di Carlo Musilli

La strage della settimana scorsa al resort Riu Imperial Marhaba di Sousse, in Tunisia, porta con sé due insegnamenti. Il primo riguarda la strategia dell'Isis contro l'unico Paese nordafricano in cui la Primavera araba abbia prodotto uno Stato laico e democratico, spesso citato come modello dalla comunità internazionale. Il secondo ha invece a che vedere con il lato oscuro della stessa rivoluzione tunisina, che si è rivelata incapace di dare una risposta convincente a molti aspetti della crisi socioeconomica che affligge il Paese.

Innanzitutto, la carneficina dell'albergo (38 persone freddate in spiaggia a colpi di kalashnikov fra cittadini inglesi, tedeschi, belgi e irlandesi, più altri 36 feriti) arriva a poco più di tre mesi dalla strage del museo del Bardo di Tunisi, in cui morirono 24 persone, di cui 21 turisti. Prima la cultura, poi le bellezze naturali.

Lo Stato islamico, che ha rivendicato entrambi gli attentati, punta dritto al cuore economico della Tunisia, il turismo. Prima dei due massacri, il settore valeva 1,5 miliardi l'anno, pari al 7% del prodotto interno lordo tunisino, una quota ancora lontanissima dal 15% dell'epoca prerivoluzionaria, ma comunque in (lenta) ripresa. Ora, invece, la curva è tornata a scendere.

Secondo un'indagine pubblicata la settimana scorsa, nella prima metà del 2015 il numero dei turisti in Tunisia è calato del 28% su base annua, mentre rispetto al 2010 il conto si è dimezzato in termini assoluti. Se restringiamo l'indagine alle sole presenze di italiani e francesi - fino a pochi anni fa i clienti più affezionati delle spiagge tunisine - il crollo arriva al 62%. E' facile prevedere che questi dati peggioreranno ulteriormente nei prossimi mesi, quando l'effetto della strage nel resort si farà sentire sul turismo di massa. Un impatto che produrrà conseguenze pesanti sul mondo del lavoro, aggravando una situazione già drammatica in termini di occupazione.

Ma la linearità del rapporto causa-effetto non aiuta a comprendere la situazione generale, anzi. Il legame fra gli attentati dell'Isis e i risultati della primavera araba tunisina è duplice e apparentemente contraddittorio. Da una parte, i terroristi puntano ad affossare il turismo per distruggere l'economia del Paese e allontanarlo dall'Europa, con l'obiettivo di erodere le fondamenta del nuovo Stato laico e, parallelamente, di allargare la base di consenso del Califfato. Dall'altra, sono proprio le molte promesse non mantenute dalla rivoluzione ad aver alimentato il consenso di cui oggi gode lo Stato Islamico.

Il punto è che la rivolta iniziata cinque anni fa, pur non essendo degenerata al pari di quelle in Libia o in Egitto, non è stata affatto una storia di successo. I problemi che oggi affliggono il Paese sono gli stessi che nel 2010 lo hanno portato in piazza contro Ben Ali: corruzione dilagante nelle istituzioni, tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%, frattura socioeconomica drammatica fra Nord e Sud per la carenza d'investimenti nel meridione. Proprio la mancata risposta a questi aspetti della crisi ha spianato la strada alla propaganda del terrorismo fondamentalista.

La Tunisia è il Paese che ha prodotto il maggior numero di conversioni alla causa della jihad, con migliaia di persone arruolate da volontarie prima nelle file di Al Qaeda, poi in quelle dell'Isis. Proviene dalla Tunisia la maggior parte dei miliziani inviati in Siria e in Iraq: circa 3mila individui secondo le intelligence internazionali, generalmente addestrati in Libia.

