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di Michele Paris
Con il voto definitivo del Senato nel fine settimana, il Congresso di Washington ha scongiurato ogni rischio di una nuova paralisi degli uffici federali negli Stati Uniti in seguito all’approvazione del bilancio da oltre mille miliardi di dollari per il prossimo anno. Alla vigilia del cambio di maggioranza in entrambi i rami dell’assemblea legislativa USA, l’accordo tra i due partiti per il finanziamento dell’attività di governo è stato però raggiunto a fatica e, soprattutto, ha incluso misure fortemente controverse decise dietro le spalle della popolazione.
Il documento di 1.600 pagine ha passato sabato l’ostacolo del senato con 56 voti a favore e 40 contrari. L’ala cosiddetta “progressista” del Partito Democratico ha contestato l’intesa bipartisan sul bilancio principalmente per l’aggiunta di una disposizione che indebolisce la già fragile riforma dell’industria finanziaria (“Dodd-Frank Act”) approvata nel 2010.
Secondo quanto riportato da alcuni giornali americani, questa misura inserita nel bilancio sarebbe stata di fatto dettata dalle grandi banche, impegnate in una frenetica attività di “lobbying”. Lo stesso numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon, avrebbe ad esempio telefonato personalmente ad alcuni membri del Congresso per convincerli ad approvare l’emendamento alla riforma “Dodd-Frank”.
Dopo il voto dei giorni scorsi, così, gli istituti americani torneranno ad avere la possibilità di utilizzare i depositi dei loro clienti - assicurati dal governo e, quindi, dai contribuenti - per speculare in rischiose transazioni finanziarie come i derivati.
L’altra misura inserita di soppiatto quasi senza nessun dibattito riguarda invece il finanziamento diretto dei partiti, i quali a partire dalla prossima campagna elettorale potranno ricevere contributi per un massimo di oltre tre milioni di dollari da una singola coppia di donatori, cioè tre volte di più rispetto ai limiti imposti dall’attuale legge “McCain-Feingold” del 2002.
Queste due iniziative avevano messo in dubbio l’approvazione del bilancio anche alla Camera dei Rappresentanti, costringendo la stessa Casa Bianca a intervenire. Nella giornata di giovedì, infatti, il voto alla Camera era stato rinviato di parecchie ore, così da permettere allo staff del presidente Obama di reclutare un numero sufficiente di deputati democratici disponibili a votare a favore del pacchetto.
Ciò si era reso necessario anche in seguito alla defezione di un ampio numero di deputati della maggioranza repubblicana, in particolare quelli più conservatori e vicini ai Tea Party che volevano una misura che bloccasse esplicitamente il recente ordine esecutivo firmato da Obama per limitare in maniera relativa le deportazioni di immigrati illegali in territorio americano. La stessa leader di minoranza alla Camera, Nancy Pelosi, aveva pubblicamente criticato la Casa Bianca pur lasciando liberi i suoi deputati di votare secondo coscienza per il bilancio, assicurando così di fatto il passaggio dell’intero provvedimento.Alla fine, 57 democratici si sono uniti a 162 repubblicani per garantire l’approvazione di un pacchetto di stanziamenti che consente in primo luogo di finanziare le attività belliche degli Stati Uniti all’estero, così come l’apparato di controllo e repressione sul suolo domestico. Dei 1.100 miliardi di dollari stanziati, ben 521 miliardi andranno direttamente alle operazioni militari, mentre 492 miliardi saranno per scopi teoricamente “non militari”.
In realtà, in quest’ultima cifra è incluso il finanziamento di operazioni legate alla “sicurezza nazionale”, come ad esempio quelle dell’unità del Dipartimento dell’Energia che si occupa dell’arsenale nucleare americano, ma anche dell’FBI, della DEA, del programma per la militarizzazione dei reparti di polizia locale e del Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS).
In particolare, riguardo quest’ultimo ministero è stata prevista un’eccezione nel bilancio che copre le spese del governo fino al 15 settembre 2015. Il DHS, che è incaricato di implementare il già ricordato ordine esecutivo di Obama sull’immigrazione, avrà infatti fondi solo fino al prossimo 27 febbraio.
I repubblicani hanno voluto punire in questo modo la Casa Bianca per l’iniziativa sull’immigrazione presa unilateralmente dopo le elezioni di metà mandato. A fine febbraio si prospetta perciò una nuova battaglia in questo ambito, anche se il Dipartimento della Sicurezza Interna ricava buona parte dei propri fondi non dagli stanziamenti del Congresso ma direttamente dalle tasse sulle domande degli immigrati che intendono regolarizzare la propria posizione.
In ogni caso, il presunto scontro attorno al bilancio di queste settimane è stato risolto in maniera diversa rispetto a quello dello scorso anno, quando la mancanza di un accordo causò il cosiddetto “shutdown” degli uffici governativi per 16 giorni nel mese di ottobre.
