di Mario Lombardo

Le elezioni presidenziali in Afghanistan, tanto celebrate dai governi occidentali, si stanno rapidamente trasformando da strumento per la pacifica transizione del potere a motivo di scontro tra le élite indigene, con il pericolo concreto di un conflitto ancora più grave nel già travagliato paese centro-asiatico sotto occupazione. Le speranze per una soluzione politica dello scontro post-elettorale alimentate dalla recente visita a Kabul del segretario di Stato americano, John Kerry, rischiano di dissolversi in fretta di fronte al riemergere delle divisioni tra i due candidati alla guida del paese che si erano qualificati per il secondo turno di ballottaggio tenuto il 14 giugno scorso.

Kerry era riuscito a convincere l’ex ministro degli Esteri, Abdullah Abdullah, e l’ex ministro delle Finanze, Ashraf Ghani Ahmadzai, ad appoggiare un piano per il riconteggio integrale dei circa 8 milioni di voti espressi al secondo turno delle presidenziali e a creare un governo di unità nazionale una volta proclamato ufficialmente il vincitore.

Nel voto del primo turno ad aprile aveva prevalso Abdullah in maniera piuttosto netta sull’ex membro della Banca Mondiale. In maniera dubbia, quest’ultimo aveva però ribaltato gli equilibri al secondo turno, ottenendo, secondo i dati preliminari della Commissione Elettorale, il 56,4% dei suffragi. Abdullah, già ritiratosi dal ballottaggio con Karzai nel 2009 dopo avere denunciato irregolarità nel voto, era allora andato all’attacco, parlando di “colpo di stato costituzionale” e auto-proclamandosi vincitore.

Sulle improvvise fortune elettorali di Ghani aveva influito, secondo alcuni, l’appoggio ottenuto dal presidente Karzai e, in maniera tacita, dagli Stati Uniti e dall’India, mentre Abdullah appariva più gradito a Iran e Pakistan.

Abdullah aveva poi minacciato di nominare unilateralmente un proprio governo prima di essere persuaso a fare marcia indietro dall’amministrazione Obama. Quello che appariva in buona parte come uno scontro verbale ha avuto invece risvolti inquietanti, come ha messo in luce una rivelazione pubblicata lunedì dal New York Times. In essa viene cioè spiegato come Abdullah e i suoi sostenitori in Afghanistan avessero pianificato un’operazione militare che stava per essere implementata con l’invio di truppe a Kabul per occupare il palazzo presidenziale.

Questo retroscena rende sufficientemente l’idea della precarietà del quadro “democratico” dell’Afghanistan, costantemente sull’orlo del baratro ed elogiato invece dalle forze occupanti dopo un’elezione che sarebbe stata tenuta nel rispetto di standard non distanti da quelli occidentali.

In ogni caso, il piano di Abdullah è stato bloccato dal presidente Obama in persona, il quale l’8 luglio avrebbe telefonato al leader tagiko, convincendolo a rinunciare al colpo di stato e ad attendere l’imminente arrivo a Kabul di John Kerry.

La già anticipata proposta dell’ex senatore americano, oltre al riconteggio di tutte le schede, prevede che il nuovo presidente nomini il suo avversario sconfitto - o un'altra persona indicata da quest’ultimo - alla guida del governo, in attesa che la costituzione afgana venga emendata nei prossimi anni per creare la posizione di primo ministro, attualmente non prevista dal sistema presidenziale deciso dagli Stati Uniti dopo l’invasione del 2001.

Visto che il riconteggio dovrebbe durare alcune settimane, l’accordo sottoscritto da Ghani e Abdullah include anche il temporaneo prolungamento del mandato di Karzai dopo la scadenza naturale del 2 agosto.

Gli entusiasmi per avere evitato il precipitare della crisi sono però durati poco, visto che in questi giorni sono riemerse le divergenze tra Abdullah e Ghani. Nonostante i due siano stati protagonisti martedì di un faccia a faccia di 90 minuti, ufficialmente per discutere dei contorni del governo di unità nazionale che dovrebbe nascere, il giorno precedente il piano mediato da Kerry era sembrato vacillare pericolosamente.

Dopo una disputa sul ruolo da assegnare nel riconteggio alla Commissione Elettorale indigena - responsabile dei brogli secondo Abdullah - e agli organismi internazionali, questa settimana un portavoce di Ghani ha dichiarato alla stampa locale che, se l’ex ministro delle Finanze dovesse essere riconosciuto presidente, la nomina a capo del governo andrebbe al politico scelto da lui stesso per la carica di vice-presidente, Ahmed Zia Massoud.

