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di Carlo Musilli
Ne parlano da quando hanno memoria, ma stavolta il traguardo è a portata di mano e non serviranno scudi né spade per raggiungerlo. Dopo tre secoli di convivenza forzata con i cugini inglesi, gli scozzesi sono a un passo dall'indipendenza. Secondo un sondaggio realizzato da YouGov per il Sunday Times e pubblicato a meno di due settimane dal referendum del 18 settembre, i secessionisti hanno più che rimontato il gap iniziale e sono ora in vantaggio sugli unionisti, seppur di misura (51 contro 49%).
E' la prima volta che da un'indagine emerge una percentuale a favore della scissione: la stessa fonte ricorda che i divisionisti, dati al 47% appena cinque giorni fa, hanno recuperato in un mese un distacco di circa 22 punti percentuali. E' vero, un sondaggio non fa primavera, e considerando il margine d'errore statistico oggi siamo al pareggio virtuale. Eppure il clima di assoluta incertezza è più che sufficiente a scatenare il terrore politico a Londra.
Pur di evitare la débacle, ieri George Osborne, ministro britannico delle Finanze, ha promesso il trasferimento alla Scozia di maggiori poteri in caso di bocciatura della causa indipendentista: "Nei prossimi giorni - ha annunciato Osborne - arriverà un piano di azione che concederà maggiori poteri alla Scozia, più poteri sulle tasse, sulla spesa e sul welfare".
Un'avance subito rispedita al mittente dal primo ministro di Edimburgo, che è anche leader dello Scottish National Party (Snp): "Stanno cercando di corromperci - ha tuonato Alex Salmond - ma non funzionerà, perché non sono più credibili. Ho sempre pensato che potessimo vincere. Ora i sondaggi sono molto incoraggianti".
Stando al Sunday Times, inoltre, la regina Elisabetta II in persona è "preoccupata" per l'esito del referendum. Il timore a Buckingham Palace è che l’eventuale vittoria dei secessionisti dia il via a una crisi costituzionale, minacciando il ruolo della corona al vertice dello Stato scozzese.
Ma al di là delle cariche e delle tradizioni, quali sarebbero le principali conseguenze economiche della divisione? Un primo dubbio riguarda la valuta: la Scozia indipendente continuerebbe a usare la sterlina? Secondo Salmond sì, creando una specie di "Sterlinozona" sul modello dell'Eurozona, oppure in via informale, come si fa con l’euro in Kosovo.
Sul versante dei conti pubblici, è assai complicato ipotizzare come sarebbe spartito il debito. Da alcune simulazioni risulta che, scorporando anche il prodotto interno lordo scozzese, il rapporto debito-Pil del resto del Regno Unito rischierebbe di salire di oltre dieci punti percentuali.
Londra potrebbe ricordare come la Scozia abbia ricevuto trasferimenti dallo Stato centrale che hanno contribuito non poco ad aumentare il debito britannico. Edimburgo, da parte sua, potrebbe chiedere che dalla propria quota di debito vengano scomputate le tasse che il Regno Unito ha raccolto sull’estrazione del petrolio scozzese.
Già, a chi andrebbe il petrolio del Mare del Nord? L’Istituto nazionale della ricerca economica e sociale inglese calcola che alla Scozia indipendente spetterebbe il 91% dei ricavi legati all’oro nero.
La questione sarebbe però sicuramente al centro d'interminabili negoziati, considerando che fino a oggi la maggior parte degli investimenti su pozzi e piattaforme è arrivata dal governo britannico o dal colosso British Petroleoum.
Infine, quelli che secondo The Economist sarebbero i problemi numero uno per una Edimburgo separata da Londra: sanità e pensioni. Poiché i giovani scozzesi emigrano verso l'Inghilterra, nei prossimi anni il rapporto fra lavoratori e pensionati calerà in Scozia, mentre aumenterà in Inghilterra. D'altro canto, per quanto riguarda la salute, uno studio pubblicato dall'Ocse colloca la qualità della vita scozzese fra le ultime tre d’Europa.
Chi pagherà questi conti, se non Londra? Salmond parla di un fondo sovrano che investa sui mercati finanziari, come in Norvegia. E' probabile che su questo punto si giocherà la battaglia per l'ultimo voto.
