di Michele Paris

In coincidenza con la fine della campagna elettorale per le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, il presidente Obama avrebbe chiesto al Dipartimento di Stato di avviare un processo di “revisione” della strategia americana nei riguardi della crisi in Siria, viste le difficoltà a ridurre significativamente l’influenza dello Stato Islamico (ISIS) dopo settimane di bombardamenti.

A riportare la notizia è stata giovedì la CNN, la quale ha citato svariati anonimi esponenti dell’amministrazione Obama per confermare che a Washington sarebbe in corso un ripensamento dell’approccio alla questione siriana. La rielaborazioe della strategia USA, in particolare, sarebbe la conseguenza dell’impossibilità di sconfiggere l’ISIS “senza una transizione politica in Siria e la rimozione del presidente Bashar al-Assad”.

Ricorrendo a parole attentamente calibrate, sul proprio sito web la CNN ha sostenuto che la “revisione” in corso sarebbe la conseguenza della “tacita ammissione dell’errore di calcolo” commesso dalla Casa Bianca con la decisione iniziale di assegnare la priorità alla guerra contro l’ISIS in Iraq e di intervenire solo successivamente e in maniera limitata in Siria, oltretutto “senza impegnarsi sulla rimozione di Assad”.

Oltre alla “revisione” da poco disposta, il presidente democratico nelle ultime settimane avrebbe anche presieduto a quattro riunioni con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale, a cui ha assistito, tra gli altri, il segretario di Stato John Kerry. Un probabile testimone degli incontri ha confidato alla CNN che in queste occasioni si è discusso “in gran parte di come integrare la nostra strategia per la Siria con quella relativa all’ISIS”.

Dietro alle parole caute del network statunitense e delle proprie fonti, appare chiaro e tutt’altro che sorprendente il motivo della “revisione” strategica ordinata da Obama. Come previsto da molti fuori dai circuiti dei media “mainstream”, cioè, i tempi sembrano essere quasi maturi per dirottare gli sforzi americani verso il vero obiettivo della nuova avventura bellica in Medio Oriente, vale a dire il cambio di regime a Damasco.

Il cosiddetto “errore di calcolo” di cui parla la CNN, che avrebbe convinto l’amministrazione Obama a prendere in considerazione un intervento più incisivo nelle vicende interne della Siria, è in realