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di Michele Paris
Uno dei leader repubblicani del Congresso americano è finito al centro di un’accesa polemica nei giorni scorsi per avere tenuto un discorso di fronte a una conferenza di un gruppo suprematista bianco nel 2002. Il politico in questione è il deputato della Louisiana Steve Scalise, attualmente il terzo membro più potente della Camera dei Rappresentanti dopo lo “speaker”, John Boehner, e il leader di maggioranza, Kevin McCarthy.
Scalise ricopre la carica di “whip” di maggioranza dall’agosto scorso in seguito al rimpasto all’interno della leadership repubblicana provocato dalla sconfitta nelle primarie e dalle successive dimissioni dell’ex numero due della Camera, Eric Cantor. La figura del “whip” al Congresso USA ha l’incarico di tenere le fila della delegazione del partito e assicurare la disciplina dei propri membri durante le votazioni in aula.
La notizia che ha rivelato i legami imbarazzanti di Scalise è stata diffusa dal blog dedicato alla politica nello stato della Louisiana CenLamar ed è subito rimbalzata sui media nazionali sollevando un polverone.
Nel 2002, Scalise era dunque stato tra gli ospiti che erano intervenuti in un incontro organizzato dall’Organizzazione Euro-Americana per l’Unità e i Diritti (EURO), fondata dall’attivista di estrema destra ed ex leader del Ku Klux Klan, David Duke.
Quest’ultimo è un veterano del movimento nazionalista bianco, razzista e anti-semita americano, ma è stato anche un deputato repubblicano nell’assemblea legislativa statale della Louisiana e ha corso più volte senza successo per il Congresso di Washington. Duke sostiene apertamente teorie cospirazioniste e a suo dire gli americani bianchi sarebbero esposti alla minaccia di “genocidio”. I membri dell’organizzazione ai quali aveva parlato nel 2002 il deputato repubblicano Scalise sono a loro volta sostenitori della Germania nazista e si oppongono alla desegregazione razziale negli Stati Uniti.Nel corso del suo intervento in un hotel alla periferia di New Orleans, l’allora deputato repubblicano all’assemblea statale parlò, tra l’altro, della carenza di fondi pubblici per le comunità bianche svantaggiate, dovuta a una presunta eccessiva generosità nei confronti di “gruppi selezionati in base alla razza”, cioè degli afro-americani. Questo tema è uno dei preferiti tra quelli promossi dall’organizzazione, la quale afferma di battersi per i “diritti civili” della razza bianca.
Un riassunto dell’evento apparso sul web dopo la conferenza dava poi ampio spazio all’intervento di Scalise, mentre quelli dello stesso Duke - collegatosi dall’Europa - e del suo braccio destro, Vincent Breeding, non erano nemmeno citati.
Ciò rivela l’importanza del discorso di Scalise nell’ambito della conferenza, smentendo le dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dallo stesso deputato repubblicano per cercare di minimizzare l’episodio. Scalise e il suo staff stanno cercando infatti di dipingere la vicenda come un errore di valutazione commesso da un politico inesperto che non condividerebbe in nessun modo le posizioni dell’organizzazione suprematista.
Se i membri dell’entourage del numero tre dei repubblicani alla Camera hanno assicurato che il loro superiore non avrebbe partecipato all’evento nel 2002 se avesse conosciuto le opinioni politiche del gruppo, David Duke in un’intervista all’Huffington Post, dopo avere definito Scalise come “un uomo per bene”, ha giudicato “strane” le sue affermazioni circa la presunta ignoranza sul messaggio che l’organizzazione intendeva promuovere.
Scalise, inoltre, aveva uno stretto rapporto di amicizia con il responsabile delle varie campagne elettorali di Duke, Kenny Knight, il quale era stato appunto l’organizzatore dell’evento del 2002. Il gruppo EURO avrebbe poco più tardi espresso anche il proprio sostanziale appoggio all’elezione di Scalise a deputato statale, in caso di bocciatura dello stesso Duke.
Dopo un iniziale silenzio, nella giornata di martedì i leader repubblicani hanno in ogni caso rilasciato dichiarazioni di solidarietà nei confronti del loro collega con simpatie neo-naziste. I due diretti superiori di Scalise, in particolare, hanno appoggiato la versione dell’errore di giudizio e lo speaker Boehner ha elogiato sia l’ammissione di responsabilità sia l’integrità morale del compagno di partito nei guai.
L’intervento dei due leader della Camera è ovviamente dettato da motivi di convenienza politica a pochi giorni dall’insediamento del nuovo Congresso a totale maggioranza repubblicana, tanto più che lo scandalo che ha coinvolto Scalise è giunto a breve distanza dall’esplosione di un’altra grana all’interno del partito, vale a dire l’ammissione da parte del deputato di New York, Michael Grimm, di avere evaso le tasse.L’apparente assenza di imbarazzo tra i vertici repubblicani nella difesa delle frequentazioni di Steve Scalise è però forse anche la conseguenza dei legami - ben documentati - tra membri autorevoli del “Grand Old Party” e organizzazioni di estrema destra se non apertamente razziste e neo-naziste.
Nel 1999, ad esempio, Bob Barr, allora deputato della Georgia nonché uno dei principali protagonisti dell’impeachment di Bill Clinton, parlò a una convention del Consiglio dei Cittadini Conservatori (CCC), cioè un gruppo suprematista bianco vicino al Ku Klux Klan.
Al CCC era legato infine anche l’ex capo di maggioranza al Senato Trent Lott, dimessosi dalla sua carica nel 2002 in seguito alla polemica esplosa dopo che aveva espresso ammirazione per l’ex senatore della South Carolina, Strom Thurmond, oppositore delle leggi sui diritti civili negli anni Sessanta e già candidato alla presidenza nel 1948 sotto le insegne del Partito Democratico (segregazionista) per il Diritto degli Stati.
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di Carlo Musilli
La Grecia torna al voto e la vittoria della sinistra è più che probabile. Fino a non molto tempo fa una notizia simile avrebbe scatenato reazioni inconsulte, ma ormai politica e finanza sembrano essersi stancate di agitare lo spauracchio dell'apocalisse.
D'altra parte, quello che è successo lunedì era nell'aria. Il Parlamento greco ha mancato per la terza volta consecutiva il quorum necessario a eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, autocondannandosi allo scioglimento (come prevede la Costituzione ellenica) e costringendo il premier conservatore Antonis Samaras ad annunciare che i greci saranno chiamati alle urne il prossimo 25 gennaio, tre anni prima del previsto.
Stando ai sondaggi, dalle elezioni uscirà vincente Syriza, partito di sinistra alternativa accreditato fra il 26 e il 30%, con un margine di vantaggio sugli avversari compreso fra i tre e i sei punti percentuali. Numeri da capogiro, se si pensa che un paio d'anni fa la formazione guidata da Alexis Tsipras non andava oltre il 4%.
Per capire le ragioni del successo di Syriza in Grecia, così come quelle della sua impopolarità a Bruxelles, basta dare un'occhiata al suo programma, approvato lo scorso 15 settembre a Salonicco. A livello internazionale, il partito di Tsipras intende aprire una "trattativa" con l'Ue per "cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico" greco, che per la quota rimanente dovrebbe essere finanziato con la crescita e non con ulteriore austerità. Sul fronte interno, invece, sono previste misure per alleviare la crisi sociale e umanitaria in cui versa il Paese: dall'elettricità gratis a 300mila famiglie povere a 30mila appartamenti per i senzatetto, dall'assistenza medica e farmaceutica gratuita per i disoccupati non assicurati al ripristino del salario minimo di 715 euro, passando per un taglio delle tasse e a una serie d'investimenti pubblici.
In sostanza, Tsipras vuole ridiscutere i termini degli accordi firmati da conservatori e socialisti per ottenere gli aiuti internazionali, così da invertire la rotta mortifera del rigore. Il progetto è ambizioso e non facile da realizzare, anche perché, con ogni probabilità, a Syriza mancherà un pugno di seggi per governare da sola. Ma almeno su un punto sono tutti d'accordo: la Grecia rimarrà nell'euro, l'integrità dell'area valutaria non è (più) in discussione.
Questa rassicurazione è stata pronunciata più volte dallo stesso Tsipras, che ha indiscutibilmente alleggerito i toni rispetto a un anno fa, contribuendo ad allentare la tagliola della speculazione internazionale. La parte del leone, sotto questo profilo, l'ha fatta però la Banca centrale europea.E' stata infatti l'attesa del quantitative easing (il programma di acquisti generalizzati di titoli privati e pubblici da parte della Bce) a evitare che gli hedge fund e gli altri avvoltoi del mercato alzassero in quest'ultima parte dell'anno un nuovo polverone.
