di Michele Paris

Secondo un interessante articolo pubblicato questa settimana dal Washington Post, i membri dell’ufficio stampa della Casa Bianca starebbero da qualche tempo filtrando in maniera più severa del solito le notizie prodotte quotidianamente dai corrispondenti dei media americani che seguono l’attività giornaliera del presidente Obama. Agli eventi pubblici o semi-pubblici a cui partecipa quest’ultimo assiste solitamente solo un gruppo ristretto di giornalisti (“press-pool”), scelti tra quelli che si occupano regolarmente dell’inquilino della Casa Bianca. Ciò accade per evitare che una folla di reporter si presenti puntualmente alle apparizioni del presidente, creando una serie di problemi logistici.

Il gruppo, i cui componenti sono scelti periodicamente e a rotazione, gode di un accesso relativamente privilegiato al presidente e i resoconti degli eventi che ne scaturiscono vengono poi diffusi al resto dello stampa americana che ne può usufruire a piacimento.

Prima di raggiungere tutti i giornalisti interessati, tuttavia, gli articoli realizzati dai membri di turno del “press-pool” vengono inviati all’ufficio stampa della Casa Bianca, da dove sono inoltrati - dopo attenta lettura - ai destinatari che fanno parte di un database di migliaia di indirizzi e-mail.

Se già questa pratica può essere considerata normale solo per gli standard dei media “mainstream”, essa solleva anche un ulteriore interrogativo, visto che la Casa Bianca in varie occasioni ha chiesto, e quasi sempre ottenuto, modifiche agli articoli ricevuti riguardanti il presidente, ovviamente per ottenere una copertura più favorevole.

Il pezzo del Washington Post si basa sulle testimonianze preoccupate di alcuni giornalisti che lavorano alla Casa Bianca, anche se viene sottolineato come le richieste di cambiare il contenuto di determinati passaggi degli articoli abbiano quasi sempre a che fare, almeno finora, con questioni apparentemente di secondaria importanza.

Un certo allarme tra la stampa, anche solo per il fatto che questi interventi abbiano luogo, è comunque già diffuso, come conferma la richiesta fatta all’amministrazione dall’Associazione dei Corrispondenti dalla Casa Bianca per rivedere l’approccio verso i resoconti dei giornalisti.

Gli episodi citati dal Post sono molteplici. Ad esempio, la corrispondente dalla Casa Bianca per l’agenzia di stampa McClatchy, Anita Kumar, lo scorso anno aveva realizzato un articolo sulla registrazione dell’apparizione di Obama nel programma televisivo della NBC, “The Tonight Show”. Come di consueto, la giornalista lo aveva recapitato all’ufficio stampa della Casa Bianca, da dove però le era stato comunicato che il pezzo doveva essere ridotto, poiché nella forma originale risultava troppo lungo e violava quindi gli accordi presi con la produzione del programma per limitare la diffusione del contenuto dell’intervista del presidente prima della messa in onda.

Un altro caso è quello accaduto a Todd Gillman del Dallas Morning News, il quale aveva riportato in un suo articolo una scena accaduta a bordo dell’aereo presidenziale nel 2012. A un certo punto durante il volo, Obama aveva raggiunto la sezione del velivolo riservata alla stampa per consegnare un dolce con una candelina a un giornalista che sarebbe andato in pensione di lì a poco. Obama, nel pieno della campagna elettorale per la rielezione, aveva poi invitato il festeggiato a spegnere la candelina e a esprimere un desiderio, aggiungendo che esso avrebbe dovuto “preferibilmente avere a che fare con il numero 270”, in riferimento al numero minimo di collegi elettorali necessari per vincere le elezioni presidenziali americane.

Il particolare, ritenuto del tutto innocuo dal giornalista del quotidiano del Texas, secondo la Casa Bianca avrebbe dovuto essere rimosso. Gillman si era impuntato, rivolgendosi direttamente all’allora primo portavoce di Obama, Jay Carney, il quale aveva alla fine dato il via libera alla distribuzione del pezzo, avvenuta però solo quando la scadenza fissata dal resto dei giornalisti era passata da tempo.

Decisamente di maggior peso è stato invece l’intervento che ha riguardato David Nakamura del Washington Post nel 2011. Il vice di Carney, Josh Earnest, aveva in questo caso ripreso il giornalista per avere accostato la decisione di Obama di limitare l’accesso dei fotografi agli eventi a cui avrebbe partecipato durante il viaggio allora in corso in Asia a un discorso di appena due giorni prima nel quale aveva celebrato pubblicamente la libertà di stampa.

La doppia ironia dell’intervento censoreo del futuro primo portavoce di Obama aveva probabilmente scosso il reporter del Post, spingendolo a protestare in maniera accesa, sia pure senza successo.