Questa affermazione contraddice dunque l’interpretazione comune del punto dell’accordo relativo al governo di unità nazionale, secondo la quale il capo del governo dovrebbe essere scelto nel campo dello sconfitto, ed era stata in precedenza respinta esplicitamente dal candidato alla vice-presidenza di Abdullah, Haji Mohammad Mohaqiq.

Per l’entourage di Ghani, in denifitiva, l’intesa raggiunta grazie all’intervento del segretario di Stato USA richiede sì la formazione di un governo di unità nazionale ma “non un governo di coalizione” e a dettarne le condizioni deve essere il vincitore delle elezioni.

Le divisioni così emerse su questo punto fanno aumentare le perplessità circa la proposta americana, soprattutto in relazione alla natura tutt’altro che chiara del prossimo governo. Inoltre, alla luce della realtà politica dell’Afghanistan, appare difficile credere che chiunque sarà dichiarato vincitore e succederà a Karzai decida di accettare la spartizione del potere dopo che gli sarà riconosciuta una qualche investitura popolare degli elettori.

Lo scontro di queste settimane, d’altra parte, affonda le proprie radici in questioni difficilmente risolvibili dalla diplomazia e dal dialogo. In particolare, le rivalità e la feroce lotta per il potere nel paese sono motivate dal desiderio delle fazioni rivali di accaparrarsi il controllo sul flusso di denaro proveniente dai donatori stranieri. Su questi fondi si basa la sopravvivenza stessa del sistema afgano, poiché oltre un decennio di occupazione non ha portato in nessun modo alla creazione di un significativo sviluppo economico autonomo.

Lo scenario che si prospetta sta provocando infine parecchie apprensioni a Washington, dal momento che l’amministrazione Obama aveva puntato tutto sull’elezione senza intoppi del successore di Karzai, così da avere un interlocutore più affidabile del presidente uscente. Nei mesi scorsi, Karzai si era infatti rifiutato ostinatamente di firmare il trattato bilaterale per la permanenza indefinita di un contigente militare americano nel paese dell’Asia centrale.

Tutti i candidati alla presidenza avevano annunciato in campagna elettorale la loro disponibilità a sottoscrivere il trattato una volta eletti, ma l’aggravamento delle tensioni politiche interne, assieme ad una rinvigorita azione della resistenza talebana, rischia ora di complicare i piani americani per l’occupazione prolungata di uno dei paesi strategicamente più importanti dell’area euro-asiatica.

di Michele Paris

Una delle più gravi violazioni del principio costituzionale della separazione dei poteri è stata insabbiata senza tanto clamore qualche giorno fa negli Stati Uniti con la decisione del Dipartimento di Giustizia di Washington di non perseguire i vertici della CIA per avere spiato i membri di una commissione del Congresso. Con poco o nessun interesse dei media più importanti, l’amministrazione Obama ha cioè di fatto condonato il comportanto illegale della principale agenzia di intelligence americana, confermando ancora una volta l’esistenza negli USA di un potentissimo apparato della “sicurezza nazionale” ormai quasi del tutto fuori controllo.

Lo scandalo era esploso pubblicamente lo scorso mese di marzo, quando, in un’uscita con pochi precedenti, la presidente della commissione di controllo sui servizi segreti del Senato, la democratica Dianne Feinstein, aveva apertamente attaccato la CIA.

La senatrice della California, pur essendo una delle più accese sostenitrici dei metodi ultra-invasivi inaugurati dal governo dopo l’11 settembre 2001, aveva accusato l’agenzia di Langley di avere violato il principio della separazione dei poteri, così come di avere contravvenuto al dettato del Quarto Emendamento della Costituzione – che proibisce perquisizioni e confische senza il mandato di un giudice – e dell’ordine esecutivo 12333 – firmato dal presidente Reagan nel 1981 – che, tra l’altro, proibisce alla CIA di condurre attività spionistiche e di sorveglianza in territorio americano.

Lo scontro tra la commissione guidata dalla Feinstein e la CIA era legato all’indagine congressuale sul programma di interrogatori con metodi di tortura che la stessa agenzia ha operato tra il 2002 e il 2009 dietro autorizzazione dell’amministrazione Bush.

Sulle “rendition”, le torture e l’apertura di strutture segrete in vari paesi dove la CIA interrogava i sospettati di terrorismo al di fuori di qualsiasi quadro legale, la commissione del Senato per i servizi segreti aveva stilato un rapporto di oltre seimila pagine, tuttora classificato.

Nell’ambito della propria indagine, la commissione aveva avuto accesso a una parte della documentazione della CIA, presso il cui quartier generale i senatori e i membri dei loro staff si erano recati in svariate occasioni.

Nel corso di una di queste visite a Langley, i senatori erano entrati in possesso di un rapporto segreto della stessa CIA, commissionato dall’ex direttore Leon Panetta, nel quale venivano sostanzialmente accettate le durissime critiche nei confronti dell’agenzia espresse nelle conclusioni preliminari del rapporto della commissione del Senato.

Pubblicamente, i vertici della CIA avevano invece respinto seccamente le accuse del Congresso, sostenendo di avere agito secondo la legge.

Per tutta risposta, la CIA aveva messo sotto controllo i computer dei membri degli staff dei senatori, così da scoprire in che modo questi ultimi avevano potuto accedere a documenti che avrebbero dovuto rimanere segreti.

Lo scontro è esploso poi in tutta la sua gravità quando il direttore della CIA, John Brennan, ha minacciato di chiedere al Dipartimento di Giustizia di incriminare i responsabili della violazione dei sistemi informatici dell’agenzia. La CIA, cioè, riteneva di dovere prendere un’iniziativa con inquietanti implicazioni, dal momento che affermava in sostanza di non essere tenuta a rispondere all’organo legislativo designato precisamente al controllo della propria attività, vale a dire la commissione del Senato per i servizi segreti.

La presa di posizione della CIA si traduceva in definitiva nel rifiuto di qualsiasi vincolo o sorveglianza nei propri confronti, trasformando di fatto l’agenzia di intelligence in un organo del tutto indipendente dal potere legislativo. Visto il curriculum della CIA, pieno di operazioni segrete criminali anche in presenza di una nominale sorveglianza del Congresso, le conseguenze di una simile affermazione di indipendenza sono facili da ipotizzare.

In questo scenario, la decisione del Dipartimento di Giustizia di non procedere contro la CIA per mancanza di prove incriminanti appare sconcertante, soprattutto perché costituisce un chiaro precedente in base al quale i servizi segreti si sentiranno legittimati ad agire ancor più in violazione dei principi costituzionali.

Per cercare di addolcire la pillola, in ogni caso, il governo ha poi escluso qualsiasi indagine anche ai danni dei membri della commissione di vigilanza del Senato, come chiedeva invece il direttore della CIA Brennan. In realtà, questa decisione avrebbe dovuto essere presa mesi fa in maniera scontata, visto che la commissione non ha fatto altro che svolgere il proprio ruolo di controllo.

Incredibilmente, comunque, la gran parte dei senatori americani ha accolto con approvazione la decisione del Dipartimento di Giustizia, inclusa la stessa Feinstein, le cui accuse e richieste di incriminazione di quattro mesi fa sono così rimaste totalmente inascoltate.

Nel nascondere la loro prostrazione di fronte alla CIA, la Feinstein e i sui colleghi hanno indicato proprio la mancata azione legale contro la commissione del Senato come motivo di soddisfazione per la risoluzione dello scontro.

Se anche citata con poco interesse dai media d’oltreoceano, questa vicenda teoricamente conclusasi qualche giorno fa appare di estrema rivelanza, poiché mette in luce in maniera clamorosa la sottomissione degli organi legislativi e giudiziari negli Stati Uniti all’apparato di intelligence e della sicurezza nazionale cresciuto mostruosamente nell’ultimo decennio.

Tanto più che la conclusione della diatriba tra la CIA e il Congresso è giunta nel pieno dello scandalo delle spie americane infiltrate nelle agenzie di intelligence e nel ministero della Difesa della Germania nell’ambito di un’operazione condotta ufficialmente all’insaputa anche dello stesso presidente Obama.

A testimonianza del potere accumulato dalla CIA vi è infine proprio la sorte del rapporto della commissione del Senato per i servizi segreti sulle torture, la cui pubblicazione è sollecitata dai senatori soprattutto democratici. Al momento, i documenti sono in fase di studio presso la Casa Bianca. L’amministrazione Obama sostiene infatti che il rapporto contiene riferimenti a questioni che, se rivelate, potrebbero compromettere la “sicurezza nazionale” così che, per questa ragione, si sta consultando proprio con la CIA per decidere quali parti dello studio sui crimini di questa stessa agenzia dovranno essere tenute nascoste al pubblico americano.

di Michele Paris

Il terzo giorno della nuova offensiva criminale delle forze armate israeliane nella striscia di Gaza si è aperto giovedì con un altro ingiustificabile massacro nel quale hanno perso la vita otto membri di una singola famiglia, di cui cinque bambini, quando la loro abitazione è stata colpita da un bombardamento poco prima dell’alba.

Il bilancio provvisorio e destinato a crescere drammaticamente delle prime fasi dell’operazione denominata con il consueto cinismo “Margine Protettivo” è già di oltre ottanta palestinesi uccisi, quasi tutti civili innocenti, e centinaia di feriti.