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di Mario Lombardo
La sola durata della visita in Giappone di questa settimana del primo ministro indiano, Narendra Modi, rende a sufficienza l’idea dell’importanza che il governo di estrema destra di Nuova Delhi assegna alle relazioni con il principale alleato degli Stati Uniti in Asia orientale. I cinque giorni trascorsi nel paese del Sol Levante dal leader del partito suprematista indù BJP hanno visto al centro dei colloqui la promozione della partnership strategico-militare e gli inviti al business nipponico a investire in India per rianimare l’economia in grave affanno di quella che viene definita come la più popolosa democrazia del pianeta.
La trasferta di Modi ha inaugurato un mese di frenetiche attività diplomatiche per il capo del governo indiano, il quale giovedì e venerdì ospiterà a Delhi il proprio omologo australiano, Tony Abbott, prima di ricevere il presidente cinese, Xi Jinping, a metà settembre. In seguito, per chiudere la serie di vertici con tutte le principali potenze coinvolte nella rivalità strategica in Estremo Oriente tra Washington e Pechino, Modi volerà per la prima volta negli Stati Uniti, dove incontrerà Barack Obama alla Casa Bianca.
Sul fronte dei rapporti economici, Modi si sarebbe garantito accordi per 35 miliardi di dollari in investimenti giapponesi per progetti di sviluppo e infrastrutture da realizzare in India nei prossimi cinque anni. Per quanto riguarda gli scambi commerciali, nello stesso periodo di tempo i due paesi si sono impegnati a raggiungere i 50 miliardi di dollari rispetto ai 16 miliardi attuali.
Modi ha garantito alle compagnie giapponesi un trattamento particolare in India, a cominciare dalla creazione di un apposito team con l’incarico di gestire le proposte di investimento nipponiche, di cui faranno parte anche due membri scelti da Tokyo.
Secondo il Times of India, il governo di Shinzo Abe avrebbe assicurato il proprio supporto a praticamente tutti i progetti presentati da Modi, tra cui la costruzione di un treno ad alta velocità sul modello di quelli giapponesi. L’intero panorama dei media indiani ha espresso perciò estrema soddisfazione per il viaggio in Giappone del primo ministro, pressoché universalmente definito un successo.
Se le questioni economiche hanno avuto un ruolo significativo durante il vertice indo-giapponese, soprattutto perché servono a Modi e al BJP al potere per offrire qualche risultato dopo il successo elettorale e le promesse di far ripartire il gigante asiatico, forse ancora più importanti sono però le implicazioni strategiche della visita terminata mercoledì.
I due leader hanno evitato di fare alcun riferimento pubblico alla Cina ma la partnership annunciata trionfalmente al mondo da Tokyo non può che essere inserita nell’ambito delle rivalità che attraversano il continente. India e Giappone sono d’altra parte i due pilastri sui quali si basa la strategia statunitense di accerchiamento della Cina. Se Tokyo è ormai al centro di un’alleanza consolidata, il rapporto con Delhi è ancora da definire del tutto per Washington, visto che la leadership indiana sembra spesso voler mantenere la propria tradizionale autonomia in politica estera ed evitare di incrinare eccessivamente le relazioni con il vicino cinese.
Per questa ragione, l’entusiasmo con cui Modi ha mostrato di volere promuovere la partnership con il Giappone indica la disposizione del governo indiano quanto meno a valutare seriamente un possibile allineamento in maniera più chiara agli interessi degli USA nel continente.
Allo stesso modo, il valore dell’India per il Giappone è difficile da sopravvalutare, in particolare in un frangente che vede Tokyo e Pechino ai ferri corti per le dispute territoriali nel Mare Cinese Orientale. Lo stesso Giappone si trova poi in una situazione economica tutt’altro che entusiasmante, così che i suoi leader vedono importanti opportunità in India, un paese da sfruttare anche come serbatoio di manodopera a bassissimo costo in alternativa proprio alla Cina.
Nel quadro di un rafforzamento dell’alleanza trilaterale – USA, India, Giappone – in funzione anti-cinese, anche i rapporti militari hanno avuto un’attenzione particolare nel corso del summit di questa settimana.
Al di là dell’ottimismo e della fiducia mostrate pubblicamente, tuttavia, in questo ambito rimangono molte riserve, soprattutto da parte indiana. I due capi di governo si sono accordati per esercitazioni navali congiunte e la fornitura di equipaggiamenti militari all’India ma un effettivo ampliamento dei rapporti in relazione alla sicurezza è stato rimandato.
In particolare, Modi ha bocciato l’idea di istituire con Tokyo un formato di cooperazione definito “2+2”, come quello già operativo tra Giappone e Stati Uniti, composto cioè dai rispettivi ministri degli Esteri e della Difesa che dovrebbero incontrarsi regolarmente a scadenze fissate per stabilire alcuni capisaldi della condotta strategica dei due paesi.
Un altro mancato accordo tra Abe e Modi è stato inoltre quello sul nucleare civile. L’India, in questo caso, non ha ottenuto come sperava il consenso del Giappone alla firma di un accordo di fornitura di tecnologia nucleare a scopi civili, con il premier nipponico che ha solo promesso ulteriori negoziati per definire la questione.
Essendo uno dei paesi che non hanno sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione e disponendo di armi nucleari, l’India sarebbe teoricamente esclusa dal mercato del nucleare civile, anche se alcuni paesi, a cominciare dagli USA e, come annunciato proprio in questi giorni, l’Australia, hanno ugualmente siglato accordi di questo genere con l’obiettivo di rinsaldare le proprie relazioni strategiche con Delhi.
Nonostante i segnali lanciati apertamente dal premier Modi in Giappone circa la propria disponibilità ad abbracciare senza riserve l’alleanza strategica guidata dagli USA in Asia orientale, la classe dirigente indiana rimane divisa circa l’orientamento da dare alla politica estera del proprio paese.
La questione fondamentale nella presa in considerazione di un eventuale allineamento agli interessi strategici di Washington e Tokyo verte in definitiva attorno all’opportunità di inimicarsi un vicino importante come la Cina, con la quale l’India ha scambiato più di 66 miliardi di dollari di beni nel 2012 e con cui condivide una linea di confine lunga 3 mila chilometri.
A Pechino, infine, le reazioni spazientite all’annunciato rafforzamento delle relazioni tra India e Giappone sono state affidate sostanzialmente ai giornali controllati dal regime. Questi ultimi hanno invitato gli indiani a non trascurare l’importanza dei rapporti con la Cina e il governo Abe ad astenersi dal proseguire sulla strada delle provocazioni.
Da parte cinese, in ogni caso, le contromosse per ostacolare il solidificarsi della partnership trilaterale tra USA, India e Giappone sono ben note e consisteranno ancora una volta in incentivi soprattutto economici. La prossima visita a Delhi del presidente Xi, infatti, si annuncia già ricca di proposte per progetti di sviluppo e cooperazione a cui il governo Modi e un’India in piena stagnazione difficilmente potranno resistere.
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di Michele Paris
La diffusione in rete del filmato che ha documentato la decapitazione del secondo giornalista americano in due settimane per mano dei militanti fondamentalisti dello Stato Islamico (ISIS) è stata subito sfruttata negli Stati Uniti e non solo per giustificare un maggiore coinvolgimento in Iraq e una sempre più probabile azione militare in Siria.
Il video della brutale esecuzione è stato giudicato autentico nella prima mattinata di mercoledì dall’intelligence americana ma, ancor prima di questa conferma ufficiale, politici e media da entrambe le sponde dell’oceano non avevano perso tempo a lanciare appelli all’amministrazione Obama per intensificare il proprio intervento in Medio Oriente contro i jihadisti sunniti.
Quasi tutti i giornali “mainstream” in Occidente hanno dato conto tra martedì e mercoledì delle voci di coloro che chiedono un’azione più incisiva, riportando quasi parola per parola lo stesso commento in relazione al filmato dell’ISIS e cioè che quest’ultimo non fa che aumentare le pressioni sul presidente Obama per ordinare bombardamenti aerei sull’organizzazione terroristica in territorio siriano.
Negli Stati Uniti, numerosi membri del Congresso hanno chiesto apertamente una strategia bellica da implementare con urgenza in Medio Oriente, facendo eco ai guerrafondai d’oltreoceano che in questi giorni stanno invocando l’invio di armi al regime golpista ucraino.
Il senatore democratico Bill Nelson della Florida, da dove veniva il giornalista ucciso, in qualità di membro della commissione per le Forze Armate, ha così annunciato di volere presentare una legge che autorizzi il presidente a ordinare attacchi aereri sulla Siria. Questa iniziativa giunge pochi giorni dopo che a Washington era infuriato il dibattito sull’opportunità da parte della Casa Bianca di procedere con l’allargamento del fronte di guerra in Medio Oriente con o senza il via libera del Congresso.