E' vero, dopo il voto di lunedì la Borsa di Atene è crollata del 10% e i rendimenti sui titoli greci sono saliti, ma è stata solo una fiammata. In poche ore l'andamento negativo di azioni e obbligazioni si è vistosamente ridimensionato, dimostrando che si era trattato solo di un colpo di reni speculativo.
L'indizio decisivo in questa direzione è arrivato poi dagli altri Paesi dell'Eurozona, dove non solo non ci sono stati crolli, ma si sono registrati perfino nuovi record sui rendimenti dei bond pubblici. A cominciare dall'Italia, che ieri ha messo a segno un'asta da sogno, con tassi scesi sotto il 2% sui titoli decennali e sotto l'1% sui BTp a 5 anni e sui CcTeu. Il collocamento ha replicato l'intonazione positiva del mercato secondario (quello su cui si scambiano i titoli già in circolazione), che ieri è stato oggetto di una forte ondata di acquisti, portando a nuovi minimi il Bund tedesco (sotto lo 0,55%), l'OaT decennale francese (allo 0,84%) e il Bono decennale spagnolo (all'1,60%).
Insomma, a quanto pare nessuno ritiene davvero che la probabile vittoria di Syriza si tradurrà in una catastrofe europea. Forse non ci hanno mai creduto, ma ormai non conta. Il punto è che gli investitori non sono più fanatici della tragedia greca. Hanno messo via Eschilo, ora leggono L'isola del tesoro di Stevenson. Allargano le braccia, in attesa che Mario Draghi giri la chiave del forziere.
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di Mario Lombardo
L’insolita e preoccupante marcia indietro fatta pubblicamente questa settimana dal sindaco di New York, Bill de Blasio, in relazione ai rapporti con la polizia della sua città, ha messo in luce ancora una volta il peso dell’apparato della sicurezza negli Stati Uniti e i tentativi da parte della classe dirigente di reprimere qualsiasi genere di protesta popolare nei confronti dell’establishment.
L’ammorbidimento dei toni da parte del primo cittadino di origine italiana verso le forze di polizia della città è giunto dopo lo scontro seguito all’assassinio nel pomeriggio di sabato di due agenti in servizio per mano di un uomo di colore affetto da chiari disturbi mentali.
A New York e nel resto del paese, la polizia aveva subito sfruttato l’episodio per collegare il doppio assassinio alle proteste che nelle scorse settimane erano esplose in molte città contro vari omicidi di cittadini disarmati ad opera di agenti, tutti puntualmente sottratti a possibili incriminazioni.
Nel fine settimana, la polizia di New York aveva attaccato duramente il sindaco de Blasio, accusato addirittura di avere “del sangue sulle proprie mani” dal momento che si era permesso di esprimere una tiepida solidarietà verso coloro che manifestavano contro la violenza e l’impunità della polizia stessa.
Il presidente del principale sindacato di polizia della città, Patrolmen’s Benevolent Association (PBA), aveva rilasciato una dichiarazione nella quale sosteneva ad esempio che “il sangue… inizia sulle scale del municipio [di New York]” e, più precisamente, “nell’ufficio del sindaco”.
A suo dire, la morte dei due agenti sarebbe la conseguenza diretta delle azioni di “coloro che hanno incitato alla violenza attraverso manifestazioni di potesta”, così da “distruggere il lavoro che i poliziotti svolgono quotidianamente”.
Con un gesto plateale, inoltre, sabato scorso decine di agenti avevano inscenato una clamorosa protesta, voltando contemporaneamente le spalle al sindaco durante una conferenza stampa di quest’ultimo presso l’ospedale dove i due agenti erano stati portati dopo la sparatoria.
L’escalation dello scontro deve avere scosso l’amministrazione de Blasio e il sindaco ha alla fine deciso di indire una conferenza stampa nella giornata di lunedì con a fianco, significativamente, il capo della polizia di New York, William Bratton.
