di Michele Paris

Gli Stati Uniti e la Turchia avrebbero fatto significativi passi avanti nel raggiungimento di un’intesa sulla collaborazione militare ritenuta necessaria per intensificare il conflitto in corso in Iraq e in Siria, lanciato ufficialmente per sconfiggere i militanti dello Stato Islamico (ISIS). Secondo quanto riportato lunedì dal Wall Street Journal, i due paesi alleati avrebbero appianato quasi tutte le divergenze in merito alla nuova guerra in Medio Oriente, essendo ormai vicini a un accordo che, in cambio dell’accesso a basi militari in territorio turco da parte americana, prevede un’iniziativa fin qui sempre respinta dall’amministrazione Obama e che rappresenterebbe poco meno di un’aperta dichiarazione di guerra al regime di Damasco.

La misura, richiesta dal governo del presidente Erdogan, consiste nella creazione di una sorta di area-cuscinetto in Siria nei pressi del confine settentrionale con la Turchia. Questa zona verrebbe controllata dai militari di Ankara e protetta dalla forza bellica statunitense, così da costituire un rifugio sicuro per l’impalpabile opposizione filo-occidentale anti-Assad, esposta agli attacchi del regime e dell’ISIS. Per la versione ufficiale, la zona-cuscinetto dovrebbe servire anche a garantire il flusso indistrurbato di aiuti “umanitari” dalla Turchia agli stessi “ribelli” siriani considerati affidabili.

In realtà, è la creazione di una “no-fly zone” nel nord della Siria per cui il governo di Erdogan e del premier Davutoglu spinge da tempo, nel tentativo di condurre un assalto diretto contro il regime di Assad per risolvere la crisi interna causata dalla propria stessa condotta. Washington, però, ritiene una simile iniziativa troppo rischiosa, almeno per il momento, visto che, oltre a smascherare definitivamente le vere intenzioni americane nel conflitto contro l’ISIS, accelererebbe lo scontro diretto con Damasco.

Inoltre, una dichiarazione di guerra contro la Siria metterebbe a repentaglio la collaborazione con l’Iran attorno al programma nucleare di Teheran e, soprattutto, nell’ambito della battaglia contro l’ISIS sul fronte iracheno.

L’istituzione di una zona-cuscinetto, secondo le fonti citate dal Journal, a differenza di una “no-fly zone” non richiederebbe il bombardamento e la distruzione dei sistemi anti-aerei siriani, ma si limiterebbe a rappresentare “un tacito segnale al regime di evitare di inoltrarsi nell’area in questione se non a rischio di ritorsioni”.

Nel concreto, in ogni caso, anche la misura allo studio a Washington dopo una lunga serie di vertici bilaterali in Turchia, tra cui la recente visita del vice-presidente Biden, ammonterebbe a una dichiarazione di guerra nei confronti della Siria. Questa realtà appare del tutto evidente nonostante l’iniziativa sia stata battezzata col nome apparentemente inoffensivo di “zona di esclusione al volo”.

Una decisione finale sulla zona-cuscinetto oltre il confine turco dovrebbe comunque farsi attendere ancora qualche settimana, poiché essa sembra essere tutt’altro che condivisa oltreoceano e i possibili punti d’intesa tra Washington e Ankara sono iniziati a essere discussi all’interno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca solo qualche giorno fa.

Sia per Washington sia per Ankara appare evidente come l’accordo allo studio, rivelato dal Wall Street Journal, comporti il rischio concreto di aggravare la guerra in atto. Che le conseguenze della creazione di una “zona di esclusione al volo” possano essere difficili da contenere si può dedurre anche da una delle condizioni previste, secondo la quale la Turchia potrebbe dispiegare un proprio contingente militare direttamente in territorio siriano.

Le truppe turche, come scrive assurdamente il Journal, avrebbero il compito principale di “aiutare a identificare i bersagli legati allo Stato Islamico” da colpire con i bombardamenti della “coalizione”. In realtà, la zona-cuscinetto in territorio siriano non sarebbe altro che un modo per stabilire una presenza militare in questo paese come trampolino di lancio per un’offensiva contro Damasco con il contributo delle formazioni “ribelli”.

L’eventuale e legittimo tentativo da parte di Assad di liberare il proprio paese da una presenza straniera illegittima e illegale verrebbe inoltre utilizzato come pretesto per colpire direttamente le forze del regime, in primo luogo proprio con l’istituzione di una “no-fly zone”.

Queste ultime rivelazioni si sono accompagnate alla descrizione delle divisioni che persistono all’interno dell’amministrazione Obama circa l’indirizzo da dare alla guerra in Siria. Il licenziamento del segretario alla Difesa, Chuck Hagel, con ogni probabilità anche per avere manifestato perplessità in merito alle decisioni della Casa Bianca sulla Siria, non ha insomma prodotto finora una visione univoca degli eventi a Washington.