Si tratta quasi sempre di ragazzini (o comunque di uomini sotto i 30 anni), provenienti dalle realtà più povere e spediti al macello, a farsi usare come carnefici e vittime sacrificali su ogni fronte della "guerra santa". Chi ha la fortuna di sopravvivere, naturalmente, torna a casa, ma ormai non si pone nemmeno il problema di cercare un'alternativa. Continua la jihad nei musei e nei resort.    


di Fabrizio Casari

Ore drammatiche per la Grecia che apre stamane con la chiusura della Borsa e degli sportelli bancari, per evitare assalti speculativi e prelievi insostenibili. Sono le due misure immediate prese dal governo greco per far fronte all’emergenza determinatasi con la rottura delle trattative con la UE. Misure tampone che dureranno tutta la prossima settimana o almeno fin quando non sarà chiara la direzione che Atene prenderà.

Nel frattempo, Draghi ha deciso di mantenere inalterati i fondi di emergenza disponibili per gli istituti di credito ellenici, precisando tuttavia che potrebbe rivedere le sue decisioni "in qualunque momento" ma che “lavorerà a stretto contatto con la banca di Grecia per garantire la stabilità finanziaria". Ma non è di finanza che si tratta, la crisi greca ha poco a che vedere con i numeri.

L’ammontare del debito greco corrisponde più o meno all’1 per cento del PIL europeo e al 3% del debito complessivo della UE. E’ quindi evidente come non si possa ragionare di tragedia finanziaria per Bruxelles ed è del resto noto come l’esposizione di Atene verso il FMI è inferiore a quella di altri paesi che pure non presentano, allo stato, possibilità di rientro a breve-medio termine. Dunque risulta ozioso identificare possibili tecnicismi finanziari per verificare eventuali margini d’intervento nell’ambito del Trattato e nello statuto della BCE.

La questione tra il FMI e la BCE da un lato e Atene dall’altro è tutta politica. Non è il volume del debito che costituisce il nodo vero, ma l’indisponibilità di Atene a proseguire nel ruolo di alunno obbediente della dottrina imperante. E’ la mancata cessione di sovranità dal governo eletto  verso gli organi finanziari internazionali che si muove sullo sfondo. La Grecia viene affondata perché disobbediente, non perché inadempiente.

Non è un caso, infatti, che a far saltare il tavolo delle trattative sia stata la notizia dell’indizione di un referendum consultivo per i cittadini greci. La sola idea che la relazione tra le istituzioni europee e i singoli governi possa passare attraverso il pronunciamento dei popoli manda letteralmente fuori di sé gli euro-burocrati. Che avevano preparato un documento nel quale veniva scritto che le responsabilità per il mancato accordo erano tutte del governo greco.

Si voleva l’umiliazione di Tsipras, il decretare che un governo di sinistra non è accettabile per l’architettura politica e finanziaria della UE, che invece accoglie a braccia aperte nazisti come Orban. Per questo il leader ellenico ha deciso di alzarsi dal tavolo dei negoziati, dove del resto - benché il paese sia allo stremo - gli veniva proposta una ricetta che avrebbe determinato l’indigenza di massa ma che rifiutava la tassazione alle imprese. Mancava solo l’assunzione del tedesco come lingua ufficiale.

Le richieste della Grecia di rinegoziazione del debito sono state respinte perché ragionevoli e sensate. Perché non si vuol costituire un precedente che possa fungere da esempio per nuovi scenari politici, particolarmente possibili in Spagna. Bruxelles, affannata a ribadire il comando sull’Europa invece che a costruire il governo dell’Europa, preferisce eliminare uno dei suoi membri piuttosto che riconoscere ai greci il diritto di scegliere la linea del loro paese. L’esercizio della democrazia si conferma essere incompatibile con l’esercizio del dominio finanziario da parte dell’Europa delle banche. Atene è ormai un paradigma più che un paese.

Tsipras ha smesso dunque di ascoltare Bruxelles, diventata una sorta di Sparta 2.0, ed ha scelto di ascoltare i greci. D’altra parte, non poteva fare diversamente. Aveva ereditato un paese a pezzi, ma riteneva che un negoziato complessivo che prevedesse una ristrutturazione del debito potesse mettere le basi per rifondare l’economia del paese ellenico.

