di Michele Paris

Per ben undici anni lo stato americano del New Jersey ha combattuto in un’aula di tribunale per cercare di imporre alla compagnia petrolifera ExxonMobil il pagamento di una somma pari a quasi 9 miliardi di dollari perché colpevole di avere gravemente contaminato con sostanze tossiche oltre 600 ettari di zone paludose nei pressi della località di Bayway, dove sorgono due impianti di raffinazione.

Dopo il dibattimento, durato otto mesi, la corte aveva stabilito la colpevolezza della compagnia con sede in Texas ed era pronta ad applicare una richiesta di danni retroattiva probabilmente molto pesante, secondo quanto stabilito da une legge dello stato denominata “Spill Act”. Ciò che mancava per chiudere il procedimento era solo la decisione in merito all’importo della sanzione che sarebbe gravata su ExxonMobil.

La richiesta dei procuratori dello stato ammontava a un totale di 8,9 miliardi di dollari, di cui 2,6 sarebbero serviti per bonificare l’area contaminata, mentre il resto (6,3 miliardi) era da considerarsi come puro risarcimento danni.

A questo punto, però, il giudice Michael Hogan ha ricevuto una richiesta da parte del vice procuratore generale del New Jersey per rinviare il verdetto definitivo, poiché l’amministrazione del governatore repubblicano, Chris Christie, avrebbe raggiunto un accordo con la ExxonMobil fuori dal tribunale.

A rigor di logica, una richiesta di sospensione della sentenza a questo punto del procedimento sarebbe stata motivata solo da un eventuale accordo con la compagnia petrolifera per il risarcimento di una somma vicina a quella chiesta dallo stato, vista la riduzione che avrebbe potuto essere decisa dalla corte.

Invece, il governatore, nonché probabile candidato alla Casa Bianca nel 2016, si sarebbe accordato per una somma pari ad appena 250 milioni di dollari, cioè meno del 3% di quanto richiesto complessivamente dallo stato del New Jersey o, se si vuole, meno del 10% di quanto sarebbe necessario per ripulire la zona contaminata.

Oltretutto, secondo una legge proposta da Christie lo scorso anno, solo 50 milioni di dollari del risarcimento sarebbero destinati a opere di bonifica, mentre il resto del denaro potrebbe essere dirottato ad altre voci di bilancio.

Il governatore Christie e i vertici di ExxonMobil hanno per ora evitato qualsiasi commento sull’accordo, ma le polemiche nel New Jersey sono subito esplose. Giovedì i giornali della costa orientale hanno riportato la testimonianza dell’ex numero uno del Dipartimento per la Protezione Ambientale dello stato, Bradley Campbell, il quale ha puntato il dito direttamente contro l’ufficio del governatore.

Secondo Campbell, i protagonisti dell’accordo da 250 milioni di dollari sono da ricercare nello staff di Christie e, in particolare, il primo consigliere di quest’ultimo, Christopher Porrino, “si è intromesso nel caso, emarginando il procuratore generale e gli impiegati di carriera che avevano condotto la controversia legale, così da giungere a un esito favorevole a ExxonMobil”.

Come quasi sempre accade negli Stati Uniti nei casi di vicende politiche o giudiziarie che si risolvono a favore delle grandi aziende, anche in questo caso gli indizi che spiegano la decisione di Christie sono da ricercare in questioni legate al denaro.

Se finora non sono emersi finanziamenti elettorali diretti a favore del governatore, ExxonMobil nel 2014 ha donato più di 700 mila dollari all’Associazione dei Governatori Repubblicani, il cui presidente fino a qualche mese fa era appunto Chris Christie.

Ai politici americani e, in particolare, a quelli repubblicani, l’industria petrolifera elargisce ogni anno milioni di dollari e la decisione di Christie sul caso ExxonMobil sembra essere perciò una mossa per mettersi in luce con finanziatori generosi in vista di una probabile candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.

Quest’ultima vicenda è comunque solo l’ultima di una serie di imprevisti che stanno tarpando le ali a un politico a cui la stampa ufficiale ha offerto ampia visibilità sulla scena nazionale. I problemi che rischiano di frustrare le ambizioni di Christie sono in ogni caso determinati dalla sua più che evidente attitudine a servire gli interessi dei potenti e da un malcelato disprezzo per la gente comune, sia pure a fronte di un’immagine proprio da “uomo comune” attentamente coltivata.

Grave imbarazzo gli aveva causato ad esempio l’esplosione lo scorso anno di uno scandalo risalente a una decisione presa nel settembre 2013 da un membro del suo staff, il quale aveva ordinato la chiusura per alcune ore di due trafficatissime corsie di un ponte a Fort Lee, nel New Jersey.