Solo poche ore dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, le stragi di cui il governo di Israele si è reso responsabile sono state innumerevoli, tra cui quella avvenuta nella serata di mercoledì nella località meridionale di Khan Younis, dove un gruppo di amici stava assistendo alla semifinale della coppa del mondo di calcio. Sul gruppo di palestinesi riuniti in un caffè è caduto un missile israeliano che ha fatto almeno otto morti.

Oltre a obiettivi simili, Israele considera legittima anche la distruzione delle abitazioni dei leader di Hamas e Jihad Islamica, nonostante i bombardamenti contro di esse continuino a registrare la morte dei loro famigliari innocenti, in gran parte donne e bambini.

Il sangue dei palestinesi a Gaza contrasta fortemente con la pressoché totale assenza di danni a persone o a edifici in Israele a seguito delle centinaia di razzi che Hamas e altre formazioni islamiste stanno lanciando contro il proprio vicino e che sarebbero la ragione della furia distruttiva sionista.

Se da parte palestinese l’arsenale di armi a disposizione sembrerebbe essere aumentato ed è diventato più sofisticato negli ultimi anni, la capacità di infliggere perdite o danni significativi a Israele rimane estremamente modesta, anche perché Tel Aviv, grazie agli Stati Uniti, può contare da qualche tempo sul sistema missilistico difensivo relativamente efficace “Cupola di Ferro”.

Nella giornata di giovedì, il premier israeliano Netanyahu ha affermato che l’ipotesi di una tregua non è nemmeno in agenda. Il capo del governo è esposto alle pressioni dei falchi all’interno del suo gabinetto di estrema destra per intraprendere un’azione punitiva di terra a Gaza contro Hamas. Un’iniziativa di questo genere sarebbe la prima dal 2009, quando l’operazione “Piombo Fuso” fece in tre settimane qualcosa come 1.400 morti tra i palestinesi. In preparazione di un’invasione, i vertici delle forze armate israeliane hanno annunciato di avere già richamato 20 mila riservisti.

Le minacce indirizzate dai membri del governo di Israele contro Hamas lasciano presagire un’azione ancora più dura nella striscia di Gaza, ma un eventuale intensificarsi delle operazioni militari esporrebbe Netanyahu a rischi non trascurabili. Le condanne internazionali - sia pure di circostanza - sono già arrivate numerose nelle scorse ore e un coinvolgimento ancora maggiore delle proprie forze armate, con un numero di vittime destinato a salire vertiginosamente, finirebbe per isolare ancora di più lo stato ebraico che, oltretutto, potrebbe non trovare facili vie d’uscita vista l’assenza di interlocutori con cui trattare.

Ciò è dovuto in gran parte all’atteggiamento del governo egiziano, il quale, a differenza di quanto era quasi sempre accaduto durante le precedenti incursioni israeliane nei territori palestinesi, rimane oggi colpevolmente indifferente ai fatti in corso a Gaza. Il neo-presidente, Abdel Fattah al-Sisi, non appare cioè disposto a mediare un cessate il fuoco, visto che il suo regime vedrebbe con favore l’annientamento di Hamas.

Un portavoce di Sisi, in realtà, ha sostenuto che la diplomazia egiziana è in contatto con le parti in conflitto, ma non con i vertici di Hamas, rendendo qualsiasi tentativo di mediazione del tutto inutile. Come è noto, il regime militare del Cairo nell’ultimo anno ha represso nel sangue l’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è una sorta di versione palestinese.

L’Egitto, inoltre, ha tenuto sigillati i valichi di frontiera con Gaza, impedendo anche i trasferimenti umanitari, fino alla mattinata di giovedì, quando ha deciso di aprire quello di Rafah per consentire l’ingresso nel paese di centinaia di palestinesi feriti nei raid israeliani.

L’assalto israeliano a Gaza, in ogni caso, continua ad avvenire con il sostegno dei principali sponsor occidentali di Tel Aviv, a cominciare dagli Stati Uniti. Da Washington sono giunti appelli meccanici alla moderazione ma anche e soprattutto l’appoggio a una campagna assurdamente definita “difensiva” per interrompere i lanci di razzi da parte palestinese.

L’operazione in corso viene d’altra parte presentata dal governo israeliano come inevitabile per la difesa del paese e le responsabilità assegnate interamente a Hamas. Anzi, le stesse vittime civili sarebbero dovute non alla deliberata criminalità con cui opera Israele, bensì agli stessi gruppi islamisti operanti a Gaza, visto che essi devono pagare le conseguenze della rappresaglia, in realtà diretta però contro la resistenza all’occupazione e all’assedio dei territori palestinesi.

Simili interpretazioni sono assecondate da buona parte della stampa occidentale, nonostante le presunte “provocazioni” di Hamas anche in questo caso non siano altro che la conseguenza delle azioni di Israele. La tensione era infatti tornata a salire da qualche settimana in seguito al rapimento il 12 giugno scorso di tre giovani israeliani da un insediamento illegale in Cisgiordania. Il governo di Netanyahu ne aveva attribuito la responsabilità a Hamas senza presentare peraltro alcuna prova.

La vicenda aveva così permesso a Israele di iniziare in Cisgiordania una campagna militare fatta di arresti, demolizioni di abitazioni e assassini di palestinesi, ufficialmente per individuare i responsabili del rapimento e della conseguente uccisione dei tre ragazzi.

Successivamente, è emerso tuttavia che il governo era venuto a conoscenza quasi subito della morte dei tre teenager israeliani poco dopo il rapimento grazie a una registrazione audio nella quale si sentivano le voci dei giovani, seguite da colpi di arma da fuoco e da alcune frasi dei rapitori.

Ciononostante, Netanyahu ha nascosto questa informazione anche agli stessi familiari dei ragazzi rapiti, utilizzando la speranza di un loro ritrovamento come giustificazione per mettere a ferro e fuoco i territori palestinesi occupati. Uno degli obiettivi principali di Israele era quello di dividere l’Autorità Palestinese e Hamas, reduci dalla recente firma di un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale.

Queste operazioni israeliane hanno dunque provocato la prevedibile reazione di Hamas, Jihad Islamica e altre formazioni, le quali hanno iniziato a lanciare razzi contro Israele, fornendo a Netanyahu il desiderato casus belli per scatenare la nuova offensiva attualmente in corso.

Della nuova guerra a Gaza ha parlato anche il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, descrivendo la situazione “preoccupante”. L’ex diplomatico sudcoreano non si è però discostato dalle dichiarazioni dei governi occidentali che continuano a mettere sullo stesso piano i lanci di razzi di Hamas e la campagna di morte israeliana. Ban ha anzi “condannato fermamente” i lanci di razzi da Gaza, mentre si è limitato a invitare Netanyahu alla “massima moderazione”, deprecando il “numero crescente di vittime civili” nella striscia.

Una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza si è tenuta infine giovedì, con i governi di Israele e degli Stati Uniti che hanno manovrato per evitare un’imbarazzante risoluzione di condanna dell’offensiva su Gaza. Dopo che lo stesso segretario generale ha invitato le due parti in guerra ad adoperarsi per una tregua, al Palazzo di Vetro sono circolate voci su una possibile sterile proposta della Giordania, secondo la quale il Consiglio di Sicurezza potrebbe approvare un appello non vincolante per il cessate il fuoco immediato.

di Mario Lombardo

Lo smascheramento e l’arresto di una spia tedesca, che per qualche anno avrebbe consegnato documenti segreti al governo americano, hanno innescato un nuovo scontro diplomatico tra Washington e Berlino con dure prese di posizione nei confronti degli Stati Uniti da parte di svariati esponenti di spicco del gabinetto di Angela Merkel. I toni accesi del governo della cancelliera, a fronte di una vicenda dall’importanza relativamente trascurabile, sembrano suggerire la presenza di crescenti tensioni tra i due paesi alleati, già emerse nella gestione della crisi ucraina e delle iniziative da intraprendere contro la Russia di Putin.

Come ampiamente riportato dai media nei giorni scorsi, qualche giorno fa l’ufficio del procuratore federale di Karlsruhe, in Germania, aveva rivelato il fermo di un 31enne impiegato del BND (Bundesnachrichtendienst) - il servizio segreto estero tedesco - che avrebbe confessato di avere contattato l’ambasciata americana a Berlino sul finire del 2012 per offrire la propria collaborazione.

L’uomo ricopriva un incarico di basso livello in un ufficio del BND nei pressi di Monaco e avrebbe passato alla CIA circa 200 documenti “confidenziali” e “top secret” ricevendo un compenso di 25 mila euro. A fine maggio, il sospettato aveva però preso contatti anche con il consolato russo nella città della Baviera, proponendo i suoi servizi a Mosca.

Questa mossa è stata intercettata dai servizi segreti interni che hanno messo l’uomo sotto controllo per alcune settimane per poi arrestarlo giovedì scorso. Inizialmente, i sospetti si erano concentrati su una sua possibile collaborazione con la Russia ma è stato poi egli stesso a confessare di avere lavorato soltanto per gli americani.

