questa prospettiva la strage di Parigi non è solo un atto feroce e spietato ma anche profondamente reazionario, in quanto consente ai leader dei paesi colpiti di promuovere politiche da stato di polizia sul suolo domestico e di aumentare l’impegno militare all’estero, vale a dire iniziative oggettivamente impopolari e, diversamente, difficili da adottare in una società democratica.

Per fare ciò è necessario proclamare, come viene fatto appunto in queste ore, una sorta di scontro culturale in atto tra un estremismo cieco e, come ha ad esempio spiegato pateticamente giovedì il New York Times, “la devozione dell’Occidente per la libertà di espressione”.

In realtà, la rivendicazione del ruolo di difensori dei valori democratici di fronte alla barbarie fondamentalista da parte di individui come il presidente francese Hollande appare rivoltante, poiché le vicende di questi anni indicano piuttosto uno scenario nel quale sono i popoli musulmani a essere le vittime della violenza prodotta dalla nuova fase di un imperialismo occidentale senza scrupoli.

La ferma condanna dell’attentato di Parigi e la più che giustificata espressione popolare di solidarietà con le vittime non devono però essere confuse con la difesa della libertà di espressione, ostentata dai politici, nel caso di Charlie Hebdo.

L’appello alla difesa dei valori democratici dell’Occidente da parte di media e politici di fronte alla brutalità del fondamentalismo islamista andrebbe dunque messo a confronto con una strategia consolidata in oltre dieci anni di “guerra al terrore”, per poi verificare se e quanto s’intersecano con le reali responsabilità e implicazioni per il clima tossico nel quale si verificano episodi cruenti come quello che ha sconvolto la capitale francese in questo scorcio di nuovo anno.

di Michele Paris

Il 114esimo Congresso degli Stati Uniti si è riunito per la prima volta questa settimana con una maggioranza tutta repubblicana pronta a implementare un’agenda marcatamente reazionaria, non senza l’aiuto della minoranza democratica e della Casa Bianca. Il Partito Repubblicano dispone alla Camera dei Rappresentanti di una maggioranza mai così ampia da 87 anni a questa parte, mentre il margine che detiene al Senato è di 8 seggi, insufficienti sia ad approvare autonomamente la legislazione più importante sia a superare eventuali veti del presidente Obama.

Nonostante i numeri a favore, i vertici repubblicani devono continuare a fare i conti anche con una frangia interna libertaria e di estrema destra particolarmente agguerrita che, con ogni probabilità, renderà necessaria una frequente collaborazione tra la maggioranza e i democratici, per lo meno quelli considerati “moderati” o “centristi”.

L’agitazione dell’ala libertaria nel Partito Repubblicano servirà però più che altro a far sfogare al Congresso qualcuno dei malumori che la propria base nutre nei confronti dell’establishment di Washington, anche se concretamente i successi legislativi saranno ben pochi.

Soprattutto, l’irrequietezza dei “congressmen” repubblicani legati ai Tea Party e al movimento libertario - puntualmente amplificata dai media ufficiali di qualsiasi tendenza - continuerà a svolgere quella che appare da tempo la propria funzione principale all’interno del panorama politico USA. Questa frangia, cioè, sarà utilizzata per spostare il dibattito politico ancora più a destra, in linea con l’evoluzione del sistema americano registrata negli ultimi decenni.

Qualche fastidio per la leadership repubblicana è apparso in ogni caso evidente già dal primo giorno di lavoro del nuovo Congresso, quando la rielezione dello “speaker” della Camera, John Boehner, è avvenuta con il voto contrario di un numero insolitamente alto di deputati della maggioranza (25).

La conferma relativamente sofferta di Boehner è stata descritta dalla stampa d’oltreoceano come una possibile avvisaglia dei problemi con cui i repubblicani potrebbero dover fare i conti nei prossimi mesi, finendo per sciupare il vantaggio di una larga maggioranza al Congresso di fronte alle lacerazioni interne al partito.

L’altra questione che ha tenuto banco questa settimana è poi la minaccia di veto, prospettata dalla Casa Bianca poche ore dopo l’insediamento del nuovo Congresso, sulla legislazione legata al via libera alla costruzione dell’oleodotto Keystone XL.

Questo progetto è in sospeso da anni e dovrebbe consentire il trasporto di oltre 800 mila barili al giorno di petrolio estratto dalle cosiddette “tar sands” (sabbie bituminose) estremamente inquinanti del Canada occidentale al Golfo del Messico. Dal momento che il controverso oleodotto attraverserebbe un confine internazionale, è il Dipartimento di Stato ad avere l’ultima parola sulla sua realizzazione, ma il Congresso potrebbe approvare una legge già nei prossimi giorni per privare l’Esecutivo di questa autorità, sbloccando così il progetto.

L’eventuale di veto di Obama renderebbe probabilmente nulla quest’ultima iniziativa, visto che su di essa solo una manciata di senatori democratici sembra appoggiare i repubblicani. Per neutralizzare il veto posto dal presidente degli Stati Uniti è necessario un voto dei due terzi dei membri di entrambi i rami del Congresso, una supermaggioranza cioè di cui i repubblicani non dispongono.