Il provvedimento, secondo molti sanzionato dallo stesso Christie, aveva causato un colossale ingorgo, nonché la morte di una donna per arresto cardiaco su un’ambulanza bloccata nel traffico, e sarebbe stato preso come ritorsione contro il sindaco di Fort Lee, colpevole di non avere appoggiato il governatore repubblicano nelle elezioni del 2013.

Inoltre, Christie era stato fortemente criticato per avere gestito in maniera inadeguata la ricostruzione delle aree del New Jersey devastate dall’uragano Sandy nel 2012. Nel New Jersey continuano a essere accese anche le polemiche nei confronti del governatore a causa della situazione precaria del fondo pensioni dei dipendenti dello stato.

Una recente sentenza di un tribunale ha infatti ritenuto il governatore responsabile del mancato finanziamento che aveva promesso nel 2011 a favore di questo stesso fondo, per “salvare” il quale ha oltretutto proposto nuovi tagli ai “benefit” destinati ai pensionati.

Christie, infine, era apparso in un ritratto del New York Times ben poco lusinghiero poco più di un mese fa, nel quale venivano descritti i suoi numerosi viaggi negli Stati Uniti e all’estero, tutti all’insegna del lusso grazie al denaro di facoltosi sostenitori, spesso con interessi economici nel suo stato.

Sulla vicenda legata al disastro ambientale di ExxonMobil, ad ogni modo, l’assemblea legislativa statale del New Jersey, a maggioranza democratica, ha annunciato iniziative per provare a bloccare l’accordo voluto dal governatore. La discussione in aula al Senato statale dovrebbe inizare il 19 marzo prossimo.

L’accordo, per essere definitivo, dovrà comunque essere approvato dal giudice che presiede il processo, dopo la pubblicazione sul “Registro” ufficiale del New Jersey e un periodo di trenta giorni durante i quali verranno raccolti eventuali commenti o proposte di modifica da parte degli abitanti dello stato.

di Michele Paris

La discussa apparizione del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, di fronte a una sessione congiunta del Congresso americano nella giornata di martedì, ha prevedibilmente aggravato le tensioni già esistenti tra la Casa Bianca e il governo di Tel Aviv. L’obiettivo principale dell’attacco frontale a Obama del primo ministro è stato l’accordo in fase di negoziazione tra l’Iran e i cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sul nucleare di Teheran, attorno al quale ruota probabilmente il futuro assetto strategico dell’intero Medio Oriente e su cui si stanno scontrando sempre più gli interessi di Stati Uniti e Israele.

Ancora prima, però, il discorso di Netanhya ha dato la conferma del livello di prostrazione a Israele e alle sue “lobbies” della gran parte del Congresso americano. Solo poche decine di deputati e senatori democratici hanno disertato l’evento, mentre i presenti hanno riservato al premier svariate “standing ovations”.

L’opinione comune dei media d’oltreoceano è che l’intervento di Netanyahu renderà ancora più difficile il compito di Obama nel fare accettare al Congresso un eventuale accordo con l’Iran, nel caso dovesse essere percepito come troppo “favorevole” alla Repubblica Islamica.

Infatti, subito dopo il discorso di Netanyahu sono giunti dal Congresso segnali della possibile ripresa in aula a breve della discussione su un pacchetto legislativo che potrebbe prevedere nuove sanzioni economiche contro l’Iran oppure l’obbligo di sottoporre qualsiasi eventuale accordo al voto di Camera e Senato.

Le notizie peggiori per Obama potrebbero arrivare proprio dai suoi colleghi di partito, alcuni dei quali, dietro insistenza della Casa Bianca, si erano recentemente impegnati a non portare in aula il provvedimento sulle sanzioni fino alla fine di marzo, in attesa degli sviluppi delle trattative diplomatiche.

Molti democratici sono d’altra parte ascrivibili alla fazione dei “falchi” in merito all’Iran e l’intervento di Netanyahu, assieme all’aggressiva attività delle “lobbies” israeliane a Washington, minaccia di far coagulare una maggioranza trasversale al Congresso, potenzialmente in grado di neutralizzare l’eventuale veto di Obama su qualsiasi iniziativa di legge che ostacoli le trattative in atto sul nucleare di Teheran.

Netanhyahu, in ogni caso, martedì non ha rivelato dettagli segreti delle trattative in atto tra Teheran e i P5+1 per fare ulteriori pressioni sui membri del Congresso, come temeva la Casa Bianca, ma ha deciso di ricorrere alla consueta propaganda anti-iraniana e a tirate islamofobe.

Apparentemente nessuno dei politici o dei giornalisti radunati al Congresso sembra poi avere notato la colossale ipocrisia del loro ospite, impegnato a dipingere un quadro apocalittico per il pianeta a causa dell’inesistente programma nucleare militare iraniano pur essendo alla guida di un paese che detiene segretamente un numero imprecisato di testate atomiche, mette in atto impunemente politiche criminali nei confronti dei palestinesi e ha condotto guerre o operazioni militari illegali contro molti dei paesi vicini.

