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di Michele Paris
La rivolta popolare iniziata la settimana scorsa in Burkina Faso contro il presidente Blaise Compaoré era sfociata nel fine settimana in un colpo di stato messo in atto dalle forze armate del paese dell’Africa occidentale. La mossa dei militari ha però scatenato nuove proteste tra la popolazione, convincendo alla fine i nuovi leader “burkinabè” a cedere alle pressioni occidentali e a promettere il trasferimento dei poteri provvisori a un organo civile di transizione.
Come è noto, una folla di manifestanti a partire da martedì scorso era scesa per le strade della capitale, Ouagadougou, chiedendo al presidente di ritirare una proposta di modifica della Costituzione che gli avrebbe permesso di candidarsi per ottenere un nuovo mandato dopo 27 anni già trascorsi alla guida del paese.
Due giorni più tardi, le dimostrazioni si sono ulteriormente radicalizzate e la cronaca dal Burkina Faso ha registrato l’irruzione nella sede del Parlamento, che è stata data alle fiamme, e il tentativo di occupazione della principale stazione televisiva del paese.
Compaoré, dopo avere provato a rimanere al suo posto almeno fino alle prossime elezioni, è stato costretto venerdì a lasciare il potere e a rifugiarsi nella vicina Costa d’Avorio, dove ha trovato ospitalità in un lussuoso edificio della capitale amministrativa di questo paese, Yamoussoukro.
Inizialmente, il comandante delle forze armate del Burkina Faso, generale Honoré Traoré, si era auto-proclamato in diretta televisiva nuovo leader del paese ma, poco dopo, un identico annuncio è stato diffuso dal numero due della guardia presidenziale, colonnello Isaac Zida. Per alcune ore non è stato chiaro se tra i militari ci fossero divisioni significative ma Zida è sembrato infine ottenere l’appoggio effettivo delle forze armate.
L’iniziativa dei militari aveva di fatto comportato la dissoluzione dell’Assemblea Nazionale e la sospensione della Costituzione, la quale, in caso di dimissioni o impedimento da parte del presidente, prevede che quest’ultimo sia sostituito dallo “speaker” dello stesso organo legislativo e che nuove elezioni siano indette entro 90 giorni.
I piani dei vertici militari hanno da subito incontrato la resistenza della popolazione mobilitatasi contro il presidente Compaoré. Domenica, infatti, nuove manifestazioni sono andate in scena nella capitale per protestare contro il colpo di stato e chiedere il passaggio del potere alle autorità civili.
La sede dell’emittente televisiva nazionale è stata ancora una volta presa di mira, con due esponenti dell’opposizione che hanno trasmesso altrettanti comunicati nei quali si sono anch’essi auto-dichiarati leader ad interim del paese.
Alla fine, l’esercito ha deciso di prendere in mano la situazione e disperdere le proteste, provocando la morte di un manifestante, colpito, secondo la versione ufficiale, da un proiettile sparato accidentalmente ad altezza d’uomo. Secondo l’opposizione, nel corso di una settimana di proteste ci sarebbero stati almeno 30 morti, mentre fonti ospedaliere citate dall’agenzia di stampa AFP hanno parlato di 6 decessi.
La manifestazione di domenica era stata almeno in parte organizzata dai partiti dell’opposizione del Burkina Faso, dopo un incontro tra i loro leader e l’ambasciatore francese un paio di giorni prima. Parigi, assieme a Washington, ha infatti emesso comunicati ufficiali per fare appello alla calma e per chiedere il rispetto formale della legge, così da incanalare la crisi in atto in un processo di transizione “democratico”.
Esposta alle pressioni internazionali e, come aveva ipotizzato nel fine settimana l’inviato delle Nazioni Unite per l’Africa occidentale, Mohamed Ibn Chambas, alla minaccia di sanzioni, la neonata leadership militare ha finito per annunciare nella giornata di lunedì la formazione di un governo di transizione. Il gabinetto che sarà chiamato a guidare il paese dovrà essere il risultato di un “ampio consenso”, anche se il colonnello Zida non ha fornito indicazioni sui tempi previsti.
Un vertice dell’Unione Africana organizzato lunedì ad Addis Abeba, in Etiopia, si è risolto con una sorta di ultimatum ai militari del Burkina Faso, accusati di avere agito contro la Costituzione e invitati a trasferire il potere a un governo civile entro due settimane per evitare sanzioni.
Gli appelli ai diritti democratici della popolazione “burkinabè” da parte americana o francese sono in ogni caso del tutto risibili. I timori dei governi occidentali derivano piuttosto dall’eventualità più che concreta che la situazione nel paese strategicamente importante della regione del Sahel avesse potuto sfuggire di mano.