Alla Camera dei Rappresentanti, invece, il presidente della commissione Esteri, il repubblicano Ed Royce, ha fatto appello agli alleati degli Stati Uniti, raccomandando un’accelerazione delle forniture di armi ai peshmerga curdi e, anch’egli, bombardamenti mirati contro le postazioni dell’ISIS in Siria.
Al coro si sono aggiunti anche il primo ministro britannico, David Cameron, e quello australiano, Tony Abbott, i quali, oltre a minacciare iniziative belliche, hanno fatto a gara nel condannare nella maniera più ferma possibile la barbara uccisione del giornalista americano.
La decapitazione del 31enne free-lance Steven Sotloff, così come quella avvenuta il 19 agosto scorso di James Foley, è senza dubbio la conferma del carattere ultra-reazionario dei fanatici dell’ISIS che operano in Iraq e in Siria. Tuttavia, le reazioni di sdegno dei leader occidentali non devono in nessun modo ingannare.
Per cominciare, le atrocità commesse dall’ISIS non sono cosa nuova. Il gruppo armato fondamentalista è responsabile di esecuzioni sommarie (decapitazioni comprese) nei confronti di civili, membri di minoranze religiose e soldati dell’esercito regolare in Siria. Questi atti, compiuti a partire dai mesi succesivi all’esplosione della “rivolta” contro il regime di Damasco, erano stati tutt’al più citati senza nessuna critica sui media occidentali e mai condannati dai governi che oggi mostrano tutta la loro indignazione.
Malgrado le riserve, d’altra parte, l’ISIS e altre formazioni integraliste - come il Fronte al-Nusra, ufficialmente affiliato ad al-Qaeda - facevano e fanno parte dell’opposizione anti-Assad, sponsorizzata, finanziata e armata proprio dagli USA e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente, la cui versione dei fatti in Siria fino a poco fa classificava in gran parte questi stessi gruppi come guerriglieri per la libertà e la democrazia.
Solo dopo che l’ISIS è dilagato in Iraq, minacciando il governo di Baghdad e quello autonomo curdo, Washington ha suonato l’allarme e denunciato l’ennesima minaccia terroristica, sostanzialmente però, come di consueto, di propria fabbricazione.
Il nuovo spietato nemico è servito così a riportare un contingente di soldati americani in un Iraq da tempo sotto l’influenza iraniana e, in fin dei conti, a trascinare gli Stati Uniti sulla soglia di un intervento armato in Siria che sembrava essere stato scongiurato esattamente un anno fa con l’accordo tra Mosca e Washington per la rimozione dell’arsenale chimico di Damasco.
Se in Iraq gli USA hanno già condotto oltre 120 incursioni aeree contro l’ISIS a partire dalla decapitazione di James Foley, Obama ha per ora autorizzato solo voli di ricognizione in Siria che appaiono però il preludio a bombardamenti che potrebbero essere imminenti. Al contrario di quanto suggerirebbe la logica, il governo americano ha escluso ogni collaborazione con le forze di Assad nella guerra all’ISIS, prospettando quindi un intervento in Siria che possa avere come possibile obiettivo finale proprio la deposizione del regime.
Intanto, martedì la Casa Bianca ha annunciato l’invio in Iraq di altri 350 militari, ufficialmente per contribuire alla difesa dell’ambasciata americana a Baghdad, portando a oltre mille il numero complessivo di propri uomini nel paese. Lo stimolo ad agire sembra venire anche dalla polemica iniziata la scorsa settimana, quando Obama era stato criticato da più parti sul fronte interno per avere affermato che la sua amministrazione non aveva ancora predisposto una strategia d’azione per contrastare l’ISIS.
Della decapitazione di Sotloff, Obama è stato informato a Tallin, in Estonia, nell’ambito di una trasferta europea con al centro dell’attenzione la crisi in Ucraina e le minacce alla Russia. In una conferenza stampa con il presidente del paese baltico, Toomas Hendrik Ilves, l’inquilino della Casa Bianca ha promesso vendetta, sostenendo che gli USA “non si faranno intimidire” da simili gesti di violenza.
Sempre da Tallin, il presidente democratico ha poi fatto sapere mercoledì che utilizzerà il vertice NATO in Galles di questa settimana per convincere gli altri paesi dell’Alleanza a unire le proprie forze contro i jihadisti, così da “continuare a restringere la sfera d’influenza dell’ISIS, la sua efficacia, le sue fonti di finanziamento e le sue capacità militari fino a ridurlo a un problema gestibile”.
Il totale naufragio della strategia occidentale in Medio Oriente, che sta destabilizzando in maniera preoccupante l’intera regione, sta avendo riflessi inquietanti anche sul fronte domestico in Occidente. Gli assassini dei due giornalisti americani, a quanto sembra eseguiti materialmente da un jihadista di nazionalità britannica, hanno spinto ad esempio il governo conservatore di Londra non solo a minacciare a propria volta bombardamenti aerei sull’ISIS in Siria, ma anche a dare un’ulteriore stretta ai diritti civili in patria.
La Gran Bretagna, infatti, nei giorni scorsi ha annunciato misure più restrittive per i propri cittadini che viaggiano o intendono viaggiare verso paesi dove sono attivi gruppi fondamentalisti, visto che svariate centinaia di britannici si sono già uniti all’ISIS per combattere in Iraq e in Siria. Anche in questo caso, l’indignazione di Londra è solo a uso e consumo del pubblico, poiché la Gran Bretagna, come altri paesi alleati, quanto meno non aveva scoraggiato i viaggi dei militanti stessi verso il Medio Oriente, dal momento che questi ultimi andavano a unirsi a una guerra contro il regime di Assad che li vedeva alleati del loro governo.
Il coinvolgimento del governo Cameron in Iraq e in Siria, in ogni caso, potrebbe ricevere un’ulteriore accelerazione nel prossimo futuro, se a subire la sorte di Foley e Sotloff dovesse essere l’ostaggio britannico nelle mani dell’ISIS, David Haines, anch’egli minacciato di morte questa settimana nel filmato della decapitazione del secondo giornalista americano.
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di Michele Paris
Confermando un’evoluzione in corso da qualche tempo e impensabile soltanto alcuni anni fa, la General Motors (GM) la settimana scorsa ha annunciato il trasferimento di una linea di produzione di un modello Cadillac da un impianto in Messico a uno negli Stati Uniti. La notizia è stata accolta con grande entusiasmo dai politici locali e, soprattutto, dal sindacato UAW (United Automobile Workers), protagonista delle contrattazioni collettive nel settore automobilistico che hanno portato alla creazione di condizioni ampiamente favorevoli al business a stelle e strisce per il ritorno in patria di alcune attività manifatturiere.
A partire dalla fine del 2015, GM sposterà dunque la produzione della nuova versione del “crossover” Cadillac SRX negli stabilimenti di Spring Hill, nel Tennessee, sottraendola all’impianto di Ramos Arizpe, nello stato di Coahuila, nel Messico settentrionale. Ciò consentirà la creazione e il mantenimento di circa 1.800 posti di lavoro negli Stati Uniti.
Non solo, GM ha anche promesso un investimento di 185 milioni di dollari per produrre a Spring Hill nuovi motori della famiglia “EcoTec” da 75 a 165 cavalli, più piccoli cioè di quelli simili che già escono dalla catena di montaggio del Tennessee per due modelli Chevrolet. I nuovi motori continueranno a garantire occupazione a 390 lavoratori.
Nello stesso comunicato stampa, i vertici GM hanno anche prospettato un investimento da 48,4 milioni di dollari nella fabbrica di Bedford, nell’Indiana, dove verranno creati 45 nuovi posti di lavoro sempre per la produzione di motori EcoTec che finiranno su 27 modelli entro il 2017.
Le conseguenze dello spostamento della produzione in territorio americano sui lavoratori messicani non sono state rese note né, com’era prevedibile, i sindacati USA si sono preoccupati di fare riferimento ai possibili licenziamenti a sud del confine. In Messico, GM ha già ridotto il personale alle proprie dipendenze nei mesi scorsi in seguito a un calo delle vendite, anche se la Reuters ha citato una fonte aziendale secondo la quale almeno una parte della produzione della Chevrolet Equinox potrebbe essere trasferita all’impianto di Ramos Arizpe.
Quest’ultimo modello viene costruito attualmente proprio a Spring Hill, dove era stato portato da GM dopo la sospensione nel 2009 della produzione in Tennessee del marchio Saturn a causa della bancarotta pilotata del gigante di Detroit.
A condensare in una sola frase le ragioni del rimpatrio di una linea di produzione GM dal Messico è stato il governatore del Tennessee, il repubblicano Bill Haslam, che ha ricordato come il suo stato possa oggi realizzare prodotti manifatturieri “in competizione con qualsiasi paese del mondo”.