Un’analisi pubblicta mercoledì sul New York Times ha rilevato come l’invito fatto a Netanyahu dallo “speaker” repubblicano della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, dietro le spalle della Casa Bianca sia risultato in uno spettacolo decisamente insolito, nel quale “un leader straniero ha parlato di fronte ai membri del Congresso per attaccare strenuamente le politiche di un presidente americano in carica”.

“Così facendo”, ha aggiunto il commento del Times, “Netanyahu ha sostanzialmente invitato deputati e senatori a porre la loro fiducia in lui piuttosto che in Obama per impedire all’Iran di costruire un ordigno nucleare”.

Alcuni commenti al discorso di Netanyahu provenienti da esponenti dell’amministrazione Obama hanno rilevato come quest’ultimo non abbia offerto alcuna proposta alternativa ragionevole a un accordo pacifico. Nell’ottica del premier israeliano, l’unica soluzione accettabile sembra essere piuttoto quella di ottenere una capitolazione completa da parte di Teheran e ciò comporta, inevitabilmente, la guerra o il cambio di regime.

Lo smantellamento completo del programma nucleare iraniano è d’altra parte al centro delle richieste di Netanyahu, pur sapendo che un’eventuale posizione intransigente su questo aspetto da parte di Washington determinerebbe una rottura dei negoziati e riporterebbe le lancette degli orologi indietro di almeno un paio d’anni.

La paranoia di Netanyahu nei confronti dell’Iran è legata a varie questioni, a cominciare da quella immediata di natura elettorale. Il 17 marzo prossimo si terrà in Israele il voto anticipato e per la prima volta da molti anni il Likud di Netanyahu rischia di finire all’opposizione, almeno secondo alcuni sondaggi.

L’agitazione della minaccia “esistenziale” rappresentata dall’Iran per lo Stato ebraico è dunque essenziale al fine di promuovere le credenziali di Netanyahu in materia di sicurezza nazionale. Inoltre, lo spostamento dell’attenzione degli elettori verso la situazione internazionale risulta utilissimo a un governo di destra che ha presieduto a un lungo periodo caratterizzato dal grave deterioramento delle condizioni economiche di lavoratori e classe media.

L’altro fattore principale che determina la visione catastrofica di Netanyahu in relazione a un possibile accordo sul nucleare ha a che fare con la necessità di conservare l’assoluta superiorità militare di Israele in Medio Oriente, così da consentire a questo paese di imporre con la forza i propri interessi e i propri metodi sui rivali nella regione.

L’irriducibile avversione di Netanyahu per l’Iran è perciò connessa al ruolo fondamentale che Teheran svolge nell’asse della resistenza anti-israeliana - e anti-americana - attraverso la partnership, il finanziamento e la fornitura di armi o assistenza militare al regime siriano, a Hezbollah in Libano e, sia pure tra le divergenze circa i rapporti con Damasco, a Hamas nella striscia di Gaza.

Questi obiettivi strategici di Israele si stanno scontrando però sempre più con quelli di più ampio respiro dell’amministrazione Obama in Medio Oriente. Se la minaccia di ricorrere alla forza per piegare Teheran rimane sul tavolo a Washington, almeno a parole, una parte della classe dirigente americana ha chiaramente scelto di cercare il dialogo con l’Iran, non tanto per raggiungere un accomodamento disinteressato che rispetti le ambizioni e l’indipendenza di questo paese, bensì come percorso più opportuno per promuovere i propri interessi sullo scacchiere internazionale.

In altre parole, per gli USA un confronto militare con la Repubblica Islamica risulterebbe controproducente, soprattutto alla luce delle rivalità in aumento con Cina e Russia, dal momento che finirebbe per creare ancora maggiore instabilità in una regione già infiammata dalla loro stessa dissennata politica estera. Più utile in questo momento appare invece un accordo con la leadership moderata installatasi a Teheran in seguito all’elezione del presidente Rouhani.

Una simile strategia, com’era prevedibile, sta producendo profonde divisioni all’interno dell’establishment politico americano, dove i repubblicani e una buona fetta di democratici gradirebbero un ritorno puro e semplice ai rapporti esistenti prima del 1979 tra Washington e Teheran.

La progressiva divergenza degli interessi strategici di Stati Uniti e Israele in Medio Oriente è dunque la causa della crescente freddezza, per non dire ostilità, tra l’amministrazione Obama e quella di Netanyahu, il cui discorso di martedì e tutti gli strascici polemici che ne sono seguiti appaiono soltanto come la più recente e clamorosa manifestazione.

di Michele Paris

Almeno un paio di inconvenienti stanno preoccupando in questi giorni l’ex segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in una fase che dovrebbe precedere l’annuncio ufficiale del lancio della sua seconda campagna per l’elezione alla Casa Bianca. Il primo fastidio è stato causato dalla pubblicazione della lista di donatori della “Fondazione Clinton” che la ex first lady dirige assieme al marito, Bill, e alla figlia, Chelsea. Questa organizzazione ha scopi ufficialmente benefici e, a partire dalla sua creazione nel 2001, ha distribuito in vari paesi quasi 2 miliardi di dollari.

Scorrendo l’elenco dei benefattori si incontrano però molti governi autoritari, grandi corporations e società appaltatrici del Pentagono che, con ogni probabilità, hanno a cuore non tanto la filantropia quanto il desiderio di ottenere favori ai vertici della politica USA.

Già ai tempi della sua nomina a segretario di Stato nel 2009 era emerso il chiaro conflitto d’interessi per via della Fondazione e delle strategie di raccolta fondi di quest’ultima. Con la Casa Bianca, però, era stato raggiunto un accordo secondo il quale la Fondazione non avrebbe accettato denaro dall’estero proveniente da nuovi donatori. Un’importante eccezione era stata invece stabilita per i donatori “abituali”, i quali avevano facoltà di continuare a finanziare i progetti della Fondazione Clinton.

Dopo le dimissioni di Hillary dal Dipartimento di Stato a inizio 2013, le donazioni sono riprese a tutti gli effetti, superando in quello stesso anno i 260 milioni di dollari. Sul sito web della Fondazione i donatori sono raggruppati in scaglioni, in base alla quantità di denaro sborsato. I più generosi hanno donato “oltre 25 milioni di dollari” e tra questi spiccano la Fondazione Bill e Melinda Gates, un paio di imprenditori multimiliardari impegnati in cause “progressiste” e la Lotteria Nazionale olandese.

Passando agli scaglioni successivi, la lista si fa più interessante. Tra coloro che hanno donato tra 10 e 25 milioni di dollari figura ad esempio il Regno dell’Arabia Saudita, mentre a staccare assegni con cifre comprese tra i 5 e i 10 milioni sono stati, oltre a Michael Schumacher, il governo del Kuwait e Coca-Cola Company.

Le tre rimanenti monarchie assolute del Golfo Persico sono ugualmente presenti nella lista, con donazioni tra 1 e 5 milioni di dollari (Emirati Arabi, Oman, Qatar), così come facoltosi individui che risiedono in questi stessi paesi. Ugualmente, molto nutrita è la rappresentanza delle principali corporations e dei grandi istituti finanziari, tra cui Barclays Capital, Cisco, ExxonMobil, Microsoft, Pfizer, Procter & Gamble, Dow Chemical, Goldman Sachs, Toyota, Walmart, Boeing, Google, Chevron e molti altri.

Il caso di Boeing aiuta a comprendere la natura dei rapporti tra i donatori - o almeno parte di essi - e la Fondazione Clinton. In qualità di segretario di Stato, nel 2009 Hillary si era adoperata con il governo russo per vendere a Mosca 50 velivoli 737 della compagnia americana. Qualche mese più tardi, quest’ultima avrebbe staccato il suo primo assegno da 900 mila dollari a favore della Fondazione, destinati a finanziare il sistema scolastico di Haiti.

La stessa dinamica è riscontrabile in relazione alla compagnia General Electric (GE). Secondo il Wall Street Journal, nell’ottobre del 2012 Hillary fece pressioni sul governo dell’Algeria per appaltare a GE la costruzione di centrali elettriche nel paese nordafricano. Il mese successivo, la Fondazione Clinton chiese alla stessa compagnia una donazione per espandere un’iniziativa sanitaria. Prevedibilmente, GE staccò un assegno per un importo compreso tra i 500 mila e il milione di dollari e nel settembre del 2013 ottenne il contratto per le centrali elettriche in Algeria.

Non sempre la vera e propria attività di “lobbying” di Hillary Clinton ha dato i suoi frutti, come nel caso dei tentativi falliti di convincere alcuni paesi dell’Europa orientale a concedere i diritti di sfruttamento dei propri giacimenti di gas a ExxonMobil e Chevron.

Sempre nel 2012, poi, il gigante della distribuzione Walmart aveva promesso 12 milioni di dollari per finanziare numerose cause legate ai diritti delle donne in America Latina, compresi 1,5 milioni destinati alla Fondazione Clinton. Un mese dopo, l’allora segretario di Stato era al lavoro in India per spingere il governo a cancellare il divieto sull’apertura di mega-negozi di proprietà di compagnie straniere, a cui proprio Walmart puntava da tempo per penetrare un mercato sterminato. Gli sforzi di Hillary, tuttavia, non ebbero successo.

Un altro caso ampiamente riportato dalla stampa americana è infine quello del governo algerino, protagonista di una donazione da 500 mila dollari che, a differenza di quelle formalmente legittime di altri soggetti, avrebbe violato l’accordo sottoscritto nel 2009 tra la Fondazione Clinton e la Casa Bianca.

