- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nei giorni successivi all’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan il 2 maggio del 2011, la Casa Bianca si era trasformata in una macchina di menzogne da distribuire all’opinione pubblica internazionale al fine di creare una versione accettabile dell’operazione che aveva portato alla morte del leader e fondatore di al-Qaeda. Questa è la conclusione a cui giunge l’ultima esplosiva rivelazione dell’autorevole giornalista investigativo americano, Seymour Hersh, pubblicata in questi giorni dalla London Review of Books.
Il resoconto del raid delle Forze Speciali USA in un edificio della città di Abbottabad proposto dall’amministrazione Obama, sostiene il noto reporter, “potrebbe essere stato scritto da Lewis Carroll”, l’autore di Alice nel Paese delle Meraviglie, vista la quantità di notizie fabbricate ad arte presenti in esso per nascondere la verità dei fatti.
Hersh ha prodotto una lunghissima e dettagliata indagine, uscita significativamente su una rivista letteraria in Gran Bretagna, basandosi sulle testimonianze di fonti anonime e non solo, sia negli Stati Uniti che in Pakistan, tra cui un membro in pensione dell’intelligence americana a conoscenza dei fatti relativi alla preparazione e all’esecuzione dell’operazione conclusasi con la morte di bin Laden.
Per cominciare, Washington aveva sempre assicurato che i vertici militari e dei servizi segreti pakistani non erano al corrente del raid condotto dalle Forze Speciali USA e che erano stati informati solo al termine del blitz. Hersh dimostra al contrario che l’operazione non solo era stata concordata con i due più importanti ufficiali militari pakistani - i generali Ashfaq Pervez Kayani e Ahmed Shuja Pasha, allora rispettivamente capo di stato maggiore dell’esercito e direttore generale della potente agenzia di intelligence ISI (Inter-Services Intelligence) - ma che bin Laden era di fatto prigioniero di Islamabad e che a consegnarlo agli americani era stato un agente segreto del paese centro-asiatico.
La ricostruzione di Hersh è stata sostanzialmente confermata dall’ex generale pakistano Asad Durrani, capo dell’ISI nei primi anni Novanta e inizia con la visita all’ambasciata americana di Islamabad di un ex agente della stessa agenzia di intelligence nell’agosto del 2010.
Quest’ultimo aveva approcciato il numero uno della CIA in Pakistan, Jonathan Bank, proponendogli di rivelare la località in cui si trovava Osama bin Laden in cambio del pagamento della taglia da 25 milioni di dollari messa sulla sua testa dal governo USA dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Accolto con un qualche scetticismo, l’agente pakistano superò il test della macchina della verità e di lì a poco la CIA si sarebbe messa in moto per far fronte ai principali ostacoli all’eliminazione del terrorista saudita, cioè tenere all’oscuro il più a lungo possibile le autorità pakistane e raccogliere prove sulla “qualità dell’informazione” ottenuta.
La CIA aveva allora affittato un’abitazione ad Abbottabad per sorvegliare l’edificio dove viveva bin Laden. Nel mese di ottobre, poi, l’informazione venne comunicata al presidente Obama, il quale, oltre a rimanere sbalordito del fatto che bin Laden si trovasse in Pakistan, chiese alla CIA di raccogliere prove incontrovertibili sulla sua identità.
Per la CIA e il comando delle Operazioni Speciali si rendeva dunque necessario ottenere il DNA di bin Laden, così da avere un riconoscimento certo, e preparare le condizioni per progettare un’incursione senza rischi. Entrambi gli obiettivi avrebbero potuto essere raggiunti solo con la collaborazione dei generali pakistani Kayani e Pasha e delle istituzioni da essi guidate.D’altra parte, l’agente segreto pakistano che si era presentato all’ambasciata USA aveva rivelato che l’abitazione di bin Laden ad Abbottabad era sotto il controllo dell’ISI. Il leader di al-Qaeda era stato trasferito qui nel 2006 dopo essere stato catturato, grazie alla collaborazione di tribù locali, sulle montagne dell’Hindu Kush, tra l’Afghanistan e il Pakistan, dove aveva vissuto fin dal 2001 con alcune delle sue mogli e svariati figli.
La tesi, sostenuta dal governo americano, che bin Laden avesse vissuto per anni senza essere notato dall’intelligence o dai militari pakistani in una località come Abbottabad aveva da subito suscitato molte perplessità, visto che a circa tre chilometri da quella che era la sua abitazione si trova un’Accademia Militare, a meno di due chilometri il quartier generale di un battagione dell’esercito e a 15 minuti di elicottero la base di Tarbela Ghazi dell’ISI.
Alla CIA venne inoltre rivelato che bin Laden era seriamente malato e fin dall’inizio del suo confino ad Abbottabad l’intelligence pakistana aveva ordinato a un medico dell’esercito, Amir Aziz, di trasferirsi in questa città per assistere il prezioso “ospite”.
Nel frattempo, gli USA non avevano dovuto faticare troppo per convincere le autorità pakistane a collaborare, visto che a Islamabad premeva continuare a ricevere gli aiuti militari tradizionalmente stanziati da Washington e sospesi proprio in quel frangente. Secondo la fonte di Hersh, la CIA era ricorsa anche a qualche “piccolo ricatto”, minacciando Islamabad della possibilità di far sapere ai Talebani e ai gruppi jihadisti attivi nella regione che il Pakistan teneva prigioniero il loro leader.
Qualche complicazione poteva tuttavia presentarsi relativamente alla posizione dell’Arabia Saudita, il cui regime stava finanziando il mantenimento ad Abbottabad del cittadino del regno bin Laden. Riyadh non desiderava infatti che la sua presenza in Pakistan fosse resa nota, soprattutto agli americani, per il timore che Washington avesse potuto spingere sui pakistani per conoscere i legami oscuri tra al-Qaeda e l’Arabia Saudita.
In ogni caso, il Pakistan aveva ormai accettato di collaborare con gli Stati Uniti. Il medico assegnato a bin Laden venne così incaricato di raccogliere campioni del suo DNA in cambio di una parte della già ricordata taglia da 25 milioni offerta dagli USA. In seguito, per non bruciare la copertura del dottor Aziz, gli USA avrebbero sacrificato un altro medico pakistano, Shakil Afridi, indicato pubblicamente come il responsabile del reperimento del DNA di bin Laden durante una campagna di vaccinazioni. Afridi, successivamente arrestato dalle autorità pakistante, era in realtà un informatore occasionale della CIA ma non aveva partecipato all’operazione bin Laden.
Hersh racconta degli scrupoli dell’amministrazione Obama prima di dare l’approvazione al raid per eliminare bin Laden, dal momento che un eventuale fallimento avrebbe potuto scatenare forti polemiche che si sarebbero trascinate fino alle successive elezioni, compromettendo le possibilità del presidente democratico di essere riconfermato alla Casa Bianca.Alla fine di gennaio del 2011 tra Washington e Islamabad venne finalmente raggiunto l’accordo sulle modalità dell’operazione da lanciare ad Abbottabad. Il capo di stato maggiore pakistano, generale Kayani, aveva richiesto che il raid fosse condotto da un team di pochi uomini e, soprattutto, che si concludesse con la morte di bin Laden.
A questo punto, il comando delle Forze Speciali americane presentò una lunga lista di domande ai vertici dell’ISI, in modo da conoscere nel dettaglio la situazione logistica che si sarebbe presentata ai propri uomini una volta entrati nell’abitazione di bin Laden. In un vecchio sito utilizzato per i test nucleari nel Nevada, addirittura, venne costruita una replica dell’edificio per consentire a una squadra scelta di “Seals” americani di esercitarsi prima del viaggio in Pakistan.
I militari e l’intelligence del Pakistan si impegnarono così a consentire il libero accesso dei velivoli americani addetti alla missione di morte ad Abbottabad, mentre una cellula di agenti USA si sarebbe occupata delle comunicazioni tra l’ISI, i comandanti statunitensi in Afghanistan e la squadra delle Forze Speciali incaricata del blitz.
L’accordo iniziale tra Stati Uniti e Pakistan prevedeva che l’operazione fosse tenuta segreta per almeno una settimana, dopodiché sarebbe stata diffusa una versione fabbricata ad arte per il pubblico. Obama avrebbe cioè annunciato che bin Laden era stato ucciso da un drone americano in una località sul versante afgano delle montagne dell’Hindu Kush. Ai generali Kayani e Pasha era stato poi assicurato che il loro contributo sarebbe rimasto segreto, anche per evitare lo scatenarsi di proteste in Pakistan, dove molti consideravano bin Laden un eroe.
Sia per i pakistani che per gli americani, l’operazione doveva necessariamente portare all’assassinio del numero uno di al-Qaeda. Per i primi, il fatto che gli USA fossero ormai a conoscenza della sua presenza nel paese rappresentava un rischio, mentre a Washington vi era verosimilmente molta preoccupazione per eventuali rivelazioni che il loro principale nemico avrebbe potuto fare riguardo gli intrecci tra la politica estera di Washington e la sua organizzazione fondamentalista.
Quello andato in scena il 2 maggio ad Abbottabad fu perciò “chiaramente e inequivocabilmente un omicidio premeditato”, nascosto dalla ricostruzione della Casa Bianca dei frangenti seguiti all’irruzione delle Forze Speciali nell’abitazione di bin Laden. Ufficialmente, quest’ultimo avrebbe dovuto essere catturato vivo se si fosse arreso in maniera tempestiva ma, secondo la versione ufficiale, era stato alla fine ucciso perché aveva opposto resistenza e cercato di raggiungere un’arma per combattere i soldati americani.
L’ISI aveva dunque preparato accuratamente l’arrivo delle Forze Speciali USA ad Abbottabad, garantendo ad esempio il black-out elettrico nella città e l’assenza totale di guardie a sorveglianza dell’edificio. Un’agente di collegamento dell’ISI guidò poi i “Seals” americani all’interno, fino al terzo piano dove, indisturbati, raggiunsero la stanza di bin Laden. Qui, due soldati spararono a ripetizione contro un uomo totalmente indifeso e, al contrario di quanto avrebbe successivamente sostenuto l’amministrazione Obama, senza che ci fosse stata alcuna sparatoria o che altre persone fossero state uccise nell’abitazione.
