di Michele Paris

L’ennesimo omicidio di un cittadino americano per mano della polizia è stato seguito nei giorni scorsi da una nuova ondata di proteste popolari in una città degli Stati Uniti e dalla massiccia mobilitazione delle forze di sicurezza in uno scenario di fatto da legge marziale. La rabbia esplosa a inizio settimana a Baltimora, nel Maryland, è stata scatenata dalla morte del 25enne di colore Freddie Gray dopo che era stato preso in custodia dalla polizia il 12 aprile scorso in seguito all’arresto perché in possesso di un coltello a scatto. Gray era deceduto sette giorni più tardi a causa di gravi lesioni subite alla spina dorsale.

Le proteste contro la brutalità della polizia si erano intensificate dopo i funerali di Gray e nella notte di lunedì si sono verificati gli scontri più gravi, con alcuni edifici pubblici ed esercizi commerciali assaltati e dati alle fiamme. Questi episodi hanno spinto le autorità di Baltimora a dichiarare il coprifuoco a partire dalla serata di martedì, nonché a dispiegare nella città ben duemila uomini della Guardia Nazionale e altre centinaia di agenti dello stato e dei dipartimenti di polizia di località limitrofe.

Inizialmente, centinaia di manifestanti hanno sfidato il coprifuoco e l’intervento della polizia, dotata di veicoli e mezzi da guerra come previsto dal programma di trasferimento di equipaggiamenti militari dal Pentagono ai dipartimenti americani, ma in seguito la situazione è tornata relativamente sotto controllo.

Il dispiegamento di forze visto a Baltimora ricorda quello avvenuto lo scorso novembre a Ferguson, nel Missouri, dopo l’esplosione della rabbia popolare a causa dell’annuncio della decisione di un Grand Jury di non incriminare il poliziotto reponsabile della morte del 18enne di colore, Michael Brown.

A distanza di pochi mesi, la polizia americana ha ucciso altre 500 persone e, soprattutto, è stata registrata una nuova clamorosa esplosione del gravissimo malessere sociale che attraversa gli Stati Uniti, accolta ancora una volta con metodi repressivi e violenti da una classe dirigente sempre più lontana dai problemi della grande maggioranza della popolazione.

Di fronte alle manifestazioni di rabbia non solo per la condotta della polizia e l’impunità di cui godono i suoi membri, ma anche e soprattutto per le condizioni di povertà e degrado sociale con cui milioni di persone sono costrette a fare i conti, i vertici politici della città di Baltimora, dello stato del Maryland e dello stesso governo federale hanno fatto quadrato, riservando denunce e disprezzo verso coloro che sono scesi nelle strade per protestare.

Il sindaco democratico e di colore della città, Stephanie Rawlings-Blake, nel corso di una conferenza stampa tenuta lunedì aveva bollato come “teppisti” i manifestanti, salvo poi pentirsi e chiedere scusa ai suoi concittadini. La stessa definizione di “teppisti” è stata però utilizzata da molti in questi giorni, non solo tra i politici, come il governatore repubblicano del Maryland Larry Hogan, ma anche tra i commentatori dei media “mainstream”.

Lo stesso presidente Obama, nel corso di un vertice con il premier giapponese Abe all’insegna del militarismo, ha avuto soltanto parole di condanna per gli abitanti di Baltimora che protestavano contro la polizia. Obama ha affermato che coloro che hanno fatto ricorso a metodi violenti “non hanno scuse” per un comportamento che “sottrae lavoro e opportunità agli abitanti di quest’area”.

La reazione dei politici americani ai fatti di Baltimora è dunque prevedibilmente caratterizzata dal completo disinteresse per le condizioni di forte disagio e sopraffazione in cui sono costretti a vivere ampi strati della popolazione negli Stati Uniti.

Le manifestazioni di Baltimora, così come quelle di Ferguson, sono il sintomo di una realtà sociale pronta a esplodere sotto le pressioni di un processo che da decenni ha prodotto regressione e povertà, frutto di dinamiche economiche, favorite dalla classe al potere, che hanno fatto della società americana una delle più inique tra i paesi sviluppati.

La deindustrializzazione forzata che ha interessato vaste aree degli Stati Uniti si è accompagnata alla finanziarizzazione dell’economia, con il conseguente trasferimento della ricchezza dai lavoratori e dalla classe media a una ristretta élite parassitaria. A questa evoluzione ha contribuito in maniera decisiva l’amministrazione Obama, dal momento che negli anni seguiti alla crisi del 2008 praticamente tutto l’aumento di ricchezza prodotto negli USA è andato a beneficio dell’1% situato al vertice della piramide sociale.