In questa occasione, le frange considerate “estreme” dei due partiti - almeno per gli standard della politica USA - che hanno criticato l’intesa sul bilancio hanno avuto la peggio, cedendo alle forze che non volevano il ripetersi dell’esperienza del 2013 per non danneggiare il sistema America, in particolare all’interno degli ambienti economico-finanziari.Anche per questa ragione, uno dei possibili candidati alla Casa Bianca per i repubblicani nel 2016, Ted Cruz, ha subito un’altra pesante sconfitta politica nel tardo pomeriggio di sabato. Il senatore del Texas di estrema destra aveva cercato e ottenuto un voto sulla costituzionalità del decreto di Obama sull’immigrazione ma è stato battuto sonoramente anche grazie ai suoi compagni di partito.
Non solo: il prolungamento della sessione del Senato provocata dalla richiesta di Cruz - e del senatore Mike Lee dello Utah - ha consentito al leader uscente di maggioranza, il democratico Harry Reid, di sfruttare un espediente procedurale per forzare un voto, con esito positivo, sulla conferma di oltre 20 candidati a varie cariche di governo nominati da Obama e bloccati da tempo dall’ostruzionismo repubblicano.
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di Michele Paris
Il coinvolgimento degli Stati Uniti nella nuova guerra in Medio Oriente, lanciata ufficialmente per combattere lo Stato Islamico (ISIS), sta fornendo l’occasione all’amministrazione Obama per cercare di ottenere dal Congresso un ulteriore drammatico ampliamento dei poteri del presidente per condurre operazioni militari virtualmente senza alcuna restrizione.
Questo è il senso dell’apparizione questa settimana del segretario di Stato, John Kerry, di fronte alla commissione Esteri del Senato nell’ambito del dibattito in corso sull’eventuale approvazione di una misura aggiornata che autorizzi “l’uso della forza militare” contro il nuovo presunto nemico di Washington.
La stessa commissione ha approvato l’autorizzazione nella giornata di giovedì, con i 10 membri democratici che hanno votato a favore e tutti gli 8 senatori che l’hanno invece respinta perché non darebbe sufficiente spazio di manovra al presidente. La misura, che potrebbe anche non essere considerata dall’aula e che comunque potrà essere rivista nel 2015 dopo che anche la maggioranza al Senato passerà ai repubblicani, autorizza l’amministrazione Obama a “usare la forza militare” nei confronti dell’ISIS per tre anni ma vieta il ricorso a truppe di terra in Iraq e in Siria.
Più ancora del voto di giovedì, è apparsa però significativa l’audizione di Kerry davanti ai suoi ex colleghi, durante la quale è emerso il vero obiettivo della Casa Bianca: ottenere poteri di guerra quasi illimitati per il presidente. Se nel corso della discussione i repubblicani hanno addirittura criticato l’amministrazione Obama per non avere richiesto poteri ancora più ampi, i senatori democratici, a cominciare dal presidente uscente della commissione Robert Menendez, hanno invece mostrato di preferire un approccio più limitato alla crisi in Iraq e in Siria, pur guardandosi bene dal condannare la guerra in atto.
Dapprima, Kerry ha provato a mentenere il dibattito all’interno dei confini ufficiali, confermando cioè la volontà della Casa Bianca di ottenere un’autorizzazione limitata alla guerra contro l’ISIS. Subito dopo, però, l’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti ha delineato la necessità di una risoluzione di portata decisamente maggiore.
“Non crediamo che un’autorizzazione all’uso della forza militare debba fissare limiti geografici”, ha sostenuto Kerry. Assicurando in maniera quanto meno sospetta che non sono previste “operazioni in paesi diversi da Iraq e Siria”, il segretario di Stato ha aggiunto che, alla luce della minaccia rappresentata dall’ISIS per “gli interessi e il personale americano in altri paesi, non vogliamo che l’autorizzazione restringa le nostre capacità di utilizzare la forza in maniera appropriata in questi altri paesi, se ciò sarà necessario”.
Kerry ha concluso questa parte del suo discorso con una considerazione soncertante, invitando a non commettere “l’errore di comunicare all’ISIS che esistono rifugi sicuri fuori dai confini di Iraq e Siria”. Com’è evidente, una simile interpretazione comporta la possibilità per il presidente degli Stati Uniti di avere l’autorità preventiva di scatenare una guerra unilaterale di fatto in qualsiasi parte del mondo.
Il delirio bellico di Kerry e dell’amministrazione di cui fa parte è stato rilevato da qualche senatore, a cominciare dalla stella del movimento libertario Rand Paul, ma il segretario di Stato ha rassicurato che “nessuno sta parlando di sganciare bombe ovunque”, invitando i suoi interlocutori a considerare per buona “la presunzione della salute [mentale] del presidente degli Stati Uniti”.
A prescindere dalla predisposizione mentale dell’inquilino della Casa Bianca, la richiesta di Kerry ha delle implicazioni a dir poco preoccupanti. Nell’immediato, un paese come il Libano, ma potenzialmente anche altri al confine con Iraq e Siria (Giordania, Arabia Saudita, Iran), che hanno già visto o potrebbero vedere sconfinare i guerriglieri dell’ISIS sul loro territorio, rischierebbero di diventare il bersaglio di una campagna militare degli USA.