L’indagine di Hersh smentirebbe anche un’altra menzogna del governo americano, quella relativa al presunto ritrovamento di computer e dispositivi digitali di archiviazione contenenti importanti informazioni su al-Qaeda e possibili trame terroristiche. I soldati americani raccolsero soltanto alcuni libri e documenti ritrovati nella stanza di bin Laden, il quale, a differenza di quanto dichiarato dal governo USA per convenienza politica e per giustificare l’operazione, in quanto prigioniero dei militari pakistani non poteva agire da comandante operativo dell’organizzazione terroristica da Abbottabad.Al termine dell’operazione, all’interno della Casa Bianca iniziò un’accesa discussione circa l’opportunità di rivelare immediatamente l’accaduto, sia pure in maniera manipolata, o di attenersi agli accordi con i pakistani e attendere alcuni giorni.
Il presidente Obama insisteva per la prima opzione e questa scelta venne facilitata dallo schianto di uno degli elicotteri della squadra inviata ad assassinare bin Laden contro il perimetro esterno dell’edificio di Abbottabad. L’incidente aveva reso infatti più complicato lo sforzo di mantenere segreta l’operazione e far credere alla versione del drone.
Questa decisione fece infuriare le autorità pakistane e fu seguita da una ricostruzione ufficiale degli eventi messa assieme in maniera frettolosa, producendo una serie di contraddizioni che avrebbero suscitato non pochi dubbi sulla sua veridicità. La Casa Bianca, ad ogni modo, finì per basare la propria versione nuovamente su una serie di menzogne.
Oltre a quelle relative ai fatti avvenuti all’intero dell’abitazione di bin Laden e alla collaborazione delle autorità pakistane, Hersh ha smascherato anche le dichiarazioni fuorvianti circa le modalità con cui gli USA erano arrivati al leader di al-Qaeda e alla sorte riservata al suo cadavere.
Obama aveva sostenuto che a partire dall’agosto del 2010 l’intelligence americana stava seguendo indizi che portavano al presunto “corriere” di bin Laden e controllando i suoi spostamenti era stato possibile individuare l’abitazione di Abbottabad. Per confermare l’esistenza della fantomatica figura del “corriere”, la Casa Bianca avrebbe poi riferito che il suo cadavere era stato rinvenuto dopo la sparatoria all’interno dell’edificio di Abbottabad, nonostante l’unica vittima dell’operazione fosse appunto bin Laden.
Il corpo del terrorista più ricercato del pianeta sarebbe stato infine portato prima in una base militare americana a Jalalabad, in Afghanistan, e poi a bordo della nave da guerra “Carl Vinson” che si trovava nel Mare Arabico settentrionale. Dopo essere stato trattato secondo quanto previsto dalla religione islamica, il cadavere sarebbe stato “seppellito in mare”.
Secondo Hersh e la sua fonte, invece, le cose andarono diversamente. I resti gravemente dilaniati di bin Laden erano stati identificati e fotografati in Afghanistan e poi presi in consegna dalla CIA per essere gettati da un elicottero sulle montagne dell’Hindu Kush.Le rivelazioni di Seymor Hersh sulla fine di Osama bin Laden confermano dunque ancora una volta come le dichiarazioni rilasciate dal governo americano e le notizie diffuse dalla stampa ufficiale debbano essere prese in ogni occasione quanto meno con le molle, se non come vere e proprie menzogne, soprattutto nei casi legati a questioni controverse o alla “sicurezza nazionale”.
Prevedibilmente, l’indagine di Hersh, poiché basata in buona parte su fonti anonime, è stata subito attaccata dall’amministrazione Obama e da molti giornali “mainstream”, molti dei quali operano da autentiche casse di risonanza della propaganda di Washington, spesso riportando “rivelazioni” utili al governo fornite da fonti anonime all’interno di esso.
Nonostante le critiche subite, Hersh vanta in fin dei conti una credibilità infinitamente superiore a quella dei giornali ufficiali sostanzialmente allineati alle posizioni del governo. L’accuratezza delle sue indagini è confermata da decenni di rivelazioni che hanno alzato il velo sui crimini dell’imperialismo a stelle e strisce, dal massacro di My Lai in Vietnam nel 1968 alle torture dei prigionieri iracheni ad Abu Ghraib nel 2004, fino alla più recente devastante smentita dell’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, impiegate al contrario dai “ribelli” sostenuti dall’Occidente con l’aiuto del governo turco.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
La pesantissima sconfitta patita dal Partito Laburista britannico nelle elezioni di giovedì scorso ha provocato le prevedibili dimissioni del suo leader, Ed Miliband, scatenando immediatamente la corsa alla successione. Per dare un’idea del livello del dibattito interno al partito cui la Gran Bretagna assisterà a breve, nei giorni successivi alla chiusura delle urne un coro di voci ha chiesto il ritorno ai valori “centristi” e alle strategie del “New Labour” di Tony Blair, visto che la punizione impartita dagli elettori sarebbe dovuta a un eccessivo spostamento a sinistra sotto la guida di Miliband.
Personalità profondamente screditate come lo stesso Blair hanno fatto ritorno sui media d’oltremanica per dare lezioni alla leadership laburista uscente sulla linea politica da tenere per risollevare il partito. L’ex premier e potenziale criminale di guerra ha fatto appello in prima persona alla necessità di “rioccupare il centro della politica britannica”, ovvero di fare del “Labour” un partito di destra non solo nel programma ma anche nella retorica, tornando così a promuovere un’agenda apertamente “pro-business” e i propositi di “riforma” (distruzione) del settore pubblico.
