di Fabrizio Casari

Appare come una informale ma sostanziale dichiarazione di guerra al Venezuela, quella insita nel discorso che Barak Obama ha tenuto pochi giorni orsono. Il presidente statunitense, dopo aver lanciato accuse di vario genere e nessun senso al governo di Caracas, ha affermato come il Venezuela sia una “minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Il senso della misura e quello delle proporzioni difettano non poco al presidente USA, visto che in nessun momento il Venezuela ha minacciato gli Stati Uniti, mentre invece sono proprio gli Stati Uniti ad agire pubblicamente sul fronte politico, diplomatico e commerciale contro il Venezuela e, in forma coperta, con l’organizzazione e il finanziamento di ogni operazione di destabilizzazione del paese sudamericano.

Va ricordato che sono proprio gli Stati Uniti che hanno organizzato il colpo di stato poi sconfitto nel 2002 per spodestare Chavez e sono di nuovo e ancora loro ad aver organizzato il secondo tentativo di colpo di stato del Febbraio scorso, scoperto e smantellato dai servizi di intelligence del Venezuela. Quest’ultimo piano prevedeva il bombardamento del palazzo presidenziale di Miraflores e della sede del network latinoamericano Tele Sur, ma si è concluso con l’arresto dei congiurati e la publicizzazione del piano ordito dalla CIA e dall’opposizione di ultradestra.

E’ in qualche modo figlia di questa ennesima sconfitta della CIA la sortita colonialista di Barak Obama, che a fronte di misure unilaterali antivenezuelane ha dovuto incassare misure di reciprocità da parte di Caracas. In questo senso il discorsetto di Obama ha rappresentato l’ultima grave dimostrazione di come Washington cerchi con ogni mezzo di disfarsi del governo bolivariano, mettendo così in luce quali siano i reali intenti che si celano dietro la retorica dei diritti umani con la quale il loro inetto presidente ha riempito di guerre e colpi di stato tre continenti su cinque in soli sei anni, causando una destabilizzazione internazionale senza precedenti.

Ma sarebbe riduttivo imputare la sortita di Obama ad un regurgito neocolonialista; piuttosto va letto nel contesto del quadro politico venezuelano. La destra fascistoide venezuelana, sostenuta dalla Casa Bianca e dai paramilitari colombiani che rappresentano la mano armata di Washington nella regione, non riesce ad avere la meglio sul governo guidato da Nicolas Maduro e la sostanziale divisione interna dell’opposizione obbliga in qualche modo gli USA a forzare per una soluzione rapida benché cruenta.

Anche perché nonostante le oggettive difficoltà dell’Esecutivo a rimettere il Paese nella corsia di sorpasso, il consenso popolare con il governo Maduro resta alto. La crisi pesa moltissimo. La caduta per volontà statunitense del prezzo del petrolio ha inciso pesantemente nella bilancia commerciale del Venezuela, tra i primi esportatori di greggio al mondo. Inoltre, la patria di Bolivar e Chavez è fatta oggetto di una campagna internazionale speculativa e criminale, alla quale poi si sono sommati errori governativi da non occultare, ma le ultime misure adottate dal governo potrebbero davvero cominciare ad invertire la rotta e l’opposizione rischierebbe così di veder cadere nel vuoto gli appelli a cacciare i governo con l‘occupazione delle strade.

E’ una opposizione che cerca di riproporre la stagione delle “guarimbas” con le quali nel 2014 misero a ferro e fuoco buona parte del paese, lasciando un saldo pesante di morti e distruzioni, ai quali si sono aggiunti poi agguati mortali ad esponenti filogovernativi. Non era in nessun modo pensabile che il governo rimanesse a guardare e così è stato.

Le indagini della polizia e le risultanze delle inchieste della magistratura determinarono alcuni arresti, tra i quali quello di Leopoldo Lopez, autentico nazista a capo della frangia più estrema della destra, ma hanno anche prodotto una crisi interna all’opposizione che nella su quota maggioritaria ritiene l’idea della spallata in piazza al governo una pratica controproducente e destinata alla sconfitta. La stessa “mesa de dialogo”, nata su iniziativa vaticana e dell’Unasur, ha prodotto una divergenza strategica importante tra i diversi settori della destra.

Anche in seguito a questa divergenza, Leopoldo Lopez, che agisce in comproprietà con Maria Cristina Machado, il volto isterico dell’opposizione, non gode dell’appoggio politico di Enrique Capriles, uomo dell’imprenditoria e referente degli USA e della gerarchia ecclesiale, già candidato unico dell’opposizione contro Chavez prima e Maduro poi. Peraltro il tentativo di Lopez di assumere la leadership dell’opposizione non è gradito a Capriles, che ritiene le posizioni di Lopez indigeribili per buona parte della stessa opposizione al chavismo e considera lui e la Machado una via per la sconfitta sicura.