Infatti, a convincere il management GM non sono state tanto, o non solo, le capacità degli operai di Spring Hill di produrre auto di qualità - come ha sostenuto un dirigente qualche giorno fa - bensì una realtà nella quale la differenza nei costi del personale tra gli Stati Uniti e paesi come il Messico si è notevolmente ridotta.
Questa evoluzione è stata possibile grazie al ruolo svolto dai sindacati, in grado di far digerire ai lavoratori pesantissime concessioni negli anni seguiti alla crisi del 2008 e oggi elogiati dai vertici GM per le buone relazioni istituite in fabbrica.
Come ha spiegato la vicepresidente di UAW, Cindy Estrada, la quale ha incassato compensi per un totale di 156 mila dollari nel 2013, il sindacato automobilistico ha infatti “lavorato con GM per realizzare questa storia di successo attraverso il processo di contrattazione collettiva”.
Ancora, la stessa dirigente del sindacato ha sottolineato la natura corporativa della sua associazione, respingendo la mentalità del “noi contro di loro” che impedirebbe il raggiungimento di “elevati standard lavorativi e di vita” per i propri affiliati.
Alle “storie di successo” dei sindacati americani, in realtà, possono brindare quasi esclusivamente le grandi aziende manifatturiere, i cui profitti sono aumentati sensibilmente negli ultimi anni grazie ai tagli delle spese di produzione. La sola General Motors, ad esempio, nel 2013 ha registrato utili pari a 3,8 miliardi di dollari, anche se nel 2014 sono crollati per le cause legali in corso relative a difetti di fabbricazione che in alcuni modelli avevano causato numerosi decessi nel decennio scorso.
Lo spostamento della produzione della Cadillac SRX in Tennessee, che dovrebbe essere seguita in futuro da un secondo modello, è in sostanza una ricompensa per un sindacato che, a partire dal 2009, ha permesso l’implementazione di praticamente tutte le modifiche contrattuali richieste dal management GM.
Punto cardine degli accordi tra proprietà e sindacato dopo la bancarotta, oltre alla riduzione dei benefici sanitari riservati ai lavoratori in pensione, era stato il ricorso su più ampia scala a un doppio livello di retribuzione, già concordato nel 2007. In base ad esso, GM può pagare circa 15 dollari l’ora i propri neo-assunti, vale a dire la metà della paga base precedente.
Questi livelli di retribuzione consentono di sopravvivere appena al di sopra della soglia ufficiale di povertà negli Stati Uniti e hanno rappresentato soprattutto il punto di riferimento per una corsa al ribasso nel resto dell’industria americana, dove coloro che hanno trovato un impiego in questi anni possono solo sognare gli stipendi che un tempo garantivano una vita dignitosa.
Il sostanziale processo di impoverimento della “working-class” americana ha avuto inoltre la totale approvazione dell’amministrazione Obama. Il presidente democratico aveva anzi lanciato subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca una campagna per promuovere una sorta di “insourcing” dell’industria statunitense, così da convincere le grandi corporations a riportare in patria unità produttive trasferite negli anni in America Latina o in Asia orientale.
Questa politica, come già ricordato, ha favorito le grandi aziende, mentre i posti di lavoro creati nel settore manifatturiero - comunque ancora ben al di sotto dei livelli pre-crisi - risultano quasi sempre sotto-pagati, “flessibili” e con pochi o nessun benefit come l’assistenza sanitaria. Complessivamente, così, dal 2009 a oggi le retribuzioni in termini reali dei lavoratori in ambito manifatturiero negli USA sono calate di quasi il 2,5%, mentre la contrazione nel solo settore automobilistico ha toccato addirittura il 10%.
Per politici, sindacalisti e commentatori “liberal”, tuttavia, questa è l’unica realtà oggi a disposizione dei lavoratori, costretti a scegliere soltanto tra disoccupazione cronica e condizioni di impiego sempre più simili a quelle della prima metà del secolo scorso. Il capitalismo in crisi strutturale, insomma, non ha ormai nient’altro da offrire a decine di milioni di lavoratori se non povertà e un futuro di precariato.
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di Michele Paris
Per coloro che più difficilmente si lasciano trascinare nel vortice delle notizie/propaganda a ciclo continuo del circuito dei media ufficiali, la pressoché totale sparizione dalle cronache internazionali della vicenda relativa al volo Malaysia Airlines MH17, precipitato il 17 luglio scorso mentre attraversava i cieli dell’Ucraina orientale, continua ad apparire estremamente sospetta.