La reazione di una popolazione impoverita alla presa del potere da parte dei militari ha in definitiva prospettato la fine di un regime decisamente ben disposto verso l’Occidente e che, sotto la guida di Compaoré, ha a lungo garantito gli interessi della ex potenza coloniale - la Francia - così come degli Stati Uniti.
La creazione di un governo di transizione nominalmente civile e che rispetti in apparenza le procedure democratiche servirà a spegnere il principio di rivolta nel paese e a certificare l’elezione di un nuovo leader, possibilmente attento a non deviare troppo dalle politiche filo-occidentali del presidente appena deposto.
Come hanno puntualmente ricordato quasi tutti i media occidentali nei giorni scorsi, Compaoré era oggetto dell’ammirazione della “comunità internazionale” perché, ad esempio, aveva favorito la risoluzione di recenti conflitti, come in Mali e in Costa d’Avorio, con modalità gradite all’Occidente.
La prima di queste due crisi aveva portato, anche grazie all’ormai ex presidente del Burkina Faso, al dispiegamento in Africa occidentale di un contingente militare straniero - in gran parte francese - ufficialmente per combattere gruppi fondamentalisti islamici che avevano occupato le regioni settentrionali del Mali ma, in realtà, da inserire nel quadro della competizione soprattutto con la Cina per il controllo delle risorse localizzate in quest’area del continente
Nel caso della Costa d’Avorio, invece, Compaoré, aveva appoggiato i ribelli che, dopo le contestate elezioni presidenziali del 2010, intendevano installare alla guida del paese l’ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale, Alassane Ouattara, al posto del presidente in carica, Laurent Gbagbo, responsabile di avere stabilito solide relazioni politiche ed economiche con la Cina.
Compaoré aveva già mediato un processo di pace in Costa d’Avorio nel 2007 e ha poi svolto lo stesso ruolo nel 2011 con il pieno appoggio del governo francese, impegnato a favore di Ouattara. In segno di gratitudine, secondo alcune fonti citate dalla stampa transalpina, proprio quest’ultimo avrebbe fatto visita al deposto presidente del Burkina Faso nella serata di sabato presso la sua nuova residenza ivoriana.
Blaise Compaoré aveva fatto irruzione sulla scena politica “burkinabè” partecipando a un colpo di stato militare nel 1983 contro il presidente dell’allora Repubblica dell’Alto Volta, Jean-Baptiste Ouédraogo.
Dopo il golpe, la carica di presidente era stata assegnata al capitano 33enne Thomas Sankara, diventato rapidamente popolare grazie all’avvio di politiche anti-imperialiste e di ispirazione socialista, come la nazionalizzazione delle compagnie private operanti nella ex colonia francese e la promozione di iniziative contro la povertà, così come per l’alfabetizzazione e la vaccinazione di massa contro malattie fino ad allora mortali.
Compaoré era considerato uno degli uomini più vicini a Sankara ma nel 1987 fu lui a guidare un nuovo colpo di stato contro il presidente, rimasto ucciso in circostanze tutt’altro che chiare. Dopo la fine della breve era Sankara, Compaoré interruppe le politiche adottate fino a quel momento, assicurando l’allineamento del suo paese alle potenze occidentali.
Pur avendo consolidato la propria posizione di potere in quasi tre decenni, Compaoré negli ultimi anni ha dovuto fronteggiare svariate proteste popolari, tra cui quelle più minacciose erano state registrate nel 2011 in parallelo con gli eventi della cosiddetta “primavera Araba” in Medio Oriente e in Africa settentrionale.
Uscito apparentemente indenne dalle manifestazioni di tre anni fa, Compaoré ha alla fine dovuto soccombere di fronte all’odio e all’insofferenza di una popolazione che continua a godere poco o per nulla delle ricchezze generate dalla produzione e dall’esportazione di beni e risorse di cui il Burkina Faso è ricco, a cominciare da cotone e oro.
A fornire l’occasione per l’esplosione della rabbia popolare covata da tempo è stata dunque la sete di potere del presidente, intenzionato a prolungare indefinitamente la propria permanenza al vertice dello stato anche contro il consiglio del collega francese François Hollande, il quale solo pochi giorni prima della sua caduta aveva saggiamente consigliato in una lettera privata all’amico “Blaise”, resa nota dal settimanale Jeune Afrique, di non assumersi “il rischio di un cambiamento non consensuale della Costituzione”.