Più in generale, le necessità odierne dell’imperialismo americano potrebbero essere superate da quelle di domani, così che qualsiasi paese percepito come una minaccia nel prossimo futuro sarebbe esposto al rischio di invasione/bombardamento da parte degli Stati Uniti in maniera ancora più agevole di quanto è accaduto finora, in seguito cioè alla sola decisione del presidente.La necessità di dimostrare la presenza in altri paesi di uomini dell’ISIS non sarebbe d’altra parte un ostacolo. Infatti, già l’attuale guerra aerea in Iraq e in Siria viene condotta sulla base di un simile espediente, vale a dire sull’autorizzazione all’uso della forza contro al-Qaeda, approvata dal Congresso di Washington dopo l’11 settembre 2001, nonostante l’organizzazione fondata da Osama bin-Laden abbia ufficialmente condannato l’ISIS.
Inoltre, essendo quest’ultima formazione jihadista una creatura degli stessi Stati Uniti e dei loro alleati in Medio Oriente, l’apparizione pilotata di suoi affiliati in paesi maturi per il cambio di regime o per una guerra di “liberazione” guidata dall’Occidente sarebbe un’operazione tutt’altro che complicata, come ha appunto dimostrato il caso della Siria.
La stessa posizione Kerry l’ha mostrata anche sulla questione delle truppe americane da dispiegare sul campo. Quando il senatore Menendez ha proposto di inserire nell’autorizzazione all’uso della forza il divieto esplicito di inviare truppe da combattimento USA in Iraq o in Siria per combattere l’ISIS, se non per “proteggere o soccorrere soldati o cittadini americani, per svolgere operazioni di intelligence” e altre operazioni di “pianificazione” o “assistenza”, Kerry ha ribattuto prontamente.
Il segretario di Stato ha cioè confermato che l’amministrazione Obama non prevede il ricorso a truppe da combattimento nella guerra all’ISIS, ma questo “non significa che il comandante in capo - o i nostri comandanti [militari] sul campo - debba avere le mani legate preventivamente”, poiché potrebbe trovarsi a fronteggiare “scenari ed eventualità impossibili da prevedere”.
Completando l’istanza della Casa Bianca per un’autorizzazione di guerra senza vincoli, Kerry ha infine respinto qualsiasi limite temporale. Anche se in realtà si è detto d’accordo con Menendez per fissare un termine di tre anni all’uso della forza contro l’ISIS, esso dovrebbe essere soggetto a estensioni, tramite un dibattito che risulterebbe essere una pura formalità.
La stessa risolutezza dell’amministrazione Obama nel non presentare al Congresso un piano di guerra dettagliato riguardo l’ISIS, come richiesto da svariati senatori, è infine un ulteriore segnale del desiderio di operare in piena libertà e a seconda dell’evoluzione delle trame orchestrate per la persecuzione degli interessi strategici USA in Medio Oriente.
L’assenza di qualsiasi limite da imporre al presidente nella conduzione delle operazioni belliche è in larga misura condivisa dai senatori repubblicani. Il cambio di maggioranza al Senato, che diventerà effettivo a gennaio, prospetta quindi una nuova escalation del conflitto in Iraq e soprattutto in Siria.Evidenti sono state d’altra parte le manovre della Casa Bianca per giungere a un voto su una nuova autorizzazione all’uso della forza solo in un Congresso con una maggioranza favorevole, cioè dopo le elezioni di metà mandato che da tempo indicavano i repubblicani in vantaggio.
È opportuno ricordare, in ogni caso, che l’assenza di un’autorizzazione aggiornata per combattere l’ISIS non rappresenta una particolare limitazione per Obama, visto che i bombardamenti su Iraq e Siria sono già in corso da mesi, essendo teoricamente convalidati dal voto del Congresso del 2001.
La richiesta di una nuova autorizzazione all’uso della forza serve piuttosto a dare un’apparenza di legittimità al conflitto in atto di fronte a una popolazione americana stanca di guerre senza fine e, ancor più, ad assegnare poteri senza precedenti al presidente americano.
Nell’immediato, l’eventuale nuova autorizzazione che potrebbe essere consegnata all’amministrazione Obama consentirà di dirottare l’impegno bellico USA contro il regime di Bashar al-Assad, la cui rimozione continua a non essere presa in considerazione a livello ufficiale dal governo americano pur essendo il reale obiettivo della guerra in atto.
Indicativo in questo senso è il desiderio di coprire con l’autorizzazione non solo l’ISIS ma anche cosiddette “forze associate”, tra le quali potrebbero essere presto incluse proprio quelle di Damasco, visto che i “ribelli” siriani filo-occidentali e gli alleati di Washington in Medio Oriente sostengono frequentemente che tra Assad e l’ISIS esista una sorta di tacita alleanza per annientare la stessa opposizione “moderata” al regime alauita.
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di Michele Paris
La pubblicazione del riassunto di oltre 500 pagine del rapporto sugli interrogatori “avanzati” della CIA nell’ambito della “guerra al terrore” degli Stati Uniti ha scatenato un acceso dibattito virtualmente in ogni angolo del pianeta sulle responsabilità di Washington nella sistematica violazione dei diritti umani.