La stessa interpretazione del rovescio elettorale laburista è stata data da uno degli architetti del “New Labour”, l’ex ministro per le Attività Produttive, Peter Mandelson, secondo il quale il partito ha sbagliato nel presentarsi in campagna elettorale “a favore dei poveri” e contro i ricchi, “ignorando completamente quella vasta parte della popolazione che si trova nel mezzo”.
Il riferimento a una classe media trascurata nasconde in realtà un rimprovero per non avere corteggiato a sufficienza o non avere dato abbastanza rassicurazioni al business britannico circa l’affidabilità del Partito Laburista nel continuare il percorso intrapreso dai conservatori, anche di fronte a una forte opposizione popolare e alle crescenti tensioni sociali causate dalle politiche del governo.
L’elenco dei fautori del “New Labour” che hanno rialzato la testa in seguito al fallimento della dirigenza Miliband include molti nomi, da Alan Johnson a Ben Bradshaw fino all’ex Cancelliere dello Scacchiere (Ministro delle Finanze), Alistair Darling.
Per quest’ultimo, sarebbe stato un errore anche ripudiare l’esperienza dei 13 anni di governo di Blair e Gordon Brown, come ha fatto Miliband. Darling ha tralasciato però di ricordare come i laburisti furono sonoramente sconfitti anche nelle elezioni del 2010 sull’ondata di repulsione per le politiche ultra-liberiste e guerrafondaie dei due ex primi ministri che egli stesso vorrebbe ora rilanciare per il partito.
Questo punto di vista è stato adottato anche da uno dei presunti favoriti per la successione a Miliband, il 36enne di origine nigeriana Chuka Umunna, già osannato da parte della stampa britannica come “l’Obama laburista”. In un articolo firmato da egli stesso e apparso domenica sul Guardian, il ministro-ombra per le Attività Produttive ha affermato che il partito ha “parlato alla nostra base elettorale ma non all’ambiziosa classe media”, dando così l’impressione di “non essere dalla parte di coloro che se la stanno cavando bene”.L’analisi della sconfitta fatta da Umunna rivela in maniera esemplare il processo di spostamento a destra attraversato dal Partito Laburista britannico. A differenza di quanto sostenuto dall’astro nascente del “Labour”, gli elettori hanno voltato le spalle al partito non perché troppo a sinistra, bensì precisamente per la virtuale indistinguibilità di esso dai conservatori, tanto più dopo il decennio a guida Tony Blair.
Il tentativo di Miliband di dare un’immagine di “sinistra” al suo partito nel pieno dell’orgia neo-liberista avanzata dal governo di coalizione conservatore-liberaldemocratico non ha convinto in nessun modo l’elettorato teoricamente di riferimento dei laburisti e ha prodotto un risultato ancora peggiore rispetto alle precedenti elezioni.
Gli sforzi per mascherare questa realtà sono significativamente evidenti nella ragione fornita per spiegare il dilagare del Partito Nazionale Scozzese (SNP) che in Scozia ha quasi completamente spazzato via i laburisti. Lo stesso Umunna, come la gran parte dei media e dei politici britannici, ha infatti attribuito questo fenomeno alla crescita di un sentimento nazionalista con “profonde radici culturali”.
Molto più semplicemente, l’SNP ha capitalizzato una campagna elettorale basata su un appello marcatamente anti-austerity, sia pure quasi esclusivamente retorico, al contrario di Miliband e i laburisti che si sono limitati tutt’al più a promettere un alleggerimento delle devastanti politiche anti-sociali dei “Tories”, pur impegnandosi a mantenere una condotta “responsabile” sulle questioni di bilancio.
I laburisti, in sostanza, hanno cercato di cavalcare in maniera decisamente limitata il malcontento verso il governo tra le classi più disagiate che hanno pagato le politiche di austerity di questi anni, pur mettendosi in competizione con i conservatori nel garantire la prosecuzione del rigore, in modo da ingraziarsi gli ambienti della City che, peraltro, hanno continuato a puntare su Cameron.
Le ragioni del rovescio decretato dalle urne per il “Labour” sono così sostanzialmente simili a quelle che hanno determinato la quasi estinzione politica del Partito Liberal Democratico britannico. I “Lib-Dem”, solitamenti accreditati di posizioni relativamente più a sinistra dei labursiti, hanno pagato a carissimo prezzo la partecipazione al governo guidato dai conservatori in questi cinque anni, vedendo ridotta la propria delegazione al parlamento di Londra a una manciata di deputati contro i 57 conquistati nel 2010.Per quanto riguarda la successione a Ed Miliband, in ogni caso, i media britannici hanno snocciolato vari nomi di probabili candidati. Per il Daily Telegraph, ad esempio, oltre al già citato Chuka Umunna i favoriti sarebbero il ministro-ombra della Sanità, Andy Burnham, il ministro-ombra dell’Interno nonché moglie del trombato di lusso Ed Balls, Yvette Cooper, e Dan Jarvis, ex ufficiale delle forze speciali considerato come possibile opzione al di fuori dell’establishment tradizionale del partito. Alla competizione parteciperà inoltre anche Liz Kendall, 43enne ex ministro-ombra della Sanità e fedelissima di Tony Blair.
