di Michele Paris

La vicenda dei due ostaggi giapponesi sequestrati dallo Stato Islamico (ISIS), di cui uno già giustiziato, ha fornito una nuova occasione al governo di Tokyo del primo ministro Shinzo Abe per avanzare una serie di proposte di legge in materia di “sicurezza”, in modo da consentire un più agile e incisivo impiego delle forze armate del paese dell’Estremo Oriente nelle aree di crisi del pianeta.

Il premier di estrema destra ha parlato questa settimana a una riunione del suo Partito Liberal Democratico (LDP) poco prima dell’inaugurazione della nuova sessione del parlamento (Dieta) per annunciare che saranno introdotte misure volte a “proteggere le vite dei giapponesi e il nostro pacifico stile di vita”.

In particolare, saranno un’ottantina le bozze di legge da discutere da qui alla fine di giugno, tra cui almeno dieci relative alle attività delle cosiddette Forze di Auto Difesa, ovvero le forze armate giapponesi. A breve, l’LDP inizierà i negoziati con il suo partner di governo, il partito buddista Komeito, teoricamente pacifista, e un voto sulle misure proposte è previsto per il mese di aprile, con ogni probabilità dopo le elezioni amministrative.

Lo scopo della legislazione è quello di codificare la reinterpretazione della costituzione pacifista giapponese, decisa dal governo Abe lo scorso anno. Con questa iniziativa, il gabinetto conservatore aveva compiuto il primo passo verso il ritorno alla piena militarizzazione del Giappone, affermando il principio di “autodifesa collettiva”, cioè di intervenire con i propri soldati nel caso un paese alleato finisca sotto attacco.

Nel pieno del clima di isteria generato dal rapimento dei due cittadini giapponesi in Medio Oriente, Abe intende ottenere un quadro legale all’interno del quale il governo possa avere facoltà di ordinare il dispiegamento di truppe all’estero senza passare attraverso un dibattito e un voto della Dieta, come è ad esempio accaduto nel recente passato con la partecipazione alle occupazioni americane di Afghanistan e Iraq.

L’utilizzo più spregiudicato delle forze armate come strumento della sempre più aggressiva politica estera giapponese è uno degli obiettivi amessi dal primo ministro nemmeno tanto velatamente. Sfruttando il caso dei due ostaggi detenuti dall’ISIS, Abe ha infatti ammonito che “le capacità delle Forze di Auto Difesa non possono essere utilizzate in pieno nemmeno quando è in pericolo la vita di un cittadino giapponese all’estero”.

Secondo il quotidiano Asahi Shimbun, perciò, una delle nuove leggi che l’amministrazione Abe sta considerando consentirebbe ai militari di condurre operazioni per liberare eventuali ostaggi giapponesi tenuti prigionieri all’estero.

La sicurezza dei connazionali nipponici non è comunque lo scrupolo principale che guida la campagna militarista di Abe, bensì, da un lato, la necessità di avere a disposizione uno strumento per imporre o difendere gli interessi del capitalismo giapponese al di fuori dei confini nazionali e, dall’altro, l’integrazione nei piani strategici di Washington, in particolare nel continente asiatico in funzione di contenimento della Cina.

Gli Stati Uniti considerano d’altra parte l’alleato giapponese come un elemento fondamentale nell’eventualità di un’azione militare o di un blocco navale contro Pechino. L’esplosione di una guerra con la Cina comporterebbe la necessità di coinvolgere il Giappone, il cui governo dovrebbe avere così mano libera nel decidere la mobilitazione delle forze armate in aiuto dei propri alleati.

Che l’obiettivo principale dell’accelerazione militarista di Abe sia la Cina è confermato anche da un’altra proposta di legge, in base alla quale il governo potrebbe ordinare il dispiegamento di truppe e forze navali nel caso imbarcazioni o individui dovessero entrare nelle acque territoriali o sbarcare su isole giapponesi.

Il riferimento in questo caso è evidentemente alla contesa delle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale, oggetto negli ultimi anni di vari scontri non solo diplomatici tra Tokyo e Pechino.