Non per vezzo ideologico, ma per legittima difesa. Perchè la Grecia vive una crisi sistemica profonda, con la caduta del 25% del PIL, il 52% dei giovani senza lavoro, il 40% dei bambini sotto la soglia di povertà. Dati che disegnano una drammatica crisi economica e sociale, umanitaria persino.

Proprio per poter rivedere l’impianto delle politiche ultraliberiste che hanno prodotto queste cifre, Tsipras non ha mai vagheggiato uscite dall'Euro, ma contava di costruire una relazione diversa con l’Europa e con le istituzioni finanziarie internazionali.

La Grecia è letteralmente in ginocchio e non può decretare la morte per fame dei suoi abitanti solo per confermare la linea di rigore di bilancio di chi, quando si trovò in crisi perché alle prese con i costi della riunificazione, chiese ed ottenne una moratoria sul suo debito.

Ma UE e FMI non hanno voluto sentire ragioni. Benché sia evidente a tutti come il proseguimento delle politiche di “riforme strutturali” come richieste dai creditori siano la medicina che ucciderebbe definitivamente il paziente, è prevalsa la linea -tutta politica - che preferisce vedere la Grecia in default piuttosto che accettare di ridiscutere i postulati ideologici turbo-monetaristi che già hanno ridotto il Vecchio Continente alla crisi sociale più devastante degli ultimi 50 anni. E' uno scontro ideologico su base dottrinaria quello che Bruxelles ha voluto ingaggiare con Atene.

Il referendum è quindi, per diversi motivi, una scelta obbligata per Alexis Tsipras. Il programma con il quale è stato eletto Premier prevedeva di riuscire a tenere insieme la sovranità del paese e la permanenza dello stesso nella UE. Bruxelles, sorda a qualunque ipotesi di compromesso, obbliga invece la Grecia a suicidarsi: o attraverso il default economico, come prezzo per la sua dignità, o attraverso il definitivo, totale commissariamento in fatto e in diritto da parte di Bruxelles. Il mandato elettorale di Syryza ha dunque bisogno di una nuova conferma o, alla luce del nuovo quadro, di una profonda modificazione di obiettivi e quindi delle scelte di politica economica e sociale necessari a raggiungerli.

Tsipras sa bene che, stando ai sondaggi, la maggioranza dei greci non vogliono uscire dall’Euro e, pur chiedendo di votare per il No alle proposte di UE e FMI, si è detto pronto a rispettare il mandato popolare qualunque esso sia. Il leader ellenico sa benissimo che una vittoria dei SI porterebbe dritti ad elezioni anticipate dall’esito assai incerto, ma accetta la sfida. E’ una lezione di democrazia partecipativa dalla quale l’Europa avrebbe molto da imparare, ma che proprio per le sue possibili estensioni, per l’effetto emulativo che potrebbe determinare, terrorizza gli euro burocrati.

Sono diversi gli scenari che ora si aprono, dal ritorno al tavolo dei negoziati fino al default controllato. Russia, Cina ed Iran sono spettatori interessati dell’evoluzione dello scenario greco ed hanno già fatto le prime mosse di avvicinamento verso Atene. Non è affatto certo che il rigore europeo non diventi un autogol strategico anche in termini geopolitici.

Non è un caso, semmai una triste metafora, che il paese che ha inventato la democrazia sia oggi messo con le spalle al muro da chi, nella storia, della democrazia è stato il peggior nemico. L’Europa come disegno ideale, identità politica e modello sociale esce a pezzi dalla vicenda greca e la penetrazione dell’antieuropeismo da ieri ha fatto passi da gigante.

Atene è l’agnello sacrificale sull’altare di una concezione dell’Unione che è ormai nemica giurata di quella ispiratrice che aveva ipotizzato Altiero Spinelli nel "Manifesto di Ventotene". In uno stupido gioco d'azzardo per piegare Atene e minacciare Madrid sembra pronta a rischiare di autodistruggere l’Europa intera.

Si apre ora una settimana drammatica e con il referendum si deciderà, in parte, sia il futuro greco che, indirettamente, quello dell’Europa, che rischia di pagare a carissimo prezzo la scelta dell’inflessibilità. In questa nuova guerra del Peloponneso, se Atene piange, Bruxelles non ride.

di Michele Paris

Il vertice NATO andato in scena questa settimana a Bruxelles si è trasformato nell’ennesimo prevedibile festival dell’ipocrisia, con i paesi dell’Alleanza impegnati a dipingere la Russia come il pericolo principale per la sicurezza europea, vista la presunta aggressività mostrata nella questione ucraina. Per esigenze strettamente “difensive”, gli Stati Uniti e i suoi 27 fedeli partner militari hanno così annunciato, tra l’altro, l’avvio di discussioni sulle contromisure da adottare anche nell’ambito degli armamenti nucleari.

Nei racconti relativi ai contenuti del summit apparsi sui media ufficiali in Occidente si sono sprecate le citazioni di anonimi funzionari NATO che hanno riportato le preoccupazioni dei vari paesi membri e dei vertici militari per le decisioni prese recentemente dal presidente russo, Vladimir Putin.

In particolare, l’incontro di mercoledì e giovedì nella capitale belga sarebbe stato motivato dal recente annuncio del Cremlino di volere aggiungere altri 40 missili balistici intercontinentali al proprio arsenale. Washington, inoltre, ha insistentemente puntato il dito contro la Russia - in larga misura senza fondamento - per avere violato il Trattato sulle Forze Nucleari a Medio Raggio (INF), siglato tra USA e URSS nel 1987.

Quest’ultima accusa dovrebbe portare i membri della NATO a formulare una nuova “dottrina nucleare” già nei prossimi mesi, ad esempio incorporando in essa nuove direttive riguardanti il ruolo delle armi nucleari nell’ambito delle esercitazioni militari dell’Alleanza e un’interpretazione aggiornata delle posizioni russe in merito all’uso di questi stessi ordigni.

In altre parole, secondo la versione occidentale, poiché la “dottrina nucleare” NATO attualmente in vigore risale almeno a un decennio fa, quando la Russia era considerata un possibile partner, essa non riflette più la nuova realtà strategica venutasi a creare a causa della rinnovata aggressività di Mosca.

Nelle parole del segretario generale della NATO, l’ex premier laburista norvegese Jens Stoltenberg, “le attività nucleari, gli investimenti nelle proprie capacità nucleari e le esercitazioni in ambito nucleare della Russia fanno parte di un quadro globale nel quale è possibile osservare un paese più risoluto” nella proiezione dei propri interessi.

Lo stesso Stoltenberg giovedì ha messo anche in guardia dal rischio di una ripresa dei combattimenti in Ucraina sud-orientale, ribadendo senza fondamento come la Russia continui a fornire armi e soldati ai separatisti che combattono contro il regime golpista installato a Kiev dall’Occidente.

La responsabilità del clima bellico che si respira in Europa, in sostanza, secondo la NATO sarebbe da attribuire interamente al governo di Vladimir Putin, intento a pianificare una qualche riconquista delle aree sotto la sfera d’influenza sovietica.

Vista la situazione, perciò, diventa legittima praticamente ogni genere di iniziativa militare volta a contrastare questo fantomatico tentativo di espansione russo che sembrerebbe incombere in primo luogo sui paesi dell’Europa orientale.

Durante il vertice di questa settimana sono stati così confermati alcuni progetti per rispondere all’arroganza di Mosca. Il numero di uomini da assegnare alla cosiddetta Forza di Reazione Rapida è ad esempio salito a 40 mila dai 4 mila previsti inizialmente e in un secondo momento già aumentati fino a 13 mila.

In maniera chiaramente provocatoria nei confronti della Russia, queste forze stazioneranno in vari paesi dell’Europa orientale, come Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania. Inoltre, la NATO dovrebbe istituire una forza di circa 4 mila uomini in grado di mobilitarsi contro ipotetiche manovre russe in maniera ancora più rapida, cioè entro 48 ore.

