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di Mario Lombardo
Il primo ministro conservatore australiano, Tony Abbott, è sopravvissuto lunedì a una mozione di sfiducia presentata da membri del suo stesso Partito Liberale, sempre più preoccupati per il crollo di consensi del partito di governo. Il premier, al potere da nemmeno 18 mesi, è riuscito per ora a sventare la minaccia alla propria leadership, ma la crisi politica in cui il suo gabinetto continua a dibattersi appare tutt’altro che risolta.
A scatenare l’ennesima resa dei conti all’interno di un partito di governo in Australia era stata la recente batosta patita dai liberali nelle elezioni per il rinnovo del parlamento locale nello stato del Queensland. Qui, il partito di Abbott aveva perso la maggioranza in maniera clamorosa dopo che appena tre anni prima aveva rifilato una pesantissima sconfitta al Partito Laburista.
Il voto nel Queensland era stato però solo l’ultimo segnale del tracollo del governo, evidenziato già da un altro rovescio elettorale a dicembre nello stato di Victoria e, soprattutto, dalla crescente opposizione nel paese alle politiche di rigore volute da Abbott.
In particolare, gli elettori australiani che avevano punito il governo laburista per avere perseguito a sua volta politiche anti-sociali di impronta neo-liberista si sono rapidamente resi conto della natura dell’Esecutivo premiato nelle elezioni del 2013. Abbott, infatti, alla presentazione del suo primo bilancio in parlamento aveva fatto marcia indietro su tutte le principali promesse elettorali.
Ad esempio, su richiesta degli ambienti del business australiano e internazionale, il governo liberale aveva proposto una serie di tagli ai programmi pubblici destinati alle fasce più deboli della popolazione, in particolare in ambito sanitario e dell’educazione, dopo avere escluso iniziative di questo genere durante la campagna elettorale.
La legge di bilancio rimane così in buona parte bloccata fin dal maggio dello scorso anno al Senato, dove il governo non dispone di una maggioranza, in seguito all’ostruzionismo del Partito Laburista e di altre formazioni minori, costrette ad agire in questo modo per la diffusa ostilità popolare verso le misure volute da Abbott.
L’immediato abbandono da parte del governo anche di minime iniziative a difesa delle classi più disagiate è stato determinato dal rapido deterioramento delle condizioni dell’economia australiana, a sua volta colpita duramente dal rallentamento dell’economia globale e, in particolar modo, di quella cinese, nonché dal crollo delle quotazioni dei materiali ferrosi e del carbone, le cui esportazioni avevano alimentato nel recente passato un certo boom di crescita nel paese del continente oceanico.
Di fronte a questo scenario e a un sempre più probabile rovescio elettorale nel 2016, una parte significativa del Partito Liberale, assieme a potenti sezioni del business e dei media, ha orchestrato una sorta di mozione di sfiducia ai danni di Tony Abbott, per sostituirlo alla guida del governo e dello stesso partito, così da provare a invertire la tendenza.
Una simile mozione, se approvata, si risolve in quello che nel sistema politico australiano viene definito “leadership spill”, cioè una dichiarazione che la leadership di un partito è vacante e che quindi il nuovo occupante di questa posizione deve essere scelto tramite una votazione dei parlamentari dello stesso partito. Nel caso del partito di maggioranza, l’eventuale cambio al suo vertice coincide con un cambio alla guida del governo.
La mozione contro Abbott è stata presentata lunedì da due parlamentari dell’ala destra del partito ma è stata sconfitta con 61 voti contrari e 39 a favore. La “vittoria” del primo ministro è stata possibile probabilmente anche grazie alle manovre messe in atto nei giorni scorsi dai suoi fedelissimi, concretizzatesi tra l’altro nell’anticipazione di un giorno del voto in modo da limitare la progressiva emorragia di consensi all’interno del partito.
Nel disperato tentativo di rimanere al suo posto, Abbott avrebbe fatto una serie di promesse ai suoi compagni di partito. Per cominciare, il premier ha assicurato che la sua amministrazione d’ora in avanti prenderà decisioni in maniera “più collegiale”, mentre concretamente potrebbero arrivare misure simboliche di stampo populista, tra cui un taglio alle tasse per le piccole imprese e qualche agevolazione fiscale per le famiglie.
Dopo il voto, un Abbott visibilmente abbattuto ha provato a dichiarare in diretta TV che la lotta intestina dei giorni scorsi è ormai “alle spalle”, ma la realtà politica australiana si è vista consegnare un premier fortemente indebolito e seriamente esposto a possibili nuove sfide interne nel prossimo futuro.
Innanzitutto, i voti favorevoli alla rimozione di Abbott sono stati più numerosi di quanto il premier auspicava e quest’ultimo si ritroverà ora a fronteggiare un’agguerrita opposizione interna pronta a lanciare una nuova sfida per la leadership del partito al primo passo falso del governo.A questo proposito, molti osservatori in Australia hanno descritto il voto di lunedì come una prova generale per un prossimo cambio al vertice del partito e per testare i possibili equilibri tra i liberali. Gli oppositori interni di Abbott, d’altra parte, non avevano nemmeno proposto un proprio candidato ufficiale per sostituire il premier nel caso la mozione di sfiducia fosse andata a buon fine.
Secondo i media australiani, il più probabile sfidante di Abbott potrebbe essere l’attuale ministro per le Comunicazioni, Malcolm Turnbull, ex banchiere e milionario strettamente legato agli ambienti finanziari del paese, sconfitto di misura dal premier sei anni fa nella corsa alla guida del Partito Liberale. Un’altra contendente potrebbe essere poi il ministro degli Esteri, Julie Bishop, la quale ha però finora escluso di essere interessata alla posizione occupata da Abbott, a fianco del quale si è presentata lunedì alla votazione tenuta nella capitale, Canberra.
Le sorti del primo ministro Abbott rivelano in ogni caso la grave crisi non solo del suo governo ma dello stesso sistema rappresentativo australiano, e non solo. Ciò è determinato dalla profonda ostilità della maggior parte della popolazione nei confronti di una politica che, in parrallelo con il peggioramento delle condizioni dell’economia, non è in grado di fornire risposte o soluzioni diverse da quelle viste finora un po’ ovunque e che consistono nel far pagare il prezzo del salvataggio del capitalismo a lavoratori, giovani, pensionati e disoccupati.
La crisi del sistema parlamentare, osservabile in Australia nel rapidissimo declino di un governo che aveva trionfato alle elezioni meno di un anno e mezzo fa, è dunque la conseguenza delle pressioni che vengono esercitate sulle classi politiche nazionali dai rappresentanti delle élites economiche e finanziarie per implementare, di fronte alla crisi economica globale, misure socialmente devastanti contro il volere della grande maggioranza degli elettori.
Lo stesso processo in atto oggi nel Partito Liberale australiano aveva interessato anche quello Laburista negli anni scorsi, nel tentativo di arrestare – inutilmente – un crollo di consensi dovuto ancora una volta all’applicazione di politiche ultra-liberiste. In questo partito teoricamente di centro-sinistra si erano verificati due cambi al vertice, uno nel 2010 con Julia Gillard che, grazie anche alle manovre di Washington, aveva rimpiazzato il primo ministro Kevin Rudd e l’altro nel 2013 con quest’ultimo che aveva scalzato la stessa Gillard alla vigilia del voto.
Dietro alla precaria posizione dei primi ministri australiani vi sono infine anche le frustrazioni che attraversano gli ambienti di potere, sia in patria sia a livello internazionale. Questi ultimi non si fanno infatti scrupoli nel muovere critiche accese o nell’orchestare campagne di discredito nei confronti di quei governi giudicati incapaci di portare a compimento politiche che si traducono in assalti alle condizioni di vita della popolazione, sia pure nascoste dietro la definizione apparentemente innocua o benevola di “riforme”.Nel caso attuale dell’Australia, le posizioni dei poteri forti sono espresse dai media “mainstream”, con ad esempio i giornali del colosso editoriale Fairfax che appoggiano più o meno apertamente un cambio alla guida del paese a favore del ministro Turnbull, mentre il gruppo di proprietà di Rupert Murdoch continua per il momento a sostenere il premier Abbott.
La crisi del sistema esclude comunque qualsiasi cambiamento di rotta significativo, se non per il peggio, visto che gli stessi leader laburisti australiani, pur mantenendo a livello ufficiale posizioni critiche verso il governo per ragioni di opportunità politica, hanno già più volte ammesso che ciò che attende lavoratori e classe media saranno ancora a lungo le conseguenze di “decisioni difficili” e “impopolari”.
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di Michele Paris
Il precipitare della situazione in Ucraina sta portando alla luce tutte le divisioni e le contraddizioni che attraversano i governi occidentali, costretti a fare i conti con una crisi che essi stessi hanno creato e che si sta rapidamente ritorcendo contro i loro interessi. La distanza che separa la Germania e gli Stati Uniti è apparsa evidente nel fine settimana, quando, di ritorno da Mosca, dove ha incontrato Putin assieme al presidente francese Hollande, Angela Merkel è stata protagonista a Monaco di Baviera di uno scontro verbale a distanza con alcuni senatori americani.
La cancelliera tedesca ha messo in guardia dall’eventuale fornitura di armi, sia pure ufficialmente “difensive”, al regime di Kiev per reprimere la rivolta nelle province sud-orientali, dopo che nei giorni scorsi alcuni giornali americani avevano parlato di un’amministrazione Obama pronta a valutare questa opzione.
La Merkel ha affermato di non volere “immaginare una situazione nella quale l’invio di armi all’esercito ucraino spinge il presidente Putin a credere in una sconfitta militare”. Chiaramente, il capo del governo di Berlino comprende come uno scenario del genere non possa che trascinare la Russia in un intervento diretto nel conflitto in Ucraina, scatenando una guerra che i primi a non volere sono proprio i governi europei.
La soluzione non può essere militare, ha aggiunto perciò la Merkel, così che “la comunità internazionale deve pensare a una soluzione diversa”. Questi timori e la necessità di stabilizzare la situazione disperata in cui si trova il governo di Kiev, sia economicamente che militarmente, sono stati la ragione principale della missione - conclusasi senza risultati di rilievo - della stessa Cancelliera e di Hollande al Cremlino venerdì scorso.
Se alcuni giornali hanno parlato di un’iniziativa che non è stata coordinata con Washington, è probabile invece che la trasferta moscovita dei due leader europei abbia avuto quanto meno il tacito assenso della Casa Bianca.
Negli Stati Uniti sembrano esserci infatti ulteriori divisioni interne tra i “falchi”, principalmente al Congresso e in misura minore al Pentagono, e una fazione più moderata, verosimilmente alla Casa Bianca. Se così fosse, la notizia apparsa sul New York Times la scorsa settimana sulla disponibilità di Obama a valutare la fornitura di armi a Kiev, potrebbe essere per lo più un tentativo di fare pressioni su Putin per accettare una soluzione diplomatica favorevole all’Occidente.La questione degli aiuti militari all’Ucraina ha tuttavia galvanizzato i fautori di un intervento più deciso in questo paese, come è apparso chiaro dalle parole del senatore repubblicano Lindsey Graham all’annuale conferenza sulla sicurezza di Monaco. Quest’ultimo ha avuto parole molto dure per Angela Merkel, affermando che il governo tedesco “sta voltando le spalle a una democrazia in difficoltà”.
La posizione della Casa Bianca non è dunque del tutto chiara sulla questione delle armi al regime golpista ucraino. Il vice-presidente, Joe Biden, a Monaco ha ad esempio toccato solo indirettamente l’argomento, ma qualche giorno fa il prossimo capo del Pentagono, Ashton Carter, nel corso di un’audizione al Senato si era detto “incline” a garantire forniture più massicce di armamenti al governo-fantoccio di Kiev.
In ogni caso, dopo che la Merkel e Hollande hanno lasciato Mosca, nella capitale russa sono rimasti i negoziatori di Germania e Francia per lavorare a un accordo che prenda le mosse da quello raggiunto a settembre a Minsk. Proprio nella capitale bielorussa si incontreranno mercoledì i leader di Russia, Ucraina, Germania e Francia, mentre oggi la Merkel avrà un faccia a faccia a Washington con il presidente americano Obama.
Il desiderio dei governi occidentali di trovare un via d’uscita pacifica alla crisi non comporta tuttavia che quest’ultima sia a portata di mano. L’ostacolo principale, oltre naturalmente ai diversi punti di vista di Washington da una parte e Berlino e Parigi dall’altra, è rappresentato dalla forma federale da dare all’Ucraina e le conquiste territoriali dei separatisti filo-russi.
I “ribelli” sono infatti avanzati sensibilmente negli ultimi mesi e sembrano ora ben decisi a respingere le richieste di Kiev e dell’Occidente di ritirarsi oltre la linea di demarcazione originariamente fissata a Minsk. Inoltre, se anche un qualche accordo dovesse essere raggiunto a breve, resta da vedere fino a che punto i governi occidentali riusciranno a fare pressioni sul regime ucraino per rispettarne i termini. Kiev, d’altra parte, ha finora utilizzato accordi e tregue varie per riorganizzare le proprie forze e lanciare nuove offensive contro i filo-russi.Le dissennate decisioni prese da Washington e Berlino nell’ultimo anno hanno comunque complicato enormemente la situazione in Ucraina, portando l’Europa sull’orlo di una guerra tra potenze nucleari. Ciò è riconosciuto anche dagli stessi membri dei governi occidentali, anche se la responsabilità della crisi continua a essere assegnata invariabilmente alla Russia.
Anche coloro, come la stessa Merkel, che mettono in guardia da possibili pericolose escalation militari sono nondimeno protagonisti nell’esercitare pressioni sul Cremlino, come appare evidente dalle nuove e continue sanzioni economiche decise per penalizzare la Russia e dalle manovre della NATO per stanziare un numero sempre maggiore di truppe nei paesi dell’Europa orientale.
L’offensiva contro Mosca per portare l’Ucraina sotto l’influenza occidentale, così, non solo ha prodotto un regime poggiato su forze apertamente neo-naziste, come quello al potere a Kiev, ma ha anche contribuito a scatenare un conflitto inevitabile nelle regioni filo-russe, la cui soluzione appare oggi lontanissima e, anzi, rischia di infiammare l’intero continente con conseguenze difficili da calcolare.
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di Michele Paris
Il segretario alla Difesa americano in pectore, Ashton Carter, è apparso questa settimana di fronte alla Commissione per le Forze Armate del Senato nella tradizionale audizione che precede il voto in aula per la conferma del nuovo incarico. L’ex numero due del Pentagono, come previsto, ha raccolto ampi consensi tra i senatori, soprattutto repubblicani, promettendo di mantenere un certo grado di indipendenza dalla Casa Bianca, anche se le capacità di incidere sulle più importanti questioni militari e di politica estera da parte di quello che sembra essere sostanzialmente un abile burocrate saranno tutte da dimostrare.
