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di Michele Paris
L’assedio e la liberazione di quasi tutti gli ostaggi da parte di un commando delle forze speciali australiane in un caffè nel centro di Sydney nelle primissime ore di martedì sono stati ancora una volta sfruttati dal governo di Canberra per alimentare il clima di panico nel paese a causa di possibili nuove minacce terroristiche e per proseguire nell’implementazione di misure da stato di polizia.
La ormai nota vicenda relativa al caffè Lindt ha avuto la sua conclusione in maniera tragica dopo che attorno alle due del mattino erano stati sentiti spari provenire dall’interno del locale, dove un rifugiato iraniano da due decenni in Australia stava tenendo in ostaggio una decina di persone.
Le ultime ore dell’assedio appaiono però confuse, visto che la polizia aveva tenuto i giornalisti a distanza e il resoconto di quanto è avvenuto prima e dopo l’irruzione del commando è stato fornito esclusivamente dalle autorità.
Secondo la versione ufficiale, uno degli ostaggi - il 34enne Tori Johnson, direttore del caffè - avrebbe a un certo punto cercato di sottrarre la pistola al sequestratore mentre era sul punto di addormentarsi. Accortosi del tentativo, quest’ultimo avrebbe sparato all’uomo uccidendolo e innescando l’intervento delle forze speciali, in seguito al quale lo stesso sequestratore ha perso la vita assieme a un altro degli ostaggi, una 38enne madre di tre figli.
Anche prendendo per buona questa versione della morte del maganer del locale nel centro di Sydney, non è chiaro da dove siano venuti i colpi che hanno causato il decesso della seconda vittima tra gli ostaggi e il ferimento di altri quattro. Il capo della polizia dello stato del Nuovo Galles del Sud, Andrew Scipione, martedì ha preferito non soffermarsi sulla questione, elogiando piuttosto la polizia per avere “salvato molte vite”.
Com’è quasi sempre accaduto in episodi simili più o meno recenti, un’analisi delle circostanze solleva anche in questo caso due riflessioni piuttosto inquietanti. La prima riguarda i precedenti e l’identità del responsabile dell’atto bollato immediatamente come “terroristico”, mentre la seconda è legata alla risposta delle forze di polizia, del governo e dei media ufficiali.
Ancora una volta, per cominciare, il tentacolare apparato di sorveglianza costruito in Australia, come in molti altri paesi, ha fallito nell’impedire a un individuo ben noto alle autorità di portare a termine un gesto eclatante e dalle conseguenze tragiche.
Il responsabile in questo caso si chiamava Man Haron Monis e aveva più di un precedente con la giustizia australiana. Il 50enne di origine iraniana, autoprocalamatosi membro del clero sciita anche se recentemente convertitosi al sunnismo, era infatti in attesa di giudizio in quanto incriminato come co-responsabile dell’assasinio della ex moglie, mentre era stato condannato ai servizi sociali per avere scritto lettere “offensive” a famigliari di soldati australiani morti durante l’occupazione dell’Afghanistan.
Monis viene descritto come un uomo fortemente disturbato e con profondi sentimenti di rivalsa nei confronti dello stato e del sistema giudiziario del paese che gli aveva concesso asilo dopo avere abbandonato l’Iran.
Negli anni scorsi era inoltre apparso in alcuni articoli e servizi della stampa australiana. Nel 2001, ad esempio, la ABC lo aveva intervistato presentandolo come un rifugiato con inclinazioni moderate e costretto a lasciare la famiglia in Iran a causa di presunte persecuzioni. Sulla stampa alternativa on-line, poi, circola già il sospetto che l’uomo fosse stato in qualche modo utilizzato in passato dal governo in una più o meno deliberata campagna di discredito della Repubblica Islamica.Qualche anno più tardi, in ogni caso, Monis - conosciuto anche col nome di Manteghi Boroujerdi - sarebbe stato segnalato alle autorità come persona sospetta dai leader della comunità sciita australiana, soprattutto perché si spacciava come membro del clero non avendone i titoli per farlo.
In maniera ancora più interessante, la stampa iraniana ha riportato un commento di una portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, secondo la quale il suo governo avrebbe più volte messo in guardia Canberra circa “i precedenti e le condizioni mentali e psicologiche” di Monis/Boroujerdi.
In definitiva, il ritratto di quest’ultimo che è uscito finora smentisce categoricamente l’ipotesi che egli rientri nella categoria dei cosiddetti “lupi solitari”. Questa definizione è assegnata dai governi che si definiscono impegnati nella lotta alle minacce terroristiche entro i propri confini a soggetti impossibili da individuare e da tenere sotto controllo da parte delle forze di polizia, poiché non fanno parte di organizzazioni fondamentaliste ma agiscono in manier autonoma, sia pure con motivazioni politiche o ideologiche, dopo essere passati attraverso un percorso indipendente di radicalizzazione.
Se possibili legami di Monis con i servizi di intelligence australiani, dopo che egli stesso aveva sostenuto di avere avuto contatti con quelli del suo paese d’origine, sono al momento soltanto ipotizzabili, quel che appare evidente è che l’azione di lunedì a Sydney è stata tutt’al più condotta per motivi solo esteriormente riconducibili allo Stato Islamico (ISIS), di cui l’uomo si sarebbe definito membro nel corso del sequestro all’interno del caffè Lindt.
Ciononostante, la vicenda è stata prevedibilmente descritta come l’ennesima prova che il “terrorismo” jihadista è ormai approdato in maniera inesorabile anche in Australia, con la logica conseguenza che il governo deve disporre della piena facoltà di implementare tutte le misure necessarie per proteggere la sicurezza dei propri cittadini.
E infatti, quello che avrebbe dovuto più logicamente essere trattato come un caso di polizia, sia pure grave, è stato subito trasformato in una vera e propria crisi nazionale, con l’attivazione dei protocolli “anti-terrorismo” e la ripetuta apparizione in diretta televisiva del primo ministro, Tony Abbott, per rassicurare gli australiani e aggiornarli sulla situazione all’interno del caffè di Sydney.
Innanzitutto, la città è stata letteralmente invasa dalla polizia che ha chiuso al traffico interi quartieri del centro, così come uffici pubblici e privati. Secondo le procedure previste in casi simili, misure estreme sono state adottate anche in altre città del paese, anche se non erano stati segnalati allarmi né complici di Monis.
Sia i giornali australiani conservatori - in primo luogo del gruppo Murdoch - sia quelli teoricamente “liberal” sono apparsi poi uniti nell’appoggiare la versione del governo, dando per scontate informazioni per nulla provate, come le effettive simpatie del sequestratore per l’ISIS, o chiedendo misure ancora più lesive della privacy e dei diritti civili per fronteggiare la “minaccia del terrorismo” che sembra incombere sull’Australia.
Eventi come quello di questa settimana a Sydney, in definitiva, vengono puntualmente sfruttati dalla classe dirigente in Europa come in Nordamerica o in Oceania proprio per accelerare l’introduzione di norme sempre più anti-democratiche sul controllo della popolazione, salvo poi scoprire ogni volta che i responsabili di atti di “terrorismo” riescono a sfuggire miracolosamente alla rete di sorveglianza creata dalle autorità pur avendo avuto quasi sempre precedenti con la giustizia.
L’elenco di casi simili è lunghissimo e solo poche settimane fa se ne aveva avuto un esempio sempre in Australia, guarda caso nel pieno del lancio dell’avventura bellica in Iraq e in Siria ufficialmente contro l’ISIS, a cui le forze armate di Canberra partecipano al fianco di Washington. A settembre, cioè, la polizia australiana aveva condotto una delle più imponenti operazioni di “anti-terrorismo” mai viste nel paese, con centinaia di agenti impegnati in varie città a perquisire abitazioni, arrestare e interrogare sospettati di avere legami con l’ISIS e altre formazioni integraliste.Lo stesso premier Abbott aveva giustificato l’operazione con il pericolo che simpatizzanti o membri dell’ISIS stessero progettando rapimenti ed esecuzioni sommarie sul suolo australiano. Il risultato dell’intera operazione fu però l’incriminazione di una sola persona con dubbie accuse di reati legati al “terrorismo”.
Il clima di isteria creato ad arte in Australia ha permesso così al governo conservatore, sempre più impopolare a causa delle ripetute misure di austerity messe in atto, di fare approvare dal parlamento una serie di provvedimenti ad hoc.
Le leggi da poco introdotte intendono ad esempio impedire a cittadini australiani di recarsi in Siria o in altri paesi interessati dal fondamentalismo islamico tramite la revoca o la confisca dei passaporti. Un’altra misura prevista criminalizza invece “l’incitamento al terrorismo” sui social media ed è scritta in maniera sufficientemente ampia da includere qualsiasi vaga “minaccia” alla sicurezza o alla stabilità dello stato.
Questa piega preoccupante, come già ricordato, non riguarda solo l’Australia. Vari paesi europei hanno anch’essi deciso la revoca arbitraria dei passaporti dei sospettati di terrorismo, cercando di giustificare questa misura anti-democratica per lo più con arresti di cittadini di fede musulmana descritti come sul punto di unirsi all’ISIS in Medio Oriente, come è accaduto proprio in questi giorni in Francia.
Un altro partner speciale degli Stati Uniti in questa guerra a un’organizzazione fondamentalista che è in sostanza il prodotto delle stesse trame occidentali è infine il Canada. A Ottawa, nel mese di ottobre, l’azione di un altro individuo con una storia di emarginazione e precedenti penali era giunta nel pieno del dibattito su una nuova legge che avrebbe ampliato i poteri delle autorità in materia di “anti-terrorismo” ed era stata seguita dalle stesse reazioni di politici e media e dalle stesse spropositate misure delle forze di polizia osservate questa settimana a Sydney.
