di Michele Paris

Sull’esempio dei numerosi summit organizzati dal governo cinese nell’ultimo decennio, questa settimana anche l’amministrazione Obama ha ospitato a Washington un vertice con i leader africani per cercare di ravvivare i rapporti commerciali con un continente sempre più nell’orbita economica di Pechino. Al centro dell’incontro con circa 50 capi di stato e di governo africani c’è stato in particolare il tentativo da parte della Casa Bianca di dare un qualche impulso al rinnovo di una legge sul commercio con l’Africa in scadenza nel settembre del prossimo anno.

L’African Growth and Opportunity Act (AGOA) era stato approvato dal Congresso americano nel maggio del 2000 e prevede l’abbattimento delle tariffe doganali USA su una serie di prodotti di alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana. In questi anni, l’AGOA ha sostenuto in particolare le esportazioni petrolifere dei paesi dell’Africa occidentale, mentre gli altri settori dell’economia del continente hanno avuto modesti benefici, come conferma un volume di scambi con gli Stati Uniti, per i prodotti diversi dal petrolio, pari ad appena 5 miliardi di dollari nel 2013 contro 1,4 miliardi nel 2001.

Secondo gli esperti, per ottenere un impatto significativo sarebbero necessarie regole meno restrittive sulle esportazioni verso l’America di prodotti come zucchero, tabacco e cotone, anche se i produttori statunitensi continuano ad opporsi. Gli USA, poi, utilizzano iniziative come l’AGOA come strumento per stabilire rapporti strategici con i paesi africani interessati, escludendo dai benefici economici che ne deriverebbero quelli meno disponibili, con la giustificazione del mancato rispetto dei diritti umani.

Gli sforzi americani in relazione al continente africano hanno prodotto finora scarsi risultati sul fronte economico, come confermano i numeri. Da alcuni anni, infatti, gli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa hanno superato quelli degli Stati Uniti e hanno raggiunto l’anno scorso la cifra di 170 miliardi di dollari, cioè più del doppio di quelli tra USA e paesi africani.

Nei primi mesi del 2014, inoltre, questi ultimi hanno fatto registrare un calo di quasi il 30% rispetto allo scorso anno, così come il volume totale degli scambi è sceso dai 100 miliardi di dollari nel 2011 ai 60 miliardi del 2013.

Al contrario, la tendenza degli scambi tra Cina e Africa è in continuo rialzo, anche se il primo partner commerciale dei paesi africani rimane per il momento l’Unione Europea, con circa 200 miliardi di dollari di scambi nel solo 2013.

I traffici del continente con la Cina riguardano comunque principalmente le materie prime africane ma Pechino ha da qualche tempo aumentato il proprio impegno finanziario anche in altri settori.

L’importanza dell’Africa per la Cina era stata ribadita dal viaggio intrapreso all’inizio del 2013 poco dopo il suo insediamento dal presidente Xi Jinping, il quale in varie tappe nel continente aveva confermato la promessa fatta dal suo paese l’anno precedente di sborsare ben 20 miliardi di dollari per finanziare la creazione di infrastrutture, lo sviluppo dell’agricoltura e del business.

Da parte sua, gli Stati Uniti non sono in nessun modo in grado nemmeno di avvicinare un simile impegno finanziario, limitandosi più che altro a favorire l’incontro dei leader di governo africani con i vertici delle principali multinazionali americane interessate a investire nel continente.

Prima del summit di Washington, l’amministrazione Obama aveva annunciato una serie di accordi per il valore di un miliardo di dollari. Durante l’incontro di questa settimana il presidente democratico non ha però tenuto alcun faccia a faccia con i leader africani sbarcati negli USA per cercare di promuovere il business a stelle e strisce nei singoli paesi, causando oltretutto più di un malumore tra i suoi ospiti.

Tra gli invitati a Washington, la Casa Bianca ha escluso poi i rappresentanti di Eritrea, Sudan e Zimbabwe, visti i pessimi rapporti con gli Stati Uniti. L’amministrazione Obama sostiene che le ragioni delle divergenze sarebbero legate al mancato rispetto dei diritti umani e dei principi democratici da parte di questi paesi.

In realtà, le ragioni sono legate al mancato allineamento di questi paesi agli interessi strategici americani, visto che al vertice hanno partecipato alcuni leader tra i più repressivi del continente, come il presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang, al potere da 35 anni, o quello dell’Uganda, Yoweri Museveni. L’intera questione dei diritti umani in Africa è stata d’altra parte messa da parte nel corso del summit, visto l’imbarazzo che avrebbe potuto creare a molti invitati, nonché allo stesso governo americano.

Vista l’impossibilità di tenere il passo della Cina sul fronte dei rapporti commerciali, lo strumento degli Stati Uniti per mantenere una qualche influenza nel continente africano continua ad essere quello militare, con tutte le conseguenze destabilizzanti che ne derivano.