Nella giornata di martedì, il segretario alla Difesa americano, Ashton Carter, aveva assicurato che gli Stati Uniti forniranno centinaia di veicoli militari, aerei da guerra, droni, carri armati e artiglieria pesante da posizionare in questi stessi paesi. Da qualche mese, poi, dal Pentagono viene avanzata l’idea di stazionare in Europa missili Cruise con testate nucleari, ovviamente puntati verso la Russia.

I preparativi in atto confermano dunque come la NATO stia portando a compimento un vero e proprio riorientamento strategico e militare contro la Russia. Ciò non è dovuto alla crisi in Ucraina - peraltro creata dall’Occidente - ma è bensì un progetto in cantiere da tempo, e accelerato dalla crisi in Ucraina, che non può che essere percepito a Mosca come un’aperta minaccia di guerra e provocare una risposta adeguata.

Le implicazioni degli scenati creati in Europa sono state suggerite da una recente dichiarazione del ministro della Difesa polacco, Tomasz Siemoniak, il quale ha affermato che “il periodo di pace seguito alla Seconda Guerra Mondiale è finito”, lasciando intendere come la classe dirigente occidentale sia pronta per un nuovo conflitto, questa volta potenzialmente combattuto con armi nucleari.

A fronte delle provocazioni e dell’ostentato atteggiamento di unità, in Occidente e all’interno della stessa NATO vi sono divisioni e conflitti sulla strategia da perseguire nei confronti della Russia. I disaccordi, evidenti anche dallo scarso entusiasmo con cui alcuni paesi hanno sacrificato i propri interessi economici dando il proprio assenso al recente prolungamento delle sanzioni contro Mosca, restano per il momento in secondo piano rispetto al rispetto formale dell’alleanza strategica che li lega agli Stati Uniti.

Sanzioni e minacce militari, d’altra parte, invece di isolare la Russia la stanno spingendo sempre più a guardare a Oriente, in particolare verso la Cina, e ai paesi emergenti (BRICS), nel quadro di una crescente integrazione, soprattutto economica, da cui è un’Europa già in affanno che rischia di essere esclusa.

Con l’evoluzione di queste dinamiche, a Londra come a Parigi, a Berlino come a Roma, i governi occidentali saranno chiamati a scegliere fra la cooperazione pacifica e il percorso di guerra e distruzione preparato dall’impero in declino.

di Michele Paris

Dopo gli ostacoli registrati un paio di settimane fa alla Camera dei Rappresentanti, il Congresso americano ha finalmente approvato una misura fortemente voluta dal presidente Obama per accelerare i negoziati e l’implementazione di vari “trattati di libero scambio” che minacciano di riscrivere le norme del commercio internazionale secondo le regole imposte dal business a stelle e strisce.

Il provvedimento uscito mercoledì dal Senato di Washington assegna all’inquilino della Casa Bianca l’autorità per ottenere l’approvazione di qualsiasi trattato negoziato con paesi esteri nei prossimi cinque anni attraverso una sorta di “corsia preferenziale”.

La cosiddetta “Trade Promotion Authority” (TPA) prevede cioè che un trattato stipulato dal governo non possa essere emendato dal Congresso, il quale avrà invece la possibilità soltanto di approvarlo o respingerlo nella forma in cui viene presentato.

Il via libera alla TPA è stata in ogni caso molto sofferta. Oltre al ritardo con cui è stata portata in aula nonostante le pressioni dell’amministrazione Obama, la legge ha incontrato parecchi contrattempi sulla strada verso l’approvazione.

A maggio, il Senato aveva dato l’OK alla TPA e a un’altra misura connessa, la “Trade Adjustment Assistance” (TAA), ovvero un provvedimento tradizionalmente collegato ai trattati di libero scambio sottoscritti dagli Stati Uniti con altri paesi e che prevede compensazioni economiche e programmi di formazione per quei lavoratori che perdono il loro impiego a causa dell’entrata in vigore degli stessi trattati.