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di Michele Paris
Il partito Liberale Democratico (LDP) conservatore del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha vinto come previsto in maniera molto netta le elezioni anticipate indette con una manovra estremamente dubbia a novembre dallo stesso premier e andate in scena nel paese dell’Estremo Oriente nella giornata di domenica. L’LDP ha perso appena 4 seggi rispetto al voto di due anni fa, scendendo da 295 a 291 sui 475 complessivi della camera bassa del Parlamento nipponico (Dieta). Il tradizionale partner di governo dei liberal-democratici, il partito conservatore Komeito di ispirazione buddista, ne ha guadagnati invece 4 (da 31 a 35), consentendo alla coalizione di mantenere una supermaggioranza di due terzi nella Camera dei Rappresentanti.
Quello che era stato propagandato come una sorta di referendum sulle politiche economiche del primo ministro non si è risolto però in un attestato di fiducia, nonostante i numeri. Per cominciare, è stata registrata un’autentica esplosione del tasso di astensione, salito di 7 punti percentuali rispetto al già basso livello del 2012 e attestatosi attorno al 52%, cioè il record negativo dal secondo dopoguerra a oggi.
Il numero enorme di elettori giapponesi che hanno preferito rimanere a casa piuttosto che avallare il colpo di mano di Abe o votare per uno qualsiasi dei partiti del deprimente panorama politico del paese indica sia la sfiducia nei confronti della gestione dell’economia da parte del governo sia la pressoché totale mancanza di alternative credibili all’LDP.
Significativo in questo senso è stato lo slogan della campagna elettorale del partito dello stesso premier, il quale ha cercato di convincere i giapponesi che le cosiddette “Abenomics” - le politiche economiche del governo basate principalmente su un’aggressiva politica monetaria, sull’aumento della spesa pubblica (a beneficio di banche e grandi aziende) e sulla “riforma” del mercato del lavoro - fossero “l’unica strada” possibile.
Anche se non esattamente come nelle intenzioni dei vertici dell’LDP, questo slogan ha fotografato la realtà giapponese prima del voto di domenica, caratterizzata da una clamorosa mancanza di soluzioni diverse dalle consuete ricette ultraliberiste promosse da Abe e che finora non hanno in nessun modo prodotto una ripresa consistente dell’economia reale né tantomeno il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita promesso.
L’unica “strada” a disposizione dei giapponesi è apparsa evidente anche dallo stato comatoso del principale partito di opposizione giapponese, il Partito Democratico (DPJ) di centro-sinistra. Quest’ultimo appare agli occhi degli elettori giapponesi come una parodia di partito politico e non ha praticamente mostrato segni di vita dopo la batosta subita nelle elezioni del 2012, seguita a tre anni in cui aveva governato senza mantenere nessuno degli impegni con gli elettori.
Innumerevoli sondaggi e interviste apparse nelle scorse settimane su vari media nipponici e internazionali avevano messo in luce la profondissima avversione ancora diffusa nei confronti del DPJ, il cui trionfo di cinque anni fa sull’LDP era stato conquistato grazie alla promessa di politiche progressiste delle quali non si è mai vista nemmeno l’ombra.
Sulle condizioni dell’opposizione ha puntato così Abe per assicurarsi un secondo mandato proprio mentre il paese è scivolato in una nuova recessione. Dal momento che il DPJ o altre formazioni non avrebbero rappresentato alcuna minaccia, lo scioglimento anticipato della camera bassa della Dieta è stato deciso per prolungare la sua permanenza alla guida del governo prima che la piena attuazione di impopolari politiche economiche, ma anche di altre iniziative per la militarizzazione del Giappone, si facessero sentire sul gradimento dell’LDP.Nel mese di novembre, i dati economici relativi al terzo trimestre dell’anno avevano mostrato come il Giappone fosse ripiombato in recessione a causa sia della congiuntura globale sia dell’entrata in vigore ad aprile di un aumento della tassa sui consumi, approvata dal precedente governo del DPJ e confermata da Abe.
Il primo ministro aveva allora deciso di rimandare all’aprile del 2017 il secondo aumento della tassa stessa, previsto per il 2015, sia pure di fronte all’opposizione degli ambienti finanziari internazionali e di sezioni della classe dirigente domestica, a cominciare dalla Banca Centrale giapponese. Contestualmente, il premier aveva imposto elezioni anticipate, in modo da ricevere un nuovo mandato e cercare anche di emarginare la fazione dei “falchi” nel suo partito contraria al rinvio dell’aumento della tassa, ritenuto necessario per contenere il debito pubblico nipponico, da tempo il più alto di tutti i paesi industrializzati in rapporto al PIL.
Per quanto riguarda il DPJ, anche se i risultati finali hanno evidenziato la conquista di 11 seggi in più rispetto agli attuali 62, la prestazione elettorale è stata dunque molto deludente, soprattutto alla luce della crescente ostilità nel paese alle politiche governative. Il leader del DPJ, Banri Kaieda, si avvia così verso le dimissioni dopo avere fallito anche nella corsa a un seggio in parlamento, essendo stato sconfitto nel distretto maggioritario di Tokyo in cui era in gara e non avendo nemmeno raccolto il numero di voti sufficienti per essere rispescato con la quota proporzionale.