Lo scambio di battute che ha suscitato l’interesse maggiore dei media negli Stati Uniti ha riguardato l’escalation del conflitto provocato da Washington in Ucraina. I membri della commissione del Senato ascrivibili alla fazione dei “falchi” si sono rallegrati nel sentire le parole di Carter. Quest’ultimo si è detto infatti “molto propenso” a fornire “armi letali” al regime di Kiev nella guerra contro i “separatisti” filo-russi.
La posizione espressa dal prossimo segretario alla Difesa è peraltro in linea con l’evoluzione del pensiero di Obama e del suo staff nelle ultime settimane, confermata da una recente rivelazione del New York Times, nella quale si sosteneva appunto che il presidente sarebbe ora decisamente più incline a valutare il trasferimento di armi al governo ucraino per sostenere il conflitto nel sud-est del paese.
Diligentemente, Carter ha poi snocciolato le solite tesi assurde proposte da governi e media occidentali in questi mesi sulla crisi in Europa orientale, affermando ad esempio che l’Ucraina necessita supporto militare per ragioni di “autodifesa” e che le “possibilità [di Kiev] di trovare la propria strada per diventare un paese indipendente” sono a rischio, visto che la Russia, “ovviamente, non ha rispettato l’integrità territoriale” ucraina.
La linea apparentemente più dura sull’Ucraina rispetto alla Casa Bianca, mantenuta da Carter durante l’audizione, contribuisce forse a spiegare il senso stesso della sua nomina a successore del “dimissionato” Chuck Hagel alla guida della macchina da guerra USA.
Se è innegabile che la scelta di Carter sia stata un ripiego dovuto alla rinuncia delle prime scelte di Obama - dalla ex vice-segretaria alla Difesa e fedelissima dei Clinton, Michèle Flournoy, al senatore democratico del Rhode Island, Jack Reed, al segretario alla Sicurezza Interna, Jeh Johnson - la sua nomina risponde nondimeno a una logica politica.
Carter, cioè, è considerato egli stesso un “falco” negli ambienti democratici di Washington e i suoi precedenti raccontano di scelte e prese di posizione a favore delle avventure imperialiste americane oltreoceano. Anzi, non solo Carter aveva appoggiato l’invasione dell’Iraq nel 2003, ma era giunto anche a proporre bombardamenti preventivi sia sulla Corea del Nord, per spazzare via il programma missilistico del regime stalinista, sia sull’Iran, per colpire le installazioni nucleari della Repubblica Islamica.
Ashton Carter è sembrato essere dunque l’uomo giusto per assecondare quello che a tutti gli effetti appare come un radicalizzarsi delle posizioni americane riguardo le principali crisi di politica estera in atto, tanto più in presenza di un Congresso a maggioranza repubblicana attestato su posizioni ancora più a destra della Casa Bianca, e talvolta dello stesso apparato militare e dell’intelligence, sulle questioni relative alla promozione degli interessi del capitalismo USA nel pianeta.Nel curriculum di Carter vi sono poi elementi che fanno pensare come la sua attenzione nei prossimi due anni possa rivolgersi soprattutto proprio al confronto con Mosca. Il capo entrante del Pentagono si era infatti occupato di questioni legate all’integrazione nella NATO dei paesi dell’ex blocco sovietico durante la presidenza Clinton, in quella che può essere considerata la prima fase della strategia USA di accerchiamento della Russia oggi in pieno svolgimento.
Sulle altre questioni affrontate durante l’audizione di mercoledì, Carter ha cercato di fornire ai senatori le risposte desiderate, provando a mettere un certo spazio tra le sue posizioni e quelle dell’amministrazione Obama.
In particolare, Carter ha assicurato che non cederà alle pressioni della Casa Bianca per accelerare i trasferimenti dei detenuti nel lager di Guantánamo. Molti membri del Congresso di entrambi gli schieramenti si oppongono alla chiusura del carcere a Cuba e nell’audizione di mercoledì alcuni senatori hanno chiesto a Carter di utilizzare il potere del segretario alla Difesa per ritardare l’approvazione del trasferimento dei prigionieri.
Un’altra apprensione comune a Carter e ai membri della commissione per le Forze Armate è quella relativa ai tagli automatici degli stanziamenti destinati al Dipartimento della Difesa previsti dal cosiddetto “sequester”, conseguenza delle manovre dei due partiti sul bilancio federale negli anni scorsi.
In questo caso, è stato Carter a fare appello ai senatori per limitare i tagli alla spesa militare, anche se la discussione ha sfiorato il paradosso, visto che il Pentagono continua ad avere in dotazione una quantità enorme di denaro. Lo stesso Obama, nel presentare qualche giorno fa la sua proposta di bilancio per l’anno fiscale 2016, ha chiesto ben 561 miliardi di dollari per il Dipartimento alla Difesa, sforando di circa 40 miliardi gli stessi limiti del “sequester” previsti dal Congresso.