Quest’ultimo provvedimento era però caduto un paio di settimane fa alla Camera, grazie soprattutto all’opposizione della maggior parte della minoranza democratica, impegnata a bloccare l’intera politica commerciale del presidente Obama.

La leadership repubblicana della Camera aveva allora separato le due leggi, ottenendo un voto favorevole alla TPA e congelando la TAA. Martedì, il Senato ha anch’esso approvato la TPA, sia pure con il minimo dei voti necessari - 60 a 37 - per neutralizzare un ostacolo procedurale previsto dalle regole della camera alta del Congresso (“filibuster”). Infine, mercoledì è arrivato il voto sulla misura vera e propria, approvata e inviata al presidente per la ratifica definitiva.

Il salvataggio della legge sui trattati di libero scambio auspicata da Obama è stato possibile solo in seguito alla collaborazione tra il presidente e i vertici della maggioranza repubblicana, di fatto alleati contro la parte del Partito Democratico contraria a iniziative di questo genere. Obama, il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, e lo “speaker” della Camera, John Boehner, hanno infatti disegnato un percorso parlamentare differente da quello previsto originariamente per la TPA, con il presidente e il suo staff che hanno fatto pressioni enormi su deputati e senatori democratici recalcitranti.

Ciononostante, l’esito del voto è apparso incerto fino all’ultimo. In particolare, martedì si è temuto a lungo un nuovo possibile naufragio dopo che uno dei senatori più indecisi - il democratico del Maryland, Ben Cardin - aveva deciso di votare in maniera contraria. A questo punto, il voto decisivo è stato garantito da un altro democratico, il senatore del Nevada, Dean Heller, arrivato in aula quando la votazione era iniziata da tempo. Se Heller non si fosse presentato, i repubblicani erano pronti a prolungare la procedura di voto per attendere che il senatore Bob Corker tornasse a Washington dal Tennessee.

Malgrado le divisioni e i patemi, Obama e i repubblicani sono alla fine riusciti a convincere un numero sufficiente di democratici a dare il proprio consenso alla TPA separata dalla TAA solo in seguito alla promessa di tenere un voto per quest’ultima misura in un secondo momento, cioè probabilmente nel fine settimana, e la garanzia del suo passaggio.

L’unica improbabile arma rimasta ora nelle mani dei democratici per provare a impedire che i trattati abbiano la strada spianata verso l’approvazione appare la bocciatura della TAA, visto che una simile mossa, anche se priverebbe i lavoratori americani di un modesto programma di sostegno, metterebbe in imbarazzo il presidente Obama. Quest’ultimo si ritroverebbe infatti a dover firmare una legge con conseguenze potenzialmente disastrose sui lavoratori senza il tradizionale paravento che accompagna i trattati di libero scambio firmati dal governo USA.

Contro la TPA e gli stessi trattati in fase di negoziazione da parte degli Stati Uniti si sono schierati i sindacati e quei settori dell’economia USA penalizzati dalla competizione con le aziende di altri paesi. Queste pressioni sono state tuttavia decisamente inferiori rispetto a quelle esercitate dai rappresentanti delle corporations che vedono gigantesche possibilità di guadagno nei trattati come la Partnership Trans-Pacifica (TPP) o la Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).

Inoltre, anche i governi che stanno trattando con Washington - a cominciare da Giappone e Australia - avevano espresso preoccupazione per l’iniziale bocciatura della TPA, minacciando più o meno apertamente un possibile stop ai negoziati se la situazione non si fosse sbloccata a favore della Casa Bianca.

L’apparato militare americano era poi intervenuto per favorire l’approvazione dei trattati. Il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva ad esempio incoraggiato il Congresso ad assecondare l’agenda di Obama in ambito commerciale, lasciando intendere come il TPP sia uno strumento complementare della strategia di accerchiamento e contenimento della Cina già in fase di implementazione sul fronte diplomatico e militare.