Il quartiere di Baltimora in cui è cresciuto Freddie Gray - Sandtown-Winchester - è una sorta di emblema del dramma vissuto da intere comunità nelle ex aree industriali degli Stati Uniti. Qui, più della metà della popolazione tra i 16 e i 64 anni risulta senza lavoro e il reddito medio annuo pro-capite è al di sotto della soglia ufficiale di povertà. Inoltre, il livello di degrado è confermato dal fatto che tra un quarto e un terzo degli edifici di Sandtown è a tutt’oggi disabitato.

Nonostante queste condizioni, per Obama e il resto della classe politica USA non esistono “scuse” o “ragioni” dietro all’esplosione della rabbia degli abitanti di Baltimora. La loro indifferenza è tanto più spietata alla luce del fatto che, al contrario, le “scuse” continuano ad abbondare per le politiche repressive e violente del governo e delle forze di polizia.

Solo pochi giorni prima degli scontri a Baltimora, Obama si era ad esempio presentato in pubblico ammettendo la sua responsabilità nell’assassinio con un missile lanciato da un drone di due operatori umanitari in Pakistan ostaggi di al-Qaeda. La “scusa”, in questo caso, è legata alla farsa della “guerra al terrore”, la quale ha fornito e continua a fornire la giustificazione per la distruzione di interi paesi.

Le “scuse” sono poi puntualmente a disposizione della stessa polizia americana che uccide cittadini quasi sempre disarmati e inoffensivi senza che vi sia alcuna conseguenza legale per i responsabili.

I fatti di Baltimora hanno infine confermato ancora una volta come il fattore razziale, se pure importante, è tutt’altro che determinante in circostanze simili. Dal sindaco della città fino all’inquilino della Casa Bianca, passando per i membri del Congresso e i professionisti del contenimento delle tensioni sociali legati al Partito Democratico, come il reverendo Al Sharpton, tutti i leader della comunità afro-americana hanno condannato senza riserve le proteste per la morte di Freddie Gray e appoggiato la militarizzazione della città del Maryland.

Se a soffrire delle peggiori condizioni sociali ed economiche negli Stati Uniti sono spesso gli americani di colore, la questione cruciale per la comprensione delle esplosive tensioni sociali che attraversano questo paese non è però legata alla razza bensì alle differenze di classe, imposte spietatamente da un apparato di potere, composto sia da bianchi che da neri, pronto a utilizzare metodi da stato di polizia per schiacciare la resistenza di chiunque si batta per un sistema diverso.

di Liliana Adamo

Democrazia e Islam sono compatibili? Un invito da porsi non senza imbarazzo soprattutto in quello che fu il giorno successivo la strage alla redazione di Charlie Hebdo, a Parigi. Un dubbio che pone un rebus a mille altre riflessioni fino a concludere di come soltanto le comunità musulmane possano restituirci dal canto loro, una risposta univoca.

Nel vuoto politico dello scenario internazionale, se da una parte imperversa il mattatoio del Califfato minacciando l’intera area dell’Africa settentrionale, come la violenza estremista di Boko Aram in Nigeria, di al-Shabaab negli attacchi in Kenya, oltre a frammentarie milizie di terrorismo sparso (per lo più criminali comuni ed emarginati), dall’altra (Egitto e Paesi del Golfo), appare sempre più auspicabile “una rivoluzione religiosa dell’Islam” che potrebbe risolversi in normale propaganda, in attesa che il vento cominci davvero a cambiare rotta. 

Abd-al-Fattah al Sisi, l’oscuro generale delle forze armate egiziane, che, dal 14 agosto 2013, ha soffocato nel sangue la rivolta dei Fratelli Musulmani, fino alla destituzione dell’allora presidente Mohamed Morsi, oggi, nuova guida di un paese che ha voglia di rinascita e riscatto sociale, sembra non aver dubbi. Il primo gennaio scorso, all’università di Al Azhar, subito dopo l’attacco terroristico alla redazione parigina, di fronte a un auditorio quasi colto alla sprovvista e composto d’imam, ulema e dotti, le parole pronunciate sono state di quelle che difficilmente possiamo aspettarci da un musulmano sunnita osservante, seppur capo di stato: “Ora mi rivolgo ai religiosi e agli imam. E’ inconcepibile che il pensiero da noi ritenuto più sacro faccia dell’intera umma (la comunità musulmana universale), una causa d’ansietà, pericolo, morte e distruzione nel resto del mondo…Questo pensiero - e non parlo di religione - ma di pensiero, questo corpo di testi e idee che abbiamo sacralizzato nel corso dei secoli, fino al punto che separarsene è diventato quasi impossibile, si sta inimicando il mondo intero. Il mondo intero c’è nemico! E’ possibile mai che 1,6 miliardi di persone (in toto, i musulmani), vogliano uccidere i restanti sette miliardi d’abitanti nel mondo, per vivere e affermare il loro credo?No, questo non è possibile”.