I senatori della commissione hanno infine affrontato con Ashton Carter l’inevitabile questione della guerra all’ISIS in Iraq e in Siria. Il presidente della commissione per le Forze Armate John McCain, in particolare, ha nuovamente accusato la Casa Bianca di non avere una strategia ben definita e, precisamente per questa ragione, gli USA e i loro alleati starebbero perdendo la guerra.La parte più delicata del dibattito su questo punto è stata quella relativa alla sorte del presidente siriano Assad. Carter ha lasciato intravedere, sia pure in maniera prudente, la svolta strategica a cui guarda la Casa Bianca, vale a dire il passaggio dalla guerra all’ISIS al regime di Damasco nel medio periodo, ribadendo che Assad avrebbe “perso ogni legittimità” a governare la Siria e che non potrà perciò far “parte del futuro” del suo paese.
Al di là delle proprie posizioni personali, i veri interrogativi riguardo la nomina di Carter non avevano molte possibilità di essere chiariti nel corso dell’audizione al Senato. I problemi che Carter potrebbe trovare una volta insediato al Pentagono sono cioè gli stessi che hanno dovuto affrontare i suoi predecessori e, soprattutto, Hagel.
Come hanno spiegato molti osservatori negli Stati Uniti, il nuovo segretario alla Difesa dovrà guadagnarsi un grado di autonomia e autorità in un sistema di gestione delle decisioni militari e di politica estera monopolizzato dalla cerchia dei fedelissimi di Obama alla Casa Bianca, nella quale spiccano il capo di gabinetto, Denis McDonough, e la consigliera per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice.
Al di fuori di questo possibile conflitto, che è sembrato costare il posto a Chuck Hagel, le modalità con cui verranno perseguite le esigenze dell’imperialismo americano non cambieranno tuttavia in maniera significativa con un nuovo nome alla guida del Pentagono.
Lo forza militare rimarrà infatti il principale strumento utilizzato da Washington per cercare di difendere la declinante egemonia degli Stati Uniti in un mondo che tende sempre più al multipolarismo, con il rischio concreto di scatenare guerre rovinose.
Ad ogni modo, Ashton Carter dovrebbe essere confermato dal Senato senza ostacoli, come già accadde nel 2009 e nel 2011 quando la ratifica delle sue nomine rispettivamente a sotto-segretario alla Difesa per gli approvvigionamenti e a vice-segretario ottennero il voto di tutti i membri della camera alta del Congresso USA. Secondo McCain, il Senato dovrebbe sanzionare il successore di Hagel già prima della prossima sospensione delle attività del Congresso di Washington, prevista per il 16 febbraio.
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di Michele Paris
Da un interrogatorio connesso a un procedimento legale in corso negli Stati Uniti a carico del regime dell’Arabia Saudita sono giunte gravissime accuse nei confronti della casa regnante di questo paese del Golfo Persico e, indirettamente, del governo americano suo alleato. La testimonianza in questione è quella di Zacarias Moussaoui, ex corriere di al-Qaeda molto vicino a Osama bin Laden, sentito in carcere lo scorso mese di ottobre dai legali dei famigliari delle vittime dell’11 settembre nell’ambito di una causa che intende chiarire le responsabilità saudite negli attentati del 2001.
Moussaoui ha lanciato accuse che pesano come macigni e, inevitabilmente, è stato subito denunciato dalla monarchia saudita come un “criminale disturbato” e un “malato mentale”. Una diagnosi relativa al suo presunto disagio mentale era stata in effetti presentata da uno psicologo nel corso del processo a suo carico nel 2006, conclusosi con una condanna all’ergastolo, anche se gli avvocati che hanno raccolto la recente deposizione in un carcere di massima sicurezza del Colorado hanno definito l’uomo “completamente sano di mente”.
In passato, alcune sue testimonianze erano state inoltre controverse e successivamente smentite, ma il giudice che presiedette il procedimento penale, Leonie Brinkema, aveva definito Moussaoui “del tutto capace di intendere” e “estremamente intelligente”. Il giudice aveva anche affermato, in maniera non troppo scherzosa, che l’imputato aveva “una migliore comprensione del sistema legale di quanto non l’avessero alcuni avvocati” di sua conoscenza.
Soprattutto, le accuse rivolte a Riyadh di finanziare direttamente e indirettamente il fondamentalismo sunnita coincidono con numerose indagini e rivelazioni che, nel recente passato, hanno messo in luce quanto meno l’ambiguità del regno nei confronti del terrorismo internazionale.
Moussaoui, in sostanza, ha raccontato di come i più generosi finanziatori di al-Qaeda fino alla fine degli anni Novanta fossero stati alcuni membri di spicco della casa regnante saudita, tra cui l’attuale sovrano, Salman, salito al trono solo pochi giorni fa in seguito al decesso del fratellastro, Abdullah.
In qualità di responsabile per al-Qaeda, tra il 1998 e il 1999, della creazione di un archivio digitale contenente i nomi dei finanziatori dell’organizzazione terroristica, Moussaoui ha ricordato una serie di incontri con i leader sauditi. Tra i più autorevoli membri della famiglia reale finiti nel database figurano l’allora capo dell’intelligence, principe Turki al-Faisal, l’ex potente ambasciatore di Riyadh a Washington, Bandar bin Sultan, e l’imprenditore miliardario Al-Waleed bin Talal.