Non si tratta di divergenze superabili, di marciare divisi per colpire uniti: ci sono interessi e personaggi distinti e distanti che determinano le contraddizioni interne all’opposizione; non a caso l’ultimo appello per la cacciata del governo non ha visto le firme di Capriles a dei suoi. In questo stallo delle opposizioni e in questa tenuta del governo, gli Stati Uniti vedono il rischio che le misure adottate dal governo stabilizzino il paese e avvertono dunque il bisogno di agire subito. Come? Premendo sull’acceleratore dello scontro con Caracas, innescando un vero e proprio embargo di prodotti e delle attività finanziarie, nella speranza di determinare una rapida escalation della crisi e impedire che il governo Maduro possa - con le misure a sostegno dell’economia - portare il quadro economico del paese verso un netto miglioramento e garantirsi così il consenso elettorale alle elezioni previste per quest’anno.

L’innalzamento del Venezuela a “minaccia grave per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” non è però da sottovalutare e risponde anche ad una serie di obiettivi di politica interna del gigante del Nord. Una definizione di questa natura comporta, sotto il profilo legale, una maggiore libertà di azione per la Casa Bianca, che può rafforzare ulteriormente il sostegno di ogni tipo alle Covert Action della CIA contro il Venezuela.

Sul piano interno rappresenta il tentativo di recuperare il dialogo con i repubblicani, bruscamente interrotto dall’invito a Netanyahu al Senato e l’intenzione di offrire alla gusanerìa venezuelana negli USA un’interlocuzione diretta con la Casa Bianca che in qualche modo riequilibri lo strappo intervenuto tra l'Amministrazione Obama e comunità di latinoamericani residenti a seguito delle aperture a Cuba.

La solidarietà latinoamericana con il Venezuela non si è fatta attendere. Non solo Cuba, Nicaragua, Bolivia, Euador, Argentina, ma persino l’OEA, attraverso il suo segretario Jorge Insulza (non certo un amico di Caracas) hanno denunciato l’assurdità delle affermazioni di Obama e la grave ingerenza negli affari interni di un paese sovrano.

L’impressione diffusa è che la manifestazione di sindrome coloniale sia stata fine a se stessa, utile a sostenere misure restrittive contro dirigenti e capitali venezuelani altrimenti inspiegabili, ma c’è da dire che la capacità di Obama di trasformare in tragedia ogni dossier di politica estera spinge verso una estrema cautela e vigilanza.

Intanto, se l’intenzione di Obama era quella di intimorire il governo Maduro o allontanare il consenso popolare, il risultato è stato esattamente l’opposto, giacché sentirsi minacciati da un paese straniero ha rinvigorito il sentimento nazionalista diffusissimo nel paese, arrivando ad incrementare il consenso al governo. Se il tentativo era quello d’isolare Caracas la risposta è stata contundente: la prossima settimana l’Unasur si riunirà a livelli presidenziali per rigettare la provocazione statunitense.

Non a caso l’edizione di giovedì del New York Times, pure aveva esortato Obama a muoversi contro Caracas, ha duramente criticato il presidente, accusandolo di dilettantismo e di aver messo in moto un meccanismo che produrrà risultati opposti a quelli voluti. Praticamente un copione identico a quello recitato per 55 anni con Cuba, dal quale sembrava che Obama avesse imparato l’inutilità. Ma il riflesso di Pavlov è duro da curare.


di Michele Paris

Gli omicidi compiuti da agenti di polizia negli Stati Uniti continuano a susseguirsi a un ritmo vertiginoso, senza che praticamente nessuno dei responsabili sia oggetto di seri provvedimenti disciplinari nonostante le vittime risultino frequentemente disarmate e relativamente inoffensive. I casi più recenti sono stati registrati all’indomani della decisione presa dal Dipartimento di Giustizia americano - cioè dall’amministrazione Obama - di non incriminare formalmente l’agente Darren Wilson della polizia di Ferguson, responsabile dell’assassinio del 18enne di colore Michael Brown lo scorso mese di agosto.

Brown era disarmato al momento della sua morte e la vicenda aveva scatenato pacifiche manifestazioni di protesta nella cittadina del Missouri, puntualmente accolte dalla reazione violenta delle forze dell’ordine.

Nuove manifestazioni contro i metodi della polizia sono andate in scena mercoledì a Madison, nel Wisconsin, dove già un paio di giorni prima alcune centinaia di persone avevano occupato la sede del parlamento statale in seguito alla morte lo scorso venerdì del 19enne Tony Terrell Robinson.

La tragedia era avvenuta in seguito a una chiamata al 911 per segnalare la presenza di un uomo di colore che stava creando una situazione di potenziale pericolo lanciandosi nel traffico delle auto in corsa. Robinson era stato allora inseguito da un agente all’interno di un’abitazione, dove è poi avvenuto uno scontro che si è concluso con l’esplosione di colpi di arma da fuoco e con la morte del giovane disarmato dopo essere stato trasportato in ospedale.

Sempre venerdì scorso, in un sobborgo di Atlanta, in Georgia, è stato registrato un altro decesso per opera della polizia. Qui la vittima è stata identificata in Anthony Hill, 27enne con problemi mentali. L’uomo era un veterano dell’aviazione militare ed era conosciuto e apprezzato dagli abitanti del suo quartiere.

Anche in questo caso all’assassinio sono seguite proteste e richieste di chiarimenti da parte dei residenti della località di Chamblee, in particolare riguardo la possibilità del poliziotto responsabile di utilizzare metodi non letali per contrastare la presunta minaccia rappresentata da Hill.

L’uomo, in stato confusionale, aveva bussato alla porta di varie abitazioni ed era stato visto contorcersi sul terreno completamente nudo. All’arrivo della polizia, Hill si trovava in un parcheggio e, secondo la ricostruzione ufficiale, avrebbe cercato di aggredire un agente, il quale ha estratto la sua arma e ha fatto fuoco uccidendolo sul colpo.

Secondo alcuni testimoni citati dai giornali americani, invece, Hill è stato ucciso mentre aveva le mani alzate e non ci sarebbe stata alcuna minaccia di contatto fisico tra lui e l’agente di polizia. Per ammissione del dipartimento della contea di DeKalb, lo stesso agente era equipaggiato con strumenti alternativi per fermare un uomo evidentemente disarmato, incluso un “taser” e dello spray urticante.

La terza vittima registrata venerdì 6 marzo è stato un altro uomo di colore, Naeschylus Vinzant, 37 anni e residente a Aurora, nel Colorado. I dettagli della sua morte non sono del tutto chiari ma sarebbe stato colpito dal fuoco di una squadra di agenti dei corpi speciali (SWAT) con l’incarico di notificare all’uomo un ordine di arresto per rapina e sequestro di persona.

Per la portavoce della polizia di Aurora, Vinzant era “armato e pericoloso”, tuttavia non è stata in grado di descrivere il tipo di arma che avrebbe avuto con sé né le ragioni che hanno portato alla sua morte.

Questi e altri episodi hanno portato il totale dei decessi per mano della polizia negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno a ben 210, almeno secondo le statistiche raccolte dal sito web killedbypolice.net e che non fanno distinzione tra uccisioni “motivate” o per uso eccessivo della forza. Dall’uno all’11 marzo le morti sono state già 34, di cui 7 solo nel primo giorno del mese. La stessa fonte indica per l’anno 2014 un totale addirittura di 1.102 vittime della violenza della polizia USA, mentre dal primo maggio al 31 dicembre dell’anno precedente erano state 768.

Scorrendo l’elenco dei morti seguiti a un intervento della polizia appaiono innumerevoli i casi nei quali l’uso della forza appare chiaramente sproporzionato rispetto alla pericolosità della situazione. Sconcertante era stato ad esempio il caso di un senzatetto ucciso a Los Angeles il primo marzo scorso.

L’aggressione da parte di alcuni agenti di polizia ai danni di Charley Keunang, detto “Africa”, era stata ripresa da un video girato da un testimone e successivamente circolato in rete. “Africa” era stato prima ammanettato, poi scagliato a terra e colpito da una raffica di colpi di arma da fuoco.

Le indagini interne alla polizia sono ancora in corso, anche se la presenza di immagini molto chiare che descrivono l’accaduto non fanno sperare in un esito diverso dai precedenti casi, chiusi con lo scagionamento degli agenti responsabili.

Filmati girati dai testimoni di vari episodi di violenza non hanno infatti portato a nulla in passato, come nel caso di Eric Garner, un venditore abusivo di sigarette a Staten Island, New York, soffocato da un agente di polizia nel luglio dello scorso anno nel corso di un tentativo di arresto.

Un’altra ripresa di una telecamera di sorveglianza aveva poi mostrato nel mese di novembre la morte del 12enne Tamir Rice a Cleveland, nell’Ohio. Questa vicenda aveva causato parecchio scalpore non solo negli Stati Uniti. Il ragazzino di colore stava maneggiando una pistola giocattolo in un parco pubblico della città ed è stato ucciso esattamente un secondo dopo l’arrivo di un agente di polizia chiamato a intervenire con la propria auto di pattuglia.

Incredibilmente, nei documenti depositati in tribunale dalle autorità della città di Cleveland in risposta alla causa legale intentata dalla famiglia della vittima non solo veniva respinta qualsiasi responsabilità da parte della polizia, ma si sosteneva nero su bianco che lo stesso ragazzo di 12 anni era responsabile della propria morte. Tamir Rice, cioè, non aveva prestato “sufficiente attenzione al fine di evitare danni a suo carico” e, perciò, “i danni richiesti dalla sua famiglia erano stati causati dalle sue stesse azioni”, così che la città di Cleveland risulterebbe “legalmente immune” da ogni responsabilità.

I numerosissimi episodi di questo genere confermano dunque come la violenza molto spesso indiscriminata della polizia americana non sia dovuta alla semplice presenza di “mele marce” all’interno di alcuni dipartimenti del paese.

Questa versione viene propagandata dagli stessi vertici della polizia quando si verificano decessi come quelli descritti in precedenza, ma anche dall’amministrazione Obama, come è accaduto la scorsa settimana quando il Dipartimento di Giustizia ha diffuso un rapporto sugli abusi e gli eccessi del dipartimento di Ferguson, commessi soprattutto ai danni dei cittadini di colore.