Il denaro arrivato da Algeri si inseriva in una campagna di “lobbying” messa in atto negli Stati Uniti per contrastare gli effetti di un rapporto del Dipartimento di Stato sui diritti umani nel mondo che puntava il dito, tra gli altri, proprio contro il governo di questo paese del Maghreb. L’elargizione assicurata alla Fondazione Clinton era superiore al resto del budget stanziato complessivamente dall’Algeria in un anno intero per questo genere di iniziative negli Stati Uniti.

Nei commenti apparsi su quasi tutti i giornali americani, i rapporti della Fondazione Clinton con potenti donatori, soprattutto stranieri, sono stati condannati o messi in discussione principalmente a causa di possibili indebiti scambi di favori, con il coinvolgimento appunto del Dipartimento di Stato e, viste le ambizioni di Hillary, potenzialmente la stessa Casa Bianca.

Da tenere in considerazione è però anche un altro aspetto che si incrocia con la tradizionale strategia del governo USA di utilizzare le questioni dei diritti umani o le apparenti battaglie per cause umanitarie al fine di promuovere gli interessi della propria classe dirigente.

In questo senso, la Fondazione Clinton sembra essere un altro strumento per raggiungere gli obiettivi della politica estera americana, come nel caso di Haiti, dove dopo il terremoto del 2010 l’ente benefico che fa capo all’ex presidente democratico ha svolto un ruolo di primo piano nella “ricostruzione”. Un processo, quest’ultimo, pilotato verso una soluzione favorevole al governo e alle corporations americane, perseguita anche attraverso la controversa elezione alla presidenza nel 2011 del duvalierista molto gradito a Washington, Michel Martelly.

Più di recente, gli intrecci della Fondazione Clinton con la politica estera USA sono riemersi in occasione del voto in Sri Lanka. Qui, gli Stati Uniti hanno manovrato dietro le quinte per giungere alla rimozione del presidente, Mahinda Rajapaksa, colpevole di avere orientato strategicamente il proprio paese verso la Cina.

A tessere la trama per Washington che ha alla fine portato alla presidenza l’ex ministro di Rajapaksa, Maithripala Sirisena, è stata l’ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, membro della Fondazione Clinton fin dal 2005.

L’altro grattacapo per la probabile candidata democratica alla Casa Bianca nel 2016 è scaturito infine dalla pubblicazione martedì della notizia che, durante i quattro anni trascorsi al Dipartimento di Stato, Hillary ha utilizzato esclusivamente il proprio account privato di posta elettronica per la corrispondenza legata al suo incarico.

Da alcuni anni, una legge negli Stati Uniti impone a coloro che occupano cariche federali di utilizzare account governativi, sia per motivi di sicurezza che di trasparenza, in modo da consentire la conservazione della corrispondenza che può essere messa a disposizione di storici, giornalisti o membri di commissioni del Congresso.

La scelta di Hillary di usare il proprio account privato per le comunicazioni ufficiali sembra essere senza precedenti a partire dall’approvazione della legge che regola tale questione. Inoltre, le e-mail inviate e ricevute dall’ex segretario di Stato tra il 2009 e il 2013 sono state consegnate al Dipartimento di Stato solo un paio di mesi fa e dopo una richiesta esplicita del governo.

La vicenda, perciò, minaccia di alimentare ulteriormente le polemiche mai sopite nei confronti di Hillary, ma anche del marito Bill, per una più che evidente inclinazione alla segretezza e alla mancanza di trasparenza.

di Michele Paris

L’assassinio nel pieno centro di Mosca del leader dell’opposizione “liberale” russa, Boris Nemtsov, come prevedibile è stato sfruttato da governi e media ufficiali in Occidente per orchestrare una nuova campagna di discredito nei confronti di Vladimir Putin. Se nessuno, o quasi, ha per ora collegato l’esecuzione del 55enne ex vice-primo ministro direttamente al Cremlino, le reazioni isteriche registrate a Washington, Londra e Berlino, assieme alle dichiarazioni di condanna e alle richieste per una rapidissima indagine sull’accaduto, intendono lanciare un messaggio inequivocabile: cioè che il responsabile quanto meno morale dell’accaduto non può essere altri che lo stesso presidente russo.

Il premier britannico David Cameron, dopo avere invocato un’indagine “trasparente”, apparentemente senza imbarazzo, ha elogiato il defunto Nemtsov per la sua “vita dedicata a un impegno instancabile per il popolo russo, per il diritto alla democrazia e per la libertà”, nonché per mettere “fine della corruzione”.