E dunque, al cospetto dei garanti più autorevoli nel consiglio sunnita, senza tradire il benché minimo nervosismo, il presidente ha suggerito “una rivoluzione religiosa”, un percorso con un obiettivo preciso: riformare l’islam e al pari del cristianesimo, renderlo conciliabile al senso democratico del vivere comune.

Una “mission” condividibile e altisonante, quanto poi possibile in atti pratici è tutta da vedere. Intanto, cresce nel paese la caccia alle streghe verso omosessuali e atei, additati come fonte di pericolo per la “moralità pubblica”, mentre la repressione mette fuori legge migliaia d’aderenti alla Fratellanza e sulla testa del suo predecessore, Mohamed Morsi, pende una “condanna a morte”.

Se non bastasse, sono perseguitati anche i veterani della cosiddetta “primavera araba”, ex attivisti di piazza Tahrir e continuano le controversie sull’uccisione di Shaimaa al Sabbagh (con una drammatica ripresa in “diretta”, subito rimbalzata in tutto il mondo attraverso i social networks).

Perfino i testimoni oculari sull’assassinio della militante nell’Alleanza Socialista, poetessa e oppositrice del regime, sono stati fermati e arrestati dalle forze di “sicurezza”. Con ventitré morti lasciati sull’asfalto, nel bilancio finale degli scontri per il quarto anniversario delle rivolte nel 2011, a tutt’oggi le autorità continuano a difendere a spada tratta, l’operato della polizia.

Ma chi è, in realtà, questo compassato leader sessantenne, ex ministro della Difesa (proprio sotto l’egida dell’ex presidente islamista) e capo delle Forze Armate, che ha formalmente “tradito” il suo mentore, con un clamoroso e incruento “colpo di stato”? Che, secondo tanti esponenti della nuova intellighenzia egiziana (dal ricercatore Tewfik Aclimandos, allo scrittore Ala Al Aswani), ha impedito, di fatto, l’insorgere e la deriva di una guerra civile?

Il famoso discorso sopra citato termina con un’esortazione, pressappoco una solenne paternale diretta agli imam e non solo per chi fosse presente: “Ciò che vi sto dicendo, voi non potete comprenderlo se resterete intrappolati nella vostra mentalità…Ho detto e ripeto, che noi abbiamo bisogno di una rivoluzione religiosa. Voi imam, siete responsabili dinanzi ad Allah. Il mondo intero, ripeto, il mondo intero attende una vostra mossa…perché l’intera umma musulmana è lacerata, distrutta, si sta perdendo. E si perde nell’opera delle nostre mani…”.

E il giorno successivo, in prima assoluta per un capo di stato egiziano, ha partecipato al Cairo alla Messa solenne tenuta dal patriarca Tawadros in occasione del Natale dei cristiani, copti ortodossi, da sempre considerati cittadini di serie B. Tant'è.

Nessuno a Gamaleya, centro pulsante dell’antico Cairo più tradizionalmente islamista, avrebbe mai previsto un futuro così radioso per quel ragazzo taciturno, secondo di otto fratelli, cresciuto in una famiglia benestante, molto religiosa, ma dai modi umili che, dopo la scuola, si recava tutti i giorni ad aiutare il padre in bottega intarsiando mobili, tra i bazar di Khan el Khalili, la meta più frequentata dai turisti dopo le Piramidi. Seppur con quel carattere riservato e devoto, Abd-al-Fattah scelse la carriera militare, scalando i gradi nelle brigate di fanteria meccanica, rimarcando le sue doti di leadership e di comando.

Negli ultimi anni di Hosni Mubarak, fu trasferito all’intelligence militare, un particolare che gli ex attivisti di Taharir non gli perdonano, poiché questa struttura militare rappresenta l’icona di crimini e torture verso il popolo e i dissidenti. Molti si chiedono se chi guida l’Egitto sia allora un nuovo autoritario, un islamista rivoluzionario, un nazionalista, la somma di tutto ciò o la sua contraddizione.

Abd-al-Fattah al Sisi cita a memoria il Corano ma mette al bando i Fratelli Musulmani, garantisce un livello di libertà religiose mai conosciuto finora, ma reprime la libertà sessuale e d’identità, parla di democrazia con l’approvazione di una nuova Costituzione, ma è lontano dalla completa tutela dei diritti umani e della laicità.