Un fenomeno così diffuso e in aumento riflette in realtà una situazione sociale esplosiva negli Stati Uniti, per controllare la quale le forze dell’ordine ricorrono sempre più a metodi repressivi e sommari - sperimentati dai militari nelle avventure belliche oltreoceano - con la certezza che gli agenti responsabili saranno protetti da un sistema giudiziario fin troppo compiacente.

Le morti causate dalla polizia avvengono d’altra parte in larghissima maggioranza in località o quartieri degradati e popolati dalle classi più colpite dalla crisi economica e posizionate irrimediabilmente alla base di una piramide sociale che vede allontanarsi sempre più il proprio ristrettissimo vertice.

Il fattore razziale, infine, è indubbiamente da tenere in considerazione nell’analizzare gli assassini commessi dalla polizia, le cui vittime sono infatti prevalentemente di colore o ispanici. L’elemento più importare per comprendere l’ondata repressiva che vede protagoniste le forze dell’ordine americane rimane però un altro e molto meno discusso pubblicamente, vale a dire le colossali differenze di classe prodotte dalla crisi del capitalismo a stelle e strisce.

di Mario Lombardo

Con la stretta finale dei negoziati sul programma nucleare iraniano sempre più vicina, le divisioni all’interno della classe politica americana circa l’approccio da tenere nei confronti della Repubblica Islamica hanno fatto registrare questa settimana un ulteriore aggravamento in seguito a un’iniziativa con pochi precedenti presa lunedì da un gruppo di membri del Congresso di Washington.

47 senatori della maggioranza repubblicana hanno cioè indirizzato una lettera aperta alle autorità della Repubblica Islamica per avvertire che qualsiasi eventuale accordo dovesse uscire dai colloqui tra Teheran e i P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania) potrebbe avere validità soltanto finché il presidente Obama risiederà alla Casa Bianca.

L’iniziativa è stata promossa dal neo-senatore dell’Arkansas, Tom Cotton, e dovrebbe servire a “illuminare” il governo di Teheran sui meccanismi costituzionali degli Stati Uniti in relazione ai “progressi sulle trattative per il nucleare”.

In definitiva, l’intenzione dei senatori repubblicani sarebbe quella di ricordare all’Iran e, forse, ancor più a Obama che un futuro accordo sul nucleare dovrà essere necessariamente ratificato dal Congresso americano. In assenza di ciò, minacciano i senatori repubblicani, tra meno di due anni l’Iran si troverebbe probabilmente a dover contare soltanto su un “accordo esecutivo” tra Obama e l’ayatollah Ali Khamenei, che un eventuale nuovo presidente repubblicano potrebbe cancellare con una semplice firma.

La mossa repubblicana contribuisce così a innalzare il livello dello scontro interno alla classe dirigente USA in seguito all’apertura del dialogo tra Washington e Teheran. Uno scontro che va ben al di là dell’eventuale accordo sul programma nucleare iraniano, del quale peraltro non esistono prove che sia indirizzato a scopi militari.

Un’intesa con la Repubblica Islamica comporterebbe infatti un drammatico riallineamento strategico degli Stati Uniti in Medio Oriente, cosa che una parte dell’establishment americano - assieme a Israele e alle monarchie assolute del Golfo Persico - intende combattere ad ogni costo.

La lettera aperta rivolta all’Iran dai senatori repubblicani riflette appunto questo timore e rappresenta un’escalation dei tentativi di far naufragare i negoziati in corso. Il Congresso USA, d’altra parte, dispone già del potere di bloccare la revoca delle sanzioni più pesanti che colpiscono Teheran, nonostante il presidente abbia facoltà di sospenderne una parte e di cancellare quelle non approvate dall’organo legislativo americano.

Una decisione così plateale come quella di sfidare il presidente e, secondo molti osservatori, di scavalcarlo nella conduzione della politica estera non può avere perciò che un significato politico ben preciso, vale a dire quello di fare pressioni sulla Casa Bianca per abbandonare il tavolo dei negoziati o per ottenere un accordo che azzeri di fatto il legittimo programma nucleare civile iraniano.

La minaccia dell’annullamento di un eventuale accordo da parte di un prossimo presidente repubblicano è inoltre piuttosto improbabile, visti i rischi politici di una simile decisione, soprattutto nel caso Teheran dovesse rispettare scrupolosamente i termini dell’intesa stessa e se i due paesi dovessero riuscire a consolidare la distensione dei rapporti bilaterali da qui al 2017.

La lettera dei repubblicani appare perciò come un gesto disperato per impedire la firma di un accordo, così come lo era stato il discorso della scorsa settimana al Congresso del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, concordato appunto con la leadership repubblicana dietro le spalle dell’amministrazione Obama.