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di Michele Paris
Per decenni dopo la fine di una Seconda Guerra Mondiale combattuta ufficialmente per fermare la minaccia del nazi-fascismo e in difesa della democrazia, gli Stati Uniti hanno assoldato migliaia di ex membri del regime nazista da impiegare come spie, informatori o ricercatori, nonostante il passato da criminali di molti di loro fosse ben noto alle agenzie di intelligence americane.
La notizia è tutt’altro che nuova ma un libro pubblicato questa settimana negli Stati Uniti (The Nazis next door: how America became a safe haven for Hitler’s men) e scritto dal reporter del New York Times, Eric Lichtblau, racconta alcuni particolari nel dettaglio e rivela una collaborazione tra la CIA, così come altre agenzie governative, e gli ex nazisti decisamente più profonda rispetto a quanto era noto finora.
I piani più “aggressivi” per reclutare ex nazisti vengono attribuiti soprattutto agli sforzi messi in atto negli anni Cinquanta dall’FBI sotto la guida di J. Edgar Hoover e dalla CIA di Allen Dulles. Il desiderio di avere a disposizione indivdui ben addestrati in vari ambiti - da quello militare a quello scentifico o dell’intelligence - per essere utilizzati in funzione anti-sovietica aveva prevalso su qualsiasi altro scrupolo, tanto che Hoover, ad esempio, era solito respingere le accuse nei loro confronti come propaganda di Mosca.
Molti degli ex nazisti a cui fu garantito l’accesso negli Stati Uniti erano noti criminali di guerra e, ciononostante, i vertici della sicurezza nazionale americana non solo li avrebbero ingaggiati ma sarebbero giunti ad adoperarsi per ostacolare varie indagini nei loro confronti.
Il libro di Lichtblau si basa sul lavoro di un gruppo di ricerca negli Stati Uniti che si occupa di identificare e classificare documenti relativi ai crimini nazisti e del Giappone imperiale. Alcuni documenti analizzati dall’autore contribuiscono a fare maggiore luce anche sull’impegno del governo USA nel creare una nuova agenzia di intelligence nella Germania dell’Ovest (BND) dopo la fine del conflitto.
Già una ricerca di alcuni storici del 2004 aveva mostrato come il numero uno dei servizi segreti nazisti sul Fronte Orientale, generale Reinhard Gehlen, fosse stato scelto dai militari americani per mettere in piedi il primo nucleo dell’intelligence tedesco-occidentale. Gehlen scelse personalmente un centinaio di ex nazisti che avevano avuto incarichi di spicco nell’esercito o nei servizi segreti del Reich.
Il gruppo di spie finite successivamente sul libro paga della CIA includeva allo stesso modo ex nazisti che avevano operato ai vertici del regime di Adolf Hitler, come l’ex ufficiale delle SS, Otto von Bolschwing. Quest’ultimo era molto vicino ad Adolf Eichmann, del quale condivideva la teoria della “Soluzione Finale”, essendo stato autore di scritti programmatici sullo sterminio degli ebrei.
Dopo la guerra, scrive Lichtblau, Bolschwing era stato assoldato dalla CIA come spia in Europa e nel 1954 venne trasferito a New York assieme alla famiglia. L’agenzia di intelligence americana scriveva a proposito dell’ex SS che la residenza negli USA gli era stata offerta come “premio per i suoi fedeli servizi nel dopoguerra e alla luce dell’irrilevanza delle sue attività nel partito [Nazista]”.
La protezione della CIA non doveva tuttavia lasciare troppo tranquillo un uomo con il passato di Bolschwing, visto che l’ex nazista, dopo la cattura di Eichmann da parte degli israeliani in Argentina nel 1960, manifestò ai suoi nuovi padroni americani la preoccupazione di venire catturato allo stesso modo.
Anche la CIA stessa era in apprensione, poiché l’eventuale arresto di Bolschwing avrebbe potuto esporre il suo passato da “collaboratore” di Eichmann, risultando “imbarazzante” per il governo USA. Due agenti della CIA incontrarono però Bolschwing nel 1961 e gli assicurarono che l’agenzia non avrebbe rivelato i suoi legami con Eichmann. Bolschwing sarebbe così vissuto indisturbato per altri vent’anni prima di essere scovato e messo sotto accusa. Nel 1981 rinunciò alla cittadinanza americana e morì alcuni mesi più tardi.
Un altro caso raccontato dal libro appena pubblicato è quello del collaboratore dei nazisti in Lituania, Aleksandras Lileikis, collegato dagli stessi documenti della CIA al massacro di 60 mila ebrei a Vilnius. Nonostante i sospetti sulle sue responsabilità e il fatto che fosse “sotto il controllo della Gestapo durante la guerra”, Lileikis venne assunto dalla CIA nel 1952 per condurre attività di spionaggio in Germania dell’Est.
