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di Mario Lombardo
L’arresto e l’espulsione dal Partito Comunista Cinese (PCC) dell’ex membro del Comitato Centrale Permanente, Zhou Yongkang, hanno segnato nel fine settimana la fase più acuta dello scontro in atto all’interno della classe dirigente di Pechino a partire dall’installazione della leadership guidata dal presidente Xi Jinping un paio di anni fa. La definitiva caduta e il prossimo processo (più o meno) pubblico di un uomo che fino al 2012 aveva il controllo di fatto dell’intero apparato della sicurezza in Cina - con competenza sulle forze di polizia, i tribunali e i servizi segreti civili - sono stati accompagnati da vari resoconti e commenti degli organi di stampa ufficiali.
L’agenzia statale Xinhua, ad esempio, ha elencato i reati contestati al 72enne Zhou, accusato di avere “approfittato della sua posizione per trarre profitto per sé, la sua famiglia e altri”, ma anche di avere “abusato del suo potere per aiutare parenti, amanti e amici a realizzare enormi profitti… provocando gravi perdite di ‘asset’ pubblici”. Zhou, infine, avrebbe fatto trapelare informazioni segrete, recando danni al partito e al paese.
A parte forse quest’ultima, le altre accuse rivolte a Zhou potrebbero però essere attribuite a molti, se non tutti, i dirigenti “comunisti” cinesi, arricchitisi a spese di centinaia di milioni di persone negli ultimi decenni segnati dal processo di integrazione del paese nei circuiti del capitalismo internazionale.
La famiglia dello stesso presidente Xi, come hanno messo in evidenza alcune recenti indagini giornalistiche occidentali, in parallelo con la sua ascesa ha avuto la possibilità in questi anni di ampliare i propri interessi negli affari, tanto che oggi vale complessivamente svariate centinaia di milioni di dollari. Questa realtà contribuisce perciò a indicare che la purga inflitta a Zhou, così come a molti altri all’interno del partito in questi due anni, si basa su motivazioni di natura esclusivamente politica.
Le voci circa possibili guai giudiziari per Zhou erano iniziate a circolare pochi mesi dopo la sua uscita di scena ufficiale dal Comitato Centrale del Politburo del PCC, di fatto il più alto organo decisionale della Repubblica Popolare Cinese, al termine del 18esimo congresso del partito nel novembre 2012.
Già sul finire del 2013, poi, secondo la Reuters l’ex dirigente “comunista” era finito agli arresti domiciliari, ma un’indagine formale nei suoi confronti sarebbe stata annunciata solo nel luglio successivo, dopo che la nuova dirigenza cinese aveva fatto terra bruciata attorno a Zhou con il pretesto di una battaglia senza precedenti contro la corruzione diffusa negli organi del partito.
La crociata promossa da Xi Jinping, secondo una stima del Financial Times, avrebbe già portato all’arresto o a misure punitive ai danni di più di 250 mila membri del PCC, tra cui una cinquantina di personalità con cariche ministeriali se non ancora più elevate. Praticamente tutte le vittime risultano essere nemici politici di Xi e della sua corrente, mentre finora risultano intoccabili i cosiddetti “princelings”, ovvero l’élite formata dai figli di membri di spicco del partito nei passati decenni, di cui fa parte lo stesso presidente.
La vastità dell’epurazione lascia dunque intendere la gravità dello scontro in corso nel partito e, di conseguenza, le dimensioni della posta in palio. La campagna anti-corruzione del presidente è infatti strettamente legata al suo progetto di “riforma” del sistema economico cinese, basato in sostanza sull’implementazione di misure di libero mercato per cercare di far fronte agli affanni registrati in questi anni in concomitanza con la crisi del capitalismo globale.
L’apparenza dell’impegno profuso nella lotta all’illegalità serve in primo luogo a dare un segnale al business estero della serietà della nuova leadership nel garantire la sicurezza degli invetsimenti in Cina e il rispetto degli standard internazionali. Inoltre e soprattutto, come già anticipato, processi e condanne per crimini fin troppo facilmente rilevabili come corruzione o abuso di potere servono a Xi per consolidare il potere e fare piazza pulita dei rivali interni al partito.
La colpa principale di Zhou Yongkang sembra essere stata quella di aver voluto installare nel Comitato Permanente un proprio uomo - com’è pratica comune tra i massimi dirigenti cinesi che lasciano formalmente ogni incarico pubblico per raggiunti limidi di età - in modo da mantenere una certa influenza sul processo decisionale.