I rapporti tra il centro del potere negli Stati Uniti e la stampa “mainstream” raccontati dal Washington Post invitano a considerazioni di un certo rilievo. Ancor prima della vera e propria censura operata dalla Casa Bianca, è estremamente significativo e tutt’altro che rassicurante che le notizie relative al presidente vengano inviate all’ufficio stampa di Obama e solo successivamente diffuse al resto dei giornalisti per la pubblicazione.

Questo sistema a dir poco discutibile risulta al contrario perfettamente plausibile per tutti i media ufficiali, in primo luogo perché questi ultimi operano in larga misura come organi di propaganda del governo americano, le cui posizioni vengono accettate e diffuse quasi sempre senza critiche sostanziali.

In un simile scenario appare tutto sommato poco sorprendente che la Casa Bianca filtri i pezzi ricevuti dai corrispondenti che coprono l’attvità del presidente e, quando lo ritenga necessario, chieda di rettificare determinati passaggi sgraditi.

Il fatto che le testimonianze riportate questa settimana dal Washington Post si riferiscano spesso a dettagli considerati trascurabili non cambia la sostanza della questione. Se l’ufficio stampa di Obama non ha bisogno di intervenire in maniera pesante sugli articoli dei reporter del “press-pool” è dovuto infatti all’autocensura di fatto praticata dalla stampa ufficiale americana, incapace di svolgere un ruolo autenticamente critico nei confronti del potere, proprio quando ce ne sarebbe più bisogno, perché espressione in larghissima parte degli stessi grandi interessi economico-finanziari che rappresentano il punto di riferimento unico della classe politica d’oltreoceano.

Nella routine dell’attività giornalistica che ruota attorno al presidente degli Stati Uniti, i censori della Casa Bianca non hanno dunque da preoccuparsi troppo, anche se il loro occhio vigile non manca di posarsi su particolari che possono apparire di secondaria importanza.

In tal caso, il giornalista di turno viene richiamato all’ordine, sia per evitare che qualsiasi dettaglio anche lontanamente lesivo dell’immagine di un presidente già impopolare possa filtrare all’esterno, sia soprattutto per lanciare un messaggio benevolmente intimidatorio a coloro che potrebbero manifestare qualche inclinazione vagamente critica sulle questioni sostanziali del sistema di potere negli USA.

Il rapporto tra stampa e potere in questo paese era stato d’altra parte già messo clamorosamente in evidenza poche settimane fa, quando una rivelazione della testata on-line The Intercept, co-diretta da Glenn Greenwald, aveva descritto come svariati giornalisti americani si consultino in maniera regolare con la CIA prima di pubblicare i loro pezzi rigurdanti le questioni della sicurezza nazionale.

di Michele Paris

L’allargamento al territorio siriano della campagna militare americana contro lo Stato Islamico (IS) ha preso il via ufficialmente nelle primissime ore di martedì con giorni o forse settimane di anticipo rispetto a quanto ipotizzato dalla gran parte degli osservatori. Le prime incursioni delle forze aeree degli Stati Uniti e di una manciata di alleati arabi hanno già sciolto ogni dubbio sia sull’intensità degli attacchi sia sugli obiettivi, decisamente più ampi rispetto a quanto annunciato un paio di settimane fa dal presidente Obama.

Nel diffondere la notizia dell’apertura del fronte siriano, il comando militare statunitense ha fatto sapere che altri cinque paesi arabi, non esattamente campioni di democrazia, hanno “partecipato o appoggiato” le prime operazioni - Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi, Giordania e Qatar - alcuni dei quali responsabili di avere fornito denaro e armi agli stessi fondamentalisti dell’ISIS che ora sostengono di combattere.

Gli attacchi in Siria contro le postazioni dell’ISIS sono stati condotti con missili Cruise, lanciati da due navi da guerra americane nel Mar Rosso e nel Golfo Persico, ma anche utilizzando droni e velivoli da combattimento. Gli obiettivi colpiti includerebbero strutture di comando e altre dedicate all’addestramento, depositi di armi, veicoli vari e, ovviamente, un certo numero di guerriglieri jihadisti.

Un primo bilancio delle vittime provocate dalle incursioni americane è stato fornito dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani con sede in Gran Bretagna e conferma il nuovo sicuro massacro che attende la popolazione siriana. I morti sarebbero stati già più di 50, tra cui una decina di civili inclusi alcuni bambini. Secondo la testimonianza di un residente della città di Raqqa, considerata la roccaforte dell’ISIS in Siria, sarebbe subito iniziato anche una sorta di esodo della popolazione civile verso la campagna per evitare i bombardamenti.

L’inizio delle operazioni americane è stato al centro di un’apparizione pubblica nel pomeriggio di martedì del presidente Obama, poco prima della sua partenza per New York, dove parteciperà all’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite.