Quel che è certo, ad ogni modo, è che Abe cercherà ora di sfruttare il successo di domenica per legittimare l’intensificazione del suo programma di “ristrutturazione” economica e i previsti piani di modifica alla costituzione pacifista del Giappone, così da consentire una piena militarizzazione del paese e alle proprie forze armate di partecipare a eventuali conflitti all’estero con compiti di combattimento.
La riuscita dei progetti del premier è comunque tutt’altro che certa, mentre all’interno del suo partito circolano inquietudini giustificate, evidenti anche dai toni non esattamente trionfali dopo la diffusione dei risultati del voto.
La certezza di un nuovo mandato di quattro anni contribuisce infatti ben poco a rendere popolari le misure economiche o le modifiche costituzionali che verrano discusse nel prossimo futuro, così come l’imminente riattivazione dei reattori nucleari dopo il disastro di Fukushima del 2011. Allo stesso modo, nessuna delle “frecce” previste dalle “Abenomics” sarà verosimilmente in grado di rilanciare la crescita del Giappone in modo che sia la maggior parte della popolazione a beneficiarne.
Abe in prima persona pare rendersi conto di questi ostacoli e sarà costretto a procedere in maniera prudente, tanto che vari osservatori dubitano che il governo possa realmente riuscire a portare a termine alcune “riforme”, a cominciare da quella del lavoro. Tanto più che il premier dovrà fare attenzione ai suoi livelli di gradimento in vista dell’appuntamento con il congresso del suo partito nel prossimo mese di settembre, quando verrà scelto il nuovo leader dell’LDP.Per i giornali ufficiali, Abe dovrà combattere contro i cosiddetti “interessi consolidati” nei prossimi mesi, cioè in primo luogo con i lavoratori dipendenti contrari a miracolose “riforme” che prospettano un miglioramento della loro situazione economica attraverso la privazione di diritti e la più che probabile riduzione delle retribuzioni.
L’altra categoria sulla lista degli oppositori del cambiamento è poi quella degli agricoltori, tradizionale base elettorale dell’LDP e fortemente contraria allo smantellamento delle protezioni del loro settore per favorire la concorrenza dei prodotti stranieri. In questo caso, il riferimento è al trattato di libero scambio battezzato “Partnership Trans-Pacifica” (TPP) e promosso dagli Stati Uniti. Il TPP, oltre a essere visto con sospetto da vari paesi, è fermo da tempo anche a causa delle resistenze di Tokyo ad assecondare le richieste di Washington, da dove si spinge per l’abbattimento dei dazi doganali sui prodotti agricoli nipponici che manderebbe di fatto in rovina gli agricoltori indigeni.
Tornando al voto di domenica, le notizie relativamente buone per il partito di governo sono state offuscate in parte dai risultati sull’isola di Okinawa. Qui i quattro distretti che assegnavano altrettanti seggi con il sistema maggioritario hanno visto la sconfitta di tutti i candidati dell’LDP, in conseguenza della fortissima opposizione alla costruzione di una nuova base militare americana al posto di quella attuale che dalla fine della Seconda Guerra mondiale è situata in un’area urbana dell’isola. I quattro candidati del partito di Abe, favorevoli alla base, sono stati comunque eletti ma solo grazie alla quota proporzionale.
Proprio a Okinawa, infine, un candidato del Partito Comunista Giapponese (JCP) è stato eletto in un distretto maggioritario per la prima volta dal 1996. Complessivamente, il JCP ha quasi triplicato il proprio contingente di deputati al parlamento di Tokyo, passando dagli attuali 8 a 21, grazie a una campagna elettorale nella quale i propri candidati sono stati tra i pochi a criticare fermamente le politiche del governo di Shinzo Abe.
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di Emy Muzzi
Londra. E’ stato sufficiente aspettare pochi giorni di assestamento delle breaking news e dei titoli sulle prime pagine, perché la verità sul report - CIA che qui a Londra si sospettava venisse a galla. Per la conferma di Downing Street che i servizi inglesi e americani abbiano avuto diversi incontri prima della pubblicazione del report sulle torture inflitte dalla CIA ai presunti sospetti terroristi, abbiamo dovuto aspettare solo due giorni.
Gli incontri tra l’MI6 ed i colleghi d’oltreoceano erano cominciati subito dopo l’inizio dell’indagine della commissione del Senato Usa nel 2009. Pertanto, è il caso di dedurre, nelle oltre 480 pagine del report rese pubbliche, non c’è alcun riferimento ad alcun coinvolgimento del governo, dell’intelligence, o di agenzie britanniche nelle operazioni di ‘rendition’. Il totale delle pagine ancora segrete, ‘classified’, è di 6mila, i dati raccolti in sei anni ammontano a sei milioni di pagine. Nella sintesi finale si è perso qualcosa...
Quel ‘qualcosa’ di rilevante si è perso probabilmente negli incontri - almeno 21 in due anni secondo il The Guardian - tra l’ambasciatore britannico a Washington, Sir Peter Westmacott, e la senatrice Dianne Feinstein, a capo della Commissione Intelligence del Senato USA. Ma sembra che i ‘meetings’ fossero il proseguimento di una tradizione diplomatica nata con il report stesso. In aggiunta il ministro degli interni inglese, Teresa May, non ha mancato di onorare la Commissione Intelligence Usa con una visita sulla quale è stata chiamata a rispondere in Parlamento.
Il programma anti terrorismo ‘rapimento, internamento e tortura in prigioni nascoste’ (più diplomaticamente conosciuto come rendition), inaugurato da George W Bush dopo gli attacchi dell’11 Settembre, ha coinvolto diversi paesi e governi, inclusa l’Italia, e sembra poco credibile che i cugini inglesi, fronte europeo della lotta contro il terrorismo, non abbiano fatto la loro parte. A quanto denuncia Reprieve, ONG inglese a sostegno dei diritti umani, le torture sarebbero state inflitte nelle prigioni nascoste controllate dalla CIA (black sites) anche in territorio britannico, come l’isola Diego Garcia, atollo nell’Oceano Indiano appartenente alla Corona, sede della più vasta base militare americana in territorio estero e di un ‘black site’ che avrebbe ‘ospitato’ nel 2004 il dissidente libico Abdel Hakim Belhadj o almeno lo scalo del volo che lo rimpatriava in Libia per essere incarcerato e poi torturato dalla polizia segreta di Gheddafi in una operazione congiunta MI6-CIA.
Adesso le autorità britanniche sono chiamate a rendere conto della eventuale responsabilità che i rapimenti dei sospetti e le torture inflittegli possano essere avvenute in territorio britannico. In queste ore trionfa il giustificazionismo: l’ex ministro degli esteri conservatore, William Hague, il giorno la diffusione del report ha preso le distanze: “Penso che tutti noi prima dovremmo leggere il report - ha dichiarato ad una TV londinese - ma ciò che so come ex ministro degli esteri e come responsabile per alcune delle nostre intelligence agencies fino a pochi mesi fa, è che in questo paese i nostri servizi segreti non solo hanno fatto un lavoro fantastico garantendo la sicurezza dei cittadini, ma anche mantenendo una stretta osservanza della legge e dei diritti umani in tutto il mondo. Noi possiamo garantire per le nostre agenzie e dobbiamo vedere cosa il report dice riguardo a ciò che la CIA ha fatto in passato”. Una dichiarazione che equivale ad un no-comment.La pubblicazione del report, del resto, preoccupava Hague da diversi mesi. Nel luglio scorso, quando era ancora a capo del Foreign Office, nel rassicurare che “il governo britannico non ha mai cercato di influenzare il contenuto del report” aveva scritto in una lettera indirizzata ai responsabili di Reprieve riferendosi agli incontri con i rappresentanti del Senato Usa: “Abbiamo formalmente chiesto rassicurazioni affinché fossero seguite le procedure ordinarie che prevedono l’autorizzazione nel caso in cui la documentazione fornita alla Commissione del Senato venga resa pubblica”. La documentazione riguardante il Regno Unito c’è, ma non compare nel report. Diciamo che non è sopravvissuta alla ‘redazione’ finale, al pari di quella riguardante altri paesi.
Nella mappa delle location dell’orrore l’aeroporto di Prestwick (Glasgow) è segnato come uno degli scali principali. Secondo il report del Consiglio d’Europa nel 2006, in alcuni aeroporti britannici (militari e civili?) hanno fatto scalo i voli della CIA con a bordo sospetti rapiti e trasportati in luoghi segreti e remoti per essere sottoposti a torture.
Nello stesso report UE anche Roma è segnata tra gli scali principali ed in altre mappe relative ad inchieste sulle renditions, l’Italia è segnata come uno dei paesi in cui i rapimenti venivano effettuati. Un esempio di ciò fu il caso dell’Imam Abu Omar, rapito a Milano dagli agenti della CIA coadiuvato dal Sismi (allora guidato da Pollari), trasportato segretamente in Egitto, torturato, rilasciato da un tribunale egiziano in quanto innocente con conseguente condanna (simbolica e non effettiva) dei 23 agenti americani nel 2009 da una corte di giustizia italiana.
In quel caso la giustizia ha salvato una delle vittime innocenti del programma anti-terrorismo della CIA; altri non sono sopravvissuti a torture che hanno portato in molti casi anche alla morte di persone considerate sospette senza alcuna prova e private del diritto alla giustizia. Il terrorismo degli "antiterroristi".