Un passo avanti, due indietro: il nuovo presidente resta un mistero per le stesse diplomazie accidentali, che di lui apprezzano il pragmatismo, insieme alla capacità d’essere agli occhi degli egiziani una “smart person” (è questo l’appellativo suggerito da un occasionale compagno di viaggio, un grasso business man alessandrino, incontrato su un aereo diretto al Cairo).

Perché al Sisi ha ben saputo conquistarsi l’appoggio e le simpatie nella stragrande maggioranza della gente: è l’uomo che (nel 2013), è apparso solidale (insieme a polizia, esercito e Servizi segreti), alla campagna di firme Tamarrod (Ribellione) nelle manifestazioni anti Morsi. E’ l’uomo invocato dal popolo nelle piazze: “Sisi, Sisi enta raisi” (Sisi, Sisi, sei tu il mio presidente). E’ l’uomo che ha riportato l’ordine e acceso la speranza.

E’ colui che è apparso in televisione, senza enfasi, annunciando con un secco comunicato, l’attacco aereo in Libia per ritorsione contro il famigerato Daesh (come spregiativamente è chiamato lo Stato islamico e il suo braccio armato, l’Isis), dopo la mattanza dei ventuno lavoratori cristiani copti sulla spiaggia di Sirte.

In modo sacrosanto, al Sisi ha rivendicato il diritto a perseguire gli autori del massacro, recandosi in seguito dal presidente francese Hollande e direttamente all’Onu, chiedendo a gran voce interventi mirati, anche se, da una lettura trasversale, s’intravede l’occasione a proporsi come elemento affidabile a capo di un’alleanza internazionale, che, per iniziativa degli Stati Uniti, si schiererebbe contro il terrorismo di matrice islamista dove sicuramente l’Egitto si porrebbe come primo attore in assoluto.

Non a caso gli osservatori ravvisano una precisa “strategia” nel raid egiziano a Derna, con gli interessi italiani fatalmente compromessi. Infatti, subito dopo gli attacchi della Nato nel 2011 (spodestando il colonnello Gheddafi con tutte le conseguenze che conosciamo), se il nostro paese sembra aver abdicato alle proprie partecipazioni di natura economica, a favore di Francia e Gran Bretagna, qualora l’Italia accettasse un intervento armato a fianco di al Sisi, questo darebbe via libera “all’estensione egiziana “ in Libia con il colpo di grazia definitivo a nostri privilegi in tema di contratti petroliferi fino al controllo dei flussi migratori.

Rivoluzione religiosa dell’islam o meno, il discorso rimane sempre uguale a se stesso: petrolio, business sulla pelle dei migranti, interessi cruciali ritrovati e mancati man mano che avanza la Jihad e il Daesh. Con provata determinazione, il progresso del nuovo regime di al Sisi sembra voler accettare la sfida rafforzando la sua affidabilità in patria, come pure sul piano internazionale e “the smart person…” ha tutte le carte in regola per spuntarla.










di Mario Lombardo

L’arrivo a Washington nella giornata di martedì del primo ministro ultra-conservatore giapponese, Shinzo Abe, ha segnato l’inizio di una fondamentale visita che dovrebbe segnare il potenziamento dei rapporti tra i due paesi alleati, suggellato dal recentissimo annuncio di nuove linee guida per regolare le relazioni militari bilaterali.

I governi di Giappone e Stati Uniti avevano fatto sapere lunedì di avere concordato un aggiornamento - il primo dal 1997 - delle norme relative alla cooperazione in ambito militare. In linea di massima, i nuovi accordi consentiranno a Tokyo di partecipare alle avventure belliche degli USA in ogni parte del pianeta senza che l’esecutivo sia obbligato in ogni occasione a ottenere un permesso specifico dal parlamento nipponico.

Questa iniziativa fa seguito alla nuova “interpretazione” della costituzione decisa dal governo Abe lo scorso anno per dare un’impronta decisamente militarista a un documento fortemente pacifista redatto sotto la supervisione americana dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Secondo la stampa internazionale, i nuovi accordi consentiranno una partnership “globale” tra i due paesi e non più focalizzata soltanto a livello regionale. Le forze armate del Giappone potranno ad esempio intercettare e abbattere missili diretti verso gli Stati Uniti e lanciati da un paese terzo, così come operare a fianco dell’alleato in ambito della sicurezza marittima o informatica, esercitando quello che è stato definito come il diritto alla “auto-difesa collettiva”.

Se le implicazioni di quanto appena descritto appaiono già preoccupanti, vista la crescente rivalità tra USA e Cina, ancora più inquietanti sono i risvolti legati agli impegni che Washington dovrebbe onorare nei confronti del Giappone.