La responsabilità del gravissimo incidente, che era costato la vita a tutte e 298 le persone a bordo tra passeggeri ed equipaggio, era stata subito attribuita dalle autorità di Kiev ai ribelli separatisti filo-russi, in grado di portare a termine una simile operazione grazie al sostegno militare e logistico di Mosca.
Anche se le giustificazioni per la continua escalation di minacce e sanzioni nei confronti del Cremlino sono negli ultimi tempi cambiate - come conferma la più recente accusa della presunta invasione russa in Ucraina - il “missile di Putin” che quasi sette settimane fa sembrava senza alcun dubbio avere abbattuto il velivolo malese ha rappresentato forse il fattore decisivo nel convincere anche i governi europei più cauti a dare la loro approvazione ad un pacchetto di misure punitive destinate alla Russia e volute fortemente da Washington.
Con una campagna ben orchestrata, il regime golpista ucraino aveva fatto così sapere di essere in possesso delle prove circa la responsabilità dei ribelli, i quali erano stati colti da una registrazione di dubbia autenticità mentre si autocelebravano per l’abbattimento di un aereo che forse credevano appartenere alle forze armate di Kiev.
Gli Stati Uniti, a loro volta, pur senza sostenere di avere prove irrefutabili che conducessero a Mosca o ai ribelli, avevano fortemente suggerito questa pista, dichiarando che a colpire il Boeing 777 era stato un missile terra-aria lanciato da un sistema mobile denominato Buk e fornito ai ribelli dalla Russia.
Questa ipotesi, priva di alcun fondamento concreto e basata su informazioni di parte o su post apparsi nei vari social network, probabilmente fabbricati ad arte, era stata accettata senza tante riserve dalla stampa ufficiale in Occidente poiché tornava utile alla loro propaganda anti-russa modellata sull’agenda ucraina di Berlino e Washington.
La gravità dell’incidente e delle accuse contro Mosca nel pieno della crisi in Europa orientale lasciava ragionevolmente pensare a un’indagine tempestiva, una volta risolte le difficoltà legate all’accesso al luogo del disastro in uno scenario di guerra. L’aumentare dei dubbi sulla versione iniziale e l’emergere di maggiori informazioni che hanno fatto pensare a spiegazioni alternative e decisamente imbarazzanti per il governo ucraino e i suoi sponsor occidentali, hanno determinato però di fatto l’insabbiamento dell’esame delle scatole nere, mentre notizie sulla sorte del volo MH17 risultano ormai quasi introvabili sui principali media internazionali.
Vista la tendenza altamente manipolatrice di questi ultimi e dei governi occidentali che appoggiano il governo di estrema destra a Kiev, è impensabile che anche eventuali frammenti di informazioni emersi dalle indagini finora condotte non verrebbero utilizzati come armi di propaganda anti-russa se confermassero una qualche responsabilità dei ribelli.
Per questa ragione, il silenzio apparentemente inspiegabile a cui si assiste rende più che lecito sospettare la presenza di materiale scottante che possa coinvolgere nei fatti del 17 luglio scorso proprio quelle forze che avevano per prime puntato il dito contro Mosca e i separatisti ucraini.
A tutt’oggi, d’altra parte, le forze di sicurezza di Kiev non hanno ancora reso noti né i tabulati radar né le registrazioni delle conversazioni nella torre di controllo che era in contatto col volo MH17, informazioni requisite poco dopo il disastro e tanto più importanti alla luce della notizia che all’aeromobile malese era stato ordinato un cambiamento di rotta proprio pochi minuti prima dell’abbattimento.
Le autorità olandesi, a cui erano state consegnate le scatole nere per essere esaminate, avevano inoltre annunciato l’11 agosto scorso di essere sul punto di pubblicare un rapporto preliminare sui fatti, ma meno di due settimane più tardi hanno comunicato che non è prevista alcuna data per la diffusione delle registrazioni. Ogni giorno di attesa fa perciò aumentare il sospetto che sia in atto una qualche falsificazione dei dati sull’incidente, così da far coincidere l’esito delle indagini con la versione ufficiale.
A questo punto, non è dunque necessaria una particolare predisposizione cospirazionista per sospettare che il 17 luglio nei cieli dell’Ucraina abbia potuto avere luogo un’operazione “false flag” ad opera di coloro che per primi avevano formulato accuse sul disastro appena accaduto.