A questo scopo e per contrastare la penetrazione cinese, il governo USA aveva inaugurato sei anni fa un apposito Comando Africano (AFRICOM). Nonostante il quartier generale del comando rimanga a Stoccarda, in Germania, oggi gli Stati Uniti possono contare su almeno 5 mila soldati sparsi in una quarantina di paesi del continente, sia su base definitiva che temporanea.

Con il pretesto della lotta al terrorismo, ma anche della necessità di addestrare le forze armate indigene o delle esercitazioni militari, le truppe USA sono ormai una presenza significativa in Africa, dove però gli interventi di questi ultimi anni hanno provocato ulteriori tensioni, caos e violenze (Libia, Mali, Somalia).

Anche su questo fronte, in ogni caso, la Cina sembra incrementare la propria presenza in Africa, mostrando di volere almeno parzialmente abbandonare la propria tradizionale politica di non ingerenza nelle questioni militari degli altri paesi.

Infatti, Pechino partecipa con qualche centinaia di uomini al contingente ONU in Mali e fornisce una qualche assistenza militare alle forze di “peacekeeping” dell’Unione Africana dispiegate in varie parti del continente.

di Mario Lombardo

Il consolidamento del potere da parte delle élites thailandesi dietro al colpo di stato del maggio scorso ha fatto segnare una tappa importante qualche giorno fa, quando la giunta militare ha nominato i membri della nuova Assemblea Legislativa. Confermato dall’anziano monarca, Bhumibol Adulyadej, il Parlamento non eletto è composto da 200 deputati, di cui più della metà ufficiali militari e di polizia tuttora in servizio o in pensione.

Tra gli altri componenti dell’assemblea scelti dal regime militare guidato dal generale Prayuth Chan-ocha figurano alti dirigenti del business thailandese, accademici e alcuni ex membri del precedente Senato - anch’esso in parte non elettivo - tutti rigorosamente oppositori del deposto governo del partito Pheu Thai dell’ex premier Yingluck Shinawatra.

La presenza di nuovi legislatori come, ad esempio, i numeri uno di Toshiba Thailandia, di Colgate-Palmolive Thailandia e del gigante delle assicurazioni Liberty Insurance conferma l’appoggio del business indigeno al golpe e l’allineamento dei loro interessi alle iniziative della dittatura di Prayuth.

La nuova assemblea sostituisce le due camere del Parlamento thailandese - Camera dei Rappresentanti e, appunto, Senato - e avrà il compito di approvare leggi, un nuovo primo ministro e un gabinetto, il tutto dietro indicazioni del cosiddetto Consiglio Nazionale per la Pace e l’Ordine che manterrà il completo controllo sull’evoluzione politica nel paese.

La nuova assemblea si riunirà per la prima volta giovedì e già il giorno successivo dovrebbe eleggere il primo ministro, che secondo i media thailandesi sarà lo stesso generale Prayuth. In seguito, l’assemblea legislativa sceglierà il proprio presidente e il suo vice.

La nomina dell’assemblea è il risultato dell’adozione sempre da parte dei militari di una Costituzione provvisoria, annunciata il 22 luglio scorso. La nuova carta stabilisce inoltre la formazione di un “Consiglio per le riforme” e una commissione incaricata di scrivere una Costituzione definitiva. I poteri assegnati alla giunta militare sono ovviamente molto ampi e includono la possibilità di porre il veto sul contenuto della Costituzione definitiva e di intervenire nella vita politica del paese anche senza l’assenso del governo civile.

Una questione centrale che verrà affrontata con nuove leggi se non addirittura nella Costituzione sarà la messa al bando delle misure moderatamente progressiste adottate nell’ultimo decennio dai governi di Yingluck e del fratello, l’imprenditore miliardario in esilio Thaksin Shinawatra, anch’egli deposto da un colpo di stato militare nel 2006.

L’attuale regime ha già abolito il programma di acquisto di riso da parte del governo che garantiva ai produttori - soprattutto nel nord rurale della Thailandia, dove il clan Shinawatra ha la propria base elettorale - prezzi più alti rispetto a quelli del mercato.

Già in vista c’è poi la fine dei sussidi pubblici che contribuiscono ad abbassare i prezzi dei carburanti, mentre una recente rivelazione ha ipotizzato la cancellazione anche di una delle iniziative più popolari introdotte da Thaksin, cioè la rete di assistenza sanitaria universale praticamente gratuita.

In seguito alla rivelazione, la giunta militare ha negato che possa essere introdotto nell’immediato il pagamento di una sorta di “ticket” che potrebbe arrivare fino al 50% del costo delle prestazioni sanitarie, anche se una soluzione di questo genere è già allo studio per il prossimo futuro.

Più in generale, i prossimi mesi in Thailandia vedranno l’implementazione di misure di austerity che nei mesi della crisi che ha attraversato il paese del sud-est asiatico erano state richieste a gran voce dalla comunità degli affari domestica e internazionale in seguito allo stallo dell’economia.

Come è noto, per circa sette mesi l’opposizione thailandese, organizzata nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica, aveva chiesto le dimissioni del governo con insistenti manifestazioni di protesta. L’obiettivo era però stato raggiunto solo con l’ennesimo colpo di stato dei militari del 22 maggio, preparato da una serie di procedimenti legali contro il capo del governo sulla base di accuse gonfiate di corruzione e abuso di potere.

Parallelamente, le elezioni tenute a febbraio e vinte dal Pheu Thai di Yingluck Shinawatra sono state subito delegittimate dai tribunali, nonostante le operazioni di voto non fossero state completate a causa dei disordini provocati dall’opposizione di piazza.

La giunta guidata dal generale Prayuth, una volta preso il potere, ha poi proceduto con arresti e restrizioni imposte ai leader del partito Pheu Thai. Purghe e censure sono infine seguite con il pieno appoggio della monarchia e degli altri tradizionali ambienti di potere thailandesi da tempo penalizzati dall’ascesa del clan Shinawatra.

Nonostante i timori, il rovesciamento dell’ordine democratico in Thailandia è avvenuto senza eccessivi scontri o tensioni interne. Le proteste degli anni scorsi da parte dei sostenitori di Thaksin e del suo movimento politico (“Camicie rosse”) in risposta alle precedenti iniziative dei militari risultano finora assenti, principalmente a causa della decisione presa dai vertici del Fronte Unito per la Democrazia Contro la Dittatura di non mobilitare alcuna opposizione.

Questi ultimi avevano a lungo minacciato di marciare su Bangkok in caso di deposizione del governo legittimo ma, con ogni probabilità per il timore che la situazione possa sfuggire di mano, in seguito alla mobilitazione delle classi rurali e urbane più povere, affermano ora di volere attendere tempi migliori.

Nel frattempo, di fronte alle critiche formali espresse dai governi occidentali, i quali hanno però sostanzialmente appoggiato il golpe, la giunta militare continua ad agitare la possibilità di stabilire rapporti più stretti con la Cina come arma per ottenere una qualche legittimità sul piano internazionale.

In questo senso va interpretata ad esempio la recente approvazione di un progetto ferroviario ad alta velocità da oltre 20 miliardi di dollari che in meno di un decennio dovrebbe collegare la Cina alla Thailandia.

di Michele Paris

In una visita di 48 ore in India nel pieno delle crisi in Ucraina e in Medio Oriente, il segretario di Stato americano, John Kerry, sta cercando questa settimana di gettare le basi per un rafforzamento dei legami con un paese strategicamente cruciale e solo da qualche settimana guidato dal governo del nuovo primo ministro di estrema destra Narendra Modi. L’ex senatore americano è atterrato a Delhi nella serata di mercoledì e il giorno successivo ha presieduto all’annuale “dialogo strategico” tra Stati Uniti e India. Quella di Kerry è la prima visita di un membro di alto livello dell’amministrazione Obama nel paese asiatico dall’insediamento nel mese di maggio di Modi, con il quale gli USA avevano evitato qualsiasi tipo di contatto per quasi dieci anni.

Al leader del partito fondamentalista indù BJP (Bharatiya Janata Party) nel 2005 era stato infatti negato il visto di ingresso negli Stati Uniti a causa delle sue presunte resposabilità nel favorire le persecuzioni anti-islamiche che nel 2002 fecero centinaia di vittime nello stato di Gujarat, all’epoca guidato dallo stesso Modi.

Già prima delle elezioni indiane, iniziate lo scorso aprile, il governo americano aveva però lanciato segnali distensivi verso quello che veniva dato come il più che probabile prossimo primo ministro, così che a febbraio l’ambasciatrice USA a Delhi, Nancy Powell, aveva incontrato di persona l’allora candidato Modi.

Lo stesso presidente Obama aveva poi telefonato a quest’ultimo all’indomani dell’annuncio del successo elettorale per congratularsi e invitarlo a Washington nel mese di settembre. Il calcolo degli Stati Uniti nell’abbracciare il nuovo governo di Modi e del BJP appare evidente ed è legato alla speranza di trovare un partner più affidabile a Delhi per raggiungere i due principali obiettivi di Washington nel sub-continente indiano, vale a dire l’apertura di un mercato enorme per il capitalismo a stelle e strisce e l’allineamento di una potenza emergente così importante alla strategia anti-cinese messa in atto nel continente asiatico.

Che Modi risulti alla fine più disponibile rispetto al governo del Partito del Congresso su questi due fronti appare al momento tutt’altro che certo, anche se i vertici bilaterali previsti nel prossimo futuro contribuiranno a fare chiarezza sull’attitudine del nuovo leader indiano. Dopo Kerry, la prossima settimana si recherà a Delhi anche il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, mentre, come già accennato, lo stesso Modi sarà ricevuto alla Casa Bianca tra poco più di un mese.

Come ha ricordato un commento alla visita di Kerry pubblicato giovedì dal quotidiano The Hindu, le relazioni tra Delhi e Washington non stanno attraversando il momento migliore degli ultimi anni o, meglio, i rapporti bilaterali “non hanno fatto segnare alcun passo avanti da dieci mesi”, cioè dall’incontro nel settembre 2013 negli USA tra Obama e l’allora primo ministro, Manmohan Singh.

Il raffreddamento delle relazioni era seguito in particolare all’arresto a New York a dicembre di una giovane diplomatica indiana, accusata di avere rilasciato false dichiarazioni nell’ambito del procedimento per la richiesta di un visto di lavoro per una domestica sua connazionale.

La vicenda, in seguito risolta, aveva lasciato più di uno strascico polemico in India, dove in molti tra politici e commentatori avevano espresso pubblicamente i propri dubbi sull’affidabilità degli Stati Uniti e il desiderio di questi ultimi di trattare il loro paese con il dovuto rispetto.

Se le dichiarazioni ufficiali nei mesi successivi sono state contrassegnate in genere da toni nuovamente distesi, le controversie che il segretario di Stato Kerry si è trovato ad affrontare una volta giunto in India la dicono lunga sulla strada che i due paesi dovranno percorrere per appianare le loro divergenze.

La questione più calda all’ordine del giorno - e che Kerry ha subito affrontato giovedì con il ministro delle Finanze indiano, Arun Jaitley - è la decisione del governo di Delhi di bloccare i lavori in corso per il raggiungimento di un accordo sugli scambi internazionali all’interno dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio. L’India, in definitiva, chiede che alcune delle proprie richieste vengano prese in considerazione in cambio dello sblocco della “riforma” delle norme doganali internazionali, soprattutto in merito ai sussidi sui prodotti alimentari.

In un articolo firmato per il quotidiano indiano The Economic Times alla vigilia dell’arrivo a Delhi, Kerry e la segretaria al Commercio, Penny Pritzker, avevano invitato Modi a lasciare cadere le proprie resistenze all’accordo sul commercio internazionale, indicando quest’ultimo come un test dell’impegno della nuova leadership indiana per la liberalizzazione dell’economia.

Giovedì, i colloqui non sembrano però avere fatto registrare passi avanti tali da sbloccare la situazione, tanto che il governo indiano si è detto pronto a far saltare la scadenza del 31 luglio fissata per l’approvazione dell’accordo.

Da lungo tempo rimane aperta invece la questione della partnership sul nucleare civile, con gli investimenti americani in India congelati a causa della mancata approvazione da parte del parlamento di Delhi di una legge che limiti drasticamente i rimborsi economici a carico delle compagnie straniere in caso di incidenti.

Sui media indiani, inoltre, continuano a essere discusse in maniera polemica le rivelazioni di Edward Snowden in merito alle attività di intercettazione delle comunicazioni elettroniche da parte della NSA dei politici locali, compresi quelli appartenti al BJP, solo da poco al governo.

La classe dirigente indiana si è sentita poi offesa qualche giorno fa, quando l’annuale rapporto pubblicato dalla commissione americana per la libertà religiosa nel mondo ha equiparato l’India ai paesi di “secondo livello” come Afghanistan, Turchia e Russia, facendo riferimento esplicitamente ai fatti di Gujarat del 2002 e all’inazione del governo nel risarcire le vittime dei pogrom anti-musulmani.

Un punto su cui l’amministrazione Obama appare più fiduciosa è piuttosto la volontà del governo Modi di mettere in atto “riforme” di libero mercato che spazzino via restrizioni e regolamentazioni che hanno finora impedito o limitato gli investimenti delle grandi aziende americane in India. Negli ultimi anni già il Partito del Congresso si era mosso in questa direzione, apparendo però troppo esitante agli occhi del business indigeno e degli ambienti economico-finanziari internazionali.

L’entusiasmo mostrato da Kerry nella giornata di giovedì nei confronti del nuovo governo è dunque legato in buona parte alla promessa di Modi di facilitare l’afflusso di capitali esteri e di flessibilizzare il mercato del lavoro. Come di consueto, lo stesso segretario di Stato USA ha definito l’agenda ultra-liberista del BJP come un programma per la creazione di posti di lavoro e per il miglioramento delle condizioni economiche della popolazione indiana.

A livello più profondo, i motivi di scontro tra Stati Uniti e India sono in ogni caso determinati dal dilemma che attraversa la classe dirigente di quest’ultimo paese, divisa tra l’abbraccio con Washington e il mantenimento di una politica estera indipendente.