Identico auspicio per lo scioglimento rapido del mistero dell’assassinio è stato espresso dalla Casa Bianca, da dove Nemtsov è stato definito un “instancabile difensore dei diritti dei cittadini”. Angela Merkel, a sua volta, si è detta “sconvolta” dalla morte di quest’ultimo, per poi celebrare il suo “coraggio nel criticare le politiche del governo” di Mosca.

Accuse più espliticite a Putin per avere causato per lo meno indirettamente la morte di Nemtsov sono giunte invece prevalentemente dai commentatori dei giornali “mainstream” occidentali, da politici che ruotano attorno all’opposizione “non ufficiale” e filo-occidentale russa o, ancora, dai deliri senili di “falchi” come il senatore repubblicano americano John McCain.

A seconda dei casi, Putin sarebbe così responsabile di avere creato un “clima di odio” tra la popolazione che ha portato all’assassinio di Nemtsov (New York Times) o un “clima di impunità”, nel quale gli oppositori del Cremlino “vengono costantemente perseguitati e attaccati, anche dal governo russo, per le loro idee” (McCain).

Al di là della pressoché innegabile natura autoritaria del governo di Vladimir Putin, una riflessione razionale sui fatti di venerdì scorso a Mosca non può che confermare la totale incertezza sui veri responsabili dell’assassinio di Nemtsov.

Le modalità e i tempi dell’esecuzione, inoltre, sollevano parecchie perplessità, poiché sembrano essere stati scelti dagli assassini proprio per dare il maggiore rilievo possibile all’evento. Infatti, il politico russo è stato ucciso nei pressi del Cremlino e meno di due giorni prima di una manifestazione di piazza dell’opposizione che egli stesso avrebbe dovuto guidare.

Se Putin o qualcuno della sua cerchia fossero stati i mandanti, è evidente che avrebbero commesso un clamoroso autogol, alla luce delle prevedibili reazioni in Occidente in un momento in cui le tensioni sono già alle stelle per la crisi in Ucraina. Da tenere in considerazione, inoltre, il fatto che Nemtsov rappresentava una modestissima minaccia per il Cremlino, se non, al limite, nella misura in cui avrebbe potuto rientare in un disegno per il cambio di regime a Mosca orchestrato da Washington sul modello di quanto accaduto a Kiev un anno fa.

Malgrado ciò, in Occidente qualsiasi seria considerazione sulla vicenda è stata messa da parte per rinvigorire la crociata anti-Putin in atto, esattamente come era stato fatto la scorsa estate all’indomani dell’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines (MH-17) sui cieli ucraini. In quell’occasione, l’attentato era stato immediatamente attribuito alla Russia o ai “ribelli” filo-russi - nonostante gli indizi indicassero piuttosto possibili responsabilità del regime o delle forze armate di Kiev - con il consueto accompagnamento di una campagna diffamatoria nei confronti del numero uno del Cremlino.

All’interno del governo di Mosca, in ogni caso, il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha definito l’assassinio una “provocazione”, messa in atto per destabilizzare la Russia e, inevitabilmente, supportare i tentativi occidentali di costruire un’alternativa percorribile all’attuale regime.

Questo sembra essere anche il punto di vista che caratterizza l’indagine avviata dalla Commissione Investigativa, la quale fa capo al Cremlino e che starebbe valutando possibili ulteriori connessioni con la crisi in Ucraina o il fondamentalismo islamico. Nemtsov era fortemente critico della gestione della vicenda ucraina da parte di Putin, mentre aveva apertamente appoggiato il settimanale satirico francese Charlie Hebdo dopo la strage nella redazione parigina nel mese di gennaio.

L’altro aspetto assurdo emerso dalle cronache occidentali di questi giorni è il ritratto di martire della democrazia di Boris Nemtsov, il cui curriculum lo colloca piuttosto tra politici di destra che hanno contribuito alla somministrazione di rovinose politiche economiche ultra-liberiste nella Russia post-sovietica.

Poco più che trentenne, negli anni Novanta Nemtsov venne nominato governatore della regione di Nizhny Novgorod e successivamente ricevette la chiamata da Boris Yeltsin per trasferirsi a Mosca a ricoprire la carica di ministro dell’Energia e in seguito di vice-primo ministro.

Nemtsov era considerato una sorta di protetto del defunto presidente russo tanto da essere stato indicato a un certo punto come suo possibile successore. In quegli anni, Nemtsov fu tra i protagonisti dell’implementazione di una vera e propria terapia d’urto per favorire la transizione al capitalismo nell’ex Unione Sovietica, promuovendo, tra l’altro, privatizzazioni selvagge e lo smantellamento del welfare, creando così da un lato una classe di oligarchi multi-miliardari e, dall’altro, povertà dilagante e devastazione sociale tra la popolazione.

Secondo un ritratto pubblicato domenica dall’agenzia di stampa ufficiale russa Sputink, a partire dal 2003 Nemtsov si sarebbe occupato più di affari che di politica e con un certo successo, visto che le sue entrate totali nel 2008 ammontavano a oltre 7 milioni di dollari.