La questione più scottante al centro della politica per la sicurezza giapponese è legata alle contese territoriali con Pechino nel Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi hanno già sfiorato più volte lo scontro negli ultimi anni. Le nuove regole di cooperazione tra Tokyo e Washington inaugurate questa settimana prevedono una maggiore collaborazione in quest’area, con il rischio quindi di far aumentare le tensioni in modo esponenziale, vista la comprensibile irritabilità cinese verso qualsiasi ingerenza esterna in quella che viene vista come una disputa da risolvere esclusivamente in maniera bilaterale.

Le prospettive di un simile scenario sono apparse chiare lunedì in seguito a una dichiarazione del segretario di Stato americano, John Kerry, il quale ha appunto assicurato che l’impegno USA per la difesa del Giappone è “solidissimo” e copre tutti i territori amministrati da Tokyo, inclusi quelli rivendicati dalla Cina.

Le dichiarazioni di Kerry confermano perciò che gli Stati Uniti sono disposti a scatenare una guerra potenzialmente nucleare a fianco del Giappone e contro la Cina per una manciata di isole disabitate. Questi timori non sono stati attenuati nemmeno dalle parole del consigliere del presidente Obama per l’Asia, Evan Medeiros, impegnato a rassicurare che il suo paese intende incoraggiare una soluzione diplomatica con Pechino attorno alle dispute territoriali.

Le tensioni crescenti in Estremo Oriente sono in ogni caso alimentate proprio dal riassetto strategico deciso dall’amministrazione Obama in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese nel continente.

Anzi, lo stesso militarismo sempre più accentuato del governo Abe è stato incoraggiato - sia pure con qualche riserva - proprio da Washington, così da favorire l’allineamento del principale alleato asiatico alle proprie esigenze strategiche e mettere il maggiore spazio possibile tra Tokyo e Pechino nonostante la crescente integrazione economica dei due paesi vicini.

Nella stampa ufficiale, tuttavia, è in atto un tentativo di ribaltare la realtà dei fatti, così che gli eventi che stanno accadendo in Asia orientale vengono in larga misura descritti come la conseguenza dell’aggressività cinese o, tutt’al più, del pericolo per gli alleati americani nella regione rappresentato dalla Corea del Nord.

L’altra faccia della strategia anti-cinese degli USA è caratterizzata da un’iniziativa in ambito economico e commerciale che ambisce a riunire in una vasta area di libero scambio dodici paesi asiatici e del continente americano, da cui è significativamente esclusa la Cina.

Questo strumento è denominato Partnership Trans Pacifica (TPP) e più che un tradizionale accordo di libero scambio è un sistema di economie integrato nel quale i paesi che ne fanno parte dovranno accettare un insieme di regole scritte appositamente per favorire le corporation americane.

L’ostacolo finale all’attuazione del TPP è costituito dalla resistenza manifestata dalle popolazioni interessate - accentuata dalla totale segretezza dei negoziati - e dagli stessi governi che dovrebbero farne parte, visto appunto lo strapotere delle multinazionali USA che si prospetta.

Un’intesa sul TPP tra Stati Uniti e Giappone darebbe comunque un impulso forse decisivo al trattato e su questo si stanno concentrando evidentemente le discussioni in corso a Washington tra Obama e Abe.

Anche se ambienti della Casa Bianca hanno escluso che ci possa essere l’annuncio di un accordo sul TPP durante la permanenza del premier giapponese nella capitale americana, qualche progresso nelle trattative potrebbe aiutare Obama nella disputa in atto con il Congresso.

Qui è infatti in discussione una misura che garantirebbe totale autorità al presidente nel raggiungimento di un accordo di libero scambio, sottoponendolo a un voto finale del Congresso senza possibilità di emendamenti. Sul TPP, Obama si trova sulla stessa lunghezza d’onda dei repubblicani, mentre numerosi democratici sono ostili al trattato, soprattutto perché appoggiati dai sindacati che temono un’ulteriore emorragia di posti di lavoro dagli Stati Uniti.

Ad ogni modo, l’importanza del TPP è ancor prima di natura strategica che economica, come ha confermato Obama in un’intervista apparsa lunedì sul Wall Street Journal. Il presidente democratico ha affermato che “se non saremo noi a scrivere le regole [del commercio internazionale], sarà la Cina a farlo”, tanto più alla luce del recente successo della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB), il nuovo istituto finanziario lanciato da Pechino come alternativa al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, entrambi dominati da Washington.