Ai servizi segreti USA, l’agente tedesco avrebbe fornito, tra l’altro, documenti concernenti l’attività della commissione parlamentare tedesca che sta investigando sulle operazioni di intercettazione condotte dall’intelligence a stelle e strisce sul territorio della Germania e rivelate nei mesi scorsi da Edward Snowden.

All’indomani della diffusione della notizia dell’arresto della spia tedesca al servizio degli Stati Uniti, la classe dirigente tedesca e i principali media hanno iniziare a puntare il dito contro l’amministrazione Obama e a chiedere spiegazioni sull’imbarazzante vicenda. Addirittura, il 4 luglio scorso, giorno dell’indipendenza americana, il governo di Berlino ha convocato al ministero degli Esteri l’ambasciatore USA in Germania, John Emerson, per fare luce sui fatti.

Giornali come il Süddeutsche Zeitung o la Bild, intanto, hanno pubblicato accesi editoriali - firmati anche da commentatori considerati filo-americani - nei quali è stata sottolineata la gravità dell’episodio e si è fatto appello al governo per mettere fine alla tradizionale sottomissione agli Stati Uniti.

Secondo quanto riportato dalla stessa Bild, inoltre, il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, sarebbe intenzionato a dare indicazioni all’intelligence del suo paese per monitorare le comunicazioni di paesi alleati come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. In precedenza, la cancelleria tedesca aveva al contrario raccomandato alle proprie agenzie spionistiche di escludere dalle loro attività di raccolta informazioni i paesi membri della NATO.

Sull’intrigo sono poi intervenuti in rapida successione quasi tutti gli esponenti più importanti dello Stato. Il presidente Joachim Gauck, ad esempio, ha affermato che l’operazione americana ai danni dell’alleato tedesco mette a rischio la stretta alleanza tra i due paesi. Il ministro degli Esteri, il socialdemocratico Franz-Walter Steinmeier, nel corso di una visita in Mongolia ha escluso che la vicenda ammonti a “una cosa da nulla”, chiedendo al governo USA di fornire al più presto chiarimenti.

Lunedì, infine, la stessa Merkel ha fatto riferimento alla storia come a un “fatto molto serio”, accusando gli Stati Uniti di avere compromesso il rapporto di fiducia con la Germania. Significativamente, la cancelliera tedesca ha rilasciato le proprie dichiarazioni dalla Cina, paese con il quale la Germania ha stabilito da tempo solidi rapporti commerciali e che è invece il bersaglio di un’escalation di provocazioni diplomatiche e militari da parte americana.

Da Washington, le reazioni sono state contenute e per lo più improntate a rassicurare che i due paesi stanno lavorando congiuntamente per chiarire la vicenda. Sempre lunedì, però, l’agenzia di stampa Reuters ha citato fonti anonime all’interno della CIA che hanno confermato come l’agenzia di Langely fosse coinvolta nell’operazione che aveva portato al reclutamento del 31enne dipendente dei servizi segreti tedeschi.

A conferma della delicatezza della situazione, la stessa Reuters ha poi scritto che il direttore della CIA, John Brennan, avrebbe chiesto di riferire ai leader del Congresso di Washington in merito alla questione.

Il polverone provocato dal doppio agente tedesco sembra apparentemente ingiustificato alla luce del numero esiguo di documenti che quest’ultimo avrebbe consegnato agli americani e dalla sua mansione tutt’altro che di rilievo nel BND, nonostante alcuni giornali abbiano scritto che l’uomo aveva contatti con il numero uno dell’intelligence esterna, Gerhard Schindler.

Soprattutto, le dure reazioni di politici e media in Germania appaiono decisamente eccessive se accostate a quelle relativamente deboli seguite alle rivelazioni ben più gravi di Edward Snowden. L’ex contractor della NSA aveva diffuso documenti nei quali emergeva come gli Stati Uniti avessero monitorato illegalmente le comunicazioni di decine di milioni di cittadini tedeschi, nonché tenuto sotto controllo il telefono personale della cancelliera Merkel.

In questo caso, di fronte all’ondata di indignazione nel paese, il governo di Berlino era stato costretto a lanciare un’indagine parlamentare ma a Snowden era stato impedito di viaggiare dalla Russia alla Germania per testimoniare di persona sulle attività della NSA. La Merkel aveva poi chiesto inutilmente all’amministrazione Obama di sottoscrivere un patto che impegnava i due paesi a non spiarsi a vicenda ma, sostanzialmente, l’impegno tedesco è stato rivolto a minimizzare l’impatto delle rivelazioni di Snowden.

Proprio queste ultime hanno d’altra parte mostrato le ragioni della prudenza di Berlino e, allo stesso tempo, sollevano ora più di un interrogativo sulle prese di posizione del governo seguite all’arresto della spia tedesca.