Dal 2012, poi, l’ex vice-premier era alla guida del Partito Repubblicano Russo-Partito Popolare della Libertà, mentre nel 2013 era tornato alla politica attiva con l’elezione a membro del parlamento regionale di Yaroslavl.

L’abbraccio dei valori democratici da parte di Nemtsov, comunque, era giunto soltanto in concomitanza con le sue sventure politiche, cioè dopo l’estromissione dal governo, e, come molti altri membri dell’opposizione “liberale” russa, anch’egli si sarebbe ben presto allineato ai governi occidentale, in particolare a Washington, con la speranza di tornare a occupare una posizione di potere grazie all’aiuto americano.

Precisamente per questa ragione, assieme al convinto sostegno a politiche di libero mercato, l’opposizione appoggiata dall’Occidente risulta profondamente screditata tra la popolazione russa ed è in grado di raccogliere qualche consenso solo all’interno della classe media relativamente benestante.

La stessa marcia di protesta andata in scena domenica a Mosca, e trasformata in un evento in memoria di Nemtsov, ha registrato la partecipazione di qualche decina di migliaia di persone solo in seguito al clamore suscitato dall’assassinio di due giorni prima. Nei giorni scorsi, invece, tra gli stessi organizzatori era forte la preoccupazione per un possibile flop della manifestazione, in linea appunto con l’incapacità dell’opposizione “liberale” e filo-occidentale di rappresentare una qualche alternativa credibile al governo dell’odiato Putin.

di Mario Lombardo

Nella giornata di giovedì, i militari ucraini hanno annunciato il ritiro delle armi pesanti dalla “linea di contatto” nel sud-est del paese in seguito alla stessa mossa presa in precedenza dai “ribelli” filo-russi, come previsto dal contenuto degli accordi di Minsk. Questa notizia, assieme alla quasi totale cessazione degli scontri armati, non ha però fatto venir meno il rischio di una conflagrazione di più ampia portata in Europa orientale, almeno a giudicare dalla serie di provocazioni contro Mosca provenienti da Kiev e dai governi occidentali.

Da Londra, ad esempio, il primo ministro conservatore, David Cameron, ha fatto sapere che il suo governo invierà 75 militari in Ucraina con funzioni di “addestratori” delle truppe locali, assieme ad aiuti “non letali”, ufficialmente per contribuire alla resistenza delle forze di Kiev contro le offensive dei separatisti.

L’iniziativa britannica potrebbe servire ad aprire la strada ad altre simili da parte dei paesi europei, come ha confermato l’annuncio fatto mercoledì dal governo polacco, il quale manderà ugualmente in Ucraina alcuni “consiglieri militari”.

Il livello della retorica, poi, è rimasto alto a Londra così come a Washington. Lo stesso Cameron ha ribadito l’intenzione di “mandare a Putin e alla Russia il messaggio più forte possibile che quanto è accaduto è inaccettabile”, così che, “nel caso la tregua non dovesse tenere, ci saranno altre conseguenze, altre sanzioni, altre iniziative”.

Il segretario di Stato USA, John Kerry, è invece tornato ad accusare il Cremlino di fornire appoggio materiale ai “ribelli”, come se Washington e i suoi alleati non stessero da parte loro appoggiando totalmente il regime golpista di Kiev e le formazioni neo-naziste che operano nel sud-est del paese.

Per l’ex senatore democratico, né la Russia né i separatisti avrebbero minimamente rispettato gli impegni presi a Minsk due settimane fa, nonostante abbiano per primi rimosso le armi pesanti dalla linea del fronte, e sarebbero perciò a rischio delle ormai consuete “nuove sanzioni”.

Sempre dalla Gran Bretagna è apparso chiaro come le iniziative di questi giorni siano i primi passi di una strategia per aumentare il coinvolgimento occidentale in Ucraina. Il ministro della Difesa di Londra, Michael Fallon, pur escludendo il ricorso a truppe da combattimento, ha lasciato intendere che il suo governo ha ricevuto richieste di fornitura di ogni genere di equipaggiamenti militari da parte di Kiev e che esse verranno considerate seriamente.

Sul tavolo resta sempre anche l’ipotesi che gli Stati Uniti possano trasferire armi “difensive” al regime ucraino, come avevano riferito alla stampa alcune settimane fa membri dell’amministrazione Obama e, nel corso di un’audizione al Congresso per la sua nomina a segretario alla Difesa, il nuovo numero uno del Pentagono, Ashton Carter.

La realtà dei fatti ha comunque già superato i presunti dubbi occidentali sull’opportunità di fornire armi a Kiev, visto che il presidente ucraino, Petro Poroshenko, a inizio settimana ha fatto sapere di avere firmato accordi di “cooperazione” tecnica e militare con il regime degli Emirati Arabi.