Il TPP dovrebbe essere il primo trattato a essere approvato secondo la “corsia preferenziale” appena accordata dal Congresso all’amministrazione Obama. Le trattative sono in corso in gran segreto da alcuni anni tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi asiatici, del continente americano e dell’Oceania (Australia, Canada, Cile, Brunei, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore, Vietnam), frequentemente interrotte soprattutto a causa delle condizioni vessatorie imposte da Washington per favorire le proprie imprese anche a discapito della sovranità dei potenziali partner.

Il carattere strategico del TPP è stato più volte confermato anche dallo stesso Obama, il quale in varie interviste ha sollecitato l’approvazione del trattato per consentire al capitalismo americano di “scrivere le regole” del commercio globale per evitare che a farlo sia la Cina.

Significativamente, i paesi asiatici e dell’area Pacifico che dovrebbero aderire al TPP hanno come loro principale partner commerciale proprio la Cina, da qui il tentativo di Washington - la cui riuscita è però tutt’altro che garantita - di riorientare le rispettive economie verso l’orbita statunitense.

Il corrispettivo europeo del TPP è il TTIP, il secondo trattato che potrebbe essere soggetto alle norme di approvazione semplificata previste dal TPA appena licenziato dal Congresso USA.

Con Il TTIP, gli Stati Uniti intendono sostanzialmente cementare la partnership economica con i paesi UE, anche in questo caso secondo le regole dettate dalle corporations americane, così da ostacolare la crescente integrazione euroasiatica e isolare la Russia.

La collaborazione tra la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso sul commercio internazionale, infine, potrebbe inaugurare un’insolita alleanza da qui alla fine del secondo e ultimo mandato di Obama alla presidenza, con possibili punti di intesa identificati nell’ambito dei finanziamenti per le infrastrutture e l’aumento dell’impegno militare americano in Medio Oriente.

di Michele Paris

L’ennesima strage di massa avvenuta settimana scorsa negli Stati Uniti, oltre a riaccendere il consueto dibattito sul razzismo per molti versi fuorviante, ha riportato alla luce anche i legami imbarazzanti tra il Partito Repubblicano americano e la galassia dell’estrema destra razzista d’oltreoceano. Dylann Roof, il responsabile della sparatoria nella chiesa metodista episcopale di Charleston, in South Carolina, aveva tratto ispirazione da un gruppo suprematista bianco chiamato Consiglio dei Cittadini Conservatori (CofCC), il cui presidente, Earl Holt, nel recente passato ha donato decine di migliaia di dollari in contributi elettorali a svariati politici repubblicani candidati a cariche pubbliche.

Il quotidiano britannico Guardian ha per primo pubblicato i nomi dei beneficiari dei finanziamenti di Holt e tra di essi figurano addirittura alcuni candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Il senatore del Texas, Ted Cruz, ha ricevuto 8.500 dollari, il collega del Kentucky, Rand Paul, 1.750, l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, 1.500, e il governatore del Wisconsin, Scott Walker, 3.500. Tutti i politici, dopo la diffusione della notizia, hanno annunciato la restituzione delle somme o la donazione di esse alle vittime della sparatoria.

Altri importanti repubblicani hanno inoltre goduto della generosità di Holt in passato, come l’ex candidato alla presidenza, Mitt Romney, i senatori rispettivamente di Arkansas, Arizona e Nebraska, Tom Cotton, Jeff Flake e Ben Sasse, il governatore del Texas, Greg Abbott, il deputato dell’Iowa, Steve King, e l’ex deputata del Minnesota, Michele Bachmann.

Il CofCC avrebbe illuminato il 21enne Dylann Roof dopo una serie di visite di quest’ultimo sul sito web del gruppo, nel quale sono esposti i programmi politici e i principi che lo caratterizzano. Oltre ai propositi di impedire la “mescolanza delle razze”, di ridurre drasticamente l’immigrazione o di preservare il carattere “europeo” della popolazione americana e del suo governo, il CofCC ha messo a disposizione al giovane del South Carolina statistiche e resoconti relativi alla presunta piaga delle violenze commesse dai neri ai danni dei bianchi.