Intrecciata alle tensioni in Estremo Oriente e all’agenda nazionalista del governo di Tokyo è infine la questione del passato coloniale del Giappone che Abe dovrebbe sollevare nel discorso al Congresso previsto per mercoledì.

Il primo ministro, fin dal suo ritorno al potere, ha favorito più o meno apertamente lo spirito revisionista nel suo paese, cercando di minimizzare i crimini dell’imperialismo nipponico nella prima metà del secolo scorso.

I toni che Abe userà per affrontare questo tema verranno valutati con attenzione dalla classe dirigente americana, visto che nel recente passato il revisionismo del governo di Tokyo ha suscitato le ire degli alleati degli Stati Uniti in Asia soggetti alle brutalità dell’occupazione giapponese, a cominciare dalla Corea del Sud, con il rischio di dividere il fronte anti-cinese faticosamente promosso dall’amministrazione Obama.

di Emy Muzzi

LONDRA. Nella battaglia politica all’ultimo sangue per le prossime politiche del 7 Maggio il leader dei Labour Ed Miliband sferra l’ultimo attacco: guerra agli affitti alti. Sinora tra Ed ‘the Red’ (così lo chiamano i “rossi’ d’oltremanica), e il premier, ancora in carica, David Cameron, nessuno aveva osato sfidare gli interessi di ‘landlords’, speculatori e investitori che affittano case a prezzi inaccessibili. Ad un mese dal voto i Labour hanno fatto il passo decisivo.

E’ un sintomo questo che l’affitto è diventato il problema primario per milioni di cittadini britannici costretti a subire e pagare a caro prezzo le conseguenze di una legge scandalo che autorizza il possesso di un numero illimitato di proprietà in Gran Bretagna (anche per gli investitori stranieri) con conseguente, e altrettanto scandaloso, abbandono degli immobili utilizzati solo a scopo d’investimento.

Sono gli effetti disastrosi della crisi finanziaria del 2008 che, a partire dallo scandalo dei mutui subprime, ha messo a nudo il gioco cinico di una finanza malata, disonesta e pericolosa, che ha agito spostando gli interessi degli investitori dalla borsa alla casa. Un asset sicuro dove investire (o riciclare) dollari, yen, rubli, euro in alternativa alle rischiose e inaffidabili speculazioni sui mercati finanziari. Questo ha messo tutti noi, persone oneste, normali, che non accumulano illecitamente denaro e non speculano sulla pelle (e sui conti in banca) degli altri, in condizioni di non poter nemmeno sognare di comprarsi una casa.

Le case di lusso nelle zone più prestigiose di Londra, come ad esempio Knightsbridge, non hanno mai visto le luci accese. E’ il cosiddetto ‘Lights-out London’, il triste fenomeno del ‘compra e fuggi’ che diverte e rassicura gli speculatori del Real Estate e soddisfa sia il mercato immobiliare che i piccoli proprietari, perché la scarsità di case popolari garantisce affitti alti. Secondo una stima recente pubblicata dal The Guardian, le case disabitate soltanto a Londra sono 22mila a fronte di centinaia di migliaia di senzatetto e milioni di inglesi che pagano con un magro stipendio il mutuo al loro padrone di casa.

I dati allarmanti sono aggravati dal fatto che la democratica Gran Bretagna, a differenza dell’Italia, dà il diritto agli ‘housing benefits’ (aiuti di stato per la casa), ma recentemente il numero dei senzatetto è talmente alto che quasi nessuno riesce ad accedere alle case ‘comunali’. Si parla di centinaia di migliaia di famiglie in fila con in mano gli ultimi numeretti di un welfare ormai in via di smantellamento.

Il programma per gli affitti sostenibili è il colpo di coda di Miliband dopo mesi di omologazione passiva all’agenda elettorale imposta dai Conservatori e dagli indipendentisti xenofobi dell’UKIP: referendum sulla membership Ue, sanità pubblica, immigrazione, tasse. Ed The Red si è finora difeso come ha potuto, finché non ha trovato nell’affitto la reale ‘discriminante’ tra chi è di destra e chi è di sinistra, tra chi vuole mantenere lo status quo e l’egemonia di chi ha il capitale da investire nella proprietà e chi, invece, cerca di emancipare i lavoratori dalla schiavitù dell’affitto dando loro la possibilità futura dell’accesso alla proprietà.

Il piano Labour per calmierare il mercato affitti prevede contratti standard della durata di tre anni (la media attuale è di un anno), divieto alle agenzie immobiliari di incassare anticipi dagli affittuari prima della consegna della casa, tetto al rincaro affitti relazionato al tasso d’inflazione. Nel presentare il piano di fronte alle telecamere della BBC, Miliband si è scontrato con il sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson il quale vede nel  ‘piano affitti’ una minaccia per il mercato immobiliare della capitale britannica.