L’uomo in questione era l’ex segretario del partito di Chongqing, Bo Xilai, espulso dal PCC alla vigilia del 18esimo Congresso, che avrebbe suggellato il passaggio del potere a Xi Jingping, e in seguito incriminato, processato e debitamente condannato. Successivamente, la stessa sorte sarebbe toccata a molti fedelissimi di Zhou, fino appunto alla purga somministrata a quest’ultimo, diventato il dirigente con l’incarico più importante a essere incriminato e, nel prossimo futuro, processato nei 65 anni di storia della Cina “comunista”.
Se Zhou, Bo e la fazione che a loro faceva capo non avevano sostanziali obiezioni alla piena restaurazione capitalistica in Cina, la loro opposizione all’agenda di Xi e della nuova leadership di Pechino riguardava soprattutto le questioni legate allo smantellamento o, quanto meno, al ridimensionamento delle grandi aziende pubbliche che operano in un virtuale regime di monopolio in competizione con le corporation internazionali. Sul fronte della politica estera, poi, questa fazione sosteneva un atteggiamento più intransigente nei confronti della crescente aggresività degli Stati Uniti in Asia orientale per contenere la crescita cinese.
Simili posizioni rappresentavano un chiaro ostacolo ai piani di apertura del mercato cinese al capitale internazionale del presidente Xi e del primo ministro, Li Keqiang, i quali vedono chiaramente la creazione di condizioni favorevoli agli investitori stranieri nel loro paese anche come un modo per cercare di neutralizzare le tensioni con Washington.
Lo stretto legame tra le vicende giudiziare che coinvolgono le “tigri” del Partito Comunista e le “riforme” strutturali perseguite dall’amministrazione Xi è stato confermato dal tempismo degli organi di stampa ufficiali cinesi, i quali nei giorni seguiti all’arresto di Zhou hanno sottolineato la necessità di una nuova politica economica per il paese.
Il Quotidiano del Popolo ha scritto martedì ad esempio che i programmi di “stimolo” all’economia devono essere usati con estrema cautela, mentre la priorità del governo deve essere appunto la “riforma strutturale” del sistema, anche a costo di una crescita più lenta. L’editoriale è apparso lo stesso giorno dell’apertura di un’importante conferenza a Pechino, cui partecipano i massimi dirigenti del partito per discutere le “priorità” economiche e finanziarie del prossimo anno.
I media occidentali, da parte loro, non hanno potuto che ammettere il vero obiettivo della guerra alla corruzione del presidente Xi, con il Wall Street Journal che l’ha definita come “il preludio necessario alla ristrutturazione economica” cinese. I leader di questo paese, d’altra parte, “sono ben consapevoli di come Pechino abbia la necessità di abbandonare il suo vecchio modello di crescita”, basato su ingenti investimenti pubblici e “sempre più dispendioso”, e di “reinventare un nuovo percorso di prosperità basato sui consumi [interni]”.
Al centro della “ristrutturazione” definita necessaria, oltre alle riforme fiscali e alla deregulation finanziaria - settori in cui il Journal sostiene si siano già fatti importanti progressi - dovrà esserci ora il problema delle “aziende di stato gonfiate a dismisura”.
In altre parole, come ha scritto questa settimana Francesco Sisci sulla testata on-line Asia Times, l’obiettivo di Pechino sarebbe quello di evitare che la Cina cada nella “trappola sovietica dell’era Brezhnev, negli anni Settanta, quando potenti industrie [pubbliche] si suddividevano lo Stato, corrompendolo e trasformando il paese in un guscio vuoto” al servizio di pochi oligarchi.
Ben lontano dall’essere una battaglia per la giustizia o una premesessa per il miglioramento delle condizioni di vita della massa dei lavoratori cinesi, la campagna anti-corruzione di Xi Jinping serve insomma a spazzare via ogni resistenza interna all’avanzamento di un’agenda economica che intende gettare le basi del completamento dell’evoluzione del modello capitalistico di Pechino.
Un modello che prevede appunto l’apertura del paese sempre più al business internazionale, nella speranza o nell’illusione di contenere le enormi tensioni sociali generate dall’impetuosa e contraddittoria crescita cinese attraverso un’accelerazione delle misure che hanno contribuito a far esplodere quelle stesse tensioni che attraversano la futura prima economia del pianeta.