La sospirata diffusione del concentrato delle conclusioni raggiunte dalla commissione per i Servizi Segreti del Senato americano ha rivelato il ricorso da parte degli agenti della CIA, con l’approvazione dei loro superiori e, con ogni probabilità, dei vertici dell’amministrazione Bush, a metodi di interrogatorio ancora più estremi e violenti di quelli noti finora.
Il rapporto è in effetti un lungo elenco di abusi, menzogne e depistaggi di cui si è macchiata un’agenzia che ha rappresentato e continua a rappresentare lo strumento principale per l’attuazione delle politiche imperialiste degli Stati Uniti, dietro l’apparenza della difesa della sicurezza nazionale.
I media di tutto il mondo in questi due giorni hanno raccontato estensivamente di come, ad esempio, la pratica dell’annegamento simulato (“waterboarding”) sia stata utilizzata fino al limite estremo della resistenza dei detenuti oppure di come la CIA abbia somministrato a questi ultimi altri metodi barbari come la cosiddetta “alimentazione” o “reidratazione rettale”.
Minacce di morte agli stessi prigionieri e ai loro familiari erano poi la norma, mentre la varietà delle torture aveva raggiunto livelli raccapriccianti, includendo finti seppellimenti, percosse pure e semplici, “roulette russa”, bagni con acqua gelata, privazione del sonno e abbandono dei detenuti in condizioni estreme, come accadde a Gul Rahman, morto per ipotermia nel novembre del 2002 nella famigerata prigione di Kabul ribattezzata “Salt pit” (“miniera di sale”).
Gli esempi della devastazione inflitta a centinaia di presunti terroristi da parte degli agenti della CIA appaiono quasi senza fine, rendendo più che comprensibili i casi documentati di tentativi di suicidio e di auto-mutilazione. Il tutto sotto la supervisione di medici professionisti, come Grayson Swigert e Hammond Dunbar (pseudonimi di James Mitchell e Bruce Jessen), impegnati a garantire dietro lauti compensi che i prigionieri fossero mantenuti in uno stato di prostrazione tale da permettere ai carnefici di avere il totale controllo sulla loro volontà.
Il riassunto del rapporto del Senato conferma inoltre l’assoluta inutilità delle informazioni estratte con le torture ai fini della “guerra al terrorismo”. La stessa pretesa da parte della CIA di avere ottenuto le informazioni decisive per la localizzazione di Osama bin-Laden in Pakistan grazie all’interrogatorio “avanzato” del corriere del fondatore di al-Qaeda, Abu Ahmed al-Kuwaiti, sono smentite clamorosamente, visto che quest’ultimo aveva già rivelato in precedenza e in maniera spontanea quanto era a sua conoscenza.
Secondo una pratica all’insegna della disinformazione da tempo consolidata, l’agenzia di Langley aveva poi stabilito contatti molto stretti con vari giornali americani, in modo da garantirsi una copertura favorevole e dare l’impressione all’opinione pubblica che le torture erano servite a sventare possibili attentati terroristici.
La CIA aveva costruito una collaborazione particolarmente fruttuosa con il New York Times, il cui reporter Douglas Jehl - ora al Washington Post - almeno in un’occasione aveva “informato l’agenzia della sua intenzione di sottolineare l’efficacia delle tecniche di interrogatorio”, nonché di dimostrare che esse erano state regolarmente approvate e autorizzate dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Giustizia.Forse ancor più di questi e altri aspetti descritti nel rapporto prodotto sostanzialmente dalla maggioranza democratica della commissione del Senato di fronte all’opposizione repubblicana, ciò che colpisce è il tentativo di dipingere il programma di torture della CIA come un incidente di percorso o un’anomalia nel quadro di una “guerra al terrore” diversamente del tutto legittima e giustificata, quando essa appare piuttosto come un gigantesco complotto per giustificare uno stato di guerra permanente e lo smantellamento dei diritti democratici sul suolo domestico.
Significative in questo senso sono state le parole del presidente Obama subito dopo la pubblicazione del rapporto. L’inquilino della Casa Bianca ha sì formalmente condannato le pratiche messe in atto dalla CIA ma ha allo stesso tempo elogiato i suoi agenti, giungendo a definirli “patrioti” a cui gli Stati Uniti devono la loro “gratitudine” per avere cercato di proteggere il paese.
Le dichiarazioni di Obama rivelano anche l’estrema ambiguità della sua amministrazione nei confronti della CIA, essendosi trovata costretta a mantenere pubblicamente una posizione relativamente critica, vista la portata degli abusi, ma schierandosi in realtà a difesa della stessa agenzia. Se al momento del suo insediamento nel 2009 il presidente democratico aveva vietato il ricorso agli interrogatori “avanzati”, gli anni successivi sono stati segnati dalla completa protezione garantita ai responsabili dei crimini commessi dopo l’11 settembre.