Per i Tories di Cameron, infatti, la soluzione al problema casa sarebbe dare il via ad una maxi speculazione edilizia con la costruzione di nuove case popolari fuori città ed estensione del diritto a poter comprare la proprietà a coloro che già vivono nelle case delle ‘housing associations’ (case popolari accessibili a basso costo tramite il sistema del welfare). Un intervento limitato che avvantaggia quei pochi che possono comprare o che già pagano un affitto bassissimo e protetto dalle speculazioni del mercato.

Se gli ultimi polls danno ai Labour un punto di vantaggio, 34% rispetto al 33% dei Conservatori, ‘Ed the Rent’ potrebbe tagliare il nastro del traguardo con il mattoncino rosso-brick con un margine ancora più ampio; sarebbe quel margine di elettorato che ogni mese consegna l’intero stipendio al padrone di casa e che sinora non aveva ancora sentito la parolina magica negli slogan elettorali: ‘rent’.

di Michele Paris

Se il governo degli Stati Uniti avesse implementato integralmente le norme imposte dal presidente Obama nel 2013 al programma di bombardamenti con i droni in Pakistan, i due ostaggi di al-Qaeda uccisi lo scorso mese di gennaio da un raid della CIA nel paese centro-asiatico - l’americano Warren Weinstein e l’italiano Giovanni Lo Porto - sarebbero con ogni probabilità ancora in vita.

Questa è la conclusione a cui conduce una rivelazione pubblicata nel fine settimana dal Wall Street Journal, secondo la quale la CIA avrebbe ottenuto dalla Casa Bianca una speciale esenzione per continuare a seminare morte e terrore in Pakistan virtualmente senza nessuna restrizione.

Dopo le polemiche sorte in seguito all’ammissione da parte americana dell’assassinio con un drone nel settembre 2011 del cittadino USA Anwar al-Awlaki in Yemen, l’amministrazione Obama era stata costretta a mettere in piedi una campagna mediatica per limitare i danni e continuare a operare il proprio programma di morte in flagrante violazione del diritto internazionale.

Obama aveva perciò presentato in un intervento pubblico nel 2013 una serie di iniziative volte ufficialmente a fissare dei paletti all’utilizzo dei droni sul territorio di paesi sovrani per colpire sospettati di terrorismo. In realtà, l’iniziativa rispondeva alla necessità del governo di innescare un processo più o meno pubblico al fine di istituzionalizzare gli assassini mirati con i droni, dietro l’apparenza di regole più stringenti da applicare a un programma comunque illegale.

Tra le norme teoricamente imposte da Obama, la principale richiedeva alla CIA o al Pentagono - ovvero le due agenzie governative USA che gestiscono le operazioni con i droni all’estero - di verificare molto attentamente le informazioni di intelligence raccolte sui bersagli da colpire, in modo da autorizzare missioni solo contro sospetti che rappresentino una “minaccia imminente” per gli Stati Uniti.

Una simile misura avrebbe dovuto limitare al massimo le vittime civili, cioè i “danni collaterali”, causate in pratica da ogni bombardamento effettuato con i droni. Per questa ragione, i nuovi standard richiesti da Obama avrebbero dovuto far cessare ad esempio i cosiddetti “signature strikes”, quei bombardamenti operati in base a modelli di comportamento di maschi adulti in paesi come Pakistan o Yemen che lasciano intendere - dal punto di vista americano - di essere in presenza di possibili terroristi.

In altre parole, queste operazioni hanno come bersaglio non solo persone che non sono mai state accusate in maniera formale di un qualche crimine, ma di cui l’intelligence USA non conosce nemmeno l’identità. In questo modo, la morte di civili innocenti diventa impossibile da prevenire, tanto più in società dove le armi sono ampiamente diffuse tra la popolazione, come accade appunto nei paesi interessati dalle operazioni americane.

Ad ogni modo, per quanto riguarda le operazioni in Pakistan, la CIA era stata dispensata dal rispetto della regola di colpire esclusivamente “minacce imminenti” alla sicurezza nazionale USA. Per Obama, infatti, il solo fatto che un obiettivo dei droni possa far parte di al-Qaeda in questo paese, dove pare trovi rifugio la leadership dell’organizzazione fondamentalista, giustificherebbe assassini basati su informazioni di intelligence approssimative.