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di Michele Paris
La giustizia americana ha nuovamente garantito questa settimana la piena impunità a un altro agente di polizia responsabile dell’assassinio senza motivo di un uomo disarmato. Esattamente come la settimana scorsa a Ferguson, un grand jury predisposto dal procuratore distrettuale della contea di Richmond, a Staten Island, nella città di New York, ha stabilito di non doversi procedere contro il poliziotto Daniel Pantaleo, nonostante le prove a suo carico fossero decisamente più pesanti rispetto al caso del Missouri.
Come in quest’ultima vicenda, anche quella del “borough” meno popoloso di New York è ruotata attorno a un grand jury, nuovamente utilizzato dalla classe dirigente americana come paravento per portare a termine una gigantesca ingiustizia dando l’impressione del rispetto scrupoloso del dettato di legge.
Ancor più di quello del 18enne Michael Brown a Ferguson, l’assassinio lo scorso mese di luglio del 43enne Eric Garner - anch’egli di colore - ha mostrato come le forze di polizia negli Stati Uniti abbiano facoltà di violare i diritti fondamentali della popolazione, fino a provocare la morte, a prescindere da quale sia la ragione delle loro azioni o la gravità delle prove a carico dei responsabili.
Un sistema giudiziario considerato democratico non è infatti stato in grado anche solo di intentare un processo ai danni di un rappresentante delle forze di polizia neppure in presenza di ben tre filmati che avevano mostrato gli istanti finali della vita di Garner e del responso di un medico legale, il quale dopo l’autopsia aveva inequivocabilmente definito la morte come “omicidio”.
Il pomeriggio del 17 luglio scorso, alcuni agenti di polizia si erano avvicinati a Eric Garner nei pressi del terminal del traghetto di Staten Island per eseguire l’arresto su richiesta di alcuni negozianti della zona che si erano lamentati perché l’uomo da qualche tempo vendeva sigarette in maniera illegale.
Dopo che Garner aveva fatto resistenza, era seguito un alterco con i poliziotti, così che Pantaleo aveva deciso di praticare una manovra (“chokehold”) vietata dal Dipartimento di Polizia di New York da oltre vent’anni a causa del rischio di soffocamento per coloro che la subiscono.
L’agente ha cioè stretto un braccio attorno al collo dell’uomo per immobilizzarlo e farlo stendere a terra. Una volta costretto Garner sul terreno, tuttavia, Pantaleo non ha accennato a lasciare la presa, nonostante la sua vittima, ancora più in affanno in quanto asmatico, avesse ripetuto più volte le parole “Non riesco e respirare”, provocandone la morte.
Di fronte ai membri del grand jury, il procuratore distrettuale Daniel Donovan ha consentito la testimonianza dello stesso agente Pantaleo, senza che le dichiarazioni di quest’ultimo fossero sottoposte a un qualche contraddittorio. Questa pratica era stata adottata anche nel grand jury di Ferguson ed è servita, proprio come nel caso di Michael Brown, a fare in modo che l’agente omicida fornisse la propria versione dei fatti senza il rischio di essere smentito o interrogato da una parte terza.
Donovan, come il procuratore Robert McCulloch della contea di St. Louis, nel Missouri, ha legami molto stretti con la polizia di New York e ha dunque puntualmente utilizzato il meccanismo del grand jury - previsto dal Quinto Emendamento alla Costituzione americana - per evitare qualsiasi grana legale al responsabile della morte di Eric Garner. I grand jury negli Stati Uniti sono d’altra parte tradizionalmente manipolabili dai procuratori, tanto più che le udienze avvengono in segreto e senza nessun giudice che le presieda.
Secondo quanto affermato alla stampa americana dal docente di legge della Fordham University di New York, James Cohen, “è fuori discussione che un grand jury faccia precisamente quello che vuole l’accusa virtualmente nel 100% dei casi”. Lo stesso Cohen ha poi aggiunto che “il video [dell’omicidio] ha mostrato il poliziotto mentre stava eseguendo una pratica probita da tempo” - il “chokehold” - “ma sembra che ciò non abbia fatto alcuna differenza per i giurati perché il procuratore aveva deciso che non doveva esserci alcuna incriminazione per nessun crimine”, neanche di minore gravità.
La morte di Eric Garner per mano della polizia e la completa impunità per l’agente responsabile non sono in ogni caso eccezioni negli Stati Uniti, visto che ogni anno si registrano centinaia di eventi simili. A New York, solo lo scorso mese di novembre un uomo di colore era stato ucciso “accidentalmente” da un colpo d’arma da fuoco esploso da un agente mentre scendeva le scale nel palazzo del proprio appartamento di Brooklyn.