Roof ha così citato il gruppo razzista guidato da Earl Holt in un suo “manifesto” pubblicato on-line prima di compiere la strage nella quale hanno perso la vita nove persone di colore. Holt, da parte sua, ha escluso qualsiasi legame o affiliazione di Roof al suo gruppo, respingendo anche ogni responsabilità per le “azioni di un individuo disturbato” che pure ha “reperito informazioni accurate sul nostro sito”.

Molti giornali negli Stati Uniti nei giorni scorsi hanno riperscorso la storia del CofCC, dalla sua nascita a metà degli anni Ottanta, “dalle ceneri dei Consigli dei Cittadini Bianchi”, al successo riscosso tra i politici repubblicani nel decennio successivo, fino all’apparente declino negli ultimi anni.

I legami storici mantenuti dal gruppo suprematista bianco con il Partito Repubblicano rendono dunque improbabile che coloro che hanno incassato assegni firmati da Earl Holt non fossero al corrente dei suoi orientamenti.

Il New York Times ha ricordato che negli anni Novanta il CofCC aveva “amici repubblicani influenti dalle sale municipali alle aule del Congresso”. Nomi importanti dell’establishment repubblicano hanno tenuto discorsi di fronte a riunioni del gruppo razzista, come l’ex leader di maggioranza al Senato, Trent Lott, l’ex governatore del Mississippi ed ex presidente del partito, Haley Barbour, e l’ex governatore dell’Arkansas e già candidato alla Casa Bianca, Mike Huckabee.

L’attuale governatrice della South Carolina, Nikki Haley, aveva invece reclutato per dirigere la propria campagna per la rielezione nel 2013 un membro del CofCC, Roan Garcia-Quintana, licenziato solo dopo che i suoi legami con il gruppo erano stati resi pubblici.

Per la pubblicazione Intelligence Report, curata dall’autorevole organizzazione no-profit Southern Poverty Law Center, tra il 2000 e il 2004 almeno 38 politici occupanti cariche elettive avevano parlato nel corso di meeting organizzati dal CofCC. Nell’ultimo decennio, simili apparizioni sono diventate più rare anche se politici locali - non solo repubblicani - hanno continuato a frequentare il gruppo. Sempre il Southern Poverty Law Center segnala ad esempio l’intervento del presidente della sezione del Partito Democratico della Contea di Carroll, nel Mississippi, Bill Lord, durante una “convention” tenuta a Winston Salem, in North Carolina, nel 2013.

Di tanto in tanto, negli Stati Uniti emergono notizie relative ai legami di politici, soprattutto repubblicani, con organizzazioni di estrema destra, razziste e xenofobe, per essere poi dimenticate in fretta.

Solo qualche mese fa, ad esempio, il terzo membro più potente della leadership repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, il deputato della Louisiana Steve Scalise, era finito al centro di una polemica - poi rapidamente svanita - per avere tenuto un discorso nel 2002 davanti a una conferenza del gruppo suprematista bianco EURO (Organizzazione Euro-Americana per l’Unità e i Diritti), fondato dall’attivista di estrema destra ed ex leader del Ku Klux Klan, David Duke.

Storicamente, i legami tra il Partito Repubblicano e le formazioni suprematiste bianche, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, risalgono al periodo della desegregazione razziale e riflettono una strategia che era volta a sottrarre voti al Partito Democratico, fino ad allora punto di riferimento delle élites bianche razziste.

Oggi, in ogni caso, le relazioni tra politici repubblicani e gruppi come il Consiglio dei Cittadini Conservatori denotano una persistente affinità ideologica che contrasta con l’immagine di correttezza e rispettabilità di un partito il cui baricentro si è spostato verso destra in maniera drammatica.

I politici investiti dal temporaneo clamore di rivelazioni come quella relativa ai finanziamenti elargiti dal CofCC tendono quasi sempre a giustificarsi per avere commesso errori in buona fede, anche se, in realtà, spesso alimentano essi stessi un identico clima di odio e intolleranza, vero e proprio retroterra “culturale” di individui profondamente disorientati come Dylann Roof in un America attraversata da tensioni sociali esplosive.


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