Obama ha giustificato l’aggressione contro la Siria con l’urgenza di prendere le misure “necessarie per combattere questo gruppo di terroristi”. Con sarcasmo apparentemente involontario, l’inquilino della Casa Bianca ha poi citato i cinque regimi arabi che stanno collaborando con gli USA, dichiarandosi “orgoglioso di essere a fianco di questi paesi per difendere la nostra sicurezza” e aggiungendo che “la forza di questa coalizione chiarisce a tutto il mondo che questa non è soltanto la guerra degli Stati Uniti”.

Gli obiettivi delle bombe USA, in ogni caso, non sono stati soltanto quelli annunciati, cioè nei pressi di Raqqa e lungo in confine con l’Iraq, ma anche nella provincia settentrionale di Idlib contro un altro gruppo integralistia, il Fronte al-Nusra, ufficialmente affiliato ad al-Qaeda.

Inoltre, gli americani hanno bombardato la città di Aleppo, prendendo di mira l’organizzazione terroristica denominata Khorasan, formata in seguito a defezioni dal Fronte al-Nusra. Questa organizzazione è stata opportunamente introdotta alla maggior parte dell’opinione pubblica internazionale solo pochi giorni fa, quando alcuni media americani ne hanno parlato definendola ancora più pericolosa dell’ISIS, poiché i suoi membri starebbero realmente progettando attentati “imminenti” contro obiettivi occidentali.

Già durante il primo giorno di operazioni, dunque, le forze americane sono andate ben al di là del mandato che Obama aveva autorizzato - almeno a livello ufficiale - in relazione alla Siria, visto che né il Fronte al-Nusra né Khorasan erano mai state citate pubblicamente come possibili obiettivi.

L’ampiezza del raggio d’azione degli Stati Uniti entro i confini siriani ha suscitato molte aspettative per le reazioni del regime di Damasco. Nonostante le smentite di Washington circa il possibile coordinamento con le forze di Assad per colpire l’ISIS, il ministero degli Esteri della Siria nella giornata di martedì ha affermato che gli USA avrebbero informato l’ambasciatore di Damasco alle Nazioni Unite dell’operazione militare poco prima che prendesse il via.

Successivamente, il Dipartimento di Stato americano ha confermato questa versione, rivelando che l’inviata all’ONU di Obama, il falco dell’interventismo “umanitario” Samantha Power, aveva discusso dell’attacco con la sua controparte siriana, aggiungendo però che gli USA “non hanno chiesto il permesso al regime”.

Nei giorni scorsi, il regime di Assad aveva avvertito, con più di una ragione, che un attacco unilaterale sul proprio territorio sarebbe stato considerato come un’aggressione alla sovranità del paese, pur senza minacciare ritorsioni.

I toni di martedì sono apparsi ancora più cauti, anche se il ministro degli Esteri, Walid al-Moallem, ha ricordato che “simili azioni [militari] possono essere condotte solo nel rispetto del diritto internazionale” e ciò comporta una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU o l’esplicito consenso della Siria. Non essendoci stato né l’una né l’altro, Moallem ha sottolineato come l’attacco americano contribuisca a “inasprire le tensioni e a destabilizzare ulteriormente la situazione”.

Ancora una volta, inoltre, i vertici del governo siriano hanno evitato di fare riferimento a improbabili reazioni, ribadendo anzi la disponibilità del regime a collaborare con “qualsiasi sforzo internazionale nella lotta al terrorismo”, compreso quello messo in atto dagli USA.

Al di là degli illusori appelli di Damasco agli Stati Uniti, vi sono ben pochi dubbi che l’iniziativa decisa dalla Casa Bianca rappresenti una nuova aggressione illegale di un paese sovrano, che in nessun modo rappresenta una minaccia per gli americani, giustificandola con la necessità di combattere i terroristi dell’ISIS, diretta emanazione, oltretutto, della politica americana in Siria.

Washington sta infatti operando ancora una volta per i propri interessi strategici - e quelli dei suoi alleati, a cominciare dalle dittature del Golfo Persico - senza alcuna autorizzazione del Palazzo di Vetro né, per quello che può valere, dello stesso Congresso degli Stati Uniti.

Tant’è vero che, secondo il presidente Obama, l’autorizzazione all’uso della forza votata dal Congresso a favore dell’allora presidente Bush nel 2001, poco dopo l’11 settembre, sarebbe sufficiente a ordinare una nuova guerra in Siria senza altri interventi del potere legislativo.

Questo ulteriore svuotamento dei poteri del Congresso non ha comunque allarmato in maniera particolare deputati e senatori a Washington, i quali hanno quasi unanimemente applaudito alle bombe sulla Siria dopo avere decretato la sospensione delle loro attività per due mesi, così da potere svolgere la campagna per le elezioni di “medio termine” senza il peso di un voto per autorizzare una nuova guerra.