Se possibile, a suscitare un senso di disgusto ancora più profondo della decisione del grand jury sono state le dichiarazioni sulla vicenda rilasciate dai politici americani, principalmente democratici, a cominciare dal presidente Obama.
Quest’ultimo, con il solito cinismo e malcelato disinteresse ha sostenuto che “quando qualcuno in questo paese non viene trattato in maniera equa di fronte alla legge, sussiste un problema”, ma “il mio compito in quanto presidente è di aiutare a risolverlo”.
Toni simili, assieme a vuote rassicurazioni, erano già stati usati la settimana scorsa per la vicenda di Michael Brown, ma le reali intenzioni di Obama e degli ambienti di potere negli Stati Uniti sono apparse evidenti proprio qualche giorno fa. Questa settimana, infatti, in un discorso pubblico il presidente ha sostanzialmente appoggiato il proseguimento del programma di militarizzazione delle forze di polizia nel paese, proponendo solo qualche trascurabilissimo cambiamento cosmetico, come ad esempio la necessità di un addestramento “adeguato” per gli agenti.
Il ministro della Giustizia uscente, Eric Holder, ha annunciato invece l’avvio di un’indagine federale sulla morte di Garner. Una simile iniziativa è già in corso in relazione ai fatti di Ferguson ma l’intervento del Dipartimento di Giustizia in situazioni di questo genere è limitato a casi in cui vi sia stata una violazione dei diritti civili della vittima, cioè un’eventualità estremamente difficile da dimostrare.
Il sindaco di New York, Bill de Blasio, da parte sua, è apparso mercoledì a Staten Island dicendosi particolarmente colpito dalla vicenda poiché suo figlio è anch’egli di colore. De Blasio ha poi ridicolmente promesso di equipaggiare gli agenti di polizia della città con speciali videocamere per filmare il loro operato, senza spiegare però in che modo questa misura potrà essere utile nei casi come quello di Garner, visto che la sua morte, come già ricordato, era stata ripresa da vari passanti e le immagini lasciavano ben pochi dubbi sulle responsabilità dell’agente Pantaleo.
La morte di Garner e la decisione del grand jury, infine, hanno prodotto due differenti reazioni già riscontrate a Ferguson e in altri casi simili. La prima, interamente giustificata e condivisibile, è un’ondata di proteste contro la polizia e il sistema giudiziario in molte città e soprattutto a New York.
Qui, i manifestanti spontanei hanno marciato per le strade di Manhattan bloccando a lungo il traffico. Come di consueto, la polizia ha risposto duramente, facendo solo a New York e nella sola serata di mercoledì più di 80 arresti.
Decisamente nauseante è invece la seconda conseguenza, vale a dire l’intervento pubblico di personalità come il reverendo Al Sharpton, di fatto al servizio dell’establishment democratico con l’incarico di calmare gli animi nella popolazione e convincere i manifestanti ad avere fiducia nel sistema, mantenendo al contempo il dibattito pubblico all’interno della limitata prospettiva dei rapporti razziali e oscurando in maniera deliberata le più esplosive questioni sociali dietro alla dilagante violenza delle forze di polizia negli Stati Uniti.
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di Emanuela Muzzi
Londra. La dimensione populista della finanziaria d’oltremanica traspare dal carattere nazional-mediatico di provvedimenti dei quali non è ancora certa l’effettiva fattibilità. A cominciare dall’annuncio del Cancelliere George Osborne nel suo “Autumn statement”, di una nuova tassa del 25% sul profitto delle multinazionali con sede nel Regno Unito che deviano i profitti all’estero. Una tassa teoricamente giusta e della quale si parla da tempo, ma non attuabile a livello nazionale.
Non è la prima volta nel giro di poche settimane che da Londra arrivano provvedimenti eclatanti a carattere propagandistico in vista delle prossime politiche, dei quali in realtà non è seriamente prevedibile l’attuazione se non attraverso un cambio degli accordi a livello internazionale.
La conferma arriva anche dalla Confindustra inglese (CBI), che per voce della vice Presidente ha spiegato che “non è il caso che la Gran Bretagna prenda provvedimenti del genere in modo autonomo”. La nuova ‘Google tax’ nomignolo di questa già controversa tassa protezionista, deriva dal fatto che sono moltissime le multinazionali tech con sede in Gran Bretagna che dovrebbero sborsare milioni di sterline.