Quattro anni più tardi sarebbe stato anch’egli accolto negli USA, dove ha vissuto in pace per quasi quarant’anni prima di venire scoperto nel 1994. Il Dipartimento di Giustizia USA si sarebbe dovuto però scontrare con l’ostruzionismo della CIA, da dove si invitava a insabbiare il caso per evitare la diffusione di informazioni imbarazzanti per l’agenzia di intelligence.
Lileikis fu alla fine deportato in Lituania ma la CIA si sarebbe distina nuovamente per i suoi sforzi nel nascondere il passato criminale del proprio uomo. In una comunicazione classificata trasmessa alla commissione della Camera dei Rappresentanti per i Servizi Segreti, la CIA aveva infatti ammesso l’utilizzo di Lileikis come spia, negando però di essere a conoscenza delle sue “attività in tempo di guerra”.
Nel 1980 fu invece l’FBI a respingere le richieste del Dipartimento di Giustizia di consegnare documenti e informazioni relativi a 16 sospetti ex nazisti residenti negli Stati Uniti. L’atteggiamento dell’FBI era dovuto al fatto che i 16 individui erano stati tutti suoi informatori, resisi utili, tra l’altro, nel fornire notizie relative a “simpatizzanti comunisti”.
Tra le personalità legate al nazismo che collaborarono con la CIA ci sono stati anche svariati scienziati che il governo USA sapeva essere coinvolti in esperimenti pseudo-medici su esseri umani. Gli scienziati nazisti furono reclutati a partire dal 1945, quando il precursore della CIA - l’Office of Strategic Services (OSS) - fu autorizzato dall’amministrazione Truman a mettere in atto il cosiddetto progetto “Paperclip”.
In base a questo piano giunsero negli USA almeno 1.500 scienziati tedeschi legati al regime hitleriano. A costoro sarebbe stata garantita la possibilità di continuare a svolgere l’attività scientifica nella loro nuova patria dopo avere firmato una dichiarazione nella quale erano tenuti a spiegare le ragioni dell’adesione al Partito Nazista.
Tra gli scienziati ingaggiati dalla CIA figurava il dottor Hubertus Strughold, fortemente sospettato di avere condotto raccapriccianti esperimenti anche su bambini. Strughold era stato messo sotto indagine nell’ambito del processo di Norimberga ma le accuse furono lasciate cadere nel 1947. Di lì a poco, il medico nazista sarebbe stato trasferito in Texas, dove gli fu garantito un impiego per l’aeronautica militare americana, mentre alcune successive inchieste avviate nei suoi confronti dal sistema giudiziario degli Stati Uniti non avrebbero avuto alcun successo.
Complessivamente, i documenti citati dal giornalista del New York Times indicano almeno un migliaio di ex nazisti al servizio della CIA, dell’FBI e di altre agenzie USA dopo la Seconda Guerra Mondiale. Secondo gli stessi ricercatori, tuttavia, il numero reale deve essere molto superiore, dal momento che parecchi documenti restano tuttora classificati.
Il recentissimo studio, assieme a molti altri pubblicati in passato, contribuisce dunque a rivelare l’atteggiamento indiscutibilmente benevolo nei confronti del nazismo da parte delle sezioni più potenti e influenti della clase dirigente americana dopo la Seconda Guerra Mondiale.
A motivare la collaborazione con individui macchiatisi di crimini atroci, e che incarnavano un’ideologia e un sistema di potere dittatoriale che gli Stati Uniti e i loro alleati sostenevano dovessero essere annientati con la forza, era in sostanza il timore dell’Unione Sovietica e dei fermenti rivoluzionari seguiti al conflitto.
L’impiego senza scrupoli di criminali nazisti per il raggiungimento degli obiettivi dell’imperialismo americano rende infine evidente come i valori della “democrazia” e della lotta al nazi-fascismo - con una eco inquietante che ricorda l’attuale “guerra al terrore” - fossero per il governo di Washington poco più di espedienti retorici per mobilitare l’opinione pubblica e intervenire in una guerra da combattere in difesa di interessi decisamente meno nobili.
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di Michele Paris
Le formazioni politiche ucraine filo-occidentali si sono aggiudicate come previsto il maggior numero di voti nelle elezioni per il rinnovo del parlamento (Verkhovna Rada) andate in scena nella giornata di domenica. La consultazione è servita in larghissima misura a dare un’apparenza di legittimità al regime golpista di Kiev in vista dell’adozione delle “riforme” resesi necessarie dalla rottura con Mosca e dal conseguente abbraccio con Washington e Berlino.