In aggiunta, scrive sempre il Telegraph, ci potrebbero essere svariati altri candidati con pochissime chances di successo ma che parteciparanno alla corsa per la guida del partito solo per mettersi in luce e ottenere uno degli incarichi nel governo-ombra una volta insediata la nuova leadership.
Al di là delle posizioni propagandate dagli aspiranti leader laburisti, l’esito della sfida interna che sta per prendere il via risulterà con ogni probabilità in un ulteriore spostamento a destra del baricentro del partito e, di conseguenza, anche del panorama politico britannico.
Ciò sembra essere confermato dalle intenzioni di uno dei favoriti, Andy Burnham, 45enne con origini nella “working-class” dei sobborghi di Liverpool. Burnham è considerato tra gli esponenti della “sinistra” laburista, tuttavia, secondo i suoi alleati nel partito, la sua campagna per la leadership si baserà su un’agenda “inclusiva”, cioè su un appello al business in pieno stile “New Labour”.
I tempi per il procedimento che porterà alla sostituzione del dimissinario Miliband e della sua vice, Harriet Harman, verranno decisi dal Comitato Nazionale Esecutivo del partito che prevede di riunirsi già all’inizio della prossima settimana.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
E' stata una parata militare imponente quella che Vladimir Putin ha messo in scena sulla Piazza Rossa di Mosca nel 70esimo anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica sul nazifascismo. Alla presenza dei presidenti di Cina, India, Sudafrica, Cuba, Venezuela e di altri 30 dei 68 invitati, 15mila soldati russi, 1.300 militari stranieri, circa 200 mezzi corazzati e 143 tra aerei ed elicotteri, sono stati i protagonisti di quella che, a ragione, può essere chiamata come una dimostrazione di forza.
Una scenografia sottolineata da toni patriottici del'oggi appena mascherati dall’enfasi di una memoria che la Russia non intende abdicare sull’altare della fine dell’allora Unione Sovietica. Difficile del resto dargli torto nel voler rimarcare di fronte al mondo il credito di cui vanta per la vittoria sul nazifascismo; una vittoria ottenuta al prezzo di 27 milioni di morti e città distrutte, di sacrifici immensi da parte della popolazione.
Per i deboli in storia va riordato che l più emblematico di questi sacrifici - e allo stesso tempo quello fondamentale - fu la resistenza eroica di Stalingrado, dove dopo diciotto mesi di assedio della sesta armata della Wermacht affiancata dall’esercito italiano, ungherese e romeno, l’Armata Rossa riuscì a liberare la città e a dare così il via alla controffensiva che portò due anni dopo alla conquista di Berlino e alla resa incondizionata dei gerarchi nazisti con la bandiera sovietica sventolante sul tetto del Reichstag. Seppure la storiografia ufficiale narra solo di statunitensi liberatori, è bene sapere che dal punto di vista militare senza l’Unione Sovietica e i suoi 27 milioni di morti, oggi la storia racconterebbe ben altre vicende e la democrazia di cui l’Occidente si fregia sarebbe forse un’ipotesi scolastica da coltivare in elaborati clandestini.
A far da contraltare alle celebrazioni, è spiccata l’assenza di tutti i governi occidentali più importanti alla parata, riflesso pavloviano delle sanzioni contro la Russia, prodotto della politica ostile di Stati Uniti ed Europa. Le diplomazie europee e statunitensi affermano trattarsi di una presa di posizione determinata dalla vicenda ucraina e di quanto avvenuto in Crimea, ma se così fosse l'assenza alla parata militare sarebbe stata comunque superata da un alto livello nel resto delle celebrazioni, mentre invece pare che sarà solo la Cancelliera Angela Merkel a rappresentare il suo paese ai livelli più alti.
Eppure, la vittoria sul nazifascismo ed il ruolo sostenuto dall'Unione Sovietica meriterebbe il riconoscimento di tutti i paesi che combatterono l'orrore hitleriano e mussoliniano e l'occasione era propizia per inviare un messaggio di disponibilità all'ascolto. Niente da fare, Stati Uniti ed Europa preferiscono continuare sulla strada del confronto a mascelle serrate. I primi ci guadagnano, i secondi pagano ma, come ogni intendenza, seguono.
La sfilata russa è stata preparata con il maggior sfoggio di potenza bellica di questi ultimi anni. E' un chiaro messaggio di Putin rivolto agli Stranamore del Pentagono, che ritengono di poter continuare ad intruppare basi, uomini e batterie missilistiche ogni volta più vicini al territorio russo, così come stimolano il riarmo nazionalista giapponese e continuano a minacciare Pechino nel Mar della Cina.
A questo proposito la sfilata militare ha avuto come principale motivo d’interesse proprio la riaffermazione pubblica dell’asse Mosca-Pechino-Nuova Delhi, che tanto sul piano militare quanto su quello economico e finanziario, mette davvero in discussione il primato mondiale dell’Occidente a guida statunitense.
Le immagini di Putin e Xi Jinping (con cui Mosca ha formato un’asse strategica economica e miitare) con al loro fianco il premier indiano Pranab Mukherjee (che ha con la Cina una partnership importante), indicano la volontà di relazionarsi unitariamente con Stati Uniti ed Europa ed esprimono un’idea di sviluppo e di governance planetaria multipolare che interrompe l’unipolarismo statunitense, rivendicando un ruolo strategico.