Se il Chancellor of Exchequer ha fatto un regalo di Natale ai bambini inglesi con l’abolizione della tassa aerea fino a 12 anni d’età che entrerebbe in vigore il prossimo Maggio 2015, i meno giovani potranno volare solo con la fantasia: nessun nuovo investimento a sostegno del mercato del lavoro a parte la brutta notizia dell’abolizione definitiva del sostegno dello stato ai giovani disoccupati e il minimo sindacale che resta a terra.
Nonostante il ministro del tesoro ombra, Ed Balls, dai banchi Labour in Parlamento abbia ricordato che l’export della Gran Bretagna ha avuto la performance peggiore rispetto a 18 paesi dell’Unione Europea, i Tories vedono la crisi economica alle spalle: crescita interna dal 2 al 3% nel 2015. Forse è per questo che hanno deciso finalmente di tassare le banche. Chissà, forse anche loro, oltre ai normali cittadini, cominceranno a pagare I danni che hanno fatto con il ‘credit crunch’.
In compenso il favore agli istituti di credito arriverà trasversalmente con la nuova detassazione sull’acquisto della casa attraverso la riduzione della cosiddetta ‘stamp duty’, in vigore da subito, che genererà una nuova richiesta di mutui da chi non ha i soldi nella valigetta come i magnati russi e degli Emirati Arabi che stanno comprando mezza Londra.
Adesso la verità di questo Discorso Autunnale Conservative è che nasconde i dati sulla scarsa competitività delle aziende britanniche, soprattutto le SME (ovvero le PMI), il tasso di disoccupazione ancora alto, sicuramente molto di più dei tassi ufficiali forniti dall’Office of National Statistics inglese, dato che i volontari e le ‘apprenticeships' e le migliaia e migliaia di persone che non chiedono il sussidio di disoccupazione non sono incluse nei numeri.
Resta il fatto che in vista delle elezioni politiche del prossimo Maggio la generosità dei nuovi fondi alle infrastrutture, i 2miliardi di sterline alla Sanità pubblica, il via alla costruzione di migliaia di nuove case che porterà inoltre l’abbassamento dei prezzi degli affitti sono investimenti nei voti: se non Labour almeno quelli degli indecisi.
Poi se i numeri sono sbagliati e se serviranno nuovi tagli, nell’ottica di Osborne e Cameron, sono correzioni che si potranno fare nella fase post elettorale. Urne chiuse, scenari aperti.
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di Mario Lombardo
Con i rapporti tra Occidente e Russia in caduta libera a causa della crisi in Ucraina, anche le vicende politiche dell’apparentemente insignificante Moldavia sono balzate negli ultimi mesi al centro dell’attenzione di governi e media europei e americani, impegnati a sostenere in tutti i modi il percorso di sganciamento da Mosca della piccola ex repubblica sovietica.
In questo quadro, le elezioni parlamentari dello scorso fine settimana avrebbero gettato le basi per un ulteriore rafforzamento dei legami tra Chisinau e Bruxelles, già consolidati dalla firma del cosiddetto Accordo di Associazione con l’Unione Europea avvenuta nel mese di giugno in contemporanea con Georgia e Ucraina.
I principali partiti filo-occidentali hanno infatti conquistato la maggioranza dei 101 seggi che compongono l’assemblea legislativa moldava. Il Partito Liberal Democratico (PLDM) del premier Iurie Leanca ha sfiorato il 20%, mentre i suoi due probabili partner di governo - Partito Democratico (PDM) e Partito Liberale (PL) - hanno ottenuto rispettivamente il 16% e il 9,5% dei consensi espressi.
Il maggior numero di voti se lo è però aggiudicato il Partito Socialista (PSRM) filo-russo, premiato da una campagna elettorale basata sulla proposta di revoca dell’accordo con l’UE e sull’adesione a un’unione doganale eurasiatica promossa dal Cremlino. Il PSRM ha ricevuto quasi il 21% e 25 seggi, dopo che, secondo vari sondaggi riportati alla vigilia del voto dai media occidentali, il partito fondato da ex membri di quello Comunista era accreditato al massimo dell’8 / 10%.
Il Partito Socialista ha approfittato del vero e proprio crollo del PLDM, il quale ha perso quasi 10 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2010 dopo avere messo in atto politiche fatte di austerity, deregulation e privatizzazioni per inseguire il processo di integrazione con l’UE. Il successo della formazione filo-russa è stato inoltre la conseguenza del tentativo da parte del governo di limitare i diritti della popolazione russofona della Moldavia, promuovendo al contrario l’identità romena del paese.