L’obiettivo americano è d’altra parte quello di imbarcare l’India nella rete di alleanze asiatiche volta a contrastare l’avanzata della Cina, approfondendo i legami economici e militari, in particolare nell’ambito di un possibile “dialogo trilaterale” che includa il Giappone, per il quale l’amministrazione Obama si sta adoperando da tempo.

A questo proposito, Washington sta cercando di sfruttare la tradizionale rivalità tra Delhi e Pechino, anche se i due paesi - nonostante le contese di confine e la altrettanto tradizionale alleanza tra la Cina e l’arci-rivale indiano, il Pakistan - sono sempre più integrati economicamente e lo stesso Modi, quando era alla guida dello stato di Gujarat, aveva stabilito significativi rapporti commerciali con la Cina.

Con l’aggravarsi della crisi in Ucraina, infine, appare sempre più evidente anche il tentativo americano di attenuare il legame che dai tempi della Guerra Fredda unisce l’India alla Russia/Unione Sovietica. In questo caso, l’obiettivo strategico di Washington risulta però ancora più complicato a causa proprio dei rapporti consolidati tra l’India e la Russia, con quest’ultimo paese, tra l’altro, che è tuttora di gran lunga il primo fornitore di armi di Delhi.

di Mario Lombardo

Con una comunicazione apparsa martedì sul sito web della Commmissione Centrale per le Ispezioni Disciplinari del Partito Comunista Cinese (PCC), il governo di Pechino ha annunciato in maniera ufficiale l’apertura di un’inchiesta ai danni del potente ex membro del Comitato Permanente del Politburo, Zhou Yongkang, sospettato di “gravi violazioni della disciplina”. Mai nei 65 anni di storia della Cina “comunista” un esponente così autorevole della classe dirigente era stato messo sotto accusa per reati di corruzione.

72 anni ancora da compiere, Zhou si era ritirato dalla politica attiva nel novembre del 2012 dopo una carriera che lo aveva visto raggiungere i vertici del governo. Tra il 1988 e il 1998 era stato vice-presidente e poi presidente del colosso pubblico petrolifero China National Petroleum Corporation (CNPC), per poi assumere incarichi prettamente politici in qualità di ministro delle Terre e delle Risorse e segretario del PCC nella provincia di Sichuan.

Nel 2002 Zhou era entrato per la prima volta nel Politburo del partito e nel 2007 nel Comitato Permanente di quest’ultimo, di fatto il più alto organo decisionale della Repubblica Popolare Cinese. Tra il 2007 e il 2012, Zhou aveva assunto infine la guida dell’intero apparato della sicurezza, con competenza sulle forze di polizia, i tribunali e i servizi segreti civili.

Secondo quanto riportato a dicembre dalla Reuters, Zhou era stato messo agli arresti domiciliari già sul finire dello scorso anno, a conferma delle voci che circolavano sul suo conto e dopo che dal 1° ottobre precedente non era più stato visto in pubblico.

La decisione presa con ogni probabilità direttamente dal presidente cinese, Xi Jinping, era seguita alla creazione di una speciale task force con l’incarico di indagare sulle accuse di corruzione nei suoi confronti. Sempre secondo la Reuters, poi, nel marzo di quest’anno le autorità avevano sequestrato beni per il valore di quasi 15 miliardi di dollari a vari membri della famiglia e della cerchia di potere di Zhou Yongkang.

Agli arresti sono finiti anche il figlio di quest’ultimo, Zhou Bin, nonché la moglie, Jia Xiaoye, e il fratello, Zhou Yuanqing. Il figlio, in particolare, svolgerebbe un ruolo centrale nell’indagine interna al partito e, secondo il New York Times, avrebbe recentemente testimoniato contro il padre.

Complessivamente, più di 300 persone vicine a Zhou negli ultimi mesi sono state arrestate o interrogate nell’ambito delle indagini. In un’escalation di incriminazioni e condanne che hanno fatto terra bruciata attorno a Zhou, numerose personalità di spicco vicine a quest’ultimo sono state vittime di vere e proprie purghe negli ultimi due anni.

Nel dicembre del 2012, ad esempio, il vice-segretario del partito nella provincia di Sichuan, Li Chuncheng, era stato il primo importante politico alleato di Zhou a essere oggetto di un’indagine nell’ambito della crociata anti-corruzione della leadership da poco installata.

Il numero uno della commissione incaricata di amministrare e supervisionare le aziende pubbliche, Jiang Jiemin, finì invece sotto inchiesta nel settembre del 2013. Tre mesi più tardi sarebbe poi toccato a Li Dongsheng, vice-ministro per la pubblica sicurezza.