Rivelazioni e testimonianze nei mesi scorsi hanno infatti evidenziato la strettissima collaborazione tra la CIA e la NSA da una parte e l’intelligence tedesca dall’altra nella messa in atto di programmi illegali di sorveglianza ai danni dei cittadini in Germania. Questa partnership rende perciò estremamente improbabile che un impiegato qualunque della BND abbia potuto rivelare informazioni segrete di rilievo agli Stati Uniti.

Dietro allo scontro potrebbero esserci dunque altre motivazioni, probabilmente da ricercare nel crescente conflitto che caratterizza i rapporti bilaterali tra USA e Germania in concomitanza con l’intensificarsi della crisi economica globale e il conseguente riassetto degli obiettivi strategici di Berlino.

A questo proposito, è interessante ricordare come i giornali tedeschi da qualche tempo siano impegnati a propagandare la necessità di una più intraprendente politica estera del loro paese, resasi necessaria dal relativo disimpegno a livello internazionale degli Stati Uniti e dall’esplodere di continue crisi in varie parti del pianeta che mettono in pericolo i mercati o le fonti di approvvigionamento energetico della Germania.

Se il nuovo ruolo tedesco sulla scena globale non presuppone in nessun modo l’abbandono dell’alleanza con gli USA, è più che evidente che la difesa di alcuni interessi della Germania provochino scontri o conflitti con Washington. Ciò risulta chiaro non solo nel caso della Cina ma anche e soprattutto della Russia, con la quale Berlino vanta ugualmente rapporti commerciali molto solidi e, per questa ragione, ha finora assunto una posizione più cauta sulla crisi ucraina nonostante le pressioni di Washington per assumere una linea più dura verso il Cremlino.

Le critiche rivolte agli Stati Uniti nei giorni scorsi dalle élite tedesche sembrano in definitiva riflettere il desiderio di certe sezioni della classe dirigente indigena di prendere una qualche distanza dai tradizionali alleati, così da adottare una politica estera più equlibrata e adeguata ai propri interessi economici.

Anche solo l’ipotesi di una simile svolta strategica da parte di un paese così importante come la Germania non può essere comunque accettata pacificamente a Washington, come dimostra appunto l’attività di sorveglianza condotta dalla NSA contro i vertici dello stato tedesco.

Altri segnali, infine, vengono lanciati dal centro dell’impero agli alleati inquieti, come conferma la recentissima notizia dell’azione legale che sarebbe stata avviata negli Stati Uniti nei confronti della seconda banca tedesca, Commerzbank, di proprietà del governo di Berlino per il 17%.

Come già fatto con la francese BNP Paribas, le autorità americane hanno messo sotto accusa Commerzbank e, a breve, potrebbero fare lo stesso con Deutsche Bank con il pretesto che questi colossi finanziari hanno fatto affari con paesi sulla lista nera di Washington, sanzionati con misure punitive unilaterali del governo degli Stati Uniti.

di Michele Paris

A poche settimane dall’elezione alla presidenza dell’Egitto, l’ex generale Abdel Fattah al-Sisi ha annunciato un’iniziativa richiesta da tempo dagli ambienti finanziari internazionali e dal business indigeno. La graduale eliminazione dei sussidi statali per i prodotti energetici ha causato l’immediata impennata dei prezzi dei carburanti, colpendo duramente le fasce più povere della popolazione e provocando manifestazioni di protesta che potrebbero rapidamente allargarsi nel prossimo futuro.

Nonostante fosse nell’aria, la misura è scattata a sorpresa nella notte tra sabato e domenica e rientra nel piano del regime per ridurre il deficit pubblico di 48 miliardi di lire egiziane (4,94 miliardi di euro), in modo da portarlo al 10% del PIL. Il totale dei sussidi che saranno cancellati ammonta a 44 miliardi di lire egiziane, equivalenti a circa 4,5 miliardi di euro.

Da un giorno all’altro, così, gli egiziani hanno visto aumentare il prezzo della benzina per i mezzi di trasporto fino al 78% e il diesel del 64%. I più colpiti sono stati però i proprietari di auto con impianti a gas, poiché in questo caso gli aumenti sono stati addirittura del 175%. Tra i maggiori consumatori di gas per auto figurano i tassisti egiziani che, infatti, hanno dato vita nel fine settimana a proteste improvvisate, disperse con gas lacrimogeni dalla polizia, soprattutto al Cairo ma anche a Suez e Ismailia.

L’effetto dei sussidi va ad aggiungersi poi a un altro recentissimo decreto firmato da Sisi che aumenta le tasse su tabacco e alcolici, nonché più in generale a un’inflazione in costante aumento, soprattutto per i beni alimentari.

Per finanziare i sussidi nel settore energetico e per i beni alimentari, l’Egitto spende ogni anno circa un terzo del bilancio pubblico. Vista la loro entità, i sussidi sono tradizionalmente criticati dagli ambienti di potere nazionali ed esteri perché considerati uno spreco di denaro pubblico e una distorsione intollerabile del mercato.

I principali media, inoltre, continuano a sostenere che i prezzi artificialmente bassi di alcuni beni di prima necessità favoriscono in larga misura i cittadini più benestanti, i quali oltretutto non ne avrebbero nemmeno bisogno. I sussidi statali, in realtà, nonostante riguardino anche le aziende, consentono agli egiziani che appartengono alle classi più disagiate di sopravvivere a fronte di livelli drammatici di povertà e di disoccupazione.

Quella annunciata domenica è comunque solo la prima fase di un progetto che, nel caso dovesse andare in porto, prevede la rimozione di tutti i sussidi del settore energetico in un periodo dai tre ai cinque anni. Secondo quanto affermato in maniera improbabile dal primo ministro egiziano, Ibrahim Mehleb, le risorse così risparmiate consentiranno di liberare risorse che il governo potrebbe spendere nel settore sanitario e in quello dell’educazione.

Implementati per alleviare la povertà e contenere le tensioni sociali, i sussidi statali in Egitto non erano mai stati toccati nei tre decenni dell’era Mubarak, mentre della loro eliminazione si è iniziato a discutere dopo la rivoluzione del 2011.

Il presidente eletto tra le fila dei Fratelli Musulmani, Mohamed Mursi, aveva negoziato un prestito da 4,8 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), a patto che l’Egitto procedesse con un piano di austerity che comprendeva, appunto, la riduzione dei sussidi.

Con l’economia in caduta libera e il malumore crescente tra la popolazione, la questione del taglio dei sussidi non è stata però affrontata in maniera concreta e il prestito del FMI è rimasto congelato. La decisione presa settimana scorsa dal regime non è ufficialmente legata ai negoziati col Fondo, anche se il ministro delle Finanze, Hany Kadri, ha affermato che l’Egitto avrebbe ora diritto ad accedere al prestito perché sta adottando “riforme più dure” di quelle richieste dal FMI.

La decisione di Sisi ricorda invece quella presa nel gennaio 1977 dall’allora presidente egiziano Anwar al-Sadat. In quell’occasione, l’eliminazione dei sussidi per i beni alimentari di prima necessità - su richiesta del FMI e della Banca Mondiale - fece scoppiare la protesta di centinaia di migliaia di egiziani delle classi più povere, ai quali il regime rispose con l’intervento dell’esercito. Dopo giorni di scontri e un’ottantina di morti, fu solo il ripristino dei sussidi a riportare l’ordine nel paese nordafricano.

I timori per una nuova esplosione di rabbia tra la popolazione pervadono anche oggi la classe dirigente egiziana. La recente elezione a presidente con una percentuale schiacciante, nonostante l’astensionismo di massa, deve avere però convinto Sisi di essere sufficientemente forte da far digerire a decine di milioni di persone un drastico aumento del costo della vita.

Meno sicuri sono apparsi al contrario quasi tutti i partiti politici egiziani. Se quelli di ispirazione liberista hanno tiepidamente applaudito l’iniziativa, pur criticando le modalità con cui la soppressione di alcuni sussidi è stata frettolosamente implementata, altre formazioni di sinistra hanno bocciato la decisione del governo.

L’atteggiamento critico di questi ultimi partiti appare tuttavia poco più di una manovra politica, dal momento che essi avevano in gran parte appoggiato il colpo di stato militare guidato da Sisi nel luglio dello scorso anno, contribuendo a promuovere l’immagine “democratica” dell’ex generale nonostante fosse più che evidente la natura contro-rivoluzionaria del colpo di mano ai danni del presidente eletto Mursi.

L’offensiva del nuovo regime contro i lavoratori e i poveri egiziani, d’altra parte, conferma ancora una volta come il golpe portato a termine poco più di un anno fa non abbia rappresentato in nessun modo un’azione volta a difendere le conquiste rivoluzionarie del 2011.

Al contrario, la manovra dei militari - appoggiata dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Occidente - si era resa necessaria per bloccare sul nascere una nuova mobilitazione popolare e riportare una qualche stabilità nel paese, così da procedere con le richieste del capitalismo domestico e internazionale. In questa prospettiva, la soppressione dei sussidi statali è solo la prima delle “riforme” che il nuovo governo ha in serbo per la popolazione egiziana.


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