L’unica iniziativa approvata dal Congresso in merito al conflitto in Medio Oriente è stata qualche giorno fa il piano di addestramento e finanziamento della fantomatica opposizione “moderata” anti-Assad, che Obama e il Pentagono vorrebbero spacciare come la forza di terra che dovrebbe farsi carico di capitalizzare le incursioni aeree americane e sconfiggere l’ISIS in Siria.

In realtà, come conferma anche l’appena nata “alleanza” con le monarchie del Golfo sul fronte siriano, la campagna bellica inaugurata martedì è un tentativo mascherato da parte degli Stati Uniti di innescare un conflitto con il regime di Assad, sfruttando qualsiasi episodio - reale o fabbricato - o creado un apposito pretesto per estendere le operazioni militari contro le forze regolari di Damasco.

La vigilia di guerra era stata infatti segnata, tra l’altro, dalle nuove accuse rivolte alla Siria da parte del segretario di Stato americano, John Kerry, di avere fatto uso di armi chimiche (gas cloro) contro i civili, come in precedenza senza alcuna prova concreta. Da Israele, il principale alleato degli USA in Medio Oriente, sempre martedì è giunta inoltre la notizia dell’abbattimento di un jet siriano che sarebbe entrato brevemente nello spazio aereo di Tel Aviv sopra le Alture del Golan.

Questo episodio e le accuse di Kerry dimostrano dunque ancora una volta quali e quante siano le opzioni a disposizione di Washington per imprimere una svolta alla campagna militare appena iniziata, così da puntare direttamente contro Damasco e il regime di Assad nel momento più opportuno, come sempre dietro le spalle degli americani e dell’opinione pubblica internazionale.

di Michele Paris

Dopo mesi di scontri verbali, intese fallite e una guerra civile sfiorata, i due candidati alla presidenza dell’Afghanistan, sfidatisi in un controverso ballottaggio nel giugno scorso, sembrano avere messo da parte tutto il loro risentimento per siglare finalmente un accordo mediato dagli Stati Uniti che dovrebbe consentire al paese centro-asiatico occupato di inaugurare un nuovo presidente nei prossimi giorni.

L’ex ministro delle Finanze e già funzionario della Banca Mondiale, Ashraf Ghani, e l’ex ministro degli Esteri nonché leader dell’Alleanza del Nord, Abdullah Abdullah, hanno così firmato nel fine settimana un documento di quattro pagine alla presenza dell’ambasciatore americano, James Cunningham, e del rappresentante delle Nazioni Unite in Afghanistan, l’ex ministro degli Esteri slovacco Jan Kubis, poco dopo una cerimonia ufficiale presieduta dal presidente uscente, Hamid Karzai.

L’accordo ha consentito alla Commissione Elettorale Indipendente di proclamare ufficialmente Ghani nuovo presidente a cinque mesi dal primo turno delle elezioni e più di tre mesi dopo il ballottaggio. Il candidato sconfitto o un’altra personalità di sua scelta dovrà invece essere nominato “capo del governo” dal nuovo presidente, con incarichi simili a quelli solitamente riservati a un primo ministro.

A testimonianza delle difficoltà incontrate nel raggiungere una soluzione condivisa della crisi, la carica stessa che dovrebbe andare ad Abdullah non è nemmeno prevista dal sistema politico afgano ma dovrà essere creata appositamente tramite una modifica alla Costituzione da approvare entro due anni.

Idealmente, Ghani e Abdullah dovrebbero poi dividere i ministeri e le altre cariche di governo tra i rispettivi sostenitori, anche se quest’ultimo punto, così come l’intera architettura dell’accordo, incontrerà probabilmente serie difficoltà già nell’immediato futuro.

Gli ostacoli sulla via della transizione dall’era Karzai sono stati anticipati nel corso della breve cerimonia di domenica a Kabul. In quindici minuti, i due candidati alla poltrona di presidente non hanno aperto bocca, sono stati protagonisti di un abbraccio estremamente freddo con un debole applauso di sottofondo e si sono sottratti alla conferenza stampa congiunta che era in programma.

I termini dell’accordo erano stati peraltro già sottoscritti nel mese di luglio in seguito all’intervento diretto del segretario di Stato USA, John Kerry, anche se da subito era stata la diffidenza a prevalere. L’ex senatore democratico era giunto a Kabul per fermare l’escalation dello scontro che minacciava di sfociare in un pericoloso confronto armato tra le due fazioni facenti capo ai principali candidati alla successione di Karzai.

Nel primo turno delle presidenziali del 5 aprile era stato Abdullah a prevalere con il 45% dei consensi e oltre 13 punti di vantaggio su Ghani, ma senza riuscire a evitare il ballottaggio con il suo più immediato rivale. Nel secondo turno, gli equilibri erano però totalmente cambiati e i risultati preliminari diffusi a luglio avevano indicato una netta vittoria di Ghani.