Con il conteggio delle schede valide non ancora ultimato, i partiti che hanno ottenuto più seggi sono il Fronte Popolare del primo ministro, Arseny Yatsenyuk, e il Blocco che porta il nome del presidente, l’oligarca Petro Poroshenko.
Entrambi i partiti navigano attorno al 21 o al 22%, con il Blocco Poroshenko che sembrava essere in testa dopo la diffusione degli exit poll e quello del premier che, secondo le proiezioni, ha invece sopravanzato quest’ultimo, sia pure con un margine esilissimo.
Complessivamente, le formazioni che hanno superato la soglia di sbarramento del 5% sarebbero 6 sulle 29 totali apparse sulle schede elettorali. Al terzo posto si è posizionato il partito Samopomich del sindaco di Lvov, Andrey Sadovy, con circa l’11%. I negoziati per la formazione del nuovo governo sono già iniziati lunedì tra il Fronte Popolare e il Blocco Poroshenko, anche se altri partiti potrebbero entrare a far parte della coalizione, a cominciare dallo stesso Samopomosh visto l’orientamento decisamente filo-occidentale dei suoi leader.
In parlamento entreranno anche il partito Patria (Batkivshchina) della ex premier e oligarca Yulia Tymoshenko, che ha raccolto poco meno del 6%, e con il 7,4% il Partito Radicale guidato da Oleh Lyashko, ex alleato della Tymoshenko e acceso oppositore di qualsiasi riconciliazione con Mosca.
Contrariamente alle aspettative, poi, il Blocco dell’Opposizione, formato da ex membri del Partito delle Regioni del presidente deposto Yanukovich e da altri politici filo-russi, ha fatto segnare un buon risultato sfiorando il 10%.
Il Blocco, il cui leader è l’ex vice-primo ministro e già numero uno della compagnia energetica pubblica Naftogaz, Yuri Boiko, è risultato anzi il primo partito in varie regioni dell’Ucraina sud-orientale, grazie sia all’appoggio dell’oligarca Sergiy Liovochkin sia alla persistente avversione nei confronti di Kiev diffusa tra la popolazione tradizionalmente legata alla Russia.
Altri partiti che chiedono il ristabilimento dei legami privilegiati con Mosca non hanno infine superato lo sbarramento, come il Partito Comunista Ucraino, minacciato di scioglimento dai politici europeisti e sottoposto a intimidazioni e persecuzioni di vario genere nei mesi seguiti al colpo di stato di Febbraio.
I voti espressi per le varie liste presentate da partiti e blocchi elettorali sono serviti a scegliere solo gli occupanti della metà dei 450 seggi complessivi del Parlamento. L’altra metà viene assegnata con il voto diretto per i singoli candidati, appoggiati da un determinato partito o indipendenti.
Grazie a questo secondo aspetto della legge elettorale ucraina si sono già garantiti seggi in Parlamento una manciata di candidati dei partiti di estrema destra, se non apertamente neo-fascisti, Svoboda e Settore Destro, tra cui il leader di quest’ultimo, Dmitry Yarosh, eletto nella regione di Dnepropetrovsk con circa il 30% dei voti.
Oltre che dalla discutibile legittimità del regime installatosi a Kiev con l’aiuto dei governi occidentali, la validità del voto di domenica è messa in dubbio anche dal sostanziale boicottaggio attuato dai “ribelli” filo-russi nell’est del paese, i quali organizzerranno domenica prossima un’elezione a parte nelle aree sotto il loro controllo.
Secondo alcune stime, tra i 3 e i 5 milioni di ucraini nelle regioni vicine alla Russia non si sono recati alle urne, vale a dire tra il 10 e il 20% dell’intero elettorato. Inoltre, in altre regioni sud-orientali l’affluenza è stata decisamente più bassa rispetto a quella generale, fissata dalla Commissione Elettorale al 52,4%. Nella regione di Odessa, ad esempio, secondo i dati ufficiali i votanti non sono arrivati al 40%, mentre in quella di Donetsk hanno superato di poco il 32%.
Come già ancitipato, le consultazione per la formazione del nuovo gabinetto sono iniziate lunedì ancor prima dei dati ufficiali definitivi e i leader del Blocco Poroshenko hanno lasciato intendere che all’interno della coalizione di governo potrebbero entrare tutte le forze che hanno partecipato al golpe contro Yanukovich, incluso il partito Svoboda.