Ciò è appunto quanto accaduto nel caso dell’attacco che a gennaio ha causato la morte di Weinstein e Lo Porto. Questa incursione, secondo la ricostruzione del Wall Street Journal, era avvenuta dopo che nelle settimane precedenti erano stati individuati in un edificio in Pakistan cinque presunti militanti jihadisti, di cui uno ritenuto un presunto leader di al-Qaeda nonostante la sua identità fosse sconosciuta agli americani.

Appena prima del blitz, uno dei cinque bersagli aveva abbandonato l’edificio, mentre altri tre erano visibili all’esterno e il presunto leader di al-Qaeda si trovava all’interno. I sensori installati sui droni, che percepiscono il calore corporeo, avevano escluso la presenza di altre persone nell’edificio ma dalle macerie seguite al bombardamento sono stati alla fine estratti sei corpi in totale.

Weinstein e Lo Porto, secondo alcuni, erano alloggiati in una stanza interrata, sfuggendo così ai sensori, ma, in realtà, l’operazione ha mostrato come i droni della CIA colpiscano sostanzialmente alla cieca.

Obama, da parte sua, nel corso della conferenza stampa della scorsa settimana in cui si era scusato per la morte dei due ostaggi occidentali aveva sostenuto che l’operazione era avvenuta “nel pieno rispetto delle norme che regolano i nostri sforzi nella regione contro il terrorismo”, senza spiegare evidentemente in quale misura queste regole relative ai droni siano rispettate o se vi siano eccezioni alla loro implementazione.

Secondo anonimi membri ed ex membri del governo USA sentiti dal Journal, peraltro, “molti dei cambiamenti annunciati [da Obama] nel 2013 non sono stati applicati o lo sono stati solo in parte”, a conferma che le promesse del presidente sono state per lo più una mossa di propaganda per tenere buona l’opinione pubblica e i suoi sostenitori nell’ala “liberal” del Partito Democratico.

L’assunzione di responsabilità da parte di Obama per le più recenti vittime innocenti dei droni non porterà comunque alcuna conseguenza legale o politica. Oltre al prevedibile servilismo del governo italiano, con il ministro degli Esteri Gentiloni che è riuscito al massimo a elogiare Washington per “l’impegno alla massima trasparenza”, la vicenda dimostra come gli assassini condotti con i droni dagli Stati Uniti siano ormai considerati legittimi da tutta la classe politica americana e occidentale in genere, così come dalla stampa ufficiale.

Negli Stati Uniti, un approfondimento apparso sabato sul New York Times ha chiarito a sufficienza come ci sia totale consenso a Washington sulla facoltà auto-attribuitasi dal governo USA di eliminare sommariamente chiunque venga da esso stesso designato in maniera unilaterale come un possibile “terrorista”.

L’articolo in questione evidenzia in particolare la doppiezza di giudizio dei membri del Congresso, soprattutto democratici. Molti di questi ultimi, che avevano criticato aspramente la CIA per gli abusi commessi nel corso degli interrogatori con metodi di tortura ai danni di sospettati di terrorismo, sono oggi accesi sostenitori del programma di assassini operato con i droni.

Ironicamente, in molti casi a dirigere i bombardamenti letali in Pakistan e altrove sono proprio le stesse persone all’interno dell’agenzia che avevano diretta responsabilità sulle torture e che erano stati i destinatari delle accuse dei parlamentari USA.

Deputati e senatori americani sono d’altra parte totalmente complici nelle operazioni illegali della CIA. In un “rituale macabro”, spiega il New York Times, una volta al mese i membri delle commissioni per i Servizi Segreti di Camera e Senato sono ospitati presso il quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, dove assistono a filmati di “persone fatte a pezzi”.

I membri del Congresso osservano i video dei bombardamenti con i droni e hanno la possibilità di esaminare “campioni” di informazioni di intelligence che giustificano ogni operazione, ma “non i documenti interni all’agenzia nei quali vengono discussi gli attacchi e le loro conseguenze”.

In questa prassi si esaurisce dunque il ruolo di supervisione sulla CIA delle apposite commissioni di Camera e Senato. I loro membri possono così sostenere che “gli assassini mirati sono sottoposti a un rigido controllo” ed essi stessi in larga maggioranza li “difendono fermamente in pubblico” e ne “garantiscono il sostanzioso budget annuale”.

Il Congresso, in realtà, esercita una funzione di sorveglianza molto meno rigorosa di quanto i suoi membri affermino, così che, osserva il Times senza allarmarsi particolarmente, “il fermo sostegno [che il programma con i droni raccoglie] al Campidoglio”, malgrado la palese illegalità, “è una delle ragioni per cui le missioni di morte della CIA risultano incorporate nei metodi di guerra americani” ed è perciò “improbabile [che esse] possano essere cambiate in maniera significativa”.


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