Miliardi di persone, risorse strategiche e territori immensi sostenuti da imponenti arsenali militari non potevano, del resto, rimanere dei nani politici e militari subordinati alla leadership statunitense, peraltro in profonda crisi.
Con questa nuova realtà, con questo nuovo approccio strategico per la governance globale, si dovrebbe costruire un dialogo fondato sull’integrazione reciproca e la suddivisione delle responsabilità, ma ad oggi la sfida militare e l’aggressione politica sembrano essere le scelte che un Occidente privo di vision globale mette in campo, con la speranza di poter continuare a perpetrare un comando che né le sue condizioni economiche, né quelle militari sembrano in grado di confermare.
Teatri di guerra in Medio Oriente, in Africa, in Asia, terrorismo internazionale e crisi economiche europee; migrazioni di massa e redistribuzione delle risorse energetiche ed alimentari; accesso all’acqua e salvaguardia ambientale sono alcuni dei temi sui quali il dialogo e la condivisione di analisi e soluzioni andrebbero ricercati proprio da Washington e Bruxelles, dal momento che anche Mosca, Pechino e Nuova Delhi hanno tutto l’interesse alla costruzione di un clima internazionale concertato ed inclusivo. Russia, Cina e India chiedono a chiare lettere un ruolo primario nello scacchiere globale, fatto anche di condivisione nella gestione del pianeta, di attenzione agli interessi strategici ed ai processi di consolidamento della loro crescita.
Ma l'allargamento dell'area di governo planetario viene visto come una minaccia agli interessi occidentali. Si costruiscono vere e proprie aggressioni alle sfere d'influenza e si vìolano accordi firmati, per poi, dopo l'inevitabile reazione, imporre sanzioni. Piuttosto che cercare un terreno possibile di partnership si preferisce destabilizzare il Medio Oriente e l’Europa dell’Est, elaborare progetti di colpi di stato nei confronti dei paesi che non si allineano ai voleri di Washington e realizzare operazioni di assalto alle loro riserve finanziarie.
Si sceglie di affrontare il dramma epocale delle migrazioni di massa con politiche repressive e la necessità di una migliore e diversa distribuzione delle risorse energetiche viene gestita con manovre politiche e speculative nel tentativo d’indebolire e piegare i paesi produttori di petrolio che sfuggono agli ordini della Casa Bianca.
Vista l'inutilità, se non addirittura il suo essere controproducente delle politiche di sanzioni ed embarghi, per USA, GB e Francia partecipare alla celebrazione di Mosca poteva essere un'occasione per passare dalle minacce alla riapertura di un dialogo. In questo senso l’assenza di Stati Uniti ed Europa alla parata militare risulta più un gesto di stizza che non una linea di lungimiranza politica.
Putin, come del resto Xi e Mukherjee, davvero non possono essere additati ad esempio per un modello di democrazia partecipativa, elemento d’altra parte che certo non figura tra le caratteristiche di USA ed Europa.
Ma Russia, Cina ed India sono paesi che non possono essere confinati nell’angolo dell’assenso dovuto. Men che mai per confermare, in spregio alla realtà, un mondo con al comando chi declina e all’obbedienza chi emerge.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emy Muzzi
Londra. L’alba grigia che annuncia la vittoria dei Conservatori dopo la lunga notte elettorale in Gran Bretagna, ha una luce ambigua che dissimula nell’apparente continuità del governo Tory un cambiamento sostanziale: un punto di non ritorno. Nel segreto dell’urna i sudditi di sua Maestà hanno dato una batosta ai Laburisti e particolarmente a Ed Miliband, il quale - saggiamente - si è subito dimesso. I Conservatori di Cameron disporranno della maggioranza assoluta, risultato che nessuno aveva previsto, nè nelle stanze dei partiti, nè dagli istituti di rilevamento.
Il voto ha spaccato in due il Regno Unito portando l’indipendentista Scottish National Party ad una vittoria schiacciante che ha spazzato via il Labour ed umiliato i Liberal Democratici. E’ un colpo al cuore al bipartitismo come sistema e come idea politica che va oltre il timore del ‘Brexit’ e di un possibile ‘scisma scozzese’.
I dati non sono ancora definitivi, ma la tornata elettorale 2015 riconferma Cameron per altri cinque anni con un margine di vantaggio ampio; il risultato provvisorio, infatti, assegna 321 seggi contro 228 dei Labour. I blu di Cameron guadagnano 21 poltrone, i rossi Lab ne perdono 26. Distanza ampia, incolmabile. Un risultato che è la rivincita politica di un referendum indipendentista fallito solo per poco, ma evidentemente non per pochi. Nel 2010, infatti, i Labour avevano 41 seggi mentre oggi ne hanno solo uno.
I 40 seggi di differenza sono andati ad un SNP che sostiene, ad esempio, che andare all’Università debba dipendere dall’abilità e potenzialità di una persona e non dal suo conto in banca. Anche i Labour, da parte loro, avevano un programma di sostegno agli studi universitari, come del resto anche altri aspetti e programmi della politica SNP e Lab non sono poi così distanti. Allora cos’è che fa la differenza, che sposta i voti così radicalmente? Qual’era in questo caso la vera discriminante?