Lo status di primo partito per il Fronte Popolare dovrebbe poi assicurare la conferma dell’attuale premier Yatseniuk alla guida del governo, come auspicato dall’Occidente. Scelto direttamente da Washington per il dopo Yanukovich, il primo ministro dovrebbe continuare a presiedere all’implementazione del programma di “ristrutturazione” dell’economia ucraina dettato dal Fondo Monetario Internazionale.
Le misure previste minacciano in un futuro non troppo distante di far riesplodere le tensioni nel paese dell’Europa orientale, questa volta contro il nuovo regime, così che il voto è stato deciso e viene ora utilizzato dagli oligarchi ucraini che dominano la scena politica anche per cercare di mettere assieme la coalizione più ampia possibile che dia una parvenza democratica al regime.
Parlando al paese poco dopo la chiusura delle urne, il presidente Poroshenko ha ringraziato infatti gli elettori per avere scelto una “maggioranza democratica, riformista e filo-occidentale”. Allo stesso modo, i governi occidentali hanno salutato il voto come una conferma del percorso democratico che avrebbe intrapreso l’Ucraina.
Tra le celebrazioni, si è ovviamente tralasciato di ricordare come questi ultimi mesi siano stati in realtà caratterizzati da una violenta repressione ai danni dei separatisti filo-russi e della popolazione russofona, condotta dalle forze regolari di Kiev e da milizie paramilitari neo-fasciste, così come dalla persecuzione degli oppositori del colpo di stato e dall’avvio di rovinose politiche ultra-liberiste.
Se il nuovo governo ucraino guarderà così ancor più a Occidente, secondo molti sembra esserci all’orizzonte anche un accordo con la Russia per la risoluzione della crisi nelle regioni orientali. Da Mosca, infatti, è già arrivato il riconoscimento del voto di domenica, a conferma della continua disponibilità di Putin, ferme restando alcune condizioni imprescindibili, a superare uno scontro che sta avendo effetti indesiderati su tutte le parti in causa.
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di Fabrizio Casari
Smentendo cassandre ed improvvisati analisti, Dilma Roussef è ancora Presidente del Brasile. La sua vittoria è di grande significato, decisamente più ampio del margine numerico con la quale è stata ottenuta al ballottaggio. E va comunque detto che anche sotto l’aspetto numerico la vittoria della Roussef non è stata affatto trascurabile, dal momento che il convergere dei voti della ex di tutto Marina Silva su Neves aveva ovviamente portato il candidato del latifondo e dell’imprenditoria brasiliana in una posizione di vantaggio teorico più che evidente. E invece la Presidente uscente ha vinto con più di tre milioni di voti di scarto.
E’ vero che il margine con il quale Dilma s’è imposta è minore rispetto agli ultimi anni, ma se si considera una naturale flessione del PT dopo 12 anni di governo e che Lula non può comunque essere un paragone per nessuno, data la sua strabordante popolarità, si capisce come la partita fosse più complicata del passato.
Del resto, le proteste che avevano scosso il paese prima e durante i Mondiali di calcio, il malessere ormai diffuso contro la corruzione e una riduzione dell’impatto riformatrice, insieme ad una campagna mediatica sapientemente orchestrata da Washington, avevano messo fortemente in discussione il governo della Presidente. Molti commenatori, da mesi, si esercitavano nel vaticinare la sicura sconfitta di Dilma, dapprima ad opera della voltagabbana di professione Silva, poi dall’ex governatore di Minais Gerais noto per i livelli di corruzione ed incapacità tra i più alti del Paese.
E invece la Presidenta ce l’ha fatta e il PT è riuscito ad imporre di nuovo un progetto Brasile che prevede sovranità nazionale, indipendenza e relazione privilegiata con il Sud del continente. Il proseguimento del cammino di Dilma significa infatti lo stop ai programmi della destra, che prevedevano per l'estero l'abbandono del blocco democratico latinoamericano e il ritorno sotto l'ala protettrice di Washington; per l'interno, di conseguenza, l’applicazione delle ricette del Fondo Monetario Internazionale. Le chiamano operazioni di “aggiustamento strutturale”, ma si legge devastazione sociale e progressivo trasferimento di sovranità dallo Stato al sistema bancario internazionale. Pericolo scampato.
Il Brasile può riprendere la corsa che aveva dimostrato come fosse capace di aggredire la povertà più di chiunque altro. La riduzione enorme della miseria, i milioni di posti di lavoro, l’ampliamento degli investimenti in istruzione e salute, l'inclusione di decine di milioni di brasiliani, hanno ridotto sensibilmente - pur se tanta è ancora la strada da fare - la forbice sociale che faceva del Brasile il paese simbolo delle diseguaglianze.