Meno penalizzato è stato invece il Partito Liberale, che ha praticamente mantenuto la stessa percentuale di voti di quattro anni fa, mentre il Partito Democratico ha aumentato di una manciata di seggi la propria rappresentanza in Parlamento, probabilmente anche per avere proposto un approccio più cauto nei confronti della Russia.
Il vero sconfitto del voto è stato comunque il Partito Comunista (PCRM) dell’ex presidente Vladimir Voronin, passato dal 39,3% (42 seggi) del 2010 al 17,7% (21 seggi). Il PCRM aveva tenuto un atteggiamento più ambiguo nei confronti dell’accordo con Bruxelles, dichiarandosi pronto tuttavia a sostenere la coalizione filo-occidentale se fosse stato necessario.
Le elezioni in Moldavia hanno ottenuto la sostanziale approvazione degli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), facendo apparire quasi trascurabili le critiche da essi stessi indirizzate alle autorità di Chisinau per avere estromesso dalla partecipazione al voto un’altra formazione filo-russa, il partito Patria dell’uomo d’affari populista Renato Usatii.
Il governo moldavo e la Commissione Elettorale Centrale, in realtà, hanno fatto di tutto per impedire che il diffuso sentimento anti-europeo si manifestasse pienamente nei risultati delle urne, cercando di limitare la possibilità di scelta se non addirittura il diritto di voto dei moldavi meglio disposti verso Mosca.
I candidati del partito Patria, ad esempio, erano stati definitivamente rimossi dalle schede elettorali pochi giorni prima del voto, dopo che la giustizia moldava aveva ritenuto i suoi vertici colpevoli di aver ricevuto finanziamenti illegali dall’estero, ovvero dalla Russia. Lo stesso Usatii venerdì scorso era fuggito in Russia, dove ha i propri interessi economici, per sottrarsi a un probabile arresto.
Il partito Patria veniva dato dai sondaggi attorno al 10 / 14% e, a giudicare dalla scarsa accuratezza delle valutazioni relative al potenziale del Partito Socialista, è probabile che la quota di voti effettivamente conquistata avrebbe potuto essere superiore, rafforzando perciò sensibilmente il campo filo-russo in parlamento.
Inoltre, le forze pro-UE avevano contribuito ad alimentare un clima al limite dell’isteria, agitando la minaccia di un’aggressione imminente da parte della Russia. A questo scopo era servita anche un’operazione delle forze di sicurezza che avevano fatto irruzione nelle abitazioni di alcuni appartenenti a un’organizzazione anti-fascista vicina al partito Patria. Le autorità avevano mostrato le armi che sostenevano di avere rinvenuto durante le perquisizioni, lasciando intendere che fosse in preparazione una qualche azione violenta nel paese.
La questione della Transnistria è stata poi utilizzata anche in Occidente per mettere ancor più in luce le tendenze aggressive russe. Questa regione a maggioranza russofona si era separata dalla Moldavia due decenni fa nel timore di una possibile unificazione del paese con la Romania, di cui aveva fatto parte (a esclusione della Transnistria stessa) fino al 1939. L’indipendenza della Transnistria non è però mai stata riconosciuta da nessun paese e i suoi abitanti vivono tuttora in una situazione di stallo e sotto la protezione di un continengente militare russo.
La propaganda occidentale e del governo di Chisinau vorrebbe Mosca pronta ad annettersi la Transnistria, come ha fatto quest’anno con la Crimea. Tuttavia, la Russia non ha mai manifestato alcuna intenzione in questo senso, ma ha anzi sempre sostenuto una soluzione che garantisse l’unità territoriale della Moldavia e un’ampia autonomia per la regione russofona.
Questa proposta, finora respinta dal governo centrale, è peraltro simile a quella avanzata dal Cremlino per le regioni “ribelli” del Donbass in Ucraina, nonostante il regime di Kiev e l’Occidente continuino a sostenere che i propositi di Mosca siano quelli di voler portare a termine un’altra annessione.
Dal momento che l’agitazione dello spettro russo non sarebbe stata probabilmente sufficiente ai partiti filo-occidentali per vincere le elezioni, infine, a moltissimi moldavi residenti all’estero è stato di fatto impedito di esprimere il proprio voto.
Soprattutto in Russia, secondo alcune stime, almeno mezzo milione di moldavi non avrebbe avuto la possibilità di recarsi alle urne dopo che il governo di Chisinau ha finito per istituire appena 5 seggi nel territorio della federazione sui 15 inizialmente annunciati.