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di Michele Paris
Con il voto definitivo del Senato nel fine settimana, il Congresso di Washington ha scongiurato ogni rischio di una nuova paralisi degli uffici federali negli Stati Uniti in seguito all’approvazione del bilancio da oltre mille miliardi di dollari per il prossimo anno. Alla vigilia del cambio di maggioranza in entrambi i rami dell’assemblea legislativa USA, l’accordo tra i due partiti per il finanziamento dell’attività di governo è stato però raggiunto a fatica e, soprattutto, ha incluso misure fortemente controverse decise dietro le spalle della popolazione.
Il documento di 1.600 pagine ha passato sabato l’ostacolo del senato con 56 voti a favore e 40 contrari. L’ala cosiddetta “progressista” del Partito Democratico ha contestato l’intesa bipartisan sul bilancio principalmente per l’aggiunta di una disposizione che indebolisce la già fragile riforma dell’industria finanziaria (“Dodd-Frank Act”) approvata nel 2010.
Secondo quanto riportato da alcuni giornali americani, questa misura inserita nel bilancio sarebbe stata di fatto dettata dalle grandi banche, impegnate in una frenetica attività di “lobbying”. Lo stesso numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon, avrebbe ad esempio telefonato personalmente ad alcuni membri del Congresso per convincerli ad approvare l’emendamento alla riforma “Dodd-Frank”.
Dopo il voto dei giorni scorsi, così, gli istituti americani torneranno ad avere la possibilità di utilizzare i depositi dei loro clienti - assicurati dal governo e, quindi, dai contribuenti - per speculare in rischiose transazioni finanziarie come i derivati.
L’altra misura inserita di soppiatto quasi senza nessun dibattito riguarda invece il finanziamento diretto dei partiti, i quali a partire dalla prossima campagna elettorale potranno ricevere contributi per un massimo di oltre tre milioni di dollari da una singola coppia di donatori, cioè tre volte di più rispetto ai limiti imposti dall’attuale legge “McCain-Feingold” del 2002.
Queste due iniziative avevano messo in dubbio l’approvazione del bilancio anche alla Camera dei Rappresentanti, costringendo la stessa Casa Bianca a intervenire. Nella giornata di giovedì, infatti, il voto alla Camera era stato rinviato di parecchie ore, così da permettere allo staff del presidente Obama di reclutare un numero sufficiente di deputati democratici disponibili a votare a favore del pacchetto.
Ciò si era reso necessario anche in seguito alla defezione di un ampio numero di deputati della maggioranza repubblicana, in particolare quelli più conservatori e vicini ai Tea Party che volevano una misura che bloccasse esplicitamente il recente ordine esecutivo firmato da Obama per limitare in maniera relativa le deportazioni di immigrati illegali in territorio americano. La stessa leader di minoranza alla Camera, Nancy Pelosi, aveva pubblicamente criticato la Casa Bianca pur lasciando liberi i suoi deputati di votare secondo coscienza per il bilancio, assicurando così di fatto il passaggio dell’intero provvedimento.Alla fine, 57 democratici si sono uniti a 162 repubblicani per garantire l’approvazione di un pacchetto di stanziamenti che consente in primo luogo di finanziare le attività belliche degli Stati Uniti all’estero, così come l’apparato di controllo e repressione sul suolo domestico. Dei 1.100 miliardi di dollari stanziati, ben 521 miliardi andranno direttamente alle operazioni militari, mentre 492 miliardi saranno per scopi teoricamente “non militari”.
In realtà, in quest’ultima cifra è incluso il finanziamento di operazioni legate alla “sicurezza nazionale”, come ad esempio quelle dell’unità del Dipartimento dell’Energia che si occupa dell’arsenale nucleare americano, ma anche dell’FBI, della DEA, del programma per la militarizzazione dei reparti di polizia locale e del Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS).
In particolare, riguardo quest’ultimo ministero è stata prevista un’eccezione nel bilancio che copre le spese del governo fino al 15 settembre 2015. Il DHS, che è incaricato di implementare il già ricordato ordine esecutivo di Obama sull’immigrazione, avrà infatti fondi solo fino al prossimo 27 febbraio.
I repubblicani hanno voluto punire in questo modo la Casa Bianca per l’iniziativa sull’immigrazione presa unilateralmente dopo le elezioni di metà mandato. A fine febbraio si prospetta perciò una nuova battaglia in questo ambito, anche se il Dipartimento della Sicurezza Interna ricava buona parte dei propri fondi non dagli stanziamenti del Congresso ma direttamente dalle tasse sulle domande degli immigrati che intendono regolarizzare la propria posizione.
In ogni caso, il presunto scontro attorno al bilancio di queste settimane è stato risolto in maniera diversa rispetto a quello dello scorso anno, quando la mancanza di un accordo causò il cosiddetto “shutdown” degli uffici governativi per 16 giorni nel mese di ottobre.