Il carattere reazionario delle misure allo studio del governo giapponese è rivelato infine da una proposta di legge che consentirebbe di fatto il restringimento dei diritti civili in caso di attacco o di minaccia di attacco dall’estero. In questo caso potrebbe essere introdotto una sorta di stato di emergenza, così che l’esecutivo possa facilmente ordinare la repressione di qualsiasi genere di protesta o dissenso.

L’abbandono dell’orientamento pacifista fissato dalla carta costituzionale del Giappone fin dal termine della seconda guerra mondiale è in ogni caso osteggiato dalla maggioranza della popolazione. Le iniziative in senso militarista del premier Abe sono perciò possibili solo grazie all’inconsistenza dell’opposizione, ma anche e soprattutto a manovre politiche che hanno sostanzialmente impedito un dibattito pubblico sull’argomento e, com’è evidente in questi giorni, a una calibrata manipolazione dell’opinione pubblica, comprensibilmente inorridita di fronte alla sorte dei due ostaggi giapponesi nelle mani dell’ISIS.

Abe, infatti, non ha perso occasione per intervenire sulla vicenda, come ha fatto in diretta TV mercoledì in seguito all’apparizione di un nuovo video, nel quale il giornalista Kenji Goto ha letto un ultimatum dell’ISIS per chiedere la scarcerazione di una detenuta per terrorismo in Giordania in cambio della sua liberazione e di quella di un pilota del regno Hashemita cattuato dai jihadisti in Siria a dicembre.

Abe ha definito “spregevole” il filmato, mentre egli stesso e i membri del suo gabinetto continuano a promuovere l’idea che, in futuro, per evitare o risolvere gravi crisi come quella in atto sarà indispensabile che il governo disponga dei poteri necessari a intervenire militarmente dove, in realtà, a richiederlo sono le pericolose aspirazioni da grande potenza nutrite dalla classe dirigente giapponese.

di Emanuela Muzzi

Londra. Se è vero che le stragi terroristiche a Parigi sembrano aver spostato la minaccia nell’Europa continentale, l’asse Gran Bretagna-Usa contro la lotta al terrorismo islamico sta cercando una strategia comune di rafforzamento che passa attraverso Baghdad ed è finalizzata alla lotta antiterroristica in territorio iracheno e siriano. Il ruolo centrale dell’Iraq è stato ribadito a Londra, dal primo ministro iracheno Haider al-Abadi nella conferenza stampa seguita al vertice della Coalizione antiterrorismo contro l’ISIL che ha riunito i vertici istituzionali di 21 paesi, tra cui l’Italia.

Schierato di fronte alla stampa in posizione centrale tra il capo del Foreign Office britannico Philip Hammond e il segretario di stato USA John Kerry, al-Abadi ha sottolineato che l’azione antiterroristica interna “prevede un’azione di coinvolgimento dei gruppi sunniti”, parole che rimandano ad una strategia di mediazione politica, sia in Iraq che sul fronte internazionale, la cui difficile riuscita è affidata a conflittuali dinamiche interne irachene. Il fronte unico contro Daesh (acronimo arabico di ISIS) dovrebbe fare forza sulla ricostruzione dei rapporti con le tribu sunnite delle aree attualmente sotto il ocntrollo di Isis. 

La centralità strategica di Baghdad non è stato solo un messaggio alla stampa, ma anche e soprattutto ai paesi arabi, (non solo Egitto, Bahrain, Giordania, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, i cui delegati erano ieri al Summit a Londra), perché la creazione di una coalizione su scala globale contro i gruppi terroristici è una risposta al fatto che sotto l’unico nome di Daesh -ISIL diversi gruppi terroristici di matrice islamica si stanno aggregando in pericoloso fronte unico la cui sconfitta non potrà avvenire senza un coinvolgimento diretto di tutto il mondo arabo.

L’azione del Foreign Secretary Philip Hammond in Medio Oriente è l’estensione diplomatica di questa strategia di coalizione: nelle settimane precedenti il vertice della Coalizione anti ISIS, Hammond, ha viaggiato dalla Siria all’Iraq e al Bahrain. Il problema è che la collaborazione del mondo arabo com l’Occidente, Iraq compreso, non sembra essere un impegno gratuito.

Più di una volta durante l’incontro con la stampa, al-Abadi ha parlato del calo del prezzo del petrolio come un problema allarmante che affligge l’Iraq e che potrebbe invertire le sorti della lotta contro Isis. “Non voglio rischiare un capovolgimento della nostra vittoria militare a causa di problemi fiscali e di economia interna” ha detto senza mezzi termini chiarendo che il calo del prezzo del petrolio del 40% rispetto allo scorso anno è disastroso per l’Iraq che vive esclusivamente sul commercio dell’oro nero.

Ai ricatti mediorientali siamo abituati da qualche decennio, non è cosa nuova. Lo stesso Al Abadi accusava fino a poche settimane fa la Coalizione anti Isil guidata dagli Usa di non fare abbastanza per aiutare l’Iraq; la risposta è la pioggia di armi ed M16 dagli alleati a Baghdad. A parte questo, il fronte economico del conflitto la dice lunga sul come le dinamiche stiano sconfinando sull’altalena dei mercati finanziari.

Il conflitto d’interesse tra i paesi occidentali in crisi che vogliono il prezzo del petrolio basso e il Medio Oriente che vuole l’opposto c’è e, anche se non dovrebbe, passa per la lotta ai combattenti-terroristi e ai califfi. É quel margine di pericolosa ambiguità che l’area occidentale della Coalizione (che unisce in tutto 60 paesi), sta cercando di evitare, senza ancora riuscirci.

di Mario Lombardo

La situazione nelle province orientali dell’Ucraina è tornata a precipitare in questi giorni dopo alcuni mesi di relativa tranquillità seguiti agli accordi per un cessate il fuoco, sottoscritto lo scorso settembre a Minsk. Mentre governi e media occidentali continuano nella loro opera di propaganda per falsificare la realtà dei fatti nelle aree contese tra i ribelli filo-russi e le forze di Kiev, le minacce di nuove sanzioni contro Mosca rischiano di far saltare definitivamente il già difficoltoso processo diplomatico in atto.

Il governo golpista ucraino ha da qualche tempo intensificato le operazioni nell’est del paese per cercare di riconquistare la porzione di territorio sotto il controllo dell’esercito delle cosiddette repubbliche di Donetsk e Lugansk. L’escalation del conflitto si è accompagnata alla dichiarazione dello stato di emergenza nelle aree orientali da parte del primo ministro, il burattino degli Stati Uniti Arseniy Yatseniuk.

Da ogni parte in Occidente, la responsabilità per l’aggravarsi della situazione è stata attribuita alla Russia, accusata senza prove concrete di condurre operazioni militari direttamente al fianco dei ribelli in territorio ucraino.

Lo stesso governo di Kiev ha richiesto la convocazione di un vertice di emergenza della NATO nella giornata di lunedì, conclusosi con la prevedibile invettiva diretta contro il presidente Putin. Quest’ultimo è stato invitato dal segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, a interrompere l’opera di destabilizzazione dell’Ucraina, mentre ha respinto le accuse dello stesso numero uno del Cremlino, il quale aveva sostenuto che una “legione straniera” della NATO è impiegata sul campo a sostegno delle forze governative. Immagini distribuite dai media russi nei giorni scorsi hanno infatti mostrato la presenza di soldati anglofoni tra le fila dell’esercito di Kiev.

L’occasione per scatenare la nuova offensiva diplomatica e militare, rispettivamente contro la Russia e i ribelli filo-russi, era stata fornita da un bombardamento avvenuto sabato scorso sulla città di Mariupol, controllata dall’esercito e dalle milizie neo-fasciste di Kiev. L’attacco ha provocato decine di vittime civili e in Occidente è stato subito attribuito a missili lanciati da aree controllate dai ribelli.

Il primo ministro della Repubblica Popolare di Donetsk, al contrario, ha sostenuto che a causare la strage sarebbe stato un errore di valutazione dell’esercito di Kiev. Secondo il ministero della Difesa della stessa Repubblica, le forze armate regolari avrebbero scambiato una colonna di un proprio battaglione in movimento verso Mariupol per una formata da separatisti.

Inoltre, i filo-russi affermano di non avere a disposizione i sistemi di lancio “Grad” e “Uragan”, che sarebbero stati utilizzati a Mariupol, nelle vicinanze della città che, in ogni caso, essi sostengono di non avere intenzione di strappare alle forze governative.

Al di là delle responsabilità per il massacro di Mariupol, la propaganda di Kiev e dell’Occidente, così come il doppio standard utilizzato per denunciare le vittime civili, è stata al centro di un discorso tenuto lunedì al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dal rappresentante ONU della Russia, Vitaly Churkin.

Churkin ha accusato il governo ucraino di essere “selettivo nella scelta delle vittime civili da piangere”. Durante la scorsa settimana, ha aggiunto l’inviato del Cremlino, più di 100 persone sarebbero state uccise nella città di Gorlovka, ma “i media occidentali hanno scelto di ignorarle”, concentrandosi piuttosto sui bombardamenti che hanno colpito un autobus a Volnovakha e, appunto, una zona residenziale di Mariupol, città entrambe controllate dalle forze di Kiev.

Le accuse di Churkin sono andate poi al cuore della questione quando ha puntato il dito contro Kiev per non avere fatto “un solo passo” per mettere in atto riforme costituzionali che garantiscano un certo grado di autonomia alle regioni filo-russe o per avviare un autentico dialogo con i rappresentanti dei ribelli. La Russia, al contrario, starebbe rispettando l’accordo di Minsk e rimarrebbe in contatto con tutte le parti in causa per risolvere pacificamente la crisi.

Al contrario, in piena sintonia con i propri padroni a Washington, i vertici del governo fantoccio ucraino sembrano avere optato per la guerra e la repressione pura e semplice dei separatisti. La decisione di riprendere le operazioni militari è stata presa pochi giorni dopo la visita a Kiev del generale Ben Hodges, comandante delle forze americane in Europa, per annunciare che un certo numero di “addestratori” USA saranno impiegati a breve in Ucraina.

Le intenzioni del regime, per il momento, non hanno però trovato riscontro sul campo, visto che le forze di Kiev hanno patito imbarazzanti rovesci nei giorni scorsi. La battaglia per il consolidamento del controllo dell’aeroporto di Donetsk, ad esempio, si è risolta con la cacciata delle truppe regolari e delle milizie neo-fasciste anche dal terminal che queste ultime occupavano.

Martedì, poi, nuovi scontri hanno fatto almeno una decina di morti e trenta feriti tra i soldati di Kiev, impegnati in particolare nella località di Debaltseve, attaccata da due parti dai ribelli nel tentativo di accerchiare le forze governative.

Fonti di informazione non incluse nella galassia “mainstream” hanno poi riferito di come l’esercito di Kiev sia in grave crisi, con i rifornimenti che faticano ad arrivare al fronte, ma anche a causa di un alto tasso di renitenza e diserzione.

A ciò vanno aggiunte le gravissime difficoltà economiche che sta attraversando l’Ucraina e, secondo molti, le divisioni all’interno del governo golpista tra gli uomini che prendono ordini direttamente da Washington - come il primo ministro Yatseniuk - e quelli relativamente moderati che continuano quanto meno a mantenere qualche contatto con la Russia, tra cui il presidente Petro Poroshenko.

L’escalation della crisi nelle regioni orientali, probabilmente studiata a tavolino, ha avuto comunque l’effetto di mettere all’angolo le voci che in Europa (Francia, Italia) nelle scorse settimane avevano ipotizzato una possibile pacificazione con Mosca.