Prevedibilmente, la notizia della lettera dei senatori repubblicani ha suscitato dure condanne da parte dell’amministrazione Obama. I toni più forti li ha usati il vice-presidente, nonché presidente del Senato, Joe Biden, il quale ha detto di sentirsi “offeso” da un’iniziativa che ha definito “al di sotto del livello di dignità di un’istituzione che rispetto profondamente”.

Biden ha aggiunto che “in 36 anni trascorsi al Senato degli Stati Uniti, non sono in grado di ricordare un’altra occasione in cui i suoi membri si siano rivolti direttamente a un altro paese - ancora meno a un tradizionale rivale - per comunicare che il presidente [americano] non dispone dell’autorità costituzionale per raggiungere un’intesa” con i suoi leader.

Obama ha sottolineato a sua volta come i firmatari della lettera abbiano fatto il gioco dei “falchi” di Teheran, i quali aspettano precisamente segnali di questo genere da Washington per ottenere lo stesso obiettivo dei senatori repubblicani, ovvero il fallimento dei negoziati.

La replica alle critiche di Obama da parte del promotore dell’iniziativa del Senato è stata estremamente significativa della disposizione mentale di una fetta consistente della classe politica USA e, nel caso specifico, dell’ignoranza abissale che la contraddistingue. Il senatore Tom Cotton, in diretta alla CNN, dopo avere escluso che la lettera possa turbare gli equilibri necessari al raggiungimento di un accordo, ha affermato con assoluta certezza che in Iran “non vi sono che falchi ed estremisti islamici”.

Da Teheran, il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, ha bollato la lettera dei repubblicani come una “manovra di propaganda”, giudicando “molto interessante” il fatto che, “mentre i negoziati sono ancora in corso e non è stato raggiunto nessun accordo, alcuni gruppi politici di pressione sono talmente spaventati anche solo all’ipotesi di un’intesa da ricorrere a metodi insoliti e senza precedenti nella storia della diplomazia”.

Lo stesso Zarif ha comunque ribadito la propria fiducia in un esito positivo delle trattive durante un’apparizione di fronte all’Assemblea degli Esperti nella giornata di martedì. Il suo ottimismo sembra essere condiviso anche dai membri delle delegazioni dei P5+1, visto che una possibile convergenza tra le parti appare vicina su una delle questioni più spinose, cioè la quantità di tempo che l’Iran avrebbe teoricamente a disposizione per sviluppare un’arma nucleare.

Il cosiddetto “break-out time” verrebbe stabilito in dodici mesi, mentre Teheran dovrebbe inoltre ridurre sensibilmente le proprie capacità di arricchimento dell’uranio e accettare un regime di ispezioni fortemente invasivo da parte degli ispettori internazionali.

Uno dei punti più controversi rimane invece quello relativo alla durata del regime restrittivo a cui sarebbe sottoposto l’Iran secondo il dettato dell’accordo. Settimana scorsa, Obama e Zarif erano stati protagonisti di uno scambio di vedute a distanza sulla questione, con il presidente americano che aveva affermato in un’intervista alla Reuters che questo periodo avrebbe dovuto essere di almeno dieci anni, mentre il suo interlocutore iraniano aveva eslcuso una simile eventualità.

Soprattutto, però, Teheran esige la cancellazione di tutte le sanzioni applicate negli ultimi anni, visto che il raggiungimento di un accordo con la comunità internazionale e il rispetto dei termini da esso stabiliti non giustificherebbero il mantenimento di misure punitive. Le modalità con cui il più o meno graduale allentamento delle sanzioni dovrebbe essere implementato risultano ancora poco chiare e su questo punto la distanza tra le parti potrebbe essere significativa.

Il più recente round di negoziati si era concluso la scorsa settimana a Montreux, in Svizzera, dove erano giunti anche il segretario di Stato americano, John Kerry, il ministro dell’Energia USA, Ernest Moniz, e da parte iraniana Zarif e il numero uno dell’Agenzia per l’Energia Atomica, Ali Akbar Salehi.

Dopo un pausa di quasi due settimane, i negoziati riprenderanno il 15 marzo, con incontri previsti tra Losanna e Ginevra. Entro il 31 marzo, le parti coinvolte dovranno definire almeno una bozza di intesa, per poi finalizzare un accordo definitivo non più tardi del 30 giugno.

di Michele Paris

Un nuovo libro in uscita nei prossimi giorni sulle attività dell’ex primo ministro laburista britannico, Tony Blair, dopo il suo addio a Downing Street nel 2007, ha rinvigorito le accuse nei suoi confronti di avere utilizzato per i propri interessi economici l’incarico di inviato speciale in Medio Oriente del cosiddetto “Quartetto” (ONU, Stati Uniti, Unione Europea e Russia), il cui obiettivo ufficiale dovrebbe essere quello di promuovere i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi.

In particolare, i frequenti viaggi nella regione mediorientale da parte di Blair gli avrebbero permesso di negoziare una serie di contratti di “consulenza” tra la sua società, denominata Tony Blair Associates (TBA), e le monarchie assolute del Golfo Persico.