Le indicazioni in questo senso appaiono molteplici e, in alcuni casi, molto convincenti o, quanto meno, più convincenti di quelle presentate finora da Kiev e Washington. Oltretutto, va ricordato, da un punto di vista di convenienza politica l’abbattimento di un velivolo commerciale ad opera dei ribelli filo-russi avrebbe favorito l’emergere di un fronte compatto a fianco del regime ucraino per aumentare i toni dello scontro con Mosca, come è poi effettivamente accaduto, mentre nessun beneficio ne sarebbe derivato per i separatisti.
Per cominciare, in ogni caso, pochi giorni dopo il disastro, i vertici militari russi avevano rivelato che il volo MH17, appena prima di scomparire dai radar, era stato affiancato da aerei da guerra ucraini. Questa informazione si sarebbe rivelata importante alcune settimane dopo in seguito all’apparizione di alcune analisi dei resti dell’aereo provenienti da fonti non sospette.
Il resoconto più dettagliato e attendibile fin qui apparso sui media internazionali continua a essere quello pubblicato ai primi di agosto dal quotidiano malese New Straits Times, puntualmente ignorato da quasi tutta la stampa occidentale. Il pezzo in questione risulta significativo non solo per le tesi che propone ma ancor più perché la testata è considerata una sorta di organo di propaganda del governo di Kuala Lumpur, come è noto tutt’altro che ostile agli Stati Uniti e all’Occidente.
Secondo questa versione, la stessa intelligence americana sarebbe arrivata alla conclusione che ad abbattere il volo MH 17 sia stato un razzo lanciato da un aereo da guerra che volava nelle vicinanze e che le responsabilità dell’accaduto siano da ricercare nel regime ucraino. A una simile conclusione si sarebbe giunti in seguito all’analisi da parte di esperti delle immagini dei resti del velivolo che mostravano segni differenti sulla fusoliera.
I primi sembravano compatibili con l’impatto di una testata dotata di “flechettes”, o piccole frecce metalliche che servono a fare il maggior danno possibile contro un determinato obiettivo, e gli altri, con un profilo più uniforme, prodotti dal fuoco di un mitragliatore di un aereo da guerra.
Ciò indicherebbe un danno che un missile lanciato da terra non avrebbe potuto produrre e trova conferma anche nelle dichiarazioni rilasciate già a fine luglio alla televisione canadese CBC dall’investigatore dell’OSCE Michael Bociurkiw, uno dei primi a giungere sul luogo del disastro in Ucraina orientale. Bociurkiw aveva parlato infatti di frammenti ancora fumanti che portavano chiaramente i segni di colpi di mitragliatore.
Sulla testimonianza al di sopra delle parti dell’investigatore ucraino-canadese si era poi basato anche il pilota in pensione della Lufthansa, Peter Haisenko, il quale dalle immagini diffuse in rete dei resti del velivolo aveva notato dei fori di entrata su un lato della cabina di pilotaggio e di uscita sul lato opposto, entrambi compatibili con proiettili calibro 30.
Anche questa valutazione indica che a colpire siano stati più velivoli militari affiancati al volo MH17, poiché un missile terra-aria non poteva penetrare l’aeromobile nella direzione descritta, né colpire in punti opposti e lasciare il tipo di tracce riscontrate.
Riassumendo lo scenario che scaturirebbe dalle prove finora disponibili, un commento apparso recentemente sulla testata online Asia Times ha infine proposto l’ipotesi di un ex membro dell’aeronautica militare USA e ingegnere della Boeing. Per quest’ultimo, un jet ucraino Su-25 avrebbe potuto colpire con un missile aria-aria R-60 il 777 della compagnia malese senza necessariamente volare alla sua stessa velocità o altitudine.
In fase di crociera e in assenza di virate, sarebbe infatti semplice calcolare il punto d’impatto, poiché è il missile R-60 a raggiungere velocità e altitudine necessarie. Una volta colpito, il 777 sarebbe entrato rapidamente nel raggio d’azione diretta dei jet Su-25 che potrebbero averlo finito definitivamente con scariche di mitragliatori.
Sui molteplici dubbi e interrogativi sollevati in queste settimane, in ogni caso, difficilmente verrà fatta luce a breve, visto che l’ultima parola sulle indagini spetta sostanzialmente a quegli stessi governi che avevano utilizzato la tragedia per i loro fini strategici e che oggi sembrano avere tutto l’interesse a nascondere la verità sulla morte di 298 persone innocenti.