Abdullah e i suoi seguaci avevano subito denunciato la Commissione Elettorale, parlando di brogli diffusi a favore di Ghani in una sorta di ripetizione dell’elezione-farsa del 2009, quando Karzai venne rieletto dopo il ritiro tra le polemiche dello stesso ex ministro degli Esteri dal secondo turno di ballottaggio.

La minaccia di assistere a una crisi prolungata, che avrebbe potuto mettere ulteriormente a rischio la firma sull’accordo per il mantenimento di un sostanzioso contingente militare americano dopo il 31 dicembre 2014, aveva spinto l’amministrazione Obama a intervenire.

Kerry, come anticipato, aveva così mediato un’intesa tra i due contendenti, lanciando inoltre un riconteggio delle schede elettorali sotto la supervisione dell’ONU. Questo processo di revisione aveva però faticato a decollare, soprattutto a causa delle proteste di Abdullah per la mancanza di regole chiare sul trattamento da riservare alle schede contestate.

Il team di Abdullah aveva allora ritirato i propri osservatori dal riconteggio in segno di protesta, minacciando di fatto l’intero processo. Per evitare il caos, verosimilmente dietro pressioni USA, anche Ghani aveva finito per ritirare i suoi uomini, lasciando le operazioni di riconteggio al solo personale ONU.

In definitiva, nessuna seria revisione è stata effettuata e la parte dell’accordo relativa alle schede si è risolta in una vera e propria farsa, tanto che domenica la Commissione Elettorale afgana non ha nemmeno reso noti i risultati ufficiali che avrebbero assegnato la vittoria ad Ashraf Ghani. Alcuni anonimi diplomatici occidentali hanno comunque rivelato ai media che quest’ultimo avrebbe vinto con il 56% dei voti, contro il 44% per Abdullah, e che il riconteggio non ha riscontrato irregolarità tali da cambiare l’esito del voto.

Se alla fine Ghani e Abdullah sembrano essere stati convinti dall’amministrazione Obama ad accordarsi sull’implementazione dell’intesa voluta da Washington dopo vari rinvii, che hanno costretto Karzai a rimanere in carica come presidente anche dopo la scadenza del suo mandato, una risoluzione pacifica della crisi appare tutt’altro che scontata.

Infatti, i due leader afgani nelle scorse settimane erano sembrati su posizioni diametralmente opposte riguardo la natura del governo di “unità nazionale” da far nascere. Ghani, ad esempio, riteneva che il presidente avrebbe dovuto mantenere tutti gli ampi poteri garantitigli dalla Costituzione e che l’incarico di “capo di governo” sarebbe stato poco più di un simbolico premio di consolazione per il suo rivale. Abdullah, al contrario, per accettare la sconfitta intendeva avere in cambio un ruolo di qualche peso nell’amministrazione del paese.

Mentre non è affatto chiaro se i due abbiano risolto le loro divergenze, ciò che risulta praticamente certo è che l’insediamento formale di Ashraf Ghani, previsto secondo alcuni per il 29 settembre, consentirà agli Stati Uniti di avere la tanto sospirata firma del nuovo presidente afgano sul trattato che formalizza la permanenza indefinita di soldati americani nel paese invaso nel 2001 dopo il ritiro delle truppe di combattimento NATO a fine anno.

Il trattato era stato negoziato un anno fa con Karzai, il quale si era però rifiutato più volte di ratificarlo, con ogni probabilità per non legare il suo nome a un documento che determinerà l’occupazione permanente del suo paese da parte americana.

Tutti i candidati alle elezioni presidenziali avevano in ogni caso promesso di sottoscrivere l’accordo con Washington una volta eletti, inclusi Ghani e Abdullah, entrambi in buoni rapporti con i loro padroni dall’altra parte dell’oceano.

Lo stesso accordo, che dovrebbe mantenere indefinitamente un minimo di 10 mila uomini nel paese centro-asiatico stragicamente fondamentale per gli interessi statunitensi, potrebbe tuttavia rappresentare anche una fonte di divisioni tra Ghani e Abdullah, dal momento che entrambi cercheranno di ottenere il massimo per sé e la propria cerchia dai vantaggi che esso comporta.

Oltre agli evidenti benefici economici in un’economia che conta quasi esclusivamente sul flusso di denaro associato all’occupazione militare, poi, la classe dirigente afgana è ben consapevole di sedere ai vertici di un sistema molto fragile, la cui sopravvivenza anche letterale dipende interamente dai militari occidentali.