Secondo quanto riportato dal Sunday Times nel fine settimana, l’affare più ghiotto per l’ex premier sarebbe stato un contratto con il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti. Il giornale londinese ha pubblicato una “proposta”, datata settembre 2014, per una “partnership strategica” tra le due parti.

Nella prefazione di questo documento, firmata da Blair in persona, viene elogiata la “solida leadership” della dittatura degli Emirati, alla quale la TBA offre i propri servizi per costruire una rete di contatti nel pianeta e incrementare l’influenza internazionale di questo paese arabo. La TBA ricorda poi di essere già presente in 25 paesi e che “non esiste virtualmente luogo nel mondo dove non siamo in grado di operare o fornire i contatti necessari, sia politici che economici”.

Nello spiegare come la collaborazione proposta dovrebbe concretizzarsi, il documento pubblicato dal Times di Londra assicura che lo stesso Blair sarebbe coinvolto direttamente e perciò disposto a trascorrere “2/3 giorni ogni mese a Abu Dhabi”, nonché a rimanere continuamente in contatto con il regime degli Emirati. Il valore complessivo del contratto di consulenza ammonterebbe a 30 milioni di sterline, cioè più di 41 milioni di euro.

L’affare risulta perfettamente in linea con la strategia messa in atto da Tony Blair all’indomani del suo abbandono forzato della carica di primo ministro per fare soldi nella maniera più rapida possibile, cioè grazie alla posizione di governo da lui ricoperta e ai contatti stabiliti quando era al potere in Gran Bretagna.

Da un lato, Blair ha seguito l’esempio di Bill Clinton, in grado di accumulare milioni di dollari soltanto tenendo banali discorsi pubblici di fronte a organizzazioni o compagnie private in ogni angolo del pianeta. Dall’altro, la principale fonte di reddito per l’ex leader laburista è appunto l’attività di “consulenza”, spesso avvolta nel mistero a causa del ricorso a oscure strutture societarie consentite dalla legislazione britannica.

Il macroscopico conflitto di interessi tra l’incarico di inviato speciale per il conflitto israelo-palestinese e i suoi affari personali è comunque da tempo al centro di polemiche e le richieste di dimissioni si stanno moltiplicando proprio in seguito alla pubblicazione del Times.

Tanto più che le più recenti rivelazioni si aggiungono ad almeno altre due questioni che avevano sollevato seri interrogativi sul lavoro di Blair in Medio Oriente. Nel primo caso, quest’ultimo aveva fatto pressioni sul governo israeliano per facilitare lo sfruttamento di un giacimento di gas naturale al largo della costa della striscia di Gaza, i cui diritti erano detenuti da British Gas Group, società cliente di JP Morgan, di cui Blair è a libro paga fin dal 2008 con un compenso annuo stimato attorno ai 2 milioni di sterline.

L’altra vicenda riguardava invece il mercato delle frequenze telefoniche, con la compagnia Wataniya Telecom che aveva ottenuto il permesso - grazie a Blair - di operare un servizio di telefonia mobile in Cisgiordania. Questa società appartiene al gigante delle telecomunicazioni del Qatar, QTEL, anch’esso compreso nel portafoglio clienti di JP Morgan, e aveva appunto beneficiato della “mediazione” di Blair con il governo di Israele per utilizzare le frequenze necessarie.

L’insaziabile avidità di Blair comporta inoltre l’assenza di qualsiasi scrupolo nel ricercare occasioni di guadagno, come risulta evidente dalla sua collaborazione (ben retribuita) con autocrati, dittatori e assassini vari ovunque ciò sia possibile.

Un estratto del volume già ricordato - “Blair Inc.: The man behind the mask” - è apparso nei giorni scorsi su alcuni giornali inglesi ed elenca alcuni affari mandati in porto negli ultimi anni dalla società di consulenze dell’ex primo ministro.

Nel 2010, ad esempio, Blair aveva stipulato un contratto segreto con la compagnia petrolifera saudita PetroSaudi. Per 41 mila sterline al mese e una commissione del 2 per cento su ogni affare mediato dalla sua società, Blair si impegnava a favorire lucrosi contatti in Cina.

Sempre nel Golfo Persico, poi, Blair avrebbe un contratto di consulenza con il regime del Kuwait per 27 milioni di sterline e un altro più “modesto” ancora con gli Emirati Arabi, ovvero del valore di 1 milione di sterline all’anno.

Ben documentata è anche la partnership con il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, al potere dal 1991. La scorsa estate, il Daily Telegraph aveva citato una lettera scritta da Blair a Nazarbayev nel luglio del 2012, poco prima di un discorso che il presidente/autocrate kazako tenesse un discorso presso l’università di Cambridge.

Solo pochi mesi prima, nel dicembre del 2011, i servizi di sicurezza del paese centro-asiatico avevano ucciso 14 manifestanti che stavano protestando contro il regime nella città di Zhanaozen. Altre 64 persone erano state ferite negli scontri, mentre lavoratori del settore petrolifero in sciopero erano stati arrestati e torturati.