Come ha affermato un anonimo ex funzionario del Pentagono in un’intervista all’agenzia di stampa Bloomberg, d’altra parte, “non è possibile creare una zona di esclusione al volo senza entrare in conflitto con il regime” di Assad. In molti nel governo USA temono infatti che l’accettazione, sia pure parziale, delle richieste turche possa far precipitare gli eventi in Siria, aggiungendo in maniera definitiva questo paese ai cosiddetti “failed states” - come Afghanistan, Iraq e Libia - oggetto degli interventi “umanitari” americani nel recente passato.

Il crollo del regime a Damasco, poi, anche se è di fatto il vero obiettivo americano della guerra all’ISIS, si tradurrebbe in un salto nel vuoto per la Siria, creando una realtà nella quale l’asse della resistenza anti-USA e anti-sunnita (con Iran e Hezbollah in Libano) verrebbe sì fortemente indebolito ma producendo una fortissima incognita riguardo al nuovo regime che finirebbe per installarsi, con tutte le conseguenze del caso sul fronte degli equilibri strategici in Medio Oriente.

Se gli USA desiderano insomma non meno della Turchia la fine di Assad, le differenze sono di natura strategica e riguardano la scelta delle modalità che permettano di conciliare i rispettivi interessi con il raggiungimento dell’obiettivo finale.

Gli americani ritengono principalmente che il lavoro sporco in Siria debba essere delegato a terzi, con le proprie forze armate a svolgere tutt’al più compiti di assistenza, ma allo stesso tempo si rendono conto dell’impossibilità di contare su un’opposizione “moderata” che sia in grado di abbattere il regime e garantirne uno nuovo che assicuri stabilità e obbedienza all’Occidente.

In questa situazione, Washington si trova a non disporre di un’adeguata strategia che consenta la realizzazione coerente delle proprie politiche imperialistiche, finendo così per soccombere alle lacerazioni interne alla sua classe dirigente e lasciandosi trascinare pericolosamente in un maggiore coinvolgimento nel conflitto sulla spinta di alleati come Turchia, Arabia Saudita, Qatar o Emirati Arabi, per nulla interessati alle aspirazioni della popolazione siriana ma ben intenzionati a rovesciare con ogni mezzo il nemico che governa a Damasco.

Lo scivolamento verso una guerra sempre più complessa e sanguinosa, così come le contraddizioni in cui continua a dibattersi Washington, è in definitiva il risultato delle decisioni prese negli ultimi anni dall’amministrazione Obama per forzare il cambio di regime in Siria.

Un obiettivo, quest’ultimo, impossibile da confessare ma perseguito senza sosta, a costo di far salire vertiginosamente il bilancio delle vittime innocenti, di destabilizzare ancor più la regione mediorientale e di favorire l’ascesa di forze fondamentaliste ormai fuori controllo.

di Emanuela Muzzi

LONDRA. Se nell’immaginario collettivo del comune cittadino europeo, gli inglesi sono simbolo di self control e razionalità, allora vuol dire che gli inglesi non sono più europei. Almeno a giudicare da chi li rappresenta al momento. Prendiamo il recente discorso di Cameron sull’immigrazione, ad esempio. C’è un punto che, nell’elenco di proposte elettorali anti-immigrazione, colpisce non solo il senso comune ma anche il buon senso di chi si definisca europeo.

Il punto prevede il rimpatrio degli immigrati europei che non abbiano trovato lavoro in Gran Bretagna entro sei mesi. Adesso, che Cameron sia in competizione con l’estrema destra di Farage è chiaro, ma non avremmo mai creduto che si spingesse a tanto.

I rimpatri di normali cittadini di paesi dell’Unione è fuori da qualsiasi parametro legale e logico. A meno ché non si voglia fare carta straccia di Schengen. Per mantenere  la propria credibilità a livello politico, sia nazionale che internazionale, il Primo ministro Tory dovrebbe presentare la proposta direttamente a Bruxelles dopo una discussione con i partner Europei: primi tra tutti Germania e Italia.

Sono questi i due paesi che Cameron ha chiamato in causa nel discorso di venerdì 30 Novembre: “L’Italia sta affrontando il grave problema dell’immigrazione dal nord Africa...La Germania ha molti più immigrati dai paesi europei che del Regno Unito. Ma la Germania è in una situazione diversa, lì la popolazione è in diminuzione, qui è in aumento”.

Dalla preoccupazione per la minaccia del terrorismo a quella demografica, a quella per il welfare e per la disoccupazione, ci sono una miriade di motivi per i Conservatives per fare dell’immigrazione il primo problema nazionale.

Se da una parte non si può e non si deve negare l’impatto dei flussi migratori, dall’altra non si possono trasformare questi ultimi nello slogan elettorale da sbandierare fino al prossimo maggio solo perché se si ricordasse invece all’elettorato inglese che si sta smantellando la sanità pubblica, il sistema della difesa, e il sistema dell’accesso ai benefits anche degli stessi cittadini britannici, i Tories non prenderebbero un voto.

Forse Cameron ovrebbe fare una gita a Bruxelles. Il monito di Barroso del resto non era sbagliato riguardo al fatto che la Gran Bretagna sulla possibilità del ‘Brexit’ sta facendo un errore storico. Sinceramente, la chiara sensazione di chi in Gran Bretagna ci vive da anni e con gli inglesi ci vive e ci parla, sia al lavoro che al pub, la sensazione comune è che sì, è vero gli inglesi temono una ‘massive immigration’ dall’Europa dell’Est, ma non ne fanno un problema primario.