I giornali USA in questi giorni hanno ricordato come i Talebani abbiano operato attacchi con un’efficacia quasi senza precedenti durante i mesi estivi, approfittando dello stallo politico a Kabul. Ciò è avvenuto nonostante i quasi 50 mila soldati di occupazione ancora presenti in Afghanistan, lasciando presagire perciò un fututo decisamente cupo per i leader politici filo-occidentali in caso di ritiro totale delle forze NATO.

Già le prossime settimane, dunque, potrebbero chiarire se a prevalere tra Ghani e Abdullah sarà l’armonia, dettata dal timore di perdere ricchezze e potere derivanti dall’occupazione del loro paese, o lo scontro, determinato dal desiderio di avvantaggiarsi sulla fazione rivale per mettere le mani sulla fetta più grande possibile della torta derivante dalla continua sottomissione dell’Afghanistan a una potenza straniera.

di Carlo Musilli

I soldi vincono quasi tutte le battaglie, ma la loro forza non è sempre un male. Per la Scozia, ad esempio, non lo è stato. Il referendum della settimana scorsa in cui il 54% degli elettori ha votato contro l'indipendenza da Londra è in primo luogo una grande prova di raziocinio e lucidità sul versante economico. L'affetto nei confronti della Regina, è evidente, non ha avuto nulla a che vedere con l'esito della consultazione.

Tantomeno il patriottismo britannico, l'unità d'intenti con il "Resto del Regno Unito" (come lo chiamava il Guardian), o il legame sentimentale con una storia unitaria che - dopo secoli di guerre - dura ormai da oltre trecento anni. 

Gli scozzesi hanno votato no perché la maggior parte di loro si è resa conto che le incognite sul futuro economico del nuovo Stato indipendente sarebbero state davvero troppe. A cominciare dalla valuta, il problema più macroscopico. Il governo di David Cameron ha spostato certamente una fetta significativa di voti minacciando di proibire alla nuova Scozia l'adozione della sterlina. Alex Salmond, leader indipendentista e premier di Edimburgo, aveva replicato con una contro minaccia molto semplice: se ci negherete la sterlina, diceva, noi rifiuteremo di accollarci la nostra parte di debito pubblico.

Nel migliore dei casi uno stallo del genere avrebbe richiesto anni di negoziati prima di risolversi in un accordo. Nel frattempo, la Scozia indipendente avrebbe dovuto vagliare altre due ipotesi: battere moneta o entrare nell'euro. Una nuova valuta sarebbe stata debolissima e oggetto della speculazione più sfrenata, facendo la fortuna dell'export, ma affossando risparmiatori e conti pubblici.

La seconda strada, invece, si sarebbe rivelata impraticabile, perché prima di entrare nell'Eurozona bisogna essere ammessi nell'Unione europea, e l'eventuale ingresso scozzese avrebbe incontrato l'opposizione non solo del "Resto della Gran Bretagna", ma anche della Spagna, preoccupata di non indicare agli indipendentisti catalani un modello da seguire.

Un'incertezza di questo tipo avrebbe spinto le banche a fuggire dalla nuova Scozia per rifugiarsi in Inghilterra, in modo da continuare a sfruttare come prestatrice di ultima istanza la Bank of England, un colosso planetario che dà ben altre sicurezze rispetto a qualsiasi istituto centrale prodotto ex novo in terra scozzese. Insieme alle banche, è probabile che anche le aziende (escluse quelle esportatrici) avrebbero organizzato una diaspora generale per restare fra le braccia di mamma Londra. Tutto ciò avrebbe avuto un costo incalcolabile in termini di posti di lavoro, abbassando ulteriormente l'occupazione in una terra che ad oggi non offre molte possibilità.

L'abitudine di trasferirsi in Inghilterra per trovare un impiego, infatti, è già assai diffusa fra i giovani scozzesi, il che solleva un altro interrogativo: con un'età media della popolazione sempre più alta e un rapporto sempre più sfavorevole fra attivi e pensionati, come avrebbe fatto la Scozia indipendente a tenere in piedi il sistema previdenziale? Non solo: ricerche alla mano, oltre a essere mediamente anziani, gli scozzesi non godono nemmeno di ottima salute, perciò anche le spese sanitarie non sarebbero state semplici da sostenere.

E' vero che il nuovo Paese non avrebbe più avuto obblighi fiscali nei confronti della tanto odiata Londra, ma avrebbe dovuto rinunciare anche ai generosi trasferimenti che finora hanno permesso di far quadrare i conti in tema di pensioni e sanità. Secondo Salmond, per risolvere questi problemi sarebbe bastato istituire un fondo sovrano e investire sui mercati finanziari i proventi garantiti dal petrolio del Mare del Nord, che sarebbe rimasto per oltre il 90% in mani scozzesi.