Complessivamente, dunque, l’entusiasmo per l’integrazione con l’Unione Europea appare tutt’altro che prevalente in Moldavia, come conferma anche la bassa affluenza alle urne. Secondo la Commissione Elettorale Centrale, il 30 novembre scorso avrebbe votato solo il 55% degli aventi diritto, cioè l’8% in meno rispetto a quattro anni fa.
Vari sondaggi condotti nei mesi scorsi da istituti di ricerca moldavi avevano d’altra parte indicato come il numero di intervistati che avevano espresso un’opinione favorevole all’adesione del loro paese all’Unione doganale con Russia, Bielorussia e Kazakistan fosse superiore a quello di coloro che auspicano l’ingresso nell’UE.
Gli equilibri delle opinioni in questo ambito si sono rovesciati rispetto al 2013, forse anche per un certo realismo dettato dalla consapevolezza dell’importanza economica della Russia, la quale ha tra l’altro risposto qualche mese fa alla sottoscrizione dell’accordo con l’UE da parte del governo di Chisinau con un embargo nei confronti dell’export alimentare moldavo.
La probabile coalizione di governo che dovrebbe uscire dai colloqui in corso tra i partiti filo-occidentali cercherà così ora di implementare il programma di “riforme” necessarie per l’integrazione con l’Unione Europea.
Le più che giustificate resistenze nel poverissimo paese dell’Europa orientale rischiano tuttavia di complicare questo processo, mentre anche la vita della maggioranza in parlamento potrebbe risultare tutt’altro che agevole. Nel 2015, infatti, il presidente Nicolae Timofti vedrà scadere il proprio mandato e il suo successore dovrà essere eletto da una supermaggioranza parlamentare che richiederà un certo numero di voti dell’opposizione filo-russa.
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di Michele Paris
La visita di questa settimana in Turchia del presidente russo, Vladimir Putin, ha segnato un altro capitolo nel processo di allontanamento di Mosca dall’Europa in seguito alla crisi ucraina, provocando inoltre uno scossone nel mercato energetico del vecchio continente. In primo luogo, il vertice tra Putin e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, ha confermato l’estremo pragmatismo dei leader di due governi che si trovano su posizioni diametralmente opposte attorno alla vicenda siriana.
I due presidenti, ad esempio, si sono impegnati a portare gli scambi commerciali bilaterali annui tra le rispettive economie dai poco più di 30 miliardi di dollari attuali a 100 miliardi entro il 2020.
L’intensificazione delle relazioni tra i due paesi risulta però evidente soprattutto in ambito energetico e si sovrappone proprio allo scontro tra Occidente e Russia, mostrando ancora una volta l’inettitudine e le tendenze autolesioniste dei vertici politici europei.
L’arrivo di Putin ad Ankara lunedì era stato accompagnato da un patetico appello alla Turchia del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, a unirsi a Stati Uniti e UE nell’applicazione delle sanzioni economiche imposte ai danni della Russia a causa della presunta invasione del territorio ucraino.
Senza dubbio su richiesta di Washington, l’ex premier laburista norvegese aveva cioè provato disperatamente a sventare quanto è invece accaduto in maniera puntuale nella capitale turca, vale a dire la creazione dell’ennesima partnership energetica con al centro la Russia, sempre più assurdamente definita dall’Occidente come “isolata” sulla scena internazionale per via dell’atteggiamento del suo governo in Ucraina.
D’altra parte, non solo la Turchia non poteva mettere a rischio la propria sicurezza energetica - a differenza di quanto ha fatto Bruxelles - di fronte a una realtà nella quale il 60% delle sue importazioni di gas vengono dalla Russia, ma ha anche approfittato dell’irrazionale politica estera europea, ottenendo da Mosca vantaggi significativi in un settore cruciale per la propria stabilità economica.
Quella che il New York Times ha in maniera ridicola definito come una “rara vittoria diplomatica” per l’UE, è stata quindi annunciata direttamente da Putin in una conferenza stampa con Erdogan. La Russia, cioè, ha decretato la morte dell’ambizioso progetto di costruzione del gasdotto South Stream, il quale avrebbe dovuto attraversare vari paesi europei - tra cui i membri UE Bulgaria, Ungheria, Slovenia e Austria - che raccoglieranno ora probabilmente ben pochi frutti dalla “vittoria” messa a segno da Bruxelles e Washington.