E, seppure in una fase di compressione della spinta espansiva del ciclo economico, dovrà comunque mettere mano alle riforme che gli consentiranno di approfondire il percorso di redistribuzione della ricchezza del Paese, trasformando così in riforme strutturali quelle che, fino ad ora, sono state politiche coraggiose ed includenti ma che, pur necessarie, non sono ancora sufficienti a colmare il gap socioeconomico interno.
E oltre ad estendere ed incrementare le riforme economiche e il rafforzamento del welfare attuato nei tre mandati precedenti del PT, Dilma proverà a cercare il dialogo con i ceti medi che chiedono significativi passi avanti in termini di maggiore benessere.
Tenere insieme le istanze del Movimento Senza Terra e della piccola e media borghesia brasiliana può sembrare un obiettivo impossibile sulla carta, ma la coesione sociale determinata dalle politiche espansive e di sostegno al welfare sono benzina nel motore della trasformazione del Brasile; trasformazione della quale, a cascata, tutti i segmenti non parassitari della società trarranno beneficio.
Un grande peso avranno però le riforme politiche, cioè l’altra grande sfida da vincere per Dilma che ha affermato di voler riformare l’immunità parlamentare, da lei definita “la protettrice della corruzione”.
Dilma governerà con una opposizione più forte che in passato. Una opposizione che tiene insieme il latifondo, la finanza e buona parte (non tutta) dell’imprenditoria, spalleggiate dalle associazioni degli ex militari spaventati da quanto la Presidente ha promesso in ordine alla riscoperta della memoria storica del paese.
Così come già realizzato in Argentina e, in parte minore in Uruguay, anche il Brasile potrà riscrivere gli anni della dittatura militare e degli abusi continui perpetrati in nome della “lotta al comunismo” e la riapertura dei casi di omicidi, violenze e torture sui prigionieri politici agitano i sogni degli ex gorilla della dittatura.
Sul piano internazionale la vittoria non è meno importante e i riflessi sull’intero continente sono decisivi, soprattutto perché la vittoria di Dijlma impedirà la virata a 360 gradi che Naves aveva annunciato, consistente nel ritorno del Brasile nella sfera d’influenza degli Stati Uniti con il conseguente abbandono delle politiche d’integrazione regionale e alleanza politica con il blocco democratico latinoamericano.
La vittoria del PT fa esultare Caracas e Buenos Aires, tranquillizza La Habana e Managua, conforta La Paz e Quito e rasserena Montevideo, in attesa del ballottaggio tra Tabarè Vasquez e Luis Lacalle Pou (che dovrebbe comunque vedere vincente Tabarè e il Frente Amplio); cioè tutti quei paesi che sulla nuova dimensione democratica ed integrazionista latinoamericana hanno scommesso per la loro politica interna ed internazionale.
Per le dimensioni economiche e militari e per il peso politico e diplomatico che gli appartengono, un eventuale marcia indietro del Brasile avrebbe comportato un problema enorme alle democrazie latinoamericane. Sul piano internazionale più ampio, il ruolo di Brasilia nei BRICS, come nei NOAL è strategico; insieme al Sudafrica rappresenta l’interlocutore politico più considerato sia a Washington che a Bruxelles, a Tokio come a Pechino.
Le aperture a Mosca e Teheran sul piano dei rapporti commerciali bilaterali che hanno compreso persino la sfera delle dotazioni militari e degli investimenti per lo sviluppo, esprimono sufficientemente l’autorevolezza di un paese che, grande come un continente, è destinato ad avere un ruolo ogni giorno maggiore. E con lui, l’intera America Latina.
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di Michele Paris
A sette anni di distanza da una delle stragi più famose avvenute nell’Iraq occupato dagli americani, quattro ex mercenari della compagnia privata di sicurezza Blackwater sono stati condannati in primo grado da una giuria federale negli Stati Uniti. L’ex contractor Nicholas Slatten è stato riconosciuto colpevole di omicidio di primo grado, mentre i suoi colleghi Evan Liberty, Paul Slough e Dustin Heard di omicidio volontario (“manslaughter”) e di avere utilizzato mitragliatori per commettere un crimine violento.
Le pene per le quattro ex guardie private verranno stabilite in un secondo momento dal giudice che ha presieduto il procedimento durato 11 settimane. Per Slatten si prospetta un possibile ergastolo, mentre per gli altri tre mercenari la pena minima prevista è di trent’anni.
Un quinto contractor, Jeremy Ridgeway, si era dichiarato colpevole di omicidio volontario prima dell’inizio del processo e si era messo a disposizione dell’accusa, risultando fondamentale per la condanna dei colleghi.