La Casa Bianca, così, aveva deciso di non procedere con nessuna incriminazione, nemmeno di coloro all’interno della CIA che avevano autorizzato la distruzione dei filmati delle sessioni di “waterboarding” sui detenuti, mentre Obama avrebbe poi scelto uno degli uomini coinvolti nel programma di torture - John Brennan - dapprima come consigliere per l’antiterrorismo e poi addirittura come direttore della stessa agenzia di Langley.
Non solo, proprio assieme a Brennan, la Casa Bianca si è battuta in tutti i modi per ritardare, se non evitare del tutto, la pubblicazione dello stesso rapporto diffuso martedì, giungendo in pratica a difendere la CIA anche dalle accuse di avere penetrato i terminali dei membri della commissione per i Servizi Segreti del Senato che stavano indagando sugli interrogatori con metodi di tortura.
Solo pochi giorni fa, infine, il segretario di Stato, John Kerry, aveva insolitamente chiesto alla presidente della commissione, la senatrice democratica Dianne Feinstein, di ritardare la pubblicazione del rapporto, con la scusa che esso avrebbe messo a rischio le operazioni militari degli USA all’estero. Dopo la sconfitta democratica nelle elezioni di metà mandato a novembre, d’altra parte, in molti avevano ipotizzato che la Casa Bianca stesse cercando di ritardare la diffusione del rapporto fino a gennaio, quando l’installazione del nuovo Congresso a maggioranza repubblicana ne avrebbe determinato il definitivo insabbiamento.
L’atteggiamento dell’amministrazione Obama è peraltro giustificato dal fatto che essa stessa è colpevole di crimini e abusi legati alla “guerra al terrore”. La difesa dei responsabili all’interno dell’amministrazione Bush è motivata infatti anche dal timore che eventuali incriminazioni o processi possano rappresentare un modello per il futuro, visto che, ad esempio, lo stesso Obama ha sostituito detenzioni arbitrarie, “rendition” e torture con l’assassinio sommario di presunti terroristi, cittadini americani compresi, sul territorio di paesi sovrani.
Una sostanziale garanzia di impunità permea dunque l’intero processo che ha portato alla realizzazione del rapporto sulle torture e alla pubblicazione di un compendio dettagliato. La serietà dei fatti descritti stride con l’assenza di iniziative o raccomandazioni per l’incriminazione dei responsabili, i cui nomi sono universalmente noti.L’autorizzazione delle torture, così come le menzogne pronunciate pubblicamente e di fronte al Congresso dagli ex direttori della CIA - George Tenet, Porter Goss, Michael Hayden - non hanno poi impedito loro di condurre in questi giorni una campagna per screditare il rapporto sulle torture e per difendere l’operato dell’agenzia. Alla stessa campagna sostenuta dai repubblicani al Congresso hanno partecipato anche i potenziali criminali di guerra George W. Bush e l’ex vice-presidente, Dick Cheney.
Se il rapporto sostiene che la CIA aveva tenuto all’oscuro l’amministrazione Bush circa la reale portata delle pratiche di interrogatorio e la loro efficacia, lo stesso ex presidente repubblicano e il suo vice hanno invece smentito questa versione, sostenendo qualche giorno fa, in una clamorosa ammissione di colpa, che tutto quello che è accaduto nelle prigioni clandestine dopo l’11 settembre era ben noto e autorizzato dai vertici del governo.
Il rapporto su alcuni dei crimini della CIA che ha visto la luce martedì, assieme allo scontro esploso a Washington attorno alla sua pubblicazione e i tentativi di contenerne gli effetti, testimoniano in definitiva di una profonda inquietudine all’interno della classe dirigente d’oltreoceano.
La descrizione dettagliata di violenze e abusi condotti da un organo dello stato, autorizzati ai massimi livelli dell’intelligence e del governo, contribuisce infatti a distruggere sempre più la residua credibilità agli occhi del mondo di un paese che continua ad attribuirsi il diritto di difendere ovunque i valori della democrazia pur macchiandosi, nella totale impunità, delle più gravi violazioni dei diritti umani.
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di Mario Lombardo
L’arresto e l’espulsione dal Partito Comunista Cinese (PCC) dell’ex membro del Comitato Centrale Permanente, Zhou Yongkang, hanno segnato nel fine settimana la fase più acuta dello scontro in atto all’interno della classe dirigente di Pechino a partire dall’installazione della leadership guidata dal presidente Xi Jinping un paio di anni fa. La definitiva caduta e il prossimo processo (più o meno) pubblico di un uomo che fino al 2012 aveva il controllo di fatto dell’intero apparato della sicurezza in Cina - con competenza sulle forze di polizia, i tribunali e i servizi segreti civili - sono stati accompagnati da vari resoconti e commenti degli organi di stampa ufficiali.
L’agenzia statale Xinhua, ad esempio, ha elencato i reati contestati al 72enne Zhou, accusato di avere “approfittato della sua posizione per trarre profitto per sé, la sua famiglia e altri”, ma anche di avere “abusato del suo potere per aiutare parenti, amanti e amici a realizzare enormi profitti… provocando gravi perdite di ‘asset’ pubblici”. Zhou, infine, avrebbe fatto trapelare informazioni segrete, recando danni al partito e al paese.