Blair, il quale aveva iniziato a lavorare per il regime proprio nel novembre del 2011, nella missiva a Nazarbayev suggeriva di fare un qualche riferimento al massacro di Zhanaozen nel suo discorso a Cambridge, così da tenere buona la stampa occidentale, precisando al contempo che la tragedia non doveva “oscurare gli enormi progressi fatti dal Kazakistan”.

Questo paese è perennemente nel mirino delle associazioni a difesa dei diritti umani, dal momento che qualsiasi forma di dissenso viene regolarmente repressa sia tramite la violenza delle autorità sia con l’implementazione di leggi fortemente lesive della libertà di espressione e di assemblea.

Lo stesso contributo allo sforzo di regimi repressivi per ripulire la propria immagine Blair lo ha dato ad esempio anche al paese africano della Guinea, questa volta tramite la cosiddetta Africa Governance Initiative (AGI), un’organizzazione con fini “caritatevoli” creata dall’ex primo ministro.

In questo caso, un documento ottenuto dalla stampa inglese aveva mostrato una serie di inziative consigliate dall’AGI al presidente guineano, Alpha Condé, per riconquistare una certa legittimità dopo l’esplosione di proteste nel suo paese tra i mesi di febbraio e marzo del 2013. Le manifestazioni erano state causate dai tentativi del presidente di manipolare le elezioni previste per il maggio successivo e l’intervento delle forze di polizia aveva causato una decina di morti.

Più recentemente, alcune intercettazioni di conversazioni che vedevano protagonisti i vertici del regime militare egiziano, diffuse da un network satellitare di base in Turchia che sostiene i Fratelli Musulmani, hanno infine confermato gli sforzi di Tony Blair nel promuovere in Occidente il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Nelle registrazioni si potevano sentire alcuni membri del governo del Cairo discutere di un’imminente visita in Egitto da parte di una delegazione degli Emirati Arabi, accompagnata da Blair, il quale evidentemente appoggiava in pieno la collaborazione tra questi due paesi al fine di consolidare il regime di Sisi reprimendo nel sangue ogni traccia di opposizione interna.

Blair, d’altra parte, non ha mai fatto mistero di avere approvato il colpo di stato miltare in Egitto che nel luglio del 2013 aveva portato alla deposizione del presidente democraticamente eletto, Mohamed Mursi, sfruttando l’ondata di malcontento popolare contro il suo governo.

Per Blair, Sisi e i militari hanno riportato l’Egitto sui binari della democrazia e i paesi occidentali dovrebbero accogliere a braccia aperte l’ex generale, nonostante i massacri di sostenitori dei Fratelli Musulmani e di manifestanti di ogni orientamento politico, le condanne a morte di massa di oppositori del regime e la messa di fatto fuori legge del dissenso.

Come di consueto, le ragioni della posizione di Blair non avevano a che fare solo con le sue presunte convinzioni politiche ma anche e, probabilmente, soprattutto con gli affari personali. Il Guardian, infatti, nel luglio scorso aveva raccontato di come il mese precedente l’inviato del “Quartetto” per il Medio Oriente stava lavorando a un accordo per fornire consulenza al regime di Sisi su questioni legate alle “riforme economiche”.

Gli sforzi di Blair in questo senso erano sostenuti da una “task force” finanziata dagli onnipresenti Emirati Arabi e gestita dalla compagnia di consulenze Strategy&, facente parte del colosso del settore “advisory” PricewaterhouseCoopers, con lo scopo di attrarre investimenti esteri nell’Egitto dei militari.

di Michele Paris

Per ben undici anni lo stato americano del New Jersey ha combattuto in un’aula di tribunale per cercare di imporre alla compagnia petrolifera ExxonMobil il pagamento di una somma pari a quasi 9 miliardi di dollari perché colpevole di avere gravemente contaminato con sostanze tossiche oltre 600 ettari di zone paludose nei pressi della località di Bayway, dove sorgono due impianti di raffinazione.

Dopo il dibattimento, durato otto mesi, la corte aveva stabilito la colpevolezza della compagnia con sede in Texas ed era pronta ad applicare una richiesta di danni retroattiva probabilmente molto pesante, secondo quanto stabilito da une legge dello stato denominata “Spill Act”. Ciò che mancava per chiudere il procedimento era solo la decisione in merito all’importo della sanzione che sarebbe gravata su ExxonMobil.

La richiesta dei procuratori dello stato ammontava a un totale di 8,9 miliardi di dollari, di cui 2,6 sarebbero serviti per bonificare l’area contaminata, mentre il resto (6,3 miliardi) era da considerarsi come puro risarcimento danni.

A questo punto, però, il giudice Michael Hogan ha ricevuto una richiesta da parte del vice procuratore generale del New Jersey per rinviare il verdetto definitivo, poiché l’amministrazione del governatore repubblicano, Chris Christie, avrebbe raggiunto un accordo con la ExxonMobil fuori dal tribunale.

A rigor di logica, una richiesta di sospensione della sentenza a questo punto del procedimento sarebbe stata motivata solo da un eventuale accordo con la compagnia petrolifera per il risarcimento di una somma vicina a quella chiesta dallo stato, vista la riduzione che avrebbe potuto essere decisa dalla corte.