Anche se i quattro sono stati subito tradotti in carcere, il caso è tutt’altro che concluso. Il praticamente certo appello potrebbe prolungarsi per più di un anno e una questione di competenze minaccia addirittura l’annullamento dell’intero processo.
Secondo la legge americana, cioè, il dipartimento di Giustizia ha giurisdizione sui crimini commessi all’estero solo da parte di appaltatori della Difesa, ovvero del Pentagono, mentre Blackwater all’epoca dei fatti nel 2007 era alle dipendenze del Dipartimento di Stato. In primo grado, i giurati hanno ritenuto trascurabile la questione tecnica ma essa potrebbe riemergere nei prossimi mesi.
In ogni caso, le sentenze di condanna appena emesse sono il riflesso del sentimento di disgusto nutrito tra la popolazione irachena e americana per il massacro di piazza Nisour, per la libertà di commettere crimini e l’impunità di cui hanno goduto agenzie private come Blackwater nel paese occupato, grazie ai legami con il governo di Washington.
La decisione dei giurati è però anche la conseguenza di un caso che ha sempre mostrato la fragilità delle tesi della difesa. Che i mercenari avessero sparato contro una folla di civili a piedi e in auto nel traffico di piazza Nisour, a Baghdad, per rispondere a una presunta minaccia non ha infatti mai trovato alcun riscontro.
Indagini condotte dal governo e da importanti giornali americani, così come le testimonianze di decine di cittadini iracheni che si erano recati a Washington nei mesi scorsi, hanno in sostanza delineato uno scenario nel quale gli uomini di Blackwater avevano preso di mira i veicoli fermi nel traffico nella capitale senza ragione dopo avere individuato una singola auto come possibile minaccia. Alla fine della giornata del 16 settembre 2007, sul campo rimasero 17 civili iracheni morti e una ventina di feriti.
Il nome stesso Blackwater, soprattutto dopo i fatti di piazza Nisour, era così diventato sinonimo di violenza, soprusi e oppressione di un intero popolo e di una società letteralmente devastata dall’invasione illegale del 2003.
La compagnia privata di sicurezza era stata fondata da un ex agente della CIA, Erik Prince, e aveva incassato centinaia di milioni di dollari di denaro pubblico grazie a lucrosi contratti per la difesa dei diplomatici USA nell’Iraq occupato e per altri incarichi segreti.
La potenza di Blackwater era apparsa evidente anche dal trattamento che i suoi uomini avevano ricevuto dal governo americano proprio dopo i fatti del settembre 2007. Il Dipartimento di Stato, ad esempio, aveva “ripulito” la scena del crimine per ostacolare la raccolta di prove, mentre in seguito avrebbe offerto una parziale immunità ai contractor coinvolti, rendendo più difficile la loro incriminazione da parte del Dipartimento di Giustizia.
Nel 2009 un giudice americano prosciolse poi di fatto i mercenari di Blackwater a causa del comportamento “irresponsabile” del governo, anche se il caso è stato infine riportato in aula con l’esito registrato qualche giorno fa.
Il governo americano ha cercato di trasformare il verdetto in una vittoria per l’amministrazione Obama e nella dimostrazione del presunto impegno di Washington per la giustizia e i valori democratici. In realtà, la condanna degli uomini di Blackwater non è che il riconoscimento delle colpe enormi della classe dirigente americana, responsabile del crimine più grave del nuovo secolo, cioè la sostanziale distruzione dell’Iraq.
Il comportamento dei contractor privati al servizio del governo deriva infatti dal crimine stesso dell’invasione e dell’occupazione, avvenute unicamente per ragioni strategiche, per le quali nessun membro della precedente amministrazione è stato messo sotto processo né tantomeno condannato.
Oltre a piazza Nisour, i crimini americani di contractor privati e dell’esercito regolare restano legati a numerose altre località, da Falluja a Hadihta ad Abu Ghraib, per non parlare delle “imprese” statunitensi in Afghanistan o in Pakistan, per limitarsi solo all’ultimo decennio, compiute sia durante la presidenza Bush sia durante quella di Obama.
Il rapporto del governo americano con compagnie private di sicurezza come Blackwater non è infine sostanzialmente cambiato. Quest’ultima, ad esempio, dopo essere stata ribattezzata “Xe Services” nel 2009 e “Academi” nel 2011, ha continuato ad essere utilizzata come strumento della politica estera USA, avendo ottenuto contratti milionari con il Dipartimento di Stato e partecipando alla repressione in Ucraina orientale messa in atto dalle forze di Kiev e dalle milizie neo-naziste appoggiate dall’Occidente.