D'altra parte, fin qui gli investimenti in pozzi e piattaforme sono arrivati per la maggior parte dal governo britannico, dalla British Petroleum e da altre multinazionali che ci avrebbero pensato due volte prima di mettersi contro il "Resto della Gran Bretagna". Senza contare che la produttività degli stessi giacimenti è un rebus, considerando che negli ultimi anni l’andamento del prezzo del petrolio e alcune chiusure impreviste hanno fatto sprofondare i ricavi prodotti dall'oro nero scozzese (dai 12,4 miliardi di sterline del 2008-2009 si è passati ai 6,5 miliardi del 2012-2013).

A conti fatti, quindi, gli scozzesi avevano moltissime ragioni per dire no. L'indipendenza avrebbe acceso il cuore dei nazionalisti, ma tutti gli altri si sarebbero ritrovati a fluttuare nel vuoto, lontanissimi da qualsiasi certezza sul futuro. Poi non è detto, magari a qualcuno la Regina sta simpatica davvero.


di Mario Lombardo

La nuova frontiera della guerra al terrorismo in Medio Oriente, rappresentata dallo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), sta scatenando come previsto una feroce caccia alle streghe in vari paesi che fanno parte della “coalizione” voluta dal presidente Obama, con i rispettivi governi che fanno a gara nell’annunciare cospirazioni e minacce, in largissima parte, però, fabbricate o deliberatamente ingigantite.

Il più recente e clamoroso caso riguarda l’Australia del governo conservatore del primo ministro Tony Abbott, uno dei più convinti sostenitori del conflitto contro la più recente creatura del fondamentalismo sunnita. Nelle prime ore di giovedì, le forze di polizia federali e statali hanno condotto quella che dalle stesse autorità è stata definita come “la più grande operazione di anti-terrorismo” nella storia del paese.

Qualcosa come 800 poliziotti e agenti del contro-spionaggio (ASIO) hanno fatto irruzione in decine di abitazioni nelle città di Sydney, Brisbane e Logan, con particolare attenzione per i residenti di fede musulmana, arrestando una quindicina di sospetti. Nelle operazioni, appoggiate da elicotteri della polizia, le forze di sicurezza non sono andate per il sottile. Almeno uno dei residenti la cui abitazione è stata perquisita ha raccontato ai media australiani di essere stato strattonato violentemente e colpito più volte dagli agenti di polizia.

Già la settimana scorsa, sempre a Brisbane e a Logan, nello stato del Queensland, erano andate in scena altre perquisizioni con vari arresti, tra cui due individui accusati di raccogliere denaro e assoldare volontari per il Fronte al-Nusra, affiliato ad al-Qaeda a differenza dell’ISIS ma come quest’ultimo impegnato nella lotta contro il regime siriano.

All’incursione di giovedì è stata garantita un’ampia copertura mediatica, con televisioni e giornali allertati prima dell’inizio delle operazioni così da consentire a telecamere e reporter di essere presenti sulla scena.

Lo stesso premier Abbott è intervenuto pubblicamente per descrivere i contorni dell’operazione, sostenendo che le informazioni di intelligence a disposizione del governo indicavano come un cittadino australiano facente parte dell’ISIS avesse “esortato” le reti di supporto dell’organizzazione jihadista nel suo paese d’origine a mettere in atto “assassini dimostrativi”.

Qualche dettaglio in più lo si è avuto dal procedimento che ha interessato un 22enne già apparso di fronte a un giudice. Tutte le prove a carico del sospettato e che hanno giustificato una mobilitazione della polizia di tale portata ammonterebbero a una singola telefonata intercettata. In essa, il giovane arrestato discuteva la possibilità di commettere un atto con il “chiaro intento di sconvolgere, inorridire e terrorizzare la popolazione”.

Secondo le autorità australiane, il piano sarebbe stato quello di rapire a caso una persona nelle strade di Sydney e filmare la sua decapitazione, come hanno fatto in tre occasioni nelle scorse settimane con cittadini occidentali i membri dell’ISIS in Iraq e in Siria.

A fronte della rappresentazione andata in scena nella prima mattinata di giovedì, i vertici della polizia hanno dovuto ammettere che non eisteva nessuna prova che un qualsiasi atto criminale fosse concretamente allo studio, men che meno imminente.

Oltretutto, secondo il network australiano ABC, tutti i detenuti erano ben conosciuti dalla polizia e dall’intelligence per via delle loro presunte simpatie per l’ISIS e i loro movimenti e comunicazioni erano tenuti sotto controllo.

Tutto ciò rende dunque inutile ai fini pratici il raid a sorpresa di giovedì, anche se lo spettacolo offerto ai cittadini australiani è servito a legittimare sia il recentissimo innalzamento del livello di allerta terrorismo da parte del governo sia l’invio di aerei da guerra e un piccolo contingente di militari in Iraq per partecipare alle operazioni belliche americane contro l’ISIS.