C’è in questo senso il rischio da parte dei politici di perdere il contatto con il paese con l’intenzione e l’arroganza di stabilire la cosiddetta ‘agenda setting’ ovvero le issues di cui la gente ‘deve parlare’.

Il discorso del Primo Ministro britannico ha fatto un effetto negativo, sia all’estero che ‘in casa’. Sembra un paradosso che mentre oltreoceano Obama apre simbolicamente le porte a milioni di immigrati clandestini, i cugini nella vecchia Europa si dibattano come un topo in trappola alla ricerca del tempo perduto, di un benessere conosciuto trent’anni fa che forse non potrà più tornare.

Perché la verità, in fondo, è che il risorgere del nazionalismo e della xenofobia che sono l’eredità più pericolosa della crisi finanziaria, sono la proiezione politica del bisogno delle nuove generazioni di tornare al benessere del secondo dopoguerra conosciuto attraverso la famiglia d’origine. Accade in Gran Bretagna come in Italia del resto.

di Fabrizio Casari

Le recenti elezioni di mid term che hanno consegnato ai Repubblicani il controllo del Senato e rinforzato quello sul Congresso, sembrano aver ulteriormente complicato la politica di Barak Obama. Le contraddizioni di una leadership tutt’altro che autorevole, che non riesce a disegnare una strategia chiara per la regione mediorientale e l’Asia minore, in difficoltà a chiudere l’accordo sul nucleare con l’Iran e ambigua nel decidere come impegnarsi in Afghanistan e Siria, sembrano essere la cifra di una presidenza che pare avviata ad una fine mandato irta di scogli difficili da superare.

Il recente licenziamento del Segretario alla Difesa Hagel, di per sé non certo una consuetudine nella politica statunitense, indica le difficoltà a disegnare una politica estera e militare (due facce della stessa medaglia) da parte della Casa Bianca, ormai prigioniera delle logiche dell’impero e dall’esaurimento di credibilità riformatrice del suo presidente.

Se non ci si vuole rassegnare alla narrazione propagandistica della politica statunitense, che racconta di un portatore sano di democrazia e baluardo di valori e diritti, occupato a garantire la sicurezza del mondo, si può constatare come la realtà sia molto diversa. Quanto avviene in Iraq e Siria dice che Obama sembra prigioniero di una storica dualità tipica dell’impero USA. Quella di combattere l’estremismo islamico a parole mentre lo si sostiene nei fatti.

Due forni e due tempi: quello del sostegno organizzativo per costituire utili armate da impiegare nella scacchiera internazionale contro i suoi avversari, salvo trasformarle poi in utilissimo nemico quando le milizie si sganciano dall’orbita statunitense e non servono più a perseguire gli obiettivi di politica estera di Washington. In entrambe le circostanze gli armati svolgono un ruolo importante: nel primo caso, dove conducono guerre per procura, sostituiscono l’impegno diretto di Washington che comunque s’intesta la dimensione politica dei conflitti, utilizzandoli come clava e monito. Nel secondo caso, gli armati e le loro operazioni divengono la principale giustificazione ad un ingaggio degli USA nelle nuove guerre, con il risultato di rimettere in moto l’industria bellica e i suoi apparati di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per sostenere la loro economia interna e la loro leadership internazionale. Sono ormai diversi i casi di alleati di un tempo divenuti nemici in un secondo tempo, da Manuel Noriega a Panama fino a Saddam Hussein in Iraq, da Osama bin Ladin fino ad Al Baghdadi. La storia si ripete e le vicende attuali sembrano confermarlo.

In Siria, come in Iraq, nelle file dei tagliatori di teste che usano l’Islam per spiegare la loro criminale frustrazione, oltre alle componenti sunnite giunte da diversi paesi grazie ai soldi del Qatar e all’aiuto dell’Arabia Saudita, combattono anche uomini che provengono dai Balcani. In particolare da Kosovo e Bosnia, ma anche dalla Macedonia. Per non parlare di quanti ne arrivano dalla Cecenia. Alcuni di essi, stando a quanto riferiscono le indagini, hanno lavorato addirittura in basi statunitensi, che ormai sono ovunque a garantire che la destabilizzazione ad uso e convenienza del primato del dollaro sia ovunque.

Dall’Afghanistan al Pakistan, dallo Yemen alla Somalia, dalla Bosnia Erzegovina al Kosovo, dalla Libia fino alla stessa Siria, le truppe dell’orrore si sono formate dagli anni ’80 ad oggi in ragione e forza delle guerre scatenate dagli Stati Uniti con l’accodamento servile e puntuale dell’Europa.

Gli Stati Uniti si dicono in prima fila contro il terrorismo islamico, ma è un falso storico, propaganda allo stato puro, occultamento delle verità storiche e delle responsabilità politiche. Sono infatti gli Stati Uniti che finanziarono, addestrarono e diressero i mujaheddin che combatterono contro l’invasione russa dell’Afghanistan e che, nel 1996, si unirono ai Talebani permettendo la conquista del paese. E sono gli stessi Stati Uniti che, nella guerra dei Balcani, si adoperarono in ogni modo per sostenere i musulmani della Bosnia Erzegovina, così come anni dopo aiutarono clandestinamente i musulmani ceceni.