Invece, il governatore, nonché probabile candidato alla Casa Bianca nel 2016, si sarebbe accordato per una somma pari ad appena 250 milioni di dollari, cioè meno del 3% di quanto richiesto complessivamente dallo stato del New Jersey o, se si vuole, meno del 10% di quanto sarebbe necessario per ripulire la zona contaminata.

Oltretutto, secondo una legge proposta da Christie lo scorso anno, solo 50 milioni di dollari del risarcimento sarebbero destinati a opere di bonifica, mentre il resto del denaro potrebbe essere dirottato ad altre voci di bilancio.

Il governatore Christie e i vertici di ExxonMobil hanno per ora evitato qualsiasi commento sull’accordo, ma le polemiche nel New Jersey sono subito esplose. Giovedì i giornali della costa orientale hanno riportato la testimonianza dell’ex numero uno del Dipartimento per la Protezione Ambientale dello stato, Bradley Campbell, il quale ha puntato il dito direttamente contro l’ufficio del governatore.

Secondo Campbell, i protagonisti dell’accordo da 250 milioni di dollari sono da ricercare nello staff di Christie e, in particolare, il primo consigliere di quest’ultimo, Christopher Porrino, “si è intromesso nel caso, emarginando il procuratore generale e gli impiegati di carriera che avevano condotto la controversia legale, così da giungere a un esito favorevole a ExxonMobil”.

Come quasi sempre accade negli Stati Uniti nei casi di vicende politiche o giudiziarie che si risolvono a favore delle grandi aziende, anche in questo caso gli indizi che spiegano la decisione di Christie sono da ricercare in questioni legate al denaro.

Se finora non sono emersi finanziamenti elettorali diretti a favore del governatore, ExxonMobil nel 2014 ha donato più di 700 mila dollari all’Associazione dei Governatori Repubblicani, il cui presidente fino a qualche mese fa era appunto Chris Christie.

Ai politici americani e, in particolare, a quelli repubblicani, l’industria petrolifera elargisce ogni anno milioni di dollari e la decisione di Christie sul caso ExxonMobil sembra essere perciò una mossa per mettersi in luce con finanziatori generosi in vista di una probabile candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.

Quest’ultima vicenda è comunque solo l’ultima di una serie di imprevisti che stanno tarpando le ali a un politico a cui la stampa ufficiale ha offerto ampia visibilità sulla scena nazionale. I problemi che rischiano di frustrare le ambizioni di Christie sono in ogni caso determinati dalla sua più che evidente attitudine a servire gli interessi dei potenti e da un malcelato disprezzo per la gente comune, sia pure a fronte di un’immagine proprio da “uomo comune” attentamente coltivata.

Grave imbarazzo gli aveva causato ad esempio l’esplosione lo scorso anno di uno scandalo risalente a una decisione presa nel settembre 2013 da un membro del suo staff, il quale aveva ordinato la chiusura per alcune ore di due trafficatissime corsie di un ponte a Fort Lee, nel New Jersey.

Il provvedimento, secondo molti sanzionato dallo stesso Christie, aveva causato un colossale ingorgo, nonché la morte di una donna per arresto cardiaco su un’ambulanza bloccata nel traffico, e sarebbe stato preso come ritorsione contro il sindaco di Fort Lee, colpevole di non avere appoggiato il governatore repubblicano nelle elezioni del 2013.

Inoltre, Christie era stato fortemente criticato per avere gestito in maniera inadeguata la ricostruzione delle aree del New Jersey devastate dall’uragano Sandy nel 2012. Nel New Jersey continuano a essere accese anche le polemiche nei confronti del governatore a causa della situazione precaria del fondo pensioni dei dipendenti dello stato.

Una recente sentenza di un tribunale ha infatti ritenuto il governatore responsabile del mancato finanziamento che aveva promesso nel 2011 a favore di questo stesso fondo, per “salvare” il quale ha oltretutto proposto nuovi tagli ai “benefit” destinati ai pensionati.

Christie, infine, era apparso in un ritratto del New York Times ben poco lusinghiero poco più di un mese fa, nel quale venivano descritti i suoi numerosi viaggi negli Stati Uniti e all’estero, tutti all’insegna del lusso grazie al denaro di facoltosi sostenitori, spesso con interessi economici nel suo stato.

Sulla vicenda legata al disastro ambientale di ExxonMobil, ad ogni modo, l’assemblea legislativa statale del New Jersey, a maggioranza democratica, ha annunciato iniziative per provare a bloccare l’accordo voluto dal governatore. La discussione in aula al Senato statale dovrebbe inizare il 19 marzo prossimo.

L’accordo, per essere definitivo, dovrà comunque essere approvato dal giudice che presiede il processo, dopo la pubblicazione sul “Registro” ufficiale del New Jersey e un periodo di trenta giorni durante i quali verranno raccolti eventuali commenti o proposte di modifica da parte degli abitanti dello stato.


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