Fonti cinesi citate dalla stampa occidentale riferiscono che Xi intenderebbe punire Zhou per avere cercato di installare propri uomini ai vertici dello stato alla vigilia del 18esimo congresso del PCC nel novembre del 2012, in occasione del quale avvenne il decennale cambio della leadership cinese che portò al potere lo steso Xi.

In particolare, per mantenere la propria influenza all’interno dei supremi organi di governo e proteggere le ricchezze accumulate dal suo entourage, Zhou puntava tutto sul carismatico Bo Xilai, l’ex segretario del partito di Chongqing attualmente in carcere. Entrambi considerati fedelissimi dell’ex presidente Jiang Zemin, Zhou Yongkang e Bo Xilai hanno rappresentato o rappresentano uno dei principali ostacoli al consolidamento del potere di Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang.

Zhou e Bo, infatti, fanno parte di una fazione all’interno della classe dirigente cinese legata alle grandi compagnie pubbliche, in particolare del settore petrolifero, e che si oppone al processo di ulteriore ristrutturazione del sistema economico del paese in senso capitalistico.

L’agenda di libero mercato di Xi e Li, dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali, trova resistenze molto forti negli ambienti delle aziende di stato che potrebbero essere penalizzate dall’apertura di alcuni settori strategici. La condanna di Bo Xilai lo scorso anno per corruzione e abuso di potere e l’incriminazione - peraltro non ancora annunciata ufficialmente - di Zhou Yongkang rappresentano perciò il tentativo più clamoroso di rimuovere questi ostacoli.

Gli attacchi ai leader rivali del partito vengono portati con la scusa della lotta alla corruzione che ha rappresentato un altro dei capisaldi del programma di Xi Jinping al momento della sua ascesa alla guida del partito e del paese. Dal momento che la corruzione pervade praticamente tutti gli ingranaggi della Repubblica Popolare e che gli appartenenti all’élite “comunista” si sono arricchiti enormemente negli ultimi decenni con sistemi a dir poco discutibili, indagini o incriminazioni a causa di “violazioni” delle regole posso essere pilotate a piacere da chi controlla un sistema giudiziario tutt’altro che indipendente.

L’annuncio dell’indagine aperta ai danni di Zhou indica dunque un certo progresso da parte del presidente Xi nel superamento delle resistenze e delle divisioni all’interno della leadership cinese circa la strada da percorrere nel prossimo futuro. Non a caso, infatti, sempre martedì è stato indetto per il mese di ottobre il quarto Plenum del Comitato Centrale del PCC, durante il quale verranno ad esempio avanzate proposte volte a “migliorare il clima per gli investimenti” e a “liberalizzare i settori industriali ancora dominati dai monopoli statali”.

Molti commentatori si sono chiesti fino a che punto arriveranno le purghe ordinate dal presidente Xi, visto che appare evidente il rischio di inasprire le rivalità all’interno di un sistema di potere basato sul consenso e tradizionalmente caratterizzato da fazioni che fanno capo, tra gli altri, ai leader che hanno abbandonato le loro cariche ufficiali nel partito e nel governo.

Secondo una rivelazione pubblicata mercoledì dalla Reuters e basata su fonti cinesi, tuttavia, Xi Jinping avrebbe ottenuto il consenso dei due suoi predecessori - Hu Jintao e Jiang Zemin - prima di ordinare l’apertura di un’indagine formale per corruzione contro Zhou Yongkang. Per la stessa agenzia di stampa, ciò suggerirebbe che l’indagine a un livello così alto “non provocherà spaccature nel Partito Comunista”, anche se è possibile che “l’élite inizi a innervosirsi per l’allargamento della campagna anti-corruzione del presidente”.

Xi, d’altra parte, con l’indagine ai danni di Zhou avrebbe violato una regola non scritta della classe dirigente cinese che prevedeva una sorta di immunità per i membri e gli ex membri del Comitato Permamente del Politburo, cioè la casta intoccabile della Repubblica Popolare.

In un commento alla notizia di martedì, il Quotidiano del Popolo ha comunque prospettato nuove incriminazioni, sostenendo che la lotta alla corruzione “non si fermerà” e che “la caduta di Zhou Yongkang… è solo un passo del processo in corso” inaugurato dal presidente Xi.

di Michele Paris

I toni della campagna di aggressione orchestrata dai governi occidentali nei confronti della Russia con la giustificazione della crisi ucraina sono aumentati sensibilmente questa settimana in seguito ad una serie di eventi appositamente studiati per mettere ancora maggiore pressione su Mosca. Oltre alle nuove sanzioni economiche decise dall’Unione Europea, sono giunte infatti un’aperta accusa da parte americana circa la violazione di un trattato missilistico risalente al periodo della Guerra Fredda e una sentenza di un tribunale internazionale sfavorevole al Cremlino nella vicenda dell’ex gigante petrolifero Yukos.