L’intervento della Casa Bianca ha comunque animato il dibattito politico, con i leader di maggioranza che hanno accusato il presidente democratico di volere avvelenare l’atmosfera al Campidoglio col rischio di far naufragare precocemente qualsiasi ipotesi di dialogo tra i due partiti.

I prevedibili scontri verbali tra democratici e repubblicani di questi giorni nascondono in realtà prospettive più che concrete di accordi bipartisan attorno alle questioni fondamentali per il capitalismo americano che detta sostanzialmente l’agenda politica di Washington.

Un esempio di ciò si è avuto dalle dichiarazioni concilianti di vari membri del Congresso di entrambi gli schieramenti, ma soprattutto repubblicani, alla vigilia dell’apertura dei lavori di Camera e Senato.

Uno dei punti d’incontro sarà ad esempio l’autorizzazione all’uso della forza militare contro i militanti dello Stato Islamico (ISIS) in Iraq e in Siria, dove peraltro la macchina da guerra americana opera già dalla scorsa estate. L’unico disaccordo sembra essere legato al grado di libertà garantita al presidente nella conduzione della nuova guerra in Medio Oriente, con i repubblicani che intendono approvare una risoluzione che consegni alla Casa Bianca poteri più ampi rispetto a quelli previsti dalla bozza di legge allo studio della commissione Esteri del Senato a maggioranza democratica sul finire del 2014.

Sgravati dalla responsabilità di proporre e far approvare iniziative impopolari in quanto partito di maggioranza, i leader democratici consentiranno poi a un numero sufficiente dei loro rappresentanti al Congresso di votare assieme ai repubblicani anche su varie misure di politica interna.

Alleanze trasversali di varia natura potrebbero così formarsi, oltre che attorno all’approvazione dell’oleodotto Keystone XL, sulla ratifica fortemente voluta dalla Casa Bianca del trattato di libero scambio trans-pacifico (TPP), che rappresenta un colossale regalo alle corporations americane, sullo smantellamento delle regolamentazioni dell’industria o sulla “riforma” fiscale.

Sul fronte delle tasse, l’obiettivo repubblicano rimane sempre quello di abbassare il più possibile il carico fiscale per i redditi più elevati, con le conseguenze immaginabili in termini di mancate entrate per le casse federali.

Su altre due questioni ritenute tra le più calde sul fronte dello “scontro” tra democratici e repubblicani, questi ultimi hanno infine lasciato intendere che a prevalere sarà la moderazione e la ricerca di un accordo bipartisan. Innanzitutto, la leadership repubblicana ha escluso la possibilità di privare il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) dei fondi necessari per operare dopo che precisamente ciò era stato minacciato in seguito alla recente decisione di Obama di autorizzare una modesta sanatoria a favore degli immigrati irregolari.

Il DHS è infatti il dipartimento addetto all’applicazione delle norme sull’immigrazione negli Stati Uniti e con l’approvazione del bilancio federale sul finire dello scorso anno gli erano stati garantiti fondi solo fino al 28 febbraio. La decisione dei repubblicani di non forzare la mano e costringere il presidente a ritirare il decreto sull’immigrazione riflette d’altra parte il sostanziale appoggio alla Casa Bianca dell’industria e dell’agribusiness domestico, i quali vedono con favore una qualche regolarizzazione della manodopera straniera a basso costo su cui possono contare.

La fermezza delle élites economico-finanziarie nel non ripetere l’esperienza dello “shutdown” degli uffici federali avvenuto nell’autunno del 2013, e che provocò una certa destabilizzazione dei mercati finanziari, ha spinto poi i repubblicani a chiarire da subito che non ci saranno posizioni troppo rigide da parte del loro partito nemmeno nella discussione sul prossimo bilancio. In questo ambito, peraltro, i democratici sono come sempre diposti a concedere nuovi tagli alla spesa pubblica in cambio di qualche provvedimento vagamente progressista da sventolare di fronte a ciò che resta della propria base elettorale.

L’inaugurazione del 114esimo Congresso americano è apparsa insomma come il primo atto di una nuova stagione politica ancora una volta all’insegna della regressione e del costante spostamento a destra del baricentro politico a Washington.

Un episodio, in particolare, ha illustrato nei giorni scorsi il livello di deterioramento del clima democratico negli Stati Uniti. L’elezione dei leader di maggioranza del Congresso ha visto cioè la riconferma anche del deputato repubblicano della Louisiana, Steve Scalise, nel suo ruolo di “whip”, ovvero la terza carica più importante della Camera dei Rappresentanti.

Scalise era stato solo un paio di settimane fa al centro di una polemica dopo la rivelazione da parte della stampa di un suo intervento nel 2002 di fronte a una conferenza organizzata da un gruppo suprematista bianco neo-nazista legato al Ku Klux Klan.

Non solo il deputato repubblicano aveva incassato il sostegno della leadership del suo partito ma è stato appunto rieletto “whip” senza praticamente alcuna opposizione nemmeno della minoranza democratica, della Casa Bianca o della stampa “mainstream”. Significativamente, l’annuncio in aula della conferma di Scalise alla carica di terzo uomo più potente della Camera è stato accolto da un applauso scrosciante di tutti i suoi nuovi membri.


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