Nella logica dello scontro con l’Unione Sovietica prima e con la Russia poi, Washington costruì con denaro e assistenza militare quasi tutti i reparti militari che oggi combattono, perlomeno a livello di linee di comando. Washington non è innocente: volle lo smembramento della ex-Jugoslavia in quanto retroterra determinante per la sicurezza russa e, quindi, ostacolo da superare per allargare ad Est la NATO ed estendere così il controllo militare degli Stati Uniti sull’Europa orientale.

Con gli integralisti islamici gli Stati Uniti hanno sempre lanciato moniti pubblici mentre tessevano buonissime relazioni e accordi inconfessabili sotto il tavolo. Con gli ayatollah iraniani, in pieno embargo e assenza delle relazioni diplomatiche, gli Stati Uniti organizzarono il traffico d’armi destinato ai Contras in Nicaragua, le truppe terroriste che Washington addestrava e finanziava in funzione antisandinista.

Nell’area del Golfo Persico va ricordato che la famiglia di Osama bin Ladin è stata per anni partner commerciale e politico del Pentagono e che lo stesso, inserito nei quadri irregolari della CIA, iniziò la costruzione della sua Al-Queda con la benedizione politica statunitense, il denaro  dell’Arabia Saudita e la collaborazione attiva dei servizi segreti pakistani, da sempre paese alleato degli USA. Si costruì il mostro pur di combattere il nemico. E dunque perché stupirsi oggi dell’irriducibilità dell’Isis che da Al-Queda proviene? Come ebbe a dire Hillary Clinton, “non puoi tenere serpenti nel giardino e poi sperare che mordano solo i tuoi nemici”.

Sono proprio le ripercussioni delle due guerre nel Golfo e delle cosiddette “primavere arabe” che segnano l’aggiornamento della strategia statunitense in Medio Oriente. Le primavere arabe, che pure hanno avuto elementi decisivi endogeni, esplosero perché abilmente sollecitate dall’esterno. Le gravi responsabilità dei regimi di Egitto, Libia, Siria ed altri hanno certamente contribuito in misura determinante alle rivolte, che hanno però trovato la benzina che le ha alimentate generosamente offerta dallo Zio Sam e da Ryad.

Non ovunque però “il virus della democrazia” attecchì: in Barheim le proteste vennero represse nel sangue ed il regime restò in sella, ma lì gli interessi sauditi e americani imposero il silenzio. Idem in Giordania, dove l’interesse strategico di Israele per la monarchia giordana impedì che la protesta trovasse aiuti e sostegno politico dall’Occidente, con il risultato che il tentativo morì sul nascere.

Invece nei paesi un tempo membri del “Fronte del rifiuto” e ancora governati dal partito Baath ad ispirazione panarabista, le cose andarono diversamente e l’Occidente soffiò sul fuoco dell’islamismo. Non furono forse gli Stati Uniti che  sostennero i Fratelli Musulmani in Egitto, poi abbandonati su pressione di Israele per l’appoggio logistico ad Hamas a Gaza? E non furono gli Stati Uniti che misero il peso politico decisivo per deporre Gheddafi e consegnare la Libia alle tribù islamiste della Cirenaica? E non furono sempre gli Stati Uniti a decidere la guerra alla Siria, soffiando sul fuoco della follia sunnita e tentando di deporre con la forza Assad, grazie anche all’aiuto dell’alleato turco, che attraverso la frontiera con la Siria fa transitare armi e mezzi per i guerriglieri sunniti?

Certo, Erdogan ha il suo interesse nel far virare la Turchia verso l’islamizzazione, anche come risposta al sacrosanto rifiuto dell’Europa ad accogliere Ankara nella Ue. Ma davvero un paese membro della Nato, così militarmente ed economicamente legato agli USA avrebbe messo in campo i suoi servizi e la sua aviazione senza che da Washington fosse giunto il via libera? Più credibilmente, Erdogan esegue il lavoro sporco che Obama non può fare.

Molti osservatori statunitensi ritengono che la strategia messa a punto da Obama per le primavere arabe abbia fallito, che la Casa Bianca sia ostaggio della sua politica confusa. Ma se per la pace in Medio Oriente è senz’altro così, per gli interessi statunitensi il discorso cambia. Nonostante la narrazione favolistica sui diritti umani e sull’anelare alla democrazia da parte di popoli che non l’hanno mai nemmeno conosciuta, cosa sono state, a consuntivo, le cosiddette “primavere arabe” se non il disarcionare con la forza i regimi laici non completamente disponibili ad accettare il nuovo comando saudita e salafita voluto da Ryad e Doha e sostenuto da Washington e Tel Aviv?

