di Michele Paris

Il diritto teorico alla libertà di stampa e il principio della riservatezza delle fonti giornalistiche sono stati a stento salvati negli Stati Uniti - almeno per il momento - dopo che questa settimana il Dipartimento di Giustizia ha esonerato un noto reporter del New York Times dall’obbligo di rivelare l’identità di un ex funzionario del governo che, alcuni anni fa, gli avrebbe fornito informazioni riservate su un’operazione americana di boicottaggio del programma nucleare iraniano.

Il giornalista in questione è il due volte premio Pulitzer, James Risen, ed era stato “invitato” ad apparire come testimone nel processo a carico dell’ex agente della CIA, Jeffrey Sterling, accusato appunto di essere la fonte di informazioni segrete pubblicate nel libro dello stesso giornalista, uscito nel 2006 col titolo di “State of War”.

L’imposizione fatta a Risen da parte del governo aveva suscitato non poche preoccupazioni nel mondo del giornalismo d’oltreoceano, alla luce soprattutto dei precedenti già stabiliti dall’amministrazione Obama, ad oggi la più severa in assoluto nei confronti dei responsabili di fughe di notizie riservate e di coloro che queste ultime le ricevono e le pubblicano.

Risen era stato il destinatario di un mandato di comparizione (“subpoena”) per testimoniare sulla sua fonte già nel 2008 dall’amministrazione Bush. L’ordine era stato poi confermato nel 2011 dal ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder, mentre un ricorso da parte del giornalista alla Corte Suprema è stato successivamente respinto.

Tra le critiche di giornalisti e organizzazioni a difesa dei diritti civili, Holder ha fatto alla fine una parziale marcia indietro, dichiarando recentemente che il suo Dipartimento avrebbe chiesto all’accusa nel caso Sterling di non costringere Risen a rivelare le proprie fonti.

Risen è stato in ogni caso obbligato ad apparire in tribunale qualche giorno fa dopo che già aveva dovuto subire indagini invasive della propria vita privata. Il mandato di comparizione a suo carico era infatti rimasto in essere, così che in aula i procuratori federali hanno di fatto risparmiato il giornalista dall’interrogatorio in modo da conformarsi all’indicazione di Holder ed evitare un’incriminazione per oltraggio alla corte. Risen, da parte sua, ha confermato ancora una volta l’indisponibilità a rivelare la provenienza delle informazioni contenute nel suo libro.

Le notizie diffuse da Risen e oggetto del processo all’ex agente della CIA Sterling riguardano un’operazione segreta denominata “Merlin”, con la quale la principale agenzia di intelligence americana aveva utilizzato un ex scienziato nucleare sovietico per cercare di trasmettere agli iraniani dei progetti intenzionalmente imprecisi di un componente necessario al loro programma nucleare.

Secondo l’accusa, Sterling era stato l’unico all’interno dell’agenzia a sollevare perplessità sull’operazione e ciò viene raccontato nel libro di Risen. In mano agli investigatori ci sarebbero e-mail e dati di conversazioni telefoniche tra Risen e Sterling ma, secondo la difesa, questa circostanza proverebbe solo che il giornalista stava raccogliendo informazioni sul programma di sabotaggio ovunque fosse possibile.

Il processo contro l’ex agente CIA è comunque iniziato ufficialmente martedì, ma in molti ritengono che senza la testimonianza di Risen le prove a suo carico appaiono piuttosto deboli. L’accusa ha però una lunga lista di testimoni che sfileranno in aula, tra cui Condoleezza Rice, ex segretario di Stato ed ex consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente.

Quest’ultima dovrebbe testimoniare in merito ai tentativi dell’amministrazione Bush di impedire al New York Times di pubblicare nel 2003 un articolo, sempre di James Risen, sulla stessa operazione di sabotaggio ai danni dell’Iran.

In un’occasione, la Rice si incontrò con lo stesso reporter e l’allora capo della redazione di Washington del quotidiano newyorchese, Jill Abramson, sostenendo che la pubblicazione della notizia avrebbe messo in pericolo la sicurezza nazionale USA. In linea con il proprio atteggiamento di subordinazione al potere, il Times accolse la richiesta della Casa Bianca e non pubblicò la notizia, anche se essa sarebbe apparsa nel libro di Risen qualche anno più tardi.