Come risulta evidente dalla sua testimonianza, Moussaoui agiva da intermediario tra Osama bin Laden e gli ambienti di corte e del clero in Arabia Saudita. Addirittura, lo stesso testimone avrebbe discusso a Kandahar, in Afghanistan, con un diplomatico dell’ambasciata saudita negli Stati Uniti un piano per abbattere l’aereo presidenziale (Air Force One) con un missile Stinger.Moussaoui sarebbe stato poi arrestato dagli agenti dell’immigrazione americana prima di potere effettuare il sopralluogo che avrebbe dovuto precedere il clamoroso attentato. Nel 2006, come già ricordato, Moussaoui venne infine condannato all’ergastolo per la sua partecipazione ai preparativi dell’11 settembre, nonostante il giorno degli attacchi fosse detenuto in un carcere del Minnesota.
Il procedimento in atto negli Stati Uniti contro l’Arabia Saudita era scaturito da una denuncia intentata già nel 2002 dai parenti delle vittime degli attentati al World Trade Center e al Pentagono. Nel 2005 la causa era stata annullata in primo grado e successivamente anche in appello con la motivazione che l’Arabia Saudita godeva di “immunità sovrana”.
In seguito, la stessa corte d’Appello avrebbe però cambiato la propria decisione, riavviando il procedimento. I legali del regno si sono allora rivolti alla Corte Suprema, la quale si è rifiutata di esprimersi, consentendo al processo di continuare in un tribunale federale di New York.
La testimonianza di Zacarias Moussaoui è stata resa pubblica questa settimana, in quanto facente parte dei documenti presentati dall’accusa per impedire l’ennesima richiesta dell’Arabia Saudita di annullare il procedimento. Riyadh sostiene di non avere avuto alcun ruolo nel finanziamento di al-Qaeda e degli autori degli attentati del 2001, come avrebbe confermato anche il rapporto della commissione speciale sull’11 settembre.
In realtà, il rapporto pubblicato nel 2004 lascia parecchi dubbi in proposito. In esso si afferma che “non sembrano esserci prove del fatto che altri governi, oltre a quello dei Talebani [in Afghanistan], abbiano sostenuto finanziariamente al-Qaeda prima dell’11 settembre, nonostante all’interno di alcuni governi possano esserci stati simpatizzanti che hanno chuso un occhio di fronte alle attività di raccolta fondi” dell’organizzazione terroristica fondata da bin Laden.
“L’Arabia Saudita”, continua il rapporto, “è da tempo considerata la principale fonte di finanziamento di al-Qaeda”, tuttavia i membri della commissione sull’11 settembre “non hanno trovato prove che il governo saudita come istituzione o importanti esponenti sauditi su iniziativa individuale abbiano finanziato l’organizzazione” terroristica.
Questa difesa di Riyadh è comunque parzialmente smentita da un’altra conclusione contenuta nel rapporto, quando cioè la commissione sostiene di non potere escludere che “organizzazioni caritative sponsorizzate dal governo saudita abbiano dirottato fondi verso al-Qaeda”.
Ancora più sospetto è infine il fatto che 28 pagine del rapporto sui fatti dell’11 settembre continuano a rimanere classificati. Secondo alcuni, in questi documenti ci sarebbero appunto le prove delle responsabilità saudite, tra cui forse un rapporto della CIA nel quale si sostiene che alti esponenti della diplomazia e dell’intelligence di Riyadh hanno assistito logisticamente e finanziariamente gli attentatori. Quindici di questi ultimi, d’altra parte, erano di nazionalità saudita, come lo stesso bin Laden, originario di una ricca e influente famiglia del regno.I finanziamenti provenienti dal regno saudita e diretti ad al-Qaeda sembrano essere passati proprio da organizzazioni con scopi apparentemente caritatevoli, messe in piedi dai vertici del regime del Golfo Persico. Una di queste è ad esempio l’Alta Commissione Saudita per l’Assistenza alla Bosnia-Herzegovina, fondata nel 1993 dall’attuale sovrano, Salman.
Questa organizzazione aveva raccolto ben 600 milioni di dollari da spendere nei Balcani e la sua opera andava con ogni probabilità oltre gli scopi umanitari. Quando, infatti, nel febbraio del 2002 i caschi blu dell’ONU fecero irruzione in un ufficio della stessa Commissione a Sarajevo trovarono, tra l’altro, immagini di installazioni militari americane e di luoghi colpiti da attentati di al-Qaeda, istruzioni su come creare falsi badge del Dipartimento di Stato USA e informazioni relative ad attacchi con armi biologiche.
Inoltre, quando nell’ottobre del 2001 gli Stati Uniti arrestarono sei cittadini algerini con l’accusa di avere progettato attacchi contro l’ambasciata USA di Sarajevo, si scoprì che uno di essi era un dipendente proprio dell’Alta Commissione Saudita per l’Assistenza alla Bosnia-Herzegovina e che aveva avuto contatti telefonici con bin Laden e altri leader di al-Qaeda.
I sospetti sui legami tra Riyadh e al-Qaeda sono innumerevoli, come quelli che riguarderebbero il figlio defunto di re Salman, Ahmed bin Salman. Quest’ultimo, secondo quanto affermato in un libro del giornalista americano Gerald Posner, sarebbe stato legato all’organizzazione jihadista, nonché a conoscenza dei preparativi per gli attacchi dell’11 settembre 2001.
Proprio il nuovo sovrano saudita sarebbe stato dunque l’uomo incaricato di supervisionare il trasferimento di fondi dai donatori del regno alle formazioni integraliste. In questa attività, d’altra parte, Salman vanta parecchia esperienza, visto che, come ha scritto recentemente l’ex agente della CIA, Bruce Riedel, sulla testata americana on-line The Daily Beast, si era occupato della “raccolta di fondi privati per sostenere i mujahedeen afgani negli anni Ottanta, lavorando a stretto contatto con l’establishment clericale wahabita del regno”.Com’è noto, la nascita di al-Qaeda è legata direttamente alla lotta contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan dei mujahedeen, appoggiati militarmente e finanziariamente da Arabia Saudita, Stati Uniti e Pakistan. Durante il conflitto scatenato contro i sovietici in Afghanistan, Salman garantiva “25 milioni di dollari ogni mese ai mujahedeen”, mentre sarebbe stato successivamente impegnato anche nella raccolta di fondi per i musulmani di Bosnia in guerra contro la Serbia.
Grazie a questi benefattori, le forze jihadiste attive in Asia centrale hanno potuto crescere rapidamente, ampliando la propria agenda integralista per dedicarsi ad attività di terrorismo su scala internazionale. Anche se spesso i bersagli sono stati gli stessi interessi dei loro sponsor, soprattutto quelli americani, Riyadh, ma anche Washington, ha continuato a mantenere rapporti a dir poco ambigui con queste formazioni, considerandole più che utili alla promozione dei propri interessi.
Le conseguenze di questo gioco pericoloso si sono potute osservare non solo in occasione dell’11 settembre 2001 ma, più recentemente, nelle vicende di paesi come Libia o Siria, dove l’appoggio a gruppi estremisti nella lotta contro regimi sgraditi agli USA e ai loro alleati ha prodotto situazioni esplosive, esemplificate dal dilagare in Medio Oriente della minaccia dello Stato Islamico (ISIS).
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di Michele Paris
Nel fine settimana, il candidato repubblicano sconfitto da Obama nelle presidenziali del 2012, Mitt Romney, ha dichiarato ufficialmente la sua intenzione di rinunciare alla ricerca della nomination per il suo partito nel 2016, dopo un breve periodo nel quale aveva accarezzato l’idea di lanciare per la terza volta una corsa alla Casa Bianca. La decisione dell’imprenditore multimiliardario dovrebbe contribuire a fare maggiore chiarezza sugli equilibri del partito di maggioranza al Congresso a meno di un anno dall’inizio delle primarie, constringendo soprattutto i grandi finanziatori a scegliere verso quale candidato dirottare i propri assegni milionari.
L’ex governatore del Massachusetts ha con ogni probabilità messo da parte definitivamente le sue aspirazioni dopo avere riscontrato una certa freddezza tra i donatori più corteggati del Partito Repubblicano, tra cui il magnate dei casinò, Sheldon Adelson, il proprietario della squadra di football dei New York Jets, Woody Johnson, e il manager di “hedge funds”, Paul Singer.
A suggellare il sostanziale rifiuto dell’establishment repubblicano era stato anche un recente editoriale del Wall Street Journal di proprietà di Rupert Murdoch, nel quale risultava più che evidente il desiderio di puntare su un cavallo diverso per il 2016.
Romney, d’altra parte, ha dovuto scontare anche l’inevitabile aura di perdente che grava sui candidati sconfitti nelle elezioni presidenziali americane, tradizionalmente ostacolati dai vertici del loro partito nella ricerca di una nuova nomination. Oltretutto, lo stesso Romney era stato battuto anche nelle primarie del 2008 da John McCain dopo avere iniziato la campagna da superfavorito.
A detta dei media negli Stati Uniti, in ogni caso, l’uscita di scena di Romney restringerebbe a due il campo dei favoriti in casa repubblicana, vale a dire l’ex governatore della Florida, Jeb Bush, e l’attuale governatore del New Jersey, Chris Christie.
I collaboratori di entrambi hanno infatti subito iniziato una sfida nella sfida per accaparrarsi il sostegno dei ricchi finanziatori repubblicani che avevano sovvenzionato la corsa di Romney nel 2012. “Ora - secondo il New York Times - i donatori non potranno più nascondersi”, dal momento che praticamente tutti i possibili candidati alla nomination del Partito Repubblicano hanno messo assieme gli strumenti previsti dalla legge per la raccolta di fondi e continueranno perciò a esercitare pressioni sui potenziali sostenitori per schierarsi dalla loro parte.