Il sindaco democratico ha eccezionalmente chiesto uno stop alle manifestazioni di protesta contro la violenza della polizia almeno fino a dopo i funerali dei due agenti uccisi nel quartire di Bedford-Stuyvesant, a Brooklyn. I servizi funebri sono previsti per venerdì e sabato.“Credo sia ora di mettere da parte i dibattiti politici, le proteste e tutte le altre questioni di cui discuteremo in un momento più opportuno”, ha affermato de Blasio prima di cercare di screditare il crescente movimento che contesta i metodi della polizia americana. Il sindaco ha poi invitato gli abitanti di New York a segnalare qualsiasi possibile minaccia agli agenti di polizia e a condividere il dolore dei famigliari per la morte dei due agenti.
De Blasio non ha mancato anche di ricordare il suo sostegno al Dipartimento di Polizia di New York (NYPD), mostrato principalmente con lo stanziamento a favore di quest’ultimo di centinaia di milioni di dollari negli ultimi mesi.
In un’intervista rilasciata sempre lunedì alla NBC, il capo della polizia Bratton aveva evidenziato il suo ruolo di mediatore tra il Dipartimento e il sindaco, escludendo che i commenti di de Blasio delle scorse settimane avessero potuto contribuire a far aumentare le presunte minacce per gli agenti in servizio.
Tuttavia, pur ricordando i problemi mentali dell’assassino, Bratton ha collegato la sparatoria a Brooklyn direttamente alle recenti proteste contro la polizia. I legami deriverebbero dal fatto che il responsabile del doppio omicidio aveva citato sui social media i casi di Michael Brown e Eric Garner - uccisi la scorsa estate rispettivamente da agenti di polizia a Ferguson, nel Missouri, e a New York - prima di recarsi da Baltimora, dove aveva sparato all’ex fidanzata, a Brooklyn per uccidere i due agenti.
Nonostante i riferimenti alle vicende di Brown e Garner, il ritratto che è emerso dell’uomo - Ismaaiyl Brinsley - ha evidenziato come le ragioni delle sue azioni siano da ricercare nell’estremo disagio mentale in cui versava piuttosto che in possibili suggestioni dovute alle proteste più che legittime contro la polizia esplose nel paese. Ciò sarebbe confermato anche dal fatto che Brinsley si è suicidato prima della cattura della polizia.
Le autorità politiche e i vertici della polizia hanno comunque utilizzato il doppio assassinio per dipingere un improbabile scenario nel quale gli agenti sarebbero esposti a una sorta di assedio da parte di frange violente tra la popolazione.
In questo modo, appaiono legittimate possibili reazioni indiscriminate da parte della polizia, come dimostra un’inquietante dichiarazione rilasciata qualche giorno fa da un esponente del sindacato, secondo il quale “per la prima volta da anni siamo diventati un Dipartimento di Polizia di guerra e agiremo perciò di conseguenza”.In realtà, è la violenza della polizia negli Stati Uniti a essere diventata ormai una piaga dilagante. Nella sola New York e soltanto nell’ultimo periodo le forze dell’ordine si sono distinte, oltre che per lo strangolamento di Eric Garner a Staten Island, per l’uccisione “accidentale” di un uomo di colore per mano di un agente mentre scendeva le scale nel palazzo del proprio appartamento di Brooklyn.
Oltre alla violenza ingiustificata, gli agenti di polizia negli Stati Uniti godono poi di una pressoché totale impunità, anche di fronte all’evidenza delle loro responsabilità.
Dopo lo scagionamento completo dei responsabili della morte di Michael Brown e di Eric Garner, proprio in questi giorni un agente di Milwaukee è sfuggito all’incriminazione per l’uccisione nel mese di aprile di un 31enne afro-americano, anch’egli con problemi mentali e colpevole soltanto di avere dormito in un parco pubblico nella città del Wisconsin.
L’agente, licenziato dal Dipartimento di Polizia non per l’omicidio ma per avere perquisito senza ragione la sua vittima, aveva scaricato ben 14 colpi di arma da fuoco contro quest’ultimo dopo essere stato minacciato col manganello di ordinanza che gli era stato sottratto.
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di Michele Paris
Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Tunisia ha assegnato come previsto il successo definitivo all’ex esponente del deposto regime di Ben Ali, Béji Caïd Essebsi, contribuendo al consolidamento del potere da parte del suo partito, Nidaa Tounes, grazie principalmente al fallimento politico delle forze che avevano cavalcato la rivoluzione popolare del 2011.
Subito dopo la chisura dei seggi nella giornata di domenica, il team dell’88enne Essebsi aveva dichiarato vittoria basandosi sui dati diffusi da almeno tre exit poll che gli assegnavano un vantaggio incolmabile sul suo rivale, il presidente ad interim Moncef Marzouki, inizialmente non disposto a riconoscere la sconfitta.