Dal punto di vista USA le primavere arabe non sono affatto state inutili. Lungi dall’iniettare democrazia, esse avevano lo scopo di disegnare una mappa completamente diversa dell’area e rispondevano alle esigenze di espansionismo politico di Ryad e Doha; in qualche modo l’obiettivo è stato raggiunto. Le monarchie saudite, infatti, ritengono sia arrivato il momento di giocare un ruolo di direzione politica nell’area, convinti che le ricchezze di cui dispongono e lo stretto legame con Washington siano armi decisive nella lotta per il dominio politico della regione.

Ma non tutto è semplice e l’innescarsi del conflitto interreligioso apre scenari difficili da valutare una volta e per tutte. C’è da fare i conti con l’Iran e con la divergenza d’interessi che esso determina tra gli USA e i suoi alleati; Washington, che comunque ritiene di non dover lasciare troppo spazio ai sauditi, anche solo in funzione di limitazione delle loro ambizioni ha bisogno di un accordo con gli Ayatollah, cui magari delegare anche la soluzione del problema ISIS. Ma a Ryad e a Doha, così come a Tel Aviv, le cose vengono viste con molta preoccupazione e le rassicurazioni statunitensi non sono evidentemente ritenute sufficienti. E' notorio che senza la protezione americana la famiglia reale saudita e tutti gli emiri del Golfo non durerebbero una settimana di fronte ad una resa dei conti con l’Iran.

Se salafiti e wahabbiti vogliono controllare il Golfo Persico, non possono non tener conto della forza degli sciiti al potere a Teheran. Impossibile ignorare il peso di una potenza regionale e, benché il regime iraniano sia in parte scosso dalle spinte verso un almeno parziale ma urgente processo riformatore, il suo peso politico, militare e religioso resta rilevante.

Per questo risulta così difficile il raggiungimento di un accordo a Vienna sul nucleare: gli interessi diretti di Washington da un lato e di Ryad e Tel Aviv dall’altro configgono, ma gli USA, che pure vogliono ricucire con l'Iran, non possono permettersi d’ignorare le esigenze dei loro alleati.

D’altra parte la destabilizzazione permanente del Medio Oriente come dell’Est Europa è sempre stato e ancor più è diventato oggi, di fronte alla crisi della leadership statunitense, l’elemento decisivo per il mantenimento di una presenza militare diretta e indiretta.

Il messaggio era ed è chiaro: per quanto la nostra economia possa essere in difficoltà, per quanto la nostra leadership non sia più incontestabile, sebbene altre aggregazioni di paesi emergenti, di grande peso demografico e con grandi prospettive socioeconomiche, possano ergersi a partner possibili della governance globale, sono sempre e solo gli Stati Uniti che dominano il pianeta grazie alla forza militare ed al vassallaggio dei loro alleati.

Il mondo è certamente un luogo pericoloso, ma il mantenimento del comando unipolare non può essere messo in discussione; dove succede, la destabilizzazione interna e l’aggressione esterna saranno i passi che gli USA muoveranno a difesa della loro supremazia, condizione necessaria nella battaglia globale per la difesa dei propri interessi.


di Mario Lombardo

Mentre sono entrate nella terza notte consecutiva le proteste contro il verdetto che ha scagionato un ufficiale di polizia di Ferguson, nel Missouri, per l’uccisione di un 18enne di colore disarmato lo scorso agosto, le notizie emerse sulla decisione dell’apposito “grand jury” hanno confermato come l’intero procedimento giudiziario sia stato nient’altro che una farsa orchestrata dalle autorità locali con l’appoggio del governo di Washington.

Il procuratore della contea di St. Louis incaricato del caso, Robert McCulloch, aveva annunciato già nella serata di lunedì la pubblicazione dei documenti relativi alle udienze dello stesso grand jury per dimostrare, a suo dire, la correttezza del procedimento e l’inevitabilità della sua conclusione senza l’incriminazione dell’agente Darren Wilson.

Le trascrizioni, in realtà, hanno evidenziato un chiaro pregiudizio da parte dell’accusa a favore del responsabile dell’omicidio. In primo luogo, è stata la deposizione di Wilson a risultare decisiva nel verdetto emesso dai giurati. Tutti i testimoni che avevano raccontato i fatti del 9 agosto scorso in un modo che si discostava dalla versione di Wilson sono stati inoltre affrontati in maniera aggressiva dagli uomini dello staff del procuratore McCulloch, ben intenzionati a rilevare ogni possibile contraddizione.

La testimonianza del poliziotto è stata invece accolta praticamente senza obiezioni da parte dell’accusa, la quale è sembrata spesso incanalare la deposizione in maniera tale da favorire la tesi dell’auto-difesa.

McCulloch, inoltre, ha giudicato maggiormente credibili quelle testimonianze che supportavano l’innocenza di Wilson – poiché compatibili con le presunte “evidenze fisiche” - bollando al contrario come inconsistenti o prive di riscontri quelle, sia pure numerose, che hanno descritto l’atteggiamento del 18enne Michael Brown tutt’altro che minaccioso nei confronti dell’agente di polizia.

Nel complesso, il dibattimento di fronte al grand jury è sembrato risolversi, grazie agli sforzi degli uomini del procuratore, in una sorta di processo ai danni della vittima e non del suo assassino.