In particolare, come è accaduto praticamente in tutto l’Occidente dopo l’11 settembre 2001, simili minacce “terroristiche” provvidenzialmente sventate hanno lo scopo di mantere alta la tensione nella popolazione, utilizzando la paura per far digerire misure anti-democratiche che vanno da perquisizioni o controlli ingiustificati al monitoraggio di movimenti e comunicazioni.

Operazioni come quelle di giovedì a Sydney e Brisbane, con irruzioni in abitazioni e detenzioni sostanzialmente senza prove reali, sono inoltre possibili proprio grazie alle leggi approvate dopo l’apparizione della presunta minaccia del terrorismo islamista nell’ultimo decennio. In Australia come altrove, così, arresti o addirittura lunghe condanne sono possibili anche solo sulla base di esili indizi o delle presunte intenzioni terroristiche dei sospettati.

Da notare, poi, che molti governi stanno mettendo in atto un giro di vite contro il fondamentalismo domestico a causa della partecipazione di qualche decina o, tutt’al più centinaia, di loro cittadini che si sono recati in Medio Oriente per combattere nelle file dell’ISIS o di altre formazioni integraliste.

A causa di ciò sono state implementate misure gravemente restrittive della libertà di movimento, soprattutto dei musulmani, e nonostante i pochi individui finiti al fronte in Iraq o in Siria fossero di fatto schierati dalla stessa parte dei loro governi contro il regime di Bashar al-Assad.

Isterismi simili riguardano anche l’Italia, come ha confermato tra l’altro un intervento della settimana scorsa alla Camera del ministro dell’Interno. Usando in pratica le stesse parole dei leader di governo a Washington, Londra o Canberra, Alfano aveva pateticamente prospettato catastrofici scenari soprattutto a Roma - “la culla della cristianità” - concedendo però subito dopo che l’allarmismo era del tutto senza senso, visto che “al momento non ci sono evidenze investigative di progettualità terroristiche nel nostro paese”.

Per Alfano, tuttavia, l’ISIS dispone di “soldi, uomini e ambizioni che nessuna organizzazione aveva prima avuto” - grazie peraltro ai governi occidentali e ai regimi loro alleati in Medio Oriente che ne hanno resa possibile la crescita con le loro politiche in Siria - così che per contrastarlo sarebbero necessarie misure ancor più anti-democratiche, ovvero “nuovi strumenti che tengano conto dell’evoluzione della minaccia”.

L’esempio più significativo di questa singolare lotta al terrorismo è da ricercare in ogni caso negli Stati Uniti. Tra le varie manifestazioni di essa vi sono le operazioni condotte dall’FBI e che servono a incastrare cittadini americani che, per conto proprio e senza l’assistenza di informatori e agenti della polizia federale, non rappresenterebbero la minima minaccia per la comunità.

Esempi di attentati terroristici “sventati” in questo modo sono molteplici e il più recente è avvenuto opportunamente questa settimana nel pieno dei preparativi per la guerra all’ISIS. Martedì, infatti, il Dipartimento di Giustizia ha annunciato l’arresto di un 30enne di origine yemenita, Mufid Elfgeeh, con l’accusa - apparentemente seria - di avere pianificato attacchi con pistole contro soldati americani e, più in generale, di avere fornito supporto materiale a un’organizzazione terroristica straniera (l’ISIS, ovviamente).

Come spesso è accaduto in situazioni simili, anche l’intero caso contro il cittadino arabo-americano di Rochester, nello stato di New York, è stato costruito ad arte dall’FBI. Le intenzioni terroristiche di Elfgeeh sarebbero cioè emerse nel corso di un paio di discussioni con informatori dell’FBI, i quali gli avevano manifestato la loro intenzione di recarsi in Medio Oriente per diventare guerriglieri jihadisti.

L’uomo si sarebbe a quel punto offerto di finanziare il finto viaggio dei due informatori, arrivando a pagare 600 dollari a un contatto in Yemen per facilitare la traversata. Elfgeeh, inoltre, avrebbe acquistato dagli stessi informatori dell’FBI due pistole con silenziatore e delle munizioni che però erano state precedentemente rese “inutilizzabili”.

In questa e in molte altre vicende, in definitiva, i sospettati finiti agli arresti non hanno precedenti di attività legate al terrorismo né i mezzi o le capacità per mettere in atto azioni violente che, infatti, sono ideate e organizzate materialmente da uomini dell’FBI o da informatori pagati.

Come riassumeva una recente indagine di Human Rights Watch su alcuni casi di “terrorismo” negli USA, dunque, “agli americani è stato detto che il governo garantisce la loro sicurezza prevenendo e combattendo il terrorismo nel paese. A ben vedere, però, molte di queste persone [incastrate dall’FBI e arrestate] non avrebbero mai commesso alcun atto terroristico senza l’incoraggiamento, le pressioni e talvolta i mezzi finanziari delle forze di polizia stesse”.


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