I risultati definitivi hanno alla fine sostanzialmente confermato i numeri provvisori, con Essebsi che si è aggiudicato il 55,7% dei consensi espressi e Marzouki il 44,3%. Al primo turno nel mese di novembre, il primo aveva ottenuto il 39,5% dei voti contro il 33,4% di Marzouki.
L’epilogo del voto per la carica di presidente è stato salutato dai media internazionali come il coronamento del processo di transizione democratica seguito alla fine del regime e che aveva avuto le sue tappe più significative nella stesura di una nuova costituzione e nelle elezioni legislative dell’ottobre scorso.
Il modello tunisino, in particolare, è stato promosso come valida alternativa al percorso accidentato sulla strada della “democrazia” di altri paesi nordafricani e mediorientali attraversati dalle rivolte contro i precedenti regimi, a cominciare dai vicini Egitto e Libia, sfociate rispettivamente in una nuova dittatura militare e nella totale devastazione del tessuto sociale a causa dell’intervento “umanitario” delle forze armate della NATO.
L’evoluzione del quadro politico tunisino, però, ha appunto finito col riportare al potere i membri del regime di Ben Ali e, a ben vedere, è stata anch’essa estremamente travagliata, sia pure senza la violenza estrema registrata altrove. Soprattutto, la Tunisia convidide con gli altri paesi interessati dalla “Primavera Araba” la mancata soddisfazione delle legittime aspirazioni della popolazione scesa nelle piazze.
Il voto per la creazione di un’Assemblea Costituente nell’ottobre 2011 aveva visto prevalere il partito islamista moderato Ennahda, anche se la mancanza di una maggioranza assoluta aveva costretto quest’ultimo a entrare in una coalizione con altre due formazioni: il partito social-democratico Ettakatol e quello secolare dello stesso Marzouki (Congresso per la Repubblica o CPR).
Il governo guidato da Ennahda, con la supervisione di Marzouki come presidente ad interim, ha messo in atto politiche economiche liberiste che hanno finito addirittura per peggiorare la situazione della maggior parte dei tunisini, mentre allo stesso tempo le forze islamiste nel paese hanno acquistato progressivamene maggiore fiducia.
Il gabinetto di transizione è poi precipitato in una crisi irreversibile nel 2013 in seguito agli assassini ad opera di militanti islamici di Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, due politici appartenenti ad altrettanti partiti facenti parte della coalizione di sinistra Fronte Popolare.
La rabbia per queste morti si è così saldata con quella dovuta al persistente stato di disagio di giovani, lavoratori e disoccupati, spingendo la classe dirigente ad avviare una sorta di “dialogo nazionale” per cercare di calmare gli animi nel paese. Ciò si è tradotto in un accordo politico tra le forze al potere e, principalmente, il partito Nidaa Tounes di Essebsi, con il risultato che il governo islamista ha rassegnato le proprie dimissioni all’inizio del 2014 per lasciare spazio a un esecutivo di “tecnici”.
Nidaa Tounes e il neo-presidente hanno così sfruttato la disillusione dei tunisini dopo quasi quattro anni di promesse rivoluzionarie mancate, conquistando, oltre alla presidenza in questi giorni, il 38% dei consensi e 86 seggi sui 217 che formano il parlamento unicamerale di Tunisi nelle elezioni di ottobre.
Il partito di Essebsi è stato fondato soltanto nel giugno del 2012 e vede tra i propri esponenti di spicco ex membri del partito di Ben Ali messo fuori legge (Raggruppamento Costituzionale Democratico o RCD), ma anche politici secolari di “sinistra” e sostenitori dell’ex dittatore Habib Bourguiba. Nidaa Tounes è inoltre appoggiato sia dal principale sindacato tunisino (UGTT) sia dall’associazione degli imprenditori (UTICA) e individua nell’anti-islamismo il proprio principale collante.
Il programma economico del partito include misure che dovrebbero teoricamente stimolare la crescita come privatizzazioni, taglio dei sussidi statali e dei servizi sociali, ma anche un rafforzamento dei poteri dello stato per il mantenimento dell’ordine pubblico, soprattutto in vista di possibili nuove manifestazioni di protesta nel paese.
Lo scarso entusiasmo mostrato dai tunisini nel secondo turno delle elezioni presidenziali è apparso comunque evidente anche dal livello di astensione, attestatosi secondo l’Alta Autorità Indipendente per le Elezioni attorno al 41%. Significativamente, l’affluenza più bassa (43,6%) è stata registrata nel distretto elettorale di Sidi Bouzid, nel centro del paese, da dove nel 2011 partirono le proteste che avrebbero dato vita alla rivoluzione.Le impressioni di molti elettori raccolte dai media occidentali hanno fatto trasparire più di una preoccupazione per i precedenti di Essebsi, anche se a prevalere è sembrata essere la sfiducia nei confronti di Marzouki, identificato con i più che deludenti governi post-rivoluzionari e, almeno in parte, con gli islamisti di cui il suo partito era alleato.
Il presidente eletto, da parte sua, ha ricoperto molte cariche importanti in mezzo secolo di carriera politica. Ad esempio, Essebsi è stato ministro dell’Interno, della Difesa e degli Esteri durante il regime repressivo di Bourguiba, mentre sotto Ben Ali è stato tra l’altro presidente della Camera dei Deputati. Il suo curriculum non gli aveva però impedito di essere nominato primo ministro ad interim a fine febbraio 2011 dopo la cacciata di Ben Ali.
Essebsi, così come Nidaa Tounes, ha in ogni caso raccolto molti consensi tra la borghesia urbana tunisina, preoccupata per l’assenza di un potere centrale forte in grado di tenere a bada il malcontento tra le classi più disagiate e di implementare misure economiche che diano un qualche impulso al business privato.
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di Michele Paris
Lo scontro in atto tra il governo degli Stati Uniti e quello della Corea del Nord si è intensificato nel fine settimana con l’intervento diretto del presidente Obama in seguito al presunto attacco informatico ai danni di Sony Pictures da parte di hacker riconducibili - secondo Washington - al regime stalinista di Pyongyang. Nell’ultima conferenza stampa dell’anno alla Casa Bianca, il presidente democratico ha affermato che gli USA si riserveranno il diritto di “rispondere in maniera proporzionata” alla Corea del Nord, scegliendo “un momento e un luogo” favorevoli.
Sabato, poi, i nordcoreani hanno replicato minacciando “serie conseguenze” in caso di ritorsioni da parte americana, mentre si sono allo stesso tempo offerti di partecipare a un’improbabile indagine proprio con le autorità di Washington per identificare i veri colpevoli dell’intrusione nei sistemi informatici del colosso della distribuzione cinematografica di Hollywood facente parte dell’omonima multinazionale giapponese.
Com’è noto, un attacco informatico contro Sony Pictures aveva fatto apparire in rete una serie di e-mail confidenziali della stessa compagnia assieme ad alcuni film non ancora usciti nelle sale.
Inoltre, Sony Pictures aveva deciso di cancellare la prima del film “The Interview”, co-diretto da Seth Rogen e interpretato dallo stesso attore comico canadese e da James Franco, prevista per il giorno di Natale a causa di minacce di possibili attentati nelle sale cinematografiche che lo avrebbero proiettato. La pellicola parla di due giornalisti americani che vengono assoldati dalla CIA per assassinare il giovane leader nordcoreano, Kim Jong-un.
Come spesso accade in casi simili, anche in questa occasione le accuse del governo americano verso Pyongyang sono state prese per buone dalla maggioranza della stampa d’oltreoceano. In realtà, prove concrete che gli hacker responsabili dell’attacco a Sony Pictures siano legati al regime nordcoreano non sono state presentate.
L’opinione pubblica americana e internazionale dovrebbe in definitiva fidarsi del governo USA e dell’FBI, il quale ha assicurato di possedere informazioni sufficienti a collegare l’atto di hackeraggio al regime della Corea del Nord.Secondo la polizia federale americana, infatti, sarebbe stato riscontrato un “malware” con un codice utilizzato in precedenti attacchi informatici provenienti dal paese asiatico, come ad esempio su banche e network sudcoreani nel 2013. Vari esperti citati dai media americani hanno tuttavia espresso dubbi sulla possibilità che il regime di Kim Jong-un possa essere effettivamente dietro l’attacco.
Obama, in ogni caso, non ha escluso esplicitamente la possibilità di una ritorsione di tipo militare contro la Corea del Nord e ha poi sostenuto che “un qualsiasi dittatore” non può avere il potere di “imporre la censura negli Stati Uniti”, per poi lasciarsi andare alla consueta tirata sul presunto paradiso delle libertà civili che sarebbe l’America.
Il clamore creato nei giorni scorsi dalla Casa Bianca e dai media statunitensi attorno al caso Sony induce a una serie di considerazioni. In primo luogo, l’attacco informatico, le cui responsabilità sono tutt’altro che chiare, è stato subito sfruttato dall’amministrazione Obama per aprire un nuovo capitolo della campagna contro la Corea del Nord.
Se questo paese impoverito rappresenta una scarsa minaccia per gli USA e la Corea del Sud, nonostante possegga rudimentali armi con testate nucleari, il vero obiettivo di ogni invettiva nei suoi confronti è in realtà il suo principale alleato, la Cina, contro cui Washington sta costruendo da tempo un’aggressiva strategia di contenimento. Non a caso, le critiche verso Pechino da parte americana riguardano frequentemente proprio presunte violazioni dei sistemi informatici di aziende private o uffici del governo negli Stati Uniti.
Inoltre, le lezioni di democrazia come quella impartita da Obama nel fine settimana sono semplicemente ridicole. Non solo un presidente che si è auto-assegnato il diritto di assassinare qualsiasi sospettato di “terrorismo” in ogni angolo del pianeta presiede a un sistema di controllo della popolazione che farebbe impallidire qualsiasi regime dittatoriale, ma il suo stesso governo è il primo responsabile di attacchi informatici contro paesi “ostili”.
L’Iran, ad esempio, è stato il bersaglio di varie operazioni di hackeraggio, condotte dagli Stati Uniti in collaborazione con Israele, con l’obiettivo di sabotare il suo programma nucleare civile. Agenzie governative e aziende pubbliche cinesi sono poi spesso al centro delle trame degli esperti informatici americani, come avevano dimostrato documenti dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) rivelati nel recente passato da Edward Snowden.
Infine e soprattutto, l’intera vicenda esplosa attorno al film “The Interview” appare come una provocazione orchestrata proprio dal governo americano. Secondo quanto scritto qualche giorno fa dalla testata on-line The Daily Beast, lo scambio di alcune e-mail tra i vertici di Sony Pictures mostrerebbe come i due registi fossero inizialmente intenzionati a realizzare un film che aveva al centro della storia un leader anonimo di un paese non individuato.
A spingere per identificare Kim Jong-un con la vittima della CIA nella pellicola e per includere una scena con il suo raccapricciante assassinio sarebbe stato l’amministratore delegato di Sony Pictures, Michael Lynton.
Quest’ultimo, guarda caso, fa parte del consiglio di amministrazione della Rand Corporation, un think tank che vanta stretti legami con la CIA. Inoltre, l’analista della Rand specializzato sulla Corea del Nord, Bruce Bennett, avrebbe fornito la propria consulenza alla produzione del film.In un’e-mail, anzi, Bennett comunicava a Lynton che la rappresentazione dell’assassinio di Kim avrebbe potuto contribuire addirittura alla caduta del regime di Pyongyang. “Ritengo”, scrive l’analista della Rand, “che una storia imperniata sulla rimozione del regime famigliare di Kim e sulla creazione di un nuovo governo da parte del popolo della Corea del Nord (o almeno da parte delle élites) produrrebbe qualche seria riflessione in Corea del Sud e, credo, anche in quella del Nord”, se qui dovesse essere introdotto clandestinamente il DVD del film.
Lo stesso Dipartimento di Stato americano avrebbe avuto infine una parte nella realizzazione del film sul leader nordorcoreano, con un l’assistente segretario, Daniel Russel, e il diplomatico Robert King, inviato speciale per la Nordcorea e le questioni legate ai “diritti umani” in questo paese, che hanno collaborato in maniera attiva.
La scelta di raccontare l’assassinio di un leader in carica di un qualsiasi paese appare d’altra parte estremamente insolita, per non dire unica, da parte di un casa di produzione, anche se in toni da commedia.
Per giudicare il livello di buona fede del governo USA in questa vicenda basti immaginare come avrebbe reagito la Casa Bianca a parti invertite, cioè alla distribuzione di un film nordcoreano, ma anche russo o iraniano, su un piano per l’uccisione del presidente americano.