In questa occasione, le frange considerate “estreme” dei due partiti - almeno per gli standard della politica USA - che hanno criticato l’intesa sul bilancio hanno avuto la peggio, cedendo alle forze che non volevano il ripetersi dell’esperienza del 2013 per non danneggiare il sistema America, in particolare all’interno degli ambienti economico-finanziari.Anche per questa ragione, uno dei possibili candidati alla Casa Bianca per i repubblicani nel 2016, Ted Cruz, ha subito un’altra pesante sconfitta politica nel tardo pomeriggio di sabato. Il senatore del Texas di estrema destra aveva cercato e ottenuto un voto sulla costituzionalità del decreto di Obama sull’immigrazione ma è stato battuto sonoramente anche grazie ai suoi compagni di partito.
Non solo: il prolungamento della sessione del Senato provocata dalla richiesta di Cruz - e del senatore Mike Lee dello Utah - ha consentito al leader uscente di maggioranza, il democratico Harry Reid, di sfruttare un espediente procedurale per forzare un voto, con esito positivo, sulla conferma di oltre 20 candidati a varie cariche di governo nominati da Obama e bloccati da tempo dall’ostruzionismo repubblicano.
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di Michele Paris
Il coinvolgimento degli Stati Uniti nella nuova guerra in Medio Oriente, lanciata ufficialmente per combattere lo Stato Islamico (ISIS), sta fornendo l’occasione all’amministrazione Obama per cercare di ottenere dal Congresso un ulteriore drammatico ampliamento dei poteri del presidente per condurre operazioni militari virtualmente senza alcuna restrizione.
Questo è il senso dell’apparizione questa settimana del segretario di Stato, John Kerry, di fronte alla commissione Esteri del Senato nell’ambito del dibattito in corso sull’eventuale approvazione di una misura aggiornata che autorizzi “l’uso della forza militare” contro il nuovo presunto nemico di Washington.
La stessa commissione ha approvato l’autorizzazione nella giornata di giovedì, con i 10 membri democratici che hanno votato a favore e tutti gli 8 senatori che l’hanno invece respinta perché non darebbe sufficiente spazio di manovra al presidente. La misura, che potrebbe anche non essere considerata dall’aula e che comunque potrà essere rivista nel 2015 dopo che anche la maggioranza al Senato passerà ai repubblicani, autorizza l’amministrazione Obama a “usare la forza militare” nei confronti dell’ISIS per tre anni ma vieta il ricorso a truppe di terra in Iraq e in Siria.
Più ancora del voto di giovedì, è apparsa però significativa l’audizione di Kerry davanti ai suoi ex colleghi, durante la quale è emerso il vero obiettivo della Casa Bianca: ottenere poteri di guerra quasi illimitati per il presidente. Se nel corso della discussione i repubblicani hanno addirittura criticato l’amministrazione Obama per non avere richiesto poteri ancora più ampi, i senatori democratici, a cominciare dal presidente uscente della commissione Robert Menendez, hanno invece mostrato di preferire un approccio più limitato alla crisi in Iraq e in Siria, pur guardandosi bene dal condannare la guerra in atto.
Dapprima, Kerry ha provato a mentenere il dibattito all’interno dei confini ufficiali, confermando cioè la volontà della Casa Bianca di ottenere un’autorizzazione limitata alla guerra contro l’ISIS. Subito dopo, però, l’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti ha delineato la necessità di una risoluzione di portata decisamente maggiore.
“Non crediamo che un’autorizzazione all’uso della forza militare debba fissare limiti geografici”, ha sostenuto Kerry. Assicurando in maniera quanto meno sospetta che non sono previste “operazioni in paesi diversi da Iraq e Siria”, il segretario di Stato ha aggiunto che, alla luce della minaccia rappresentata dall’ISIS per “gli interessi e il personale americano in altri paesi, non vogliamo che l’autorizzazione restringa le nostre capacità di utilizzare la forza in maniera appropriata in questi altri paesi, se ciò sarà necessario”.
Kerry ha concluso questa parte del suo discorso con una considerazione soncertante, invitando a non commettere “l’errore di comunicare all’ISIS che esistono rifugi sicuri fuori dai confini di Iraq e Siria”. Com’è evidente, una simile interpretazione comporta la possibilità per il presidente degli Stati Uniti di avere l’autorità preventiva di scatenare una guerra unilaterale di fatto in qualsiasi parte del mondo.
Il delirio bellico di Kerry e dell’amministrazione di cui fa parte è stato rilevato da qualche senatore, a cominciare dalla stella del movimento libertario Rand Paul, ma il segretario di Stato ha rassicurato che “nessuno sta parlando di sganciare bombe ovunque”, invitando i suoi interlocutori a considerare per buona “la presunzione della salute [mentale] del presidente degli Stati Uniti”.
A prescindere dalla predisposizione mentale dell’inquilino della Casa Bianca, la richiesta di Kerry ha delle implicazioni a dir poco preoccupanti. Nell’immediato, un paese come il Libano, ma potenzialmente anche altri al confine con Iraq e Siria (Giordania, Arabia Saudita, Iran), che hanno già visto o potrebbero vedere sconfinare i guerriglieri dell’ISIS sul loro territorio, rischierebbero di diventare il bersaglio di una campagna militare degli USA.