A parte forse quest’ultima, le altre accuse rivolte a Zhou potrebbero però essere attribuite a molti, se non tutti, i dirigenti “comunisti” cinesi, arricchitisi a spese di centinaia di milioni di persone negli ultimi decenni segnati dal processo di integrazione del paese nei circuiti del capitalismo internazionale.
La famiglia dello stesso presidente Xi, come hanno messo in evidenza alcune recenti indagini giornalistiche occidentali, in parallelo con la sua ascesa ha avuto la possibilità in questi anni di ampliare i propri interessi negli affari, tanto che oggi vale complessivamente svariate centinaia di milioni di dollari. Questa realtà contribuisce perciò a indicare che la purga inflitta a Zhou, così come a molti altri all’interno del partito in questi due anni, si basa su motivazioni di natura esclusivamente politica.
Le voci circa possibili guai giudiziari per Zhou erano iniziate a circolare pochi mesi dopo la sua uscita di scena ufficiale dal Comitato Centrale del Politburo del PCC, di fatto il più alto organo decisionale della Repubblica Popolare Cinese, al termine del 18esimo congresso del partito nel novembre 2012.
Già sul finire del 2013, poi, secondo la Reuters l’ex dirigente “comunista” era finito agli arresti domiciliari, ma un’indagine formale nei suoi confronti sarebbe stata annunciata solo nel luglio successivo, dopo che la nuova dirigenza cinese aveva fatto terra bruciata attorno a Zhou con il pretesto di una battaglia senza precedenti contro la corruzione diffusa negli organi del partito.
La crociata promossa da Xi Jinping, secondo una stima del Financial Times, avrebbe già portato all’arresto o a misure punitive ai danni di più di 250 mila membri del PCC, tra cui una cinquantina di personalità con cariche ministeriali se non ancora più elevate. Praticamente tutte le vittime risultano essere nemici politici di Xi e della sua corrente, mentre finora risultano intoccabili i cosiddetti “princelings”, ovvero l’élite formata dai figli di membri di spicco del partito nei passati decenni, di cui fa parte lo stesso presidente.
La vastità dell’epurazione lascia dunque intendere la gravità dello scontro in corso nel partito e, di conseguenza, le dimensioni della posta in palio. La campagna anti-corruzione del presidente è infatti strettamente legata al suo progetto di “riforma” del sistema economico cinese, basato in sostanza sull’implementazione di misure di libero mercato per cercare di far fronte agli affanni registrati in questi anni in concomitanza con la crisi del capitalismo globale.
L’apparenza dell’impegno profuso nella lotta all’illegalità serve in primo luogo a dare un segnale al business estero della serietà della nuova leadership nel garantire la sicurezza degli invetsimenti in Cina e il rispetto degli standard internazionali. Inoltre e soprattutto, come già anticipato, processi e condanne per crimini fin troppo facilmente rilevabili come corruzione o abuso di potere servono a Xi per consolidare il potere e fare piazza pulita dei rivali interni al partito.
La colpa principale di Zhou Yongkang sembra essere stata quella di aver voluto installare nel Comitato Permanente un proprio uomo - com’è pratica comune tra i massimi dirigenti cinesi che lasciano formalmente ogni incarico pubblico per raggiunti limidi di età - in modo da mantenere una certa influenza sul processo decisionale.L’uomo in questione era l’ex segretario del partito di Chongqing, Bo Xilai, espulso dal PCC alla vigilia del 18esimo Congresso, che avrebbe suggellato il passaggio del potere a Xi Jingping, e in seguito incriminato, processato e debitamente condannato. Successivamente, la stessa sorte sarebbe toccata a molti fedelissimi di Zhou, fino appunto alla purga somministrata a quest’ultimo, diventato il dirigente con l’incarico più importante a essere incriminato e, nel prossimo futuro, processato nei 65 anni di storia della Cina “comunista”.
Se Zhou, Bo e la fazione che a loro faceva capo non avevano sostanziali obiezioni alla piena restaurazione capitalistica in Cina, la loro opposizione all’agenda di Xi e della nuova leadership di Pechino riguardava soprattutto le questioni legate allo smantellamento o, quanto meno, al ridimensionamento delle grandi aziende pubbliche che operano in un virtuale regime di monopolio in competizione con le corporation internazionali. Sul fronte della politica estera, poi, questa fazione sosteneva un atteggiamento più intransigente nei confronti della crescente aggresività degli Stati Uniti in Asia orientale per contenere la crescita cinese.
Simili posizioni rappresentavano un chiaro ostacolo ai piani di apertura del mercato cinese al capitale internazionale del presidente Xi e del primo ministro, Li Keqiang, i quali vedono chiaramente la creazione di condizioni favorevoli agli investitori stranieri nel loro paese anche come un modo per cercare di neutralizzare le tensioni con Washington.
Lo stretto legame tra le vicende giudiziare che coinvolgono le “tigri” del Partito Comunista e le “riforme” strutturali perseguite dall’amministrazione Xi è stato confermato dal tempismo degli organi di stampa ufficiali cinesi, i quali nei giorni seguiti all’arresto di Zhou hanno sottolineato la necessità di una nuova politica economica per il paese.
Il Quotidiano del Popolo ha scritto martedì ad esempio che i programmi di “stimolo” all’economia devono essere usati con estrema cautela, mentre la priorità del governo deve essere appunto la “riforma strutturale” del sistema, anche a costo di una crescita più lenta. L’editoriale è apparso lo stesso giorno dell’apertura di un’importante conferenza a Pechino, cui partecipano i massimi dirigenti del partito per discutere le “priorità” economiche e finanziarie del prossimo anno.
I media occidentali, da parte loro, non hanno potuto che ammettere il vero obiettivo della guerra alla corruzione del presidente Xi, con il Wall Street Journal che l’ha definita come “il preludio necessario alla ristrutturazione economica” cinese. I leader di questo paese, d’altra parte, “sono ben consapevoli di come Pechino abbia la necessità di abbandonare il suo vecchio modello di crescita”, basato su ingenti investimenti pubblici e “sempre più dispendioso”, e di “reinventare un nuovo percorso di prosperità basato sui consumi [interni]”.Al centro della “ristrutturazione” definita necessaria, oltre alle riforme fiscali e alla deregulation finanziaria - settori in cui il Journal sostiene si siano già fatti importanti progressi - dovrà esserci ora il problema delle “aziende di stato gonfiate a dismisura”.
In altre parole, come ha scritto questa settimana Francesco Sisci sulla testata on-line Asia Times, l’obiettivo di Pechino sarebbe quello di evitare che la Cina cada nella “trappola sovietica dell’era Brezhnev, negli anni Settanta, quando potenti industrie [pubbliche] si suddividevano lo Stato, corrompendolo e trasformando il paese in un guscio vuoto” al servizio di pochi oligarchi.
Ben lontano dall’essere una battaglia per la giustizia o una premesessa per il miglioramento delle condizioni di vita della massa dei lavoratori cinesi, la campagna anti-corruzione di Xi Jinping serve insomma a spazzare via ogni resistenza interna all’avanzamento di un’agenda economica che intende gettare le basi del completamento dell’evoluzione del modello capitalistico di Pechino.
Un modello che prevede appunto l’apertura del paese sempre più al business internazionale, nella speranza o nell’illusione di contenere le enormi tensioni sociali generate dall’impetuosa e contraddittoria crescita cinese attraverso un’accelerazione delle misure che hanno contribuito a far esplodere quelle stesse tensioni che attraversano la futura prima economia del pianeta.
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di Michele Paris
La giustizia americana ha nuovamente garantito questa settimana la piena impunità a un altro agente di polizia responsabile dell’assassinio senza motivo di un uomo disarmato. Esattamente come la settimana scorsa a Ferguson, un grand jury predisposto dal procuratore distrettuale della contea di Richmond, a Staten Island, nella città di New York, ha stabilito di non doversi procedere contro il poliziotto Daniel Pantaleo, nonostante le prove a suo carico fossero decisamente più pesanti rispetto al caso del Missouri.
Come in quest’ultima vicenda, anche quella del “borough” meno popoloso di New York è ruotata attorno a un grand jury, nuovamente utilizzato dalla classe dirigente americana come paravento per portare a termine una gigantesca ingiustizia dando l’impressione del rispetto scrupoloso del dettato di legge.
Ancor più di quello del 18enne Michael Brown a Ferguson, l’assassinio lo scorso mese di luglio del 43enne Eric Garner - anch’egli di colore - ha mostrato come le forze di polizia negli Stati Uniti abbiano facoltà di violare i diritti fondamentali della popolazione, fino a provocare la morte, a prescindere da quale sia la ragione delle loro azioni o la gravità delle prove a carico dei responsabili.
Un sistema giudiziario considerato democratico non è infatti stato in grado anche solo di intentare un processo ai danni di un rappresentante delle forze di polizia neppure in presenza di ben tre filmati che avevano mostrato gli istanti finali della vita di Garner e del responso di un medico legale, il quale dopo l’autopsia aveva inequivocabilmente definito la morte come “omicidio”.
Il pomeriggio del 17 luglio scorso, alcuni agenti di polizia si erano avvicinati a Eric Garner nei pressi del terminal del traghetto di Staten Island per eseguire l’arresto su richiesta di alcuni negozianti della zona che si erano lamentati perché l’uomo da qualche tempo vendeva sigarette in maniera illegale.
Dopo che Garner aveva fatto resistenza, era seguito un alterco con i poliziotti, così che Pantaleo aveva deciso di praticare una manovra (“chokehold”) vietata dal Dipartimento di Polizia di New York da oltre vent’anni a causa del rischio di soffocamento per coloro che la subiscono.
L’agente ha cioè stretto un braccio attorno al collo dell’uomo per immobilizzarlo e farlo stendere a terra. Una volta costretto Garner sul terreno, tuttavia, Pantaleo non ha accennato a lasciare la presa, nonostante la sua vittima, ancora più in affanno in quanto asmatico, avesse ripetuto più volte le parole “Non riesco e respirare”, provocandone la morte.