Martedì sono state quindi finalizzate le più dure sanzioni economiche contro Mosca finora approvate dai paesi europei. Mentre in precedenza erano stati colpiti solo singoli individui con misure relativamente modeste, il pacchetto appena deciso dovrebbe penalizzare interi settori dell’economia russa, in particolare quelli finanziario, militare ed energetico.

La decisione è stata presa nel corso di una videoconferenza tra il presidente americano Obama e i leader dei governi tedesco, francese, britannico e italiano. Una volta superate le resistenze della cancelliera Merkel a un’azione più incisiva contro la Russia, gli altri capi di governo hanno pateticamente acconsentito a una serie di iniziative che finiranno per pesare in maniera più o meno grave sulle economie dei loro stessi paesi.

Ben consapevoli dei danni che le nuove sanzioni potrebbero provocare, i governi UE hanno fissato alcune eccezioni. Tra di esse spicca l’esclusione dalle sanzioni delle importazioni di gas dalla Russia, così come dei contratti in essere per le forniture militari. Quest’ultima eccezione è stata richiesta in particolare dalla Francia, da mesi al centro delle pressioni di Washington e Londra per annullare la vendita a Mosca di due gigantesche navi da guerra Mistral commissionate da tempo.

La vastità delle nuove sanzioni europee, secondo i media, è tale che gli stessi Stati Uniti dovranno a loro volta inasprire le misure già adottate per stare al passo con quelle di Bruxelles.

Il livello di ipocrisia al limite dell’inverosimile dei governi occidentali nell’adottare le misure punitive contro la Russia è apparso evidente dalle parole del primo ministro britannico, David Cameron, il quale, dopo avere ammesso che le sanzioni avranno conseguenze negative anche sulle attività finanziarie della City di Londra, ha affermato che l’accelerazione è dovuta all’abbattimento quasi due settimane fa del volo Malaysia Airlines MH17 sui cieli dell’Ucraina orientale.

Individui come Cameron non hanno nemmeno la decenza di ricordare che le responsabilità di questo atto criminale sono ancora ben lontane dall’essere assegnate e che, anzi, vari indizi emersi in questi giorni indicano piuttosto un possibile coinvolgimento delle forze del regime golpista di Kiev nell’abbattimento del velivolo civile malese che ha fatto 298 vittime.

Dietro istruzione di Washington, d’altra parte, i lacchè europei degli americani continuano a ignorare le informazioni fornite sull’incidente aereo dalla Russia, da dove si continua anche a chiedere inutilmente di consentire un’indagine internazionale imparziale sulla sorte del volo MH17.

I governi occidentali continuano inoltre ad assicurare il pieno appoggo alla repressione messa in atto dall’Ucraina contro i ribelli filo-russi e la popolazione civile nelle provincie orientali del paese, costretta a fare i conti con un’aggressione guidata da forze neo-fasciste che questa settimana si è intensificata in maniera sensibile.

Gli Stati Uniti e i loro alleati possono così vantare il sostegno contemporaneo a due operazioni belliche condotte da governi di estrema destra - come quelli di Ucraina e Israele - le cui vittime sono in larghissima misura civili. Il regime di Kiev continua poi a trasgredire a una recente risoluzione ONU che chiedeva l’accesso senza impedimenti al luogo del disastro aereo da parte degli investigatori internazionali, visto che in quest’area sta conducendo operazioni militari contro i ribelli e la popolazione.

Le nuove sanzioni, in ogni caso, dovrebbero servire per far cessare il presunto sostegno militare della Russia ai ribelli e prevenire un’improbabile invasione dell’Ucraina orientale sul modello dell’operazione in Crimea, anche se l’aggressione occidentale proseguirà indifferentemente dalle mosse del presidente Putin.

A sostegno delle proprie tesi, il Dipartimento di Stato americano domenica scorsa aveva mostrato alcune immagini satellitari di bassa qualità che avrebbero dovuto provare come le forze armate russe avessero colpito bersagli in territorio ucraino. Il Cremlino, da parte sua, ha respinto le accuse, citando piuttosto i numerosi sconfinamenti in territorio russo del fuoco ucraino nelle ultime settimane con conseguenze anche molto gravi, come conferma una vittima registrata nella città di Donetsk, in Russia.

Il cambio di marcia sulle sanzioni è comunque di grande rilievo, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento della Germania. Con il contributo di molti commentatori sui principali media, che da mesi vomitano retorica bellicista e puntano il dito contro le attitudini pacifiste della popolazione, il governo di Berlino ha valutato l’affermazione dei propri interessi strategici in un’area tradizionalmente di influenza russa di importanza superiore anche agli interessi economici immediati del capitale tedesco, fortemente legato al mercato russo.