La voce dell’UE, così, è tornata questa settimana a essere quella della peggiore propaganda, appiattita quasi interamente sulle posizioni statunitensi nonostante differenze tra governi inflessibili e altri più cauti. I ministri degli Esteri dell’Unione hanno infatti chiesto una riunione straordinaria per giovedì, in modo da “valutare la situazione e considerare ogni azione appropriata”, ovvero nuove misure punitive contro la Russia.

Retorica a parte, tutte le azioni di Washington e Bruxelles in merito all’Ucraina appaiono sempre più dettate da ragioni che lo stesso Putin ha sostenuto questa settimana essere legate al “contenimento geopolitico della Russia” e non, come ufficialmente si sostiene, “agli interessi della popolazione ucraina”.

di Michele Paris

La morte qualche giorno fa del 90enne monarca saudita Abdullah bin Abdul Aziz è giunta in un momento particolarmente delicato per gli equilibri del Medio Oriente e del suo stesso paese, aggiungendo un ulteriore elemento di incertezza a uno scenario già di per sé potenzialmente esplosivo.

Il decesso - atteso da tempo viste le più che precarie condizione di salute del sovrano - è stato accolto dal cordoglio di molti leader occidentali, impegnati proprio in questi mesi in una rinnovata offensiva contro la minaccia dell’oscurantismo islamista sunnita che dal regno saudita trae ispirazione e sostegno materiale.

Le lodi per colui che per due decenni ha rappresentato il vertice di uno dei regimi più repressivi e retrogradi del pianeta sono state la sostanziale ammissione del ruolo giocato dall’Arabia Saudita di garante dell’ordine promosso dagli Stati Uniti nella regione mediorientale.

Abdullah era asceso ufficialmente al trono nel 2005 già in età avanzata, ma fin dal 1995 aveva di fatto assunto il controllo del potere in seguito all’ictus che aveva reso incapace di governare il predecessore e fratellastro, Fahd.

Il presidente americano Obama, che ha deciso di abbreviare la sua visita in India per recarsi a Riyadh, ha riassunto l’importanza dell’Arabia Saudita di Abdullah, affermando che uno dei “coraggiosi principi” di quest’ultimo è stata la “ferma e appassionata convinzione dell’importanza del legame tra USA e Arabia Saudita come motore della stabilità e della sicurezza in Medio Oriente e non solo”.

Altri ancora hanno ridicolmente definito Abdullah una sorta di “innovatore” o un cauto “riformatore” della società saudita. Di questa presunta attitudine sono pieni i rapporti di innumerevoli organizzazioni a difesa dei diritti civili, le quali continuano a descrivere per l’Arabia Saudita un clima invariabilmente caratterizzato, ad esempio, dalla repressione assoluta di ogni forma di dissenso, dalla negazione dei fondamentali diritti civili delle donne, da punizione corporali e da esecuzioni capitali con metodi barbari anche per crimini lievi.

In maniera ancor più significativa, l’apprezzamento espresso dai vari Obama, Hollande e Cameron per re Abdullah testimonia della disonestà dei governi occidentali che si autoproclamano difensori dei diritti democratici delle popolazioni di tutto il mondo, nonché paladini della lotta al terrorismo fondamentalista.

Sui principi del wahabismo che ispirano il regime di Riyadh conta in sostanza Washington da decenni per combattere ideologie e movimenti contrari ai propri interessi e a quelli dei suoi alleati in Medio Oriente. Da questa visione arcaica della società hanno tratto così ispirazione formazioni fondamentaliste violente, la cui ultima incarnazione è rappresentata dallo Stato Islamico (ISIS), impegnato nella creazione in Iraq e in Siria di un sistema di potere basato sulla stessa interpretazione della legge islamica abbracciata dalla monarchia saudita.

Non solo. Com’è ben noto, l’Arabia Saudita è la principale fonte di finanziamento del terrorismo sunnita, utilizzato come strumento stesso della politica estera del regime - e degli Stati Uniti - dall’Afghanistan occupato dall’Unione Sovietica alla Siria di Assad.

Il “motore della stabilità” saudita sotto la guida di Abdullah ha rivelato poi la sua natura in varie occasione negli ultimi anni, a partire dall’appoggio garantito da Riyadh dapprima a Hosni Mubarak nel pieno della rivoluzione egiziana del 2011 e successivamente al colpo di stato militare del generale Sisi nell’estate del 2013 contro il presidente eletto Mursi degli odiati Fratelli Musulmani.

La mano di Abdullah aveva anche determinato, sempre nel 2011, la precoce neutralizzazione della rivolta sciita nel vicino Bahrain contro la monarchia sunnita al potere. L’Arabia Saudita aveva inviato un contingente militare per reprimere nel sangue il movimento di protesta, per poi rivolgere l’attenzione alle proprie irrequiete province orientali a maggioranza sciita.

In generale, l’incontro stesso di Stati Uniti e Arabia, uniti da un’alleanza fondata su principi reazionari così come sui “petrodollari”, ben lontano dall’essere un motore di pace e stabilità, ha prodotto conseguenze rovinose per i popoli del medioriente e dell’Africa settentrionale.

Il successore di Abdullah, in ogni caso, è il fratellastro Salman bin Abdulaziz, 79enne e, secondo molti, già profondamente debilitato dall’Alzheimer. Anche per questo, il successore di Salman è stato annunciato subito dopo il decesso di Abdullah e sarà l’ex direttore dell’intelligence del regno, Muqrin bin Abdul Aziz, a 69 anni relativamente giovane per gli standard della gerontocrazia saudita. Muqrin viene dato come vicinissimo al monarca deceduto e, di conseguenza, la sua nomina a principe ereditario deve essere risultata gradita agli Stati Uniti.

Che a tenere le redini del regno sia il nuovo sovrano, Salman, oppure Muqrin, vista l’infermità mentale già attribuita al primo, la leadership di Riyadh dovrà fare i conti con una serie di emergenze nella regione e con la crisi stessa in cui si dibatte il paese.

Nel vicino Yemen, per cominciare, il regime installato dagli USA e dall’Arabia Saudita è di fatto crollato nei giorni scorsi in seguito all’avanzata dei ribelli Houthis, rappresentanti della popolazione di fede sciita che occupa le aree settentrionali di questo paese e che Riyadh accusa di essere appoggiati dal proprio principale rivale strategico, l’Iran.

In Siria, poi, il finanziamento e la fornitura di armi all’opposizione anti-Assad garantiti da Riyadh ha contribuito in maniera diretta all’esplosione dell’ISIS, diventato ormai una minaccia per i suoi stessi (ex) benefattori sauditi che hanno deciso così di partecipare alla campagna militare guidata dagli Stati Uniti.

Lo stesso piano per favorire il crollo del prezzo del petrolio, verosimilmente studiato con Washington per colpire paesi come Iran e Russia, potrebbe presto ritorcesi contro l’Arabia Saudita. Il rifiuto di tagliare la propria produzione di greggio e quella dei paesi OPEC da parte di Riyadh e dei suoi più stretti alleati nel Golfo Persico sta creando problemi di bilancio non indifferenti al regime, tanto più che la stabilità interna viene mantenuta, oltre che con metodi ultra-repressivi, grazie a ingenti spese pubbliche per sostenere un generoso sistema di welfare.

Anche i rapporti con l’alleato statunitense appaiono un poco meno solidi rispetto al recente passato, viste le incrinature registrate in particolare a causa della relativa distensione tra USA e Iran, suggellata dai negoziati in corso sul nucleare di Teheran.

Frizioni, poi, c’erano state tra Abdullah e l’amministrazione Obama sia per la decisione americana di sganciarsi da Hosni Muabarak quando la posizione del dittatore era diventata insostenibile di fronte alle oceaniche manifestazioni di protesta sia in seguito alla marcia indietro di Washington sui bombardamenti contro le forze di Assad in Siria nell’estate del 2013.

Sul fronte interno, infine, il numero sterminato di principi che formano la famiglia reale saudita è tradizionalmente fonte di intrighi e di manovre per la spartizione di potere e ricchezze. Lo scontro tra le varie fazioni della casa regnante potrebbe così riaccendersi presto, in concomitanza con l’inasprirsi delle crisi nella regione o nell’eventualità tutt’altro che da escludere di una nuova successione al trono in un futuro non troppo lontano.

di Fabrizio Casari

Alexis Tsipras sarà il nuovo Premier della Grecia. Il giovane e brillante leader di Syriza, la formazione della sinistra greca, si è imposto con una maggioranza che dimostra come le pressioni illecite che da Bruxelles e Berlino rimbalzavano nel paese, non hanno spaventato i greci. E’ un voto storico per la Grecia e per l’Europa, che per la prima volta nella storia del continente vede trionfare la sinistra radicale. Circa dieci milioni di elettori hanno scelto di manifestare con il loro voto quanto già, inutilmente, avevano detto nelle piazze, cioè che il commissariamento della Grecia da parte della Trojka e l’imposizione del Memorandum hanno portato alla disperazione il paese ellenico.

Se nelle precedenti elezioni con la crisi di Nuova Democrazia e del Pasok, così come con l’affermazione di Alba Dorata, i greci avevano manifestato disagi e paure, oggi, con il voto a Syriza, si è prodotto un gesto di ribellione aperta contro le logiche monetariste e l’impianto rigorista nelle politiche di bilancio imposte dai poteri forti europei, che per drenare capitali dalle casse pubbliche verso le banche private hanno determinato impoverimento, disoccupazione di massa e drastica riduzione dei livelli di assistenza e previdenza, condannando buona parte del continente alla crisi economica e sociale più profonda nella storia del dopoguerra.

In Grecia, come in altri paesi del fianco sud dell’Europa, si è però dimostrato come l’attuale devastazione economica e sociale non sia solo il frutto di politiche di bilancio approssimative e di crescite sostenute con il debito; al contrario, le crisi economiche e sociali più violente sono il prodotto di politiche rigoriste per tutti ma indulgenti per pochi.

La Grecia, in particolare, è stata due volte vittima: dapprima rappresentando il laboratorio per eccellenza delle manovre truffaldine sui conti, utili a incrementare le collegate speculazioni bancarie; successivamente, patenndo sulla propria pelle le manovre di aggiustamento strutturale comandate da BCE e FMI che hanno distrutto la sovranità nazionale, la coesione sociale e le entità pubbliche del paese ellenico. Il tutto mentre si omaggiavano i poteri finanziari del maggiore arricchimento percentuale degli ultimi 50 anni, scaricando sulle finanze pubbliche il debito privato, trasformatosi magicamente in debito sovrano.

Quello greco, per certi aspetti, è un voto sulle ricette economiche prima ancora che sulle identità politiche. Il modello dominante che il voto greco mette in discussione, vede l’universalità dei diritti e delle prestazioni come un insopportabile elemento perequativo. Concepisce un modello di società dove il mercato deregolamentato rappresenta l’unica possibilità di accesso ai servizi, la nuova organizzazione socioeconomica dei paesi, persino il nuovo senso comune. Intende l’Europa come un immenso mercato senza regole, dove il valore del lavoro é ridotto a poco più che un elemosina e i diritti sociali azzerati, in modo da poter realizzare profitti da primo mondo con costi da terzo mondo.

Non si tratta di formazione accademica, ma d’impianto ideologico. Il passaggio del denaro dalle casse pubbliche alla speculazione, sia sotto forma d’interessi sul debito, sia più direttamente con i tagli virulenti al welfare, trasforma in privilegi per alcuni quelli che un tempo erano diritti universali. E’ parte di una cultura politica che vede nella destrutturazione della coesione sociale un passaggio necessario per la riduzione dello Stato ad ente preposto solo al controllo sociale.

Quest’idea di progressiva riduzione del ruolo dello Stato (che in forma esplicita viene concretizzandosi nel nuovo TTPI, il trattato EU-USA di cui si discute in forma segretissima, al riparo da Parlamenti e opinione pubblica) viene contrastato proprio da affermazioni come quella di Syriza, che sul valore delle Istituzioni e sulla loro centralità nel funzionamento delle società, poggiano una cultura politica ad orientamento socialista, che vede nell’equità sociale - e quindi nell’universalità dei diritti e delle prestazioni - la premessa fondamentale.

Per questo il voto di ieri in Grecia disegna una discontinuità in forma e sostanza delle politiche monetariste e dell’austerity. La vittoria di Tsipras inverte infatti le logiche politiche fino ad ora manifestatesi come inevitabili ed è l’inizio della critica europea contro la UE a trazione tedesca. Rappresenta la prima, autentica picconata nel muro eretto dai poteri forti europei a salvaguardia del loro sistema di dominio.

Com’era da immaginarsi, la prima reazione della Bundesbank è stata la richiesta di conferma degli impegni presi da Samaras e d’indicare con chiarezza cosa Atene vorrà fare con l’Euro. Propaganda ormai inutile. Siryza non ha mai proposto l’uscita di Atene dall’Euro; sono alternativi alle politiche economiche e sociali della UE, non scemi. Siryza viene dall’esperienza della sinistra greca riunitasi nel Synaspismos, con un’attrezzatura di competenze politiche ed economiche di assoluto valore, non sono la versione ellenica dei grillini.

Inoltre, i trattati che compongono l’insieme delle norme su cui si fonda l’Unione Europea non prevedono ne direttamente, né indirettamente, la cacciata di un paese dalla Ue e, meno che mai, dalla moneta unica; dunque, se non è Atene a volervi rinunciare (cosa da escludere) né la Merkel, né Junker potranno farci niente.

La questione vera, invece, riguarda il debito sovrano e agita i sogni di Berlino e Bruxelles. La Grecia di Tsipras chiederà la rinegoziazione del debito che risulta oggettivamente impagabile e su questo non vi saranno compromessi. Syriza, in concreto, vuole cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico, per poi introdurre una moratoria sul piano di rientro e una clausola di crescita per ripianare il debito restante, in modo da utilizzare le rimanenti risorse per stimolare la ripresa.

Bruxelles non ha scelta e dovrà accettare la rinegoziazione del debito pubblico, che infliggerà comunque un colpo alla sua presunta onnipotenza e aprirà un possibile varco al contagio ad altri paesi europei, Spagna in primo luogo, dove Podemos, che incarna la risposta della sinistra non ottusa e conservatrice, risulta prima nei sondaggi d’opinione. In uno scenario dove nel fianco Sud della UE si dovessero innescare dei risultati emulativi di quello greco, il dominio tecnocrate a guida tedesca sull’Europa subirebbe un colpo mortale.

Ci sarà chi argomenterà che le dimensioni del paese e l’impatto della sua economia nel complesso continentale risulta relativo e non in grado di produrre un’inversione di tendenza di valore generale, ma in realtà sotto diversi aspetti la Grecia rappresenta ben più che un test. Vedremo quali saranno ora le conseguenze immediate e quelle a medio termine del voto greco; se cioè la UE deciderà di cominciare a ripensare le sue scelte rigoriste o se invece deciderà di provare a forzare il risultato elettorale aumentando minacce e pressioni su Atene.

Ci saranno spinte e controspinte, ma il dato è chiaro: le politiche dell’odio sociale da ieri sono messe in discussione, tanto nel loro impianto generale come nelle ricette feroci con cui le si applicano, anche quando con eufemismi verbali ed ipocriti vengono definite “suggerimenti” o “aggiustamenti strutturali”.

Con Syriza è l’idea stessa di Stato e di società, di dignità e di sovranità dei paesi, di una economia al servizio del benessere collettivo e non della speculazione di pochi, che ha ripreso cittadinanza in Europa. Sono milioni i cittadini europei che delle politiche rigoriste sono vittime, ma alcuni di essi, ieri, si sono vestiti da scheda elettorale. Un abito made in Grecia, elegante, da giorno di festa.


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