Inoltre, nonostante manchino molti mesi all’inaugurazione della nuova stagione delle primarie, la direzione che prenderà il denaro dei finanziatori nelle prossime settimane potrebbe chiarire se e quali spazi rimarranno aperti per i candidati attualmente considerati di seconda fascia.Tra questi ultimi spiccano il governatore del Wisconsin, Scott Walker, e il senatore della Florida, Marco Rubio. Il primo ha conquistato una certa credibilità negli ambienti imprenditoriali soprattutto per avere condotto una durissima battaglia contro i sindacati e gli impiegati pubblici nel suo Stato. Il secondo, invece, è particolarmente apprezzato dalla cerchia dei Tea Party e ha suscitato l’entusiasmo dei facoltosi sostenitori repubblicani grazie a un recente intervento in un forum organizzato in California dagli imprenditori Charles e David Koch.
Ancora più complicato appare il percorso del senatore del Kentucky al primo mandato e di tendenze libertarie, Rand Paul, figlio del perenne candidato alla Casa Bianca, Ron Paul. Rand Paul raccoglie qualche consenso negli ambienti di estrema destra, tra le sezioni isolazioniste del Partito Repubblicano e tra qualche giovane americano disorientato dalla crisi del sistema politico di Washington. Le sue posizioni si scontrano tuttavia con le esigenze interventiste del capitalismo a stelle e strisce, rendendolo poco popolare sia tra l’apparato dirigente del partito sia tra gli esponenti dell’alta borghesia i cui interessi sono legati alle avventure dell’imperialismo USA.
Tra gli analisti d’oltreoceano non sembra esserci consenso su chi sia il principale beneficiario della rinuncia di Romney. Per alcuni, Jeb Bush sarebbe decisamente favorito, visto che appare in pole position per garantirsi in particolare il denaro degli speculatori di Wall Street, essendosi recato già più volte a New York nelle ultime settimane per corteggiare i donatori di Romney.
Molti ricchi sostenitori californiani del miliardario mormone sembrano ugualmente orientati a passare nel campo di quello che sarebbe il terzo presidente della famiglia Bush, così come altri di stanza nel sud degli Stati Uniti. Infine, libero da incarichi politici, Bush ha già programmato decine di appuntamenti per raccogliere denaro nei prossimi mesi, mentre Christie dovrà sdoppiarsi con gli impegni di governatore.
Christie, inoltre, pur avendo pianificato un’aggressiva campagna per raccogliere fondi, non può ricevere donazioni da istituzioni bancarie a causa delle restrizioni di legge che si applicano ai governatori. Christie dovrà anche fare i conti con le conseguenze di uno scandalo esploso lo scorso anno nel suo stato. Nel settembre 2013, cioè, un membro del suo staff aveva ordinato la chiusura per alcune ore di due trafficatissime corsie di un ponte a Fort Lee, nel New Jersey.
La decisione, secondo molti sanzionata dallo stesso Christie, aveva causato un colossale ingorgo, nonché la morte di una donna per arresto cardiaco su un’ambulanza bloccata nel traffico, e sarebbe stata presa come ritorsione contro il sindaco di Fort Lee, colpevole di non avere appoggiato il governatore repubblicano nelle elezioni del 2013.
Secondo un sostenitore repubblicano citato dal sito di informazione Politico.com, tuttavia, ci sarebbe una sensibile “sovrapposizione tra i potenziali donatori di Romney e quelli di Christie”. Romney, per quello che può contare, ha anche indirettamente bocciato la candidatura di Jeb Bush, affermando venerdì che “la prossima generazione di leader repubblicani [dovrà essere formata da persone] che non sono conosciute così bene come lo sono io e che non hanno ancora diffuso il proprio messaggio nel paese”. Romney, poi, nel fine settimana ha cenato con lo stesso Christie, anche se ha evitato finora di esprimere ufficialmente il proprio sostegno per uno dei candidati del suo partito.I prossimi mesi vedranno dunque un’accesa competizione tra i principali candidati repubblicani, i quali cercheranno di posizionarsi il più a destra possibile e di fare appello alle élites economico-finanziarie americane per assicurare i loro fedeli servizi in caso di elezione alla Casa Bianca.
Nella valanga di analisi e commenti sullo stato della corsa alla nomination per il Partito Repubblicano è poi mancata qualsiasi osservazione sullo stato della “democrazia” statunitense e sui meccanismi di selezione della sua classe dirigente.
Ciò che dovrebbe balzare agli occhi osservando la vicenda di Romney è che la scelta dei candidati per le elezioni presidenziali viene operata esclusivamente dai rappresentanti dei grandi interessi che controllano il Partito Repubblicano attraverso un processo fatto di incontri a porte chiuse o, tutt’al più, di eventi esclusivi per raccogliere fondi, nel quale a stabilire priorità, gerarchie e agende politiche è unicamente il denaro.
Lo stesso identico scenario osservabile nel campo repubblicano si riscontra peraltro in quello democratico, dove gli aspiranti alla nomination si sfidano principalmente nell’accaparrarsi i finanziamenti dei ricchi sostenitori che prediligono, per la difesa dei propri interessi, la versione teoricamente “liberal” dell’apparato di potere di Washington.
In tutto questo, l’opinione degli elettori risulta trascurabile, come conferma appunto il fatto che, almeno per il momento, il più probabile candidato alla nomination repubblicana – Jeb Bush – è un politico reazionario e con un passato da businessman a dir poco controverso, nonché discendente di una dinastia politica americana tra le più disprezzate degli ultimi decenni.