Tutto ciò ha rafforzato i sospetti che si erano concentrati sul procuratore McCulloch fin dallo scorso agosto, poiché il suo atteggiamento aveva rivelato da subito il tentativo di evitare un’incriminazione anche di fronte al dilagare delle manifestazioni popolari nelle strade di Ferguson.

Per cominciare, la stessa decisione presa da McCulloch di non arrestare Darren Wilson ma di rimettere la sorte di quest’ultimo al giudizio di un grand jury era stata criticata da molti. Tanto più che, insolitamente, il procuratore non aveva raccomandato ai giurati di contestare al poliziotto nessuna accusa specifica.

McCulloch, peraltro, dopo l’avvio delle indagini era finito al centro di un’accesa polemica, con i rappresentanti della comunità nera di Ferguson che gli avevano chiesto di ricusare se stesso nel caso di Michael Brown, visti i suoi legami con la polizia e per il fatto che suo padre, egli stesso un agente, era stato ucciso in servizio da un afro-americano.

L’atteggiamento dell’ufficio del procuratore è stato così determinante per il destino di Darren Wilson, dal momento che, come hanno ricordato molti giornali americani in questi giorni, le decisioni dei grand jury vengono tradizionalmente pilotate dall’accusa e riflettono perciò la volontà di quest’ultima in relazione ai casi in esame.

Come hanno spiegato i legali della famiglia Brown, in altre parole, se il procuratore “presenta [al grand jury] prove per ottenere un’incriminazione, si ottiene un’incriminazione”, mentre “se vengono presentate prove per evitare un’incriminazione, non si ottiene un’incriminazione”.

La parodia della giustizia andata in scena nel Missouri è dunque evidente, soprattutto perché la decisione del grand jury non riguardava in nessun modo l’eventuale colpevolezza di Darren Wilson, ma unicamente l’opportunità di aprire un procedimento giudiziario nei suoi confronti, ovvero un processo nel quale le prove e le testimonianze circa l’uccisione di Michael Brown sarebbero state dibattute pubblicamente.

Alla luce delle prove e delle testimonianze contro Wilson o, quanto meno, dei resoconti contraddittori dell’uccisione del giovane afro-americano, è più che ragionevole ritenere che le condizioni per l’istruzione di un processo fossero interamente presenti.

Per questa ragione, visto anche il livello di rabbia manifestato dalla popolazione di Ferguson e non solo dopo i fatti del 9 agosto, così come le pressioni popolari nei confronti della classe dirigente dello stato del Missouri per ottenere giustizia nell’ennesimo caso di violenza della polizia contro un civile disarmato, la decisione del grand jury meriterebbe una profonda riflessione.

Lo scagionamento di Darren Wilson è infatti ancora più significativo se si considera che un eventuale processo, se pure avesse contribuito a calmare gli animi tra la popolazione, avrebbe potuto tranquillamente risolversi ancora nel proscioglimento dell’agente di polizia, vista l’attitudine dell’accusa.

Ciononostante, l’intero procedimento messo in piedi dopo la morte del 18enne di colore ha avuto il preciso scopo di salvare Wilson dall’incriminazione per qualsiasi genere di reato, anche di una gravità relativamente trascurabile.

Quello che è accaduto a Ferguson sembra essere quindi legato a uno scenario più ampio che, negli Stati Uniti, vede gli ultimi anni caratterizzati da un crescente livello di violenza gratuita delle forze dell’ordine contro gli appartenenti alle classi più disagiate – preferibilmente di colore - di fronte all’inasprirsi del conflitto sociale causato dal peggioramento delle condizioni economiche generali.

La linea dura dello stato del Missouri, con l’assenso di Washington, risponde in sostanza a una logica che vede la classe dirigente d’oltreoceano ricorrere sempre più spesso a metodi da regime dittatoriale, all’interno del quale qualsiasi concessione alle classi subalterne - in questo caso, l’incriminazione di un poliziotto omicida - risulta inconcepibile.

Non a caso, pur mancando statistiche ufficiali sulla violenza della polizia, processi e condanne per agenti responsabili della morte di civili innocenti sono eventi più unici che rari, mentre non viene persa una sola occasione per criminalizzare le proteste pacifiche, da fronteggiare puntualmente con la mano pesante, che spesso seguono gli omicidi.

Collegato a tutto questo vi è poi la gestione in maniera profondamente anti-democratica della vicenda di Ferguson da parte delle autorità locali. In previsione di un verdetto da parte del grand jury che ci si aspettava favorevole a Wilson, ad esempio, il governatore democratico del Missouri, Jay Nixon, aveva imposto lo stato di emergenza preventivo, accompagnato dal dispiegamento di migliaia di uomini della Guardia Nazionale.

Inevitabilmente, come era accaduto dopo l’uccisione di Michael Brown ad agosto, l’annuncio della decisione del grand jury ha scatenato le proteste non solo a Ferguson ma in moltissime altre città degli Stati Uniti, dove le forze di polizia hanno frequentemente accolto in assetto da guerra manifestanti in larga misura pacifici.

La vicenda di Ferguson e il radicalizzarsi dello scontro sociale in America sono visti in ogni caso con crescente appresione da molti all’interno della classe dirigente, come confermano vari commenti critici circa la gestione del caso Brown-Wilson apparsi sui principali giornali USA.

Il timore, in sostanza, è che l’impunità garantita alla polizia contribuisca a screditare ancor più le strutture del potere, mostrando a un numero sempre maggiore di americani la reale natura dell’attuale sistema, manipolato cioè per favorire le élite e proteggere i loro guardiani delle forze dell’ordine, con il rischio di alimentare ulteriormente il malcontento se non l’aperta rivolta.

Per questa ragione, media ufficiali e uomini politici si sono adoperati nei giorni scorsi per cercare di calmare gli animi e, soprattutto, ricondurre le ragioni delle tensioni sociali a una questione puramente razziale, svincolata dal fattore principale, anche se innominabile nel panorama “mainstream” americano, che rimane quello di classe e delle colossali disuguaglianze sociali.

Lo stesso Obama, nell’annunciare la prosecuzione di un’inutile indagine federale del Dipartimento di Giustizia contro Darren Wilson ed esprimendo cinicamente una certa simpatia per gli abitanti di Ferguson che chiedevano giustizia, ha infatti lasciato intendere che il nodo principale da risolvere nella società americana sarebbe legato non ai rapporti economici ormai insostenibili, bensì ai rimanenti problemi causati dai rapporti razziali.

di Michele Paris

Il licenziamento del Segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel, da parte del presidente Obama ha fatto emergere questa settimana la profonda crisi nella quale continua a dibattersi l’amministrazione democratica sul fronte della politica estera e della “sicurezza nazionale”. L’elenco delle ragioni immediate riportate dalla stampa negli Stati Uniti per il più recente rimpasto di governo, ha visto invariabilmente al primo posto la difficoltà dell’ex senatore repubblicano a connettersi con la Casa Bianca e il potente Consiglio per la Sicurezza Nazionale, nonchè una serie di incomprensioni registrate con i membri più importanti dello stesso staff presidenziale.

Dell’amicizia nata al Senato tra Obama e Hagel non si è vista in ogni caso traccia nella conferenza stampa di lunedì sera per annunciare le dimissioni del numero uno del Pentagono. Quest’ultimo è apparso irrigidito e attento a evitare lo sguardo di un presidente che, nonostante il benservito, ha riempito di inutili elogi l’ex collega e amico.

Secondo i resoconti della stampa, la rimozione di Hagel sarebbe stata “concordata” nel corso di dicussioni avvenute nelle ultime due settimane, durante le quali le tensioni all’interno dell’amministrazione, così come le crescenti contraddizioni, sono esplose in tutta la loro portata.

Da tempo, d’altra parte, Hagel veniva descritto come assente o distaccato quando partecipava alle riunioni dei vertici del governo USA, lasciando intendere sia una certa disconnessione con i veri centri decisionali dell’amministrazione Obama sia una carenza in termini di controllo e fiducia tra i suoi presunti sottoposti, cioè i vertici militari.

La mancanza di esperienza diretta nelle questioni del Pentagono potrebbe avere poi acuito l’incapacità o l’impossibilità da parte di Hagel di penetrare la cerchia di consiglieri e assistenti vari della Casa Bianca sulla quale si basa il processo decisionale di Obama.

Questo conflitto era diventato di dominio pubblico qualche settimana fa, quando Hagel in maniera insolita aveva indirizzato una lettera alla Casa Bianca per criticare il Consiglio per la Sicurezza Nazionale, presieduto dalla fedelissima del presidente, Susan Rice, circa la mancanza di una politica coerente sull’Iraq e, soprattutto, sulla Siria e la sorte del suo presidente, Bashar al-Assad.

I punti su cui Hagel e la Casa Bianca hanno avuto opinioni divergenti potrebbero essere molti altri, dal Medio Oriente all’Ucraina all’Estremo Oriente, anche se la segretezza del processo di avvicendamento al Pentagono rende per il momento difficile un’analisi precisa delle ragioni che l’hanno messo in moto.

Hagel, inoltre, sembrava essere sempre più lontano anche dai militari, forse anche per la sua scarsa combattività, rispetto ai due predecessori, Robert Gates e Leon Panetta, attorno alle questioni del budget. Il bilancio del Pentagono, infatti, pur rimanendo oggettivamente enorme, è stato ridotto in maniera relativamente sensibile, così che le risorse a disposizione faticano a tenere il passo del crescente sforzo militare americano nel pianeta.

La sfiducia dei vertici militari e la freddezza della Casa Bianca nei confronti del segretario alla Difesa erano state così simbolizzate nei mesi scorsi dalla presenza accanto a Hagel, in varie conferenze stampa ed eventi pubblici, del capo di Stato Maggiore, generale Martin Dempsey, sempre più nelle grazie della Casa Bianca, al contrario del suo diretto superiore nominale.

Al di là delle speculazioni o delle attitudini personali del segretario alla Difesa uscente, la chiave della brusca interruzione dell’avventura di Chuck Hagel alla guida del Pentagono dopo nemmeno due anni può essere intravista in due decisioni prese da Obama nelle ultime settimane e che implicano un nuovo aumento dell’impegno militare degli Stati Uniti nei teatri di guerra più caldi del pianeta.