I benefici economici di cui questi governi avrebbero potuto godere saranno raccolti invece da Ankara, poiché il Cremlino dirotterà il proprio gas verso un impianto che il gigante Gazprom costruirà al di sotto del Mar Nero e in territorio turco fino al confine con la Grecia. Da qui, se sarà “economicamente giustificato dalle condizioni di mercato in Europa”, il gas sarà venduto ai paesi meridionali dell’Unione, i quali finirebbero così per dipendere per buona parte dei loro approvvigionamenti dalla Turchia, un paese che attende l’ammissione nel blocco continentale da quasi tre decenni e con cui i rapporti si sono sensibilmente raffreddati negli ultimi tempi.
Riflettendo la necessità di convincere Erdogan a non adottare le sanzioni occidentali, Putin ha inoltre concesso uno sconto del 6% a partire dal prossimo anno sulle forniture di gas alla Turchia, la quale otterrà da subito anche 3 miliardi di metri cubi in più rispetto ai livelli attuali attraverso il già attivo gasdotto Blue Stream.
Il motivo dell’abbandono del progetto South Stream da parte della Russia è legato alla decisione del governo bulgaro di congelarne la costruzione. L’iniziativa di Sofia era arrivata tuttavia lo scorso giugno in seguito alle enormi pressioni esercitate da Bruxelles, con la scusa che l’impianto avrebbe violato le norme europee sulla competizione che stabiliscono come il proprietario di un gasdotto, in questo caso Gazprom, non possa allo stesso tempo essere anche il fornitore del gas che vi transita.
La mossa era stata però interamente politica e legata alla vicenda ucraina, tanto più che, come sostiene Mosca, il cosiddetto “Terzo pacchetto energia” UE era entrato in vigore solo dopo che la Russia aveva siglato accordi bilaterali con i vari governi coinvolti nel progetto South Stream.
A spingere Putin ad abbandonare la costruzione del gasdotto ha forse contribuito anche il lievitare dei costi - stimati in oltre 23 miliardi di dollari per il solo tratto sottomarino in Europa orientale - a fronte delle difficoltà delle banche russe a ottenere accesso ai finanziamenti in Occidente dopo l’adozione delle sanzioni da parte di Washington e Bruxelles.
In ogni caso, questi ultimi sviluppi segnano un’occasione mancata dall’Europa per assicurarsi con un certo vantaggio economico la fornitura stabile di un gas russo che, nonostante i proclami circa la necessità di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, dovrà essere necessariamente acquistato ancora per molti anni. Il South Stream, infatti, era nato con l’intenzione di aggirare le attuali rotte che passano attraverso l’Ucraina, dove la crisi politica ed economica in atto appare lontana dall’essere risolta.
L’accordo appena siglato dalla Russia con la Turchia segue inoltre quelli ben più consistenti sottoscritti quest’anno in due occasioni con la Cina, la quale potrebbe diventare nel prossimo futuro il primo mercato del gas russo nel quadro di una crescente partnership strategica ed economica tra Mosca e Pechino. Quest’ultima evoluzione è considerata come una minaccia da Washington ai propri interessi strategici ma risulta di fatto accelerata proprio dallo scontro attorno alla vicenda ucraina provocato dagli Stati Uniti stessi e dalla Germania.
La decisione di Putin di questa settimana avrà qualche effetto infine anche sull’Italia, nonostante il nostro paese fosse stato tagliato fuori dal South Stream qualche mese fa. ENI, innanzitutto, è socia al 20% del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto - assieme alla francese EDF, alla tedesca Wintershall e, ovviamente, a Gazprom - nonostante i suoi vertici avessero recentemente ipotizzato un ritiro dal progetto a causa dei costi eccessivi.
A essere colpita è poi anche Saipem, la società d’ingegneria controllata da ENI, che, come ha scritto martedì IlSole24Ore, “per la tratta sottomarina [nel Mar Nero] ha già cominciato a lavorare, grazie a tre contratti di appalto, l'ultimo dei quali - il più ricco, da 2 miliardi di dollari - era stato assegnato soltanto in marzo”.
Saipem, secondo Repubblica, “ha delle clausole di protezione nel contratto che tuttavia coprono solo una parte limitata del progetto”. L’azienda ha comunque diffuso una dichiarazione nella quale ha precisato di “non avere ricevuto alcuna comunicazione di formale interruzione del contratto dal cliente South Stream Transport”, senza riuscire però a evitare un pesante tonfo in Borsa nella giornata di martedì.