Più in generale, le necessità odierne dell’imperialismo americano potrebbero essere superate da quelle di domani, così che qualsiasi paese percepito come una minaccia nel prossimo futuro sarebbe esposto al rischio di invasione/bombardamento da parte degli Stati Uniti in maniera ancora più agevole di quanto è accaduto finora, in seguito cioè alla sola decisione del presidente.La necessità di dimostrare la presenza in altri paesi di uomini dell’ISIS non sarebbe d’altra parte un ostacolo. Infatti, già l’attuale guerra aerea in Iraq e in Siria viene condotta sulla base di un simile espediente, vale a dire sull’autorizzazione all’uso della forza contro al-Qaeda, approvata dal Congresso di Washington dopo l’11 settembre 2001, nonostante l’organizzazione fondata da Osama bin-Laden abbia ufficialmente condannato l’ISIS.
Inoltre, essendo quest’ultima formazione jihadista una creatura degli stessi Stati Uniti e dei loro alleati in Medio Oriente, l’apparizione pilotata di suoi affiliati in paesi maturi per il cambio di regime o per una guerra di “liberazione” guidata dall’Occidente sarebbe un’operazione tutt’altro che complicata, come ha appunto dimostrato il caso della Siria.
La stessa posizione Kerry l’ha mostrata anche sulla questione delle truppe americane da dispiegare sul campo. Quando il senatore Menendez ha proposto di inserire nell’autorizzazione all’uso della forza il divieto esplicito di inviare truppe da combattimento USA in Iraq o in Siria per combattere l’ISIS, se non per “proteggere o soccorrere soldati o cittadini americani, per svolgere operazioni di intelligence” e altre operazioni di “pianificazione” o “assistenza”, Kerry ha ribattuto prontamente.
Il segretario di Stato ha cioè confermato che l’amministrazione Obama non prevede il ricorso a truppe da combattimento nella guerra all’ISIS, ma questo “non significa che il comandante in capo - o i nostri comandanti [militari] sul campo - debba avere le mani legate preventivamente”, poiché potrebbe trovarsi a fronteggiare “scenari ed eventualità impossibili da prevedere”.
Completando l’istanza della Casa Bianca per un’autorizzazione di guerra senza vincoli, Kerry ha infine respinto qualsiasi limite temporale. Anche se in realtà si è detto d’accordo con Menendez per fissare un termine di tre anni all’uso della forza contro l’ISIS, esso dovrebbe essere soggetto a estensioni, tramite un dibattito che risulterebbe essere una pura formalità.
La stessa risolutezza dell’amministrazione Obama nel non presentare al Congresso un piano di guerra dettagliato riguardo l’ISIS, come richiesto da svariati senatori, è infine un ulteriore segnale del desiderio di operare in piena libertà e a seconda dell’evoluzione delle trame orchestrate per la persecuzione degli interessi strategici USA in Medio Oriente.
L’assenza di qualsiasi limite da imporre al presidente nella conduzione delle operazioni belliche è in larga misura condivisa dai senatori repubblicani. Il cambio di maggioranza al Senato, che diventerà effettivo a gennaio, prospetta quindi una nuova escalation del conflitto in Iraq e soprattutto in Siria.Evidenti sono state d’altra parte le manovre della Casa Bianca per giungere a un voto su una nuova autorizzazione all’uso della forza solo in un Congresso con una maggioranza favorevole, cioè dopo le elezioni di metà mandato che da tempo indicavano i repubblicani in vantaggio.
È opportuno ricordare, in ogni caso, che l’assenza di un’autorizzazione aggiornata per combattere l’ISIS non rappresenta una particolare limitazione per Obama, visto che i bombardamenti su Iraq e Siria sono già in corso da mesi, essendo teoricamente convalidati dal voto del Congresso del 2001.
La richiesta di una nuova autorizzazione all’uso della forza serve piuttosto a dare un’apparenza di legittimità al conflitto in atto di fronte a una popolazione americana stanca di guerre senza fine e, ancor più, ad assegnare poteri senza precedenti al presidente americano.
Nell’immediato, l’eventuale nuova autorizzazione che potrebbe essere consegnata all’amministrazione Obama consentirà di dirottare l’impegno bellico USA contro il regime di Bashar al-Assad, la cui rimozione continua a non essere presa in considerazione a livello ufficiale dal governo americano pur essendo il reale obiettivo della guerra in atto.
Indicativo in questo senso è il desiderio di coprire con l’autorizzazione non solo l’ISIS ma anche cosiddette “forze associate”, tra le quali potrebbero essere presto incluse proprio quelle di Damasco, visto che i “ribelli” siriani filo-occidentali e gli alleati di Washington in Medio Oriente sostengono frequentemente che tra Assad e l’ISIS esista una sorta di tacita alleanza per annientare la stessa opposizione “moderata” al regime alauita.