Questa monarchia del Golfo Persico, com’è noto, è un fedelissimo alleato degli Stati Uniti, da cui acquista ingenti quantità di armi, rendendo semplicemente assurda l’ipotesi che abbia potuto agire indipendentemente da Washington nel garantire armi all’Ucraina.

Gli Emirati Arabi, d’altra parte, hanno già svolto un compito simile in Siria, dove hanno garantito armi ed equipaggiamenti vari ai “ribelli” anti-Assad – comprese le formazioni di tendenze fondamentaliste – consentendo agli Stati Uniti e ai loro alleati europei di mantenere la posizione ufficiale di non voler contribuire all’aggravamento della violenza in Siria.

Un’altra deliberata provocazione nei confronti di Mosca è stata registrata martedì, con alcuni veicoli armati americani che hanno partecipato a una sfilata militare a Narva, in Estonia, letteralmente a poche centinaia di metri dal confine russo.

I governi di Estonia, Lettonia e Lituania stanno mostrando i livelli più elevati di isteria anti-russa a partire dall’esplosione della crisi ucraina, pur non essendo esposti ad alcun rischio di invasione da parte di Mosca.

Già lo scorso autunno, lo stesso presidente americano Obama durante una vista in Estonia aveva promesso il totale sostegno americano ai paesi baltici, assieme all’aumento delle truppe NATO dispiegate sul loro territorio, confermando come questi paesi rappresentino uno degli avamposti principali nella strategia di accerchiamento della Russia.

Il ribaltamento della realtà proposto dai governi occidentali in relazione alla situazione in Ucraina richiede una costante attività di propaganda da parte dei vari leader e della stampa ufficiale. A questo scopo, significativo è apparso mercoledì l’intervento del comandanete delle forze NATO in Europa, generale Philip Breedlove, di fronte a una commissione della Camera dei Rappresentanti di Washington.

Breedlove ha sostenuto che lo scenario in Ucraina “continua a peggiorare giorno dopo giorno” e gli sforzi occidentali nel contenere l’intervento della Russia stanno producendo pochi risultati. In seguito, il generale americano ha affermato che il successo di Putin nel destabilizzare l’Ucraina potrebbe incoraggiare il presidente russo a “seminare divisioni altrove”, con una strategia volta a “indebolire politicamente la NATO e a espandere l’influenza di Mosca nella regione”.

Con un metodo ben consolidato, Breedlove ha così attribuito ai propri rivali l’atteggiamento del suo stesso governo, delineando in sostanza la strategia messa in atto non dal Cremlino, bensì dagli USA e dai loro alleati in Europa. Questi ultimi hanno infatti provocato il rovesciamento del governo legittimo di Kiev, con la relativa inevitabile creazione di un’area di destabilizzazione alle porte della Russia, al fine di ampliare l’influenza occidentale nell’ex blocco sovietico.

Breedlove ha poi mantenuto un atteggiamento ambiguo sulla possibilità di fornire armi a Kiev, riflettendo le reali preoccupazioni del governo americano per le conseguenze di una decisione che minaccia di trascinare ancor più la Russia nel conflitto ucraino.

In questo senso, le indicazioni ricavate dalle parole di Breedlove si aggiungono ad altri spunti provenienti da più parti negli ultimi mesi che suggeriscono l’intenzione occidentale di cercare di imbrigliare Mosca in una guerra di logoramento in Ucraina che, unitamente alle sanzioni e alla guerra economica in atto con il crollo pilotato del prezzo del petrolio, dovrebbe annientare le resistenze della Russia e le sue ambizioni a giocare un ruolo paritario con la prima potenza del pianeta.

In questo modo, almeno nelle intenzioni, gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero alimentare un conflitto di relativamente bassa intensità in Ucraina, con la possibilità teorica di continuare a espandere la presenza della NATO in Europa orientale senza il rischio di una guerra aperta, potenzialmente combattuta con armi nucleari.

Le manovre americane per rimediare all’ennesimo fallimento della propria politica estera rischiano però di aggravare il conflitto, tanto più che allo scenario già estremamente fragile dal punto di vista militare si deve aggiungere la drammatica situazione economica dell’Ucraina che lascia intravedere una possibile destabilizzazione del regime stesso.

La crisi ucraina provocata interamente da Washington e Berlino, infine, ha avuto come diretta conseguenza la crescita di potenti formazioni politiche e paramilitari neo-naziste, su cui l’Occidente e Kiev hanno contato per reprimere la legittima opposizione nelle regioni filo-russe. Questi gruppi rappresentano la fazione del regime più contraria a una risoluzione pacifica del conflitto, visto che continuano a manifestare una profonda opposizione a qualsiasi accordo con Mosca o con i “ribelli” del Donbass.


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