Allo stesso modo, il rischio di compromettere le ingenti forniture di gas russo non ha alla fine impedito al governo della CDU/CSU e della SPD di allinearsi alle richieste degli Stati Uniti, per i quali la crisi ucraina - creata a tavolino dalle proprie ONG e dalle forze politiche filo-occidentali a Kiev - e ancora più l’abbattimento di un aereo civile rappresentano l’occasione per ostacolare il processo di integrazione economica euro-asiatica in cui la Germana svolge appunto un ruolo fondamentale.

La fissazione di Washington sulla Russia è determinata anche da altri fattori, dall’asilo concesso a Edward Snowden agli impedimenti posti da Mosca ad un intervento militare in Siria, ma soprattutto dalla nascita inevitabile di un blocco economico alternativo fatto di paesi “emergenti” che minaccia seriamente la declinante leadership americana nel pianeta.

In questa prospettiva, è significativo che l’intensificarsi delle pressioni sulla Russia - così come sulla Cina in Estremo Oriente - siano giunte in parallelo ad alcune importanti iniziative su scala globale indipendenti dagli Stati Uniti.

Tra quelle che devono avere occupato i pensieri degli strateghi di Washington impegnati a progettare la rivolta ucraina contro l’ex presidente Yanukovich e l’aggressione contro la Russia ci sono, ad esempio, la firma nel mese di maggio di un colossale accordo per la fornitura di gas tra Mosca e Pechino e il più recente summit dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) in Brasile. Durante quest’ultimo evento, è stata sancita la nascita di due istituzioni finanziarie globali potenzialmente in grado, sia pure nel lungo periodo, di mettere in discussione il dominio di quelle nate a Bretton Woods sotto l’egida americana.

La campagna occidentale contro la Russia è dunque ormai a tutto campo e non sembra più limitata alla sola questione ucraina. A conferma di ciò, all’inizio di questa settimana si sono registrati due veri e propri attacchi contro Mosca, curiosamente avvenuti nel momento di maggiore tensione tra la Russia e l’Occidente negli ultimi due decenni.

Come già anticipato, nel primo caso l’amministrazione Obama ha notificato lunedì al Cremlino quella che viene definita una violazione del Trattato sulle Forze Nucleari a Medio Raggio (I.N.F.) in seguito ad un test russo, avvenuto nel 2008, di un missile Cruise lanciato da terra che rientra in questa categoria.

I sospetti americani risalgono al 2011 e già nella primavera del 2013 il Dipartimento di Stato USA aveva avanzato l’ipotesi di dichiarare la Russia in violazione del trattato siglato da Reagan e Gorbachev nel 1987, dando seguito però alla minaccia solo ora nel pieno dello scontro sull’Ucraina.

Alla denuncia si è accompagnata la consueta retorica guerrafondaia dei vertici militari USA. Il comandante delle forze NATO, generale Philip Breedlove, ha infatti affermato che “la violazione [del trattato I.N.F.], se non risolta, richiederà una qualche risposta”. Tra le ipotesi già avanzate per reagire alla “violazione” russa c’è il dispiegamento di missili Cruise lanciabili da nave e da aereo, permessi dal trattato a differenza di quelli lanciabili da terra.

In maniera poco soprendente, anche in questo caso le accuse americane grondano ipocrisia, visto che lo scorso anno la Russia aveva puntato il dito contro gli Stati Uniti in seguito al progetto di installare in Romania il sistema missilistico Aegis, teoricamente utilizzabile per il lancio di missili Cruise proibiti dal trattato.

Il secondo affondo di questa settimana contro la Russia è giunto infine da una sentenza della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia, in Olanda, sulla vicenda Yukos. Il verdetto del tribunale internazionale apparentemente indipendente ha imposto al governo russo di pagare circa 50 miliardi di dollari agli azionisti della defunta compagnia che fu dell’oligarca decaduto Mikhail Khodorkovsky.

La decisione, tutta politica, rappresenta uno schiaffo al presidente Putin, il quale nel 2003 sarebbe stato dietro all’arresto di Khodorkovsky - del quale temeva forse le ambizioni politiche - con le accuse di evasione fiscale e appropriazione indebita, confiscando la sua azienda petrolifera, successivamente acquistata dalla compagnia pubblica Rosneft a condizioni di favore durante il procedimento di bancarotta.

La dichiarazione da parte della Corte de L’Aia dell’illegalità dello smantellamento di Yukos è stata subito sfruttata dai media occidentali per mettere in imbarazzo un Cremlino già sotto assedio per l’Ucraina e in seguito all’accusa di avere violato il trattato sui missili.

La sentenza che assegna una qualche vittoria all’ex detenuto Khodorkovsky oscura tuttavia il fatto che quest’ultimo e molti altri oligarchi in Russia e nei paesi dell’ex blocco comunista erano entrati in possesso delle aziende pubbliche dell’URSS svendute - come appunto Yukos - con sistemi criminali e grazie a legami mafiosi con i vertici dei governi seguiti alla fine dell’impero sovietico.


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