E’ la parola ‘national’ che ha una forza determinante a livello ideologico e politico (nel senso pragmatico del termine) in un contesto regionale, perché di regione si tratta ancora per il momento. Il bisogno di un governo in cui i cittadini si possano identificare, attraverso il quale possano definire la propria identità e questo avviene attraverso la definizione delle politiche locali, se la politica non è abbastanza forte, inclusiva o equa, anche attraverso la definizione del territorio stesso e dei propri confini.
La Scozia degli indipendentisti riproverà il coup referendario? Saremo a vedere. Ma una tale prospettiva dipende dagli assetti di maggioranza o minoranza in Parlamento, a Londra. Secondo gli analisti della London school of Economics, lo scenario (triste) sarebbe il seguente: i Conservatives indicono il Brexit, la Scozia è contraria all’uscita dal’Unione Europea e, pertanto, potrebbe indire un nuovo referendum, che qui chiameremo per assonanza ‘Scotxit’.Uscite a parte, la verità di questo andamento del voto chiarisce un’insofferenza per il tradizionale bipartitismo del quale, a certi livelli, non si distinguono neanche le differenze: cosa distinge Laburisti e Conservatori nella politica estera? La risposta è: i primi predicano un’uscita dall’Europa i secondi no. Cos’altro? Niente. Sono d’accordo anche sul TTIP, uno scempio multinazionale che dovrebbe essere eletto a bandiera d’opposizione da chi è di sinistra o anche solo democratico.
Questo offre un’idea chiara sul fatto che le spinte nazional-referendarie definiscono differenze che in sostanza non ci sono. Sono in verità definizioni differenziali in funzione elettorale e di mantenimento (o conquista) del potere. L’euroscetticismo, infatti, è stata la finta discriminante tra UKIP (il partito indipendentista di Nigel Farage) e Conservatives, in questa elezione in diretta competizione. In questo caso i Tories hanno risolto il problema includendo l’euroscetticismo in quanto tale ed escludendone (o attenuandone) i contenuti razzisti e xenofobi relativi ai flussi migratori.
Questo approccio generale ha determinato la fine dell’opposizione frontale e di sostanza della destra e della sinistra in Gran Bretagna. E questo è dovuto alle mancate scelte di fondo di questi due soggetti politici rispetto ai poteri veri che muovono gli interessi del Regno Unito come potenza economica, politica e finanziaria globale, come ad esempio le banche e lo Stock Exchange. Quali saranno le dinamiche future della politica britannica sarà il parlamento britannico a dirlo; oppure l’andamento dell’FTSE.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
La vittoria relativamente a sorpresa del Likud del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, nelle elezioni anticipate del 17 marzo scorso sembrava avere spianato la strada all’agevole formazione di un solido governo di coalizione a Tel Aviv. Dopo 42 giorni di negoziati, invece, il premier è riuscito a mettere assieme il suo quarto esecutivo letteralmente a pochi minuti dalla scadenza del mandato esplorativo assegnatogli dal presidente di Israele, oltretutto con una maggioranza nella nuova Knesset (Parlamento) di un solo seggio.
I guai per Netanyahu erano arrivati ad inizio settimana, quando il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, del partito ultra-nazionalista Yisrael Beitenu, aveva annunciato l’intenzione di non far parte del nascente governo.
Se il primo ministro sembrava fino ad allora poter contare su una coalizione che gli garantiva una maggioranza di 67 seggi, sui 120 totali, dopo la rottura con Lieberman si è ritrovato con sei seggi in meno su cui fare affidamento e la prospettiva di creare un gabinetto estremamente debole.
La decisione di Lieberman è stata probabilmente presa in maniera calibrata per infliggere il maggior danno possibile a Netanyahu, il quale, a nemmeno due giorni dall’ultima data utile per la formazione del governo, non ha potuto far altro che ripiegare sulla risicata maggioranza rimastagli.
Fin dalla chiusura delle urne a marzo, in realtà, molti avevano ipotizzato la possibilità di un governo di “unità nazionale” con l’Unione Sionista di centro-sinistra, nonostante le ripetute smentite del suo leader, Isaac Herzog, ma i tempi ristrettissimi a disposizione di Netanyahu per avviare eventuali trattative hanno escluso questa ipotesi. L’Unione Sionista è un’alleanza politica formata alla vigilia del voto tra il Partito Laburista e Hatnuah (“Il Movimento”) del più volte ministro Tzipi Livni.
Con l’uscita di scena di Lieberman, l’unica forza politica in grado di scongiurare una clamorosa rinuncia al mandato per la formazione del governo da parte di Netanyahu è diventata HaBayit HaYehudi (“Casa Ebraica”), il partito religioso di estrema destra del ministro dell’Economia, Naftali Bennett.
In precedenza, Netanyahu aveva già siglato un accordo di governo con il partito di centro-destra Kulanu (“Tutti Noi”) dell’ex compagno di partito, Moshe Kahlon, e con due formazioni ultra-ortodosse, Shas e Giudaismo Unito della Torah. Oltre ai 30 seggi del Likud, questi tre partiti ne portano in dote a Netanyahu altri 23 che, con gli 8 di HaBayit HaYehudi, fanno appunto registrare un totale di 61.