L’accanimento contro questo giornalista, ad ogni modo, aggiunge ulteriore apprensione per lo stato delle libertà democratiche negli Stati Uniti. Se è vero che Risen è stato alla fine esentato dal rivelare le proprie fonti, il mandato di comparizione per testimoniare sotto minaccia di incriminazione non è stato annullato dal Dipartimento di Giustizia e, soprattutto, la vicenda ha fissato un pericoloso precedente che verrà con ogni probabilità utilizzato dal governo nel prossimo futuro contro i giornalisti nei casi di “sicurezza nazionale”.

L’amministrazione Obama ha dovuto tornare sui propri passi e non insistere sulla testimonianza di Risen principalmente a causa delle numerose critiche provocate dalla decisione del Dipartimento di Giustizia e non per una inesistente predisposizione alla difesa dei principi della libertà di stampa. Lo stesso Holder, per limitare le polemiche, era giunto addirittura a riscrivere le regole secondo le quali il governo ha facoltà di costringere i giornalisti a testimoniare, ufficialmente rafforzando le garanzie per questi ultimi.

Inoltre, l’incriminazione di un giornalista negli Stati Uniti per essersi rifiutato di nominare una propria fonte che intendeva rimanere segreta avrebbe causato un enorme imbarazzo per l’amministrazione Obama, visto che sarebbe giunta nel pieno della già di per sé ridicola campagna a difesa della libertà di espressione orchestrata dai governi occidentali dopo la strage di Parigi nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo.

I motivi per rallegrarsi della soluzione del caso Risen o delle norme di “garanzia” per i giornalisti decise da Holder sono dunque ben pochi se si considera lo zelo di questa amministrazione nel perseguire qualsiasi fuga di notizie dall’interno del governo. Il Dipartimento di Giustizia guidato da Holder ha infatti aperto un numero di procedimenti e indagini secondo il dettato del cosiddetto Espionage Act superiore a quelli avviati da tutte le amministrazioni precedenti combinate.

Gli esempi sono estremamente significativi e confermano come il presidente e il suo entourage cerchino in tutti i modi di prevenire, punire e scoraggiare la diffusione di informazioni che rivelino i crimini di cui il governo americano è responsabile. Di ciò, l’attacco ai principi del libero giornalismo appare come un logico corollario, visto che gli innumerevoli abusi del governo sono stati resi noti negli ultimi anni solo grazie a fughe di notizie “non autorizzate”.

La criminalizzazione del giornalismo investigativo negli Stati Uniti si è concretizzata non solo con le vere e proprie minacce contro James Risen, ma anche, nel recente passato, con l’intercettazione arbitraria del traffico telefonico di alcuni giornalisti della Associated Press e con l’accusa formulata contro il giornalista di Fox News, James Rosen, di essere un “co-cospiratore” in relazione ad altre fughe di notizie.

Per quanto riguarda invece le incriminazioni e le condanne di veri o presunti responsabili di avere passato informazioni riservate alla stampa, i casi più celebri sono quelli di Bradley (Chelsea) Manning e Edward Snowden. Il primo è stato condannato nel 2013 a 35 anni di carcere militare per avere sostanzialmente fornito a WikiLeaks le prove dei crimini commessi dall’imperialismo americano in Iraq e in Afghanistan, nonché centinaia di migliaia di documenti diplomatici.

Snowden, com’è noto, vive invece esiliato a Mosca da quasi due anni e rischia il carcere a vita o la pena di morte negli USA per avere svelato i programmi illegali di controllo delle comunicazioni telefoniche ed elettroniche di virtualmente tutta la popolazione del pianeta tuttora messi in atto dalla NSA.

Lo stesso Julian Assange è poi seriamente a rischio di finire negli ingranaggi della vendicativa giustizia americana per le pubblicazioni di WikiLeaks. Assange, pur non essendo accusato formalmente di nessun crimine, è costretto da quasi tre anni a vivere nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per sfuggire a un mandato di estradizione in Svezia nell’ambito di un’assurda indagine per stupro. Dalla Svezia, Assange teme giustamente un suo possibile trasferimento negli Stati Uniti, dove è stato creato da tempo un Grand Jury segreto per procedere con la sua incriminazione.

Già condannati sono infine l’ex agente della CIA, John Kiriakou, e l’ex funzionario della NSA, Thomas Drake, accusati rispettivamente di avere discusso per primo in pubblico i programmi di tortura della stessa CIA durante gli interrogatori di sospettati di terrorismo e di avere confidato alla stampa le proprie preoccupazioni circa la criminalità di uno dei vari programmi di intercettazione condotti dal governo USA.

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