La prima è stata resa nota dal New York Times nel fine settimana e riguarda l’espansione, rispetto a quanto annunciato in precedenza, dei compiti da assegnare al contingente militare USA che rimarrà in Afghanistan dopo il 31 dicembre 2014. La seconda, invece, è il raddoppio del numero dei soldati americani inviati in Iraq nell’ambito dello sforzo per combattere lo Stato Islamico (ISIS).

In sostanza, dunque, l’avvicendamento al Pentagono sembra segnare l’inaugurazione, se possibile, di una svolta caratterizzata ancor più dall’impegno bellico da parte statunitense. Un’interpretazione, questa, confermata da vari interventi di analisti e opinionisti apparsi in questi giorni sui media ufficiali negli Stati Uniti, assieme agli elogi per la rimozione di Hagel accompagnati da giudizi velenosi sull’incompetenza del team Obama, incapace di formulare una politica estera coerente per la promozione dell’imperialismo USA.

In questa prospettiva, è impossibile non ricordare quali fossero le posizioni attribuite a Hagel prima di iniziare un difficoltoso processo di conferma al Senato per la carica di segretario alla Difesa al principio del 2013. Pur non essendo esattamente una “colomba” sulle questioni di politica estera, Hagel poteva essere considerato a tutti gli effetti un “moderato”, se non altro per gli standard della politica americana odierna.

Le sue convinzioni possono perciò avere prodotto le divergenze già ricordate e quel senso di estraneità attribuito a Hagel nei confronti di una Casa Bianca il cui baricentro politico si è invece spostato sempre più verso destra, in buona parte sotto la spinta proprio dell’apparato militare e della sicurezza nazionale.

Ciò appare tanto più significativo e allo stesso tempo inquietante alla luce del fatto che lo stesso Hagel, almeno a detta del giudizio comune, era stato imbarcato nell’amministrazione Obama precisamente per il suo punto di vista sulle questioni internazionali. L’ex senatore del Nebraska, infatti, era stato scelto nonostante su di lui continuassero ad addensarsi le accuse, peraltro al limite dell’assurdo, di “pacifismo” e “anti-sionismo”.

La Casa Bianca sembrava avere accettato insomma una dura battaglia per la sua conferma al Senato proprio per avere all’interno del governo una personalità disposta a sostenere i presunti progetti del presidente per porre fine a uno stato di guerra perenne e produrre una politica estera basata sul dialogo e non sulle armi.

La progressiva divergenza dei punti di vista di Hagel e della Casa Bianca fino alla rottura del rapporto tra il numero uno del Pentagono e il presidente è stata alla fine determinata da fattori oggettivi strettamente legati all’evolversi della crisi irreversibile degli Stati Uniti come forza dominante sullo scacchiere internazionale, che hanno appunto prodotto a loro volta una nuova accelerazione delle politiche belliche di Washington, al di là delle intenzioni reali o presunte di Obama.

Come previsto, l’attenzione dei media si sta ora concentrando sul successore di Hagel alla guida della più formidabile macchina da guerra e di morte del pianeta. I nomi già emersi indicano candidati dalle caratteristiche diametralmente opposte a quelle del segretario uscente, sia per quanto riguarda l’esperienza all’interno del Pentagono sia in merito alle posizioni sull’impegno per la promozione degli interessi americani nel mondo.

Il nome più citato finora è quello dell’ex sottosegretaria alla Difesa, Michèle Flournoy, la quale, per la gioia della galassia “liberal” di Washington fissata con le questioni di genere, potrebbe essere la prima donna della storia a guidare il Pentagono.

Se il New York Times l’ha definita di tendenze “centriste” e sostenitrice di un atteggiamento americano “meno aggressivo” all’estero, la Flournoy ha contribuito alla revisione della strategia difensiva (bellica) americana avvenuta nel 2010, la quale prevedeva una maggiore preparazione dei militari per far fronte a minacce “più complesse”, in altre parole appoggiando un ruolo più incisivo delle forze armate USA per regolare i conflitti creati dall’imperialismo a stelle e strisce.

Michèle Flournoy era stata inoltre una convinta sostenitrice del cosiddetto “surge” deciso da Bush nel 2007, ovvero l’aumento delle truppe di occupazione americane in Iraq, mentre nel 2009 si sarebbe battuta per un numero maggiore di rinforzi da inviare in Afghanistan rispetto a quello stabilito da Obama. Per il Guardian, poi, un’eventuale nomina della Flournoy indicherebbe “una revisione dell’approccio USA nella guerra contro l’ISIS, probabilmente caratterizzato dalla riduzione delle restrizioni esistenti” circa i compiti di combattimento dei soldati americani dispiegati in Iraq.

Tra gli altri papabili alla successione di Hagel indicati dai media USA ci sarebbero infine anche l’ex vice-segretario alla Difesa, Ashton Carter, già responsabile dell’approvvigionamento di armi per il Pentagono, il senatore democratico del Rhode Island ed ex ufficiale dell’esercito, Jack Reed, l’attuale vice-segretario alla Difesa, Robert Work, e il segretario della Marina, Ray Mabus.


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