Bennet ha puntualmente sfruttato la situazione di emergenza in cui si è venuto a trovare Netanyahu per estrarre importanti concessioni in cambio del sostegno al governo. Il suo partito avrà il ministero dell’Educazione, che andrà allo stesso Bennett, e quello della Giustizia, occupato dal suo vice, Ayelet Shaked.
“Casa Ebraica” otterrà inoltre la posizione di vice-ministro della Difesa, carica che presiede alle operazioni in Cisgiordania, con prospettive ben poco incoraggianti viste le attitudini di un partito che chiede un’ulteriore espansione degli insediamenti illegali e si dichiara contrario alla creazione di uno stato palestinese.Il carattere reazionario di un governo che molti commentatori hanno definito come il più a destra della storia di Israele è confermato poi dalle concessioni già fatte da Netanyahu a Shas e Giudaismo Unito della Torah, come l’abrogazione dell’obbligo di leva per gli ultra-ortodossi e di altre iniziative di legge di impronta secolare che erano state adottate dal precedente gabinetto su impulso del partito centrista Yesh Atid dell’ex ministro delle Finanze, Yair Lapid.
A rappresentare la componente moderata del nuovo governo dovrebbe essere il partito Kulanu, ma il suo leader, che avrà l’incarico di ministro delle Finanze, ha promesso di concentrare i propri sforzi in ambito economico, mentre vari esponenti di spicco di questo movimento fondato lo scorso novembre sono ascrivibili alla fazione dei “falchi” per quanto riguarda le politiche relative alla “sicurezza” di Israele.
Vista la fragilità delle fondamenta su cui poggerà il quarto governo Netanyahu, la stampa israeliana e internazionale ha osservato che l’unica possibilità per evitare nuove elezioni nel breve periodo sarà tentare di allargare l’attuale maggioranza.
Lo stesso Netanyahu, nell’annunciare la nuova coalizione nella tarda serata di mercoledì, ha lasciato intendere che i suoi sforzi andranno precisamente in questa direzione. “Ho detto che 61 è un buon numero”, ha affermato il premier, prima di aggiungere però che “61 è soltanto l’inizio”.
I media di Israele sembrano essere certi che un serio tentativo per ampliare la maggioranza di governo verrà fatto dopo l’approvazione del bilancio per il 2016, prevista per la fine dell’estate. Il quotidiano Haaretz ha poi citato fonti anonime secondo le quali avrebbero già avuto luogo incontri tra esponenti del Likud e dell’Unione Sionista che vedono con favore la nascita di un governo di “unità nazionale”.
La principale formazione di opposizione, che vanta 24 seggi nella Knesset, avrebbe fissato alcuni paletti per garantire il proprio sostegno a Netanyahu, tra cui la ripresa dei negoziati con i palestinesi, l’estromissione di Naftali Bennett e del suo partito dalla coalizione e la creazione di un meccanismo per una leadership condivisa tra l’attuale primo ministro e Isaac Herzog.
Quest’ultimo e il suo entourage continuano però a escludere un accordo di questo genere, visto che rappresenterebbe un clamoroso voltafaccia rispetto a quanto sostenuto in campagna elettorale, con possibili ripercussioni negative al prossimo appuntamento con le urne.
Le circostanze della nascita del prossimo governo di Tel Aviv rivelano in ogni caso il profondo stato di crisi del sistema politico israeliano e, in particolare, della destra, nonostante la presunta forza di un Netanyahu che si appresta a diventare il primo ministro più longevo nella storia del suo paese.
Ciò appare tanto più evidente se si considera che lo stesso Netanyahu aveva sciolto anticipatamente il Parlamento lo scorso dicembre per mettere fine a un governo considerato cronicamente instabile e ottenere un mandato elettorale per crearne uno più solido.La rottura di Avigdor Lieberman ha contribuito così a evidenziare la fragilità di Netanyahu e le difficoltà in cui si dibatte la classe politica israeliana. Come ha sostenuto qualche giorno fa l’editorialista israeliano Ben Caspit, lo schiaffo dell’ex ministro degli Esteri a Netanyahu potrebbe essere motivato dalla tradizionale rivalità tra i due leader o da ragioni più o meno personali.
Come ad esempio il desiderio di Lieberman di vendicarsi sul premier per il presunto ruolo avuto da quest’ultimo nel favorire un’indagine su alcuni membri del partito Yisrael Beitenu, accusati di corruzione poco prima delle elezioni.
Tuttavia, dietro alla mossa di Lieberman sembra esserci un preciso calcolo politico, legato proprio alla crisi della governance in Israele, accentuata dalle esplosive disuguaglianze sociali e dal crescente isolamento di un paese che agisce regolarmente al di fuori delle norme del diritto internazionale.
Lieberman, le cui ambizioni a diventare prima o poi capo del governo sono note da tempo, ha in definitiva scelto di sganciarsi da Netanyahu, assestandogli nel contempo un grave colpo politico, per evitare di essere trascinato nel declino della destra dominata dal Likud, di cui lo stesso primo ministro è il primo responsabile, e costruirsi un percorso autonomo verso il potere, sia pure sulle stesse fondamenta ideologiche che hanno guidato il suo ormai ex alleato.