Di fronte ai membri del grand jury, il procuratore distrettuale Daniel Donovan ha consentito la testimonianza dello stesso agente Pantaleo, senza che le dichiarazioni di quest’ultimo fossero sottoposte a un qualche contraddittorio. Questa pratica era stata adottata anche nel grand jury di Ferguson ed è servita, proprio come nel caso di Michael Brown, a fare in modo che l’agente omicida fornisse la propria versione dei fatti senza il rischio di essere smentito o interrogato da una parte terza.
Donovan, come il procuratore Robert McCulloch della contea di St. Louis, nel Missouri, ha legami molto stretti con la polizia di New York e ha dunque puntualmente utilizzato il meccanismo del grand jury - previsto dal Quinto Emendamento alla Costituzione americana - per evitare qualsiasi grana legale al responsabile della morte di Eric Garner. I grand jury negli Stati Uniti sono d’altra parte tradizionalmente manipolabili dai procuratori, tanto più che le udienze avvengono in segreto e senza nessun giudice che le presieda.Secondo quanto affermato alla stampa americana dal docente di legge della Fordham University di New York, James Cohen, “è fuori discussione che un grand jury faccia precisamente quello che vuole l’accusa virtualmente nel 100% dei casi”. Lo stesso Cohen ha poi aggiunto che “il video [dell’omicidio] ha mostrato il poliziotto mentre stava eseguendo una pratica probita da tempo” - il “chokehold” - “ma sembra che ciò non abbia fatto alcuna differenza per i giurati perché il procuratore aveva deciso che non doveva esserci alcuna incriminazione per nessun crimine”, neanche di minore gravità.
La morte di Eric Garner per mano della polizia e la completa impunità per l’agente responsabile non sono in ogni caso eccezioni negli Stati Uniti, visto che ogni anno si registrano centinaia di eventi simili. A New York, solo lo scorso mese di novembre un uomo di colore era stato ucciso “accidentalmente” da un colpo d’arma da fuoco esploso da un agente mentre scendeva le scale nel palazzo del proprio appartamento di Brooklyn.
Se possibile, a suscitare un senso di disgusto ancora più profondo della decisione del grand jury sono state le dichiarazioni sulla vicenda rilasciate dai politici americani, principalmente democratici, a cominciare dal presidente Obama.
Quest’ultimo, con il solito cinismo e malcelato disinteresse ha sostenuto che “quando qualcuno in questo paese non viene trattato in maniera equa di fronte alla legge, sussiste un problema”, ma “il mio compito in quanto presidente è di aiutare a risolverlo”.
Toni simili, assieme a vuote rassicurazioni, erano già stati usati la settimana scorsa per la vicenda di Michael Brown, ma le reali intenzioni di Obama e degli ambienti di potere negli Stati Uniti sono apparse evidenti proprio qualche giorno fa. Questa settimana, infatti, in un discorso pubblico il presidente ha sostanzialmente appoggiato il proseguimento del programma di militarizzazione delle forze di polizia nel paese, proponendo solo qualche trascurabilissimo cambiamento cosmetico, come ad esempio la necessità di un addestramento “adeguato” per gli agenti.
Il ministro della Giustizia uscente, Eric Holder, ha annunciato invece l’avvio di un’indagine federale sulla morte di Garner. Una simile iniziativa è già in corso in relazione ai fatti di Ferguson ma l’intervento del Dipartimento di Giustizia in situazioni di questo genere è limitato a casi in cui vi sia stata una violazione dei diritti civili della vittima, cioè un’eventualità estremamente difficile da dimostrare.
Il sindaco di New York, Bill de Blasio, da parte sua, è apparso mercoledì a Staten Island dicendosi particolarmente colpito dalla vicenda poiché suo figlio è anch’egli di colore. De Blasio ha poi ridicolmente promesso di equipaggiare gli agenti di polizia della città con speciali videocamere per filmare il loro operato, senza spiegare però in che modo questa misura potrà essere utile nei casi come quello di Garner, visto che la sua morte, come già ricordato, era stata ripresa da vari passanti e le immagini lasciavano ben pochi dubbi sulle responsabilità dell’agente Pantaleo.La morte di Garner e la decisione del grand jury, infine, hanno prodotto due differenti reazioni già riscontrate a Ferguson e in altri casi simili. La prima, interamente giustificata e condivisibile, è un’ondata di proteste contro la polizia e il sistema giudiziario in molte città e soprattutto a New York.
Qui, i manifestanti spontanei hanno marciato per le strade di Manhattan bloccando a lungo il traffico. Come di consueto, la polizia ha risposto duramente, facendo solo a New York e nella sola serata di mercoledì più di 80 arresti.
Decisamente nauseante è invece la seconda conseguenza, vale a dire l’intervento pubblico di personalità come il reverendo Al Sharpton, di fatto al servizio dell’establishment democratico con l’incarico di calmare gli animi nella popolazione e convincere i manifestanti ad avere fiducia nel sistema, mantenendo al contempo il dibattito pubblico all’interno della limitata prospettiva dei rapporti razziali e oscurando in maniera deliberata le più esplosive questioni sociali dietro alla dilagante violenza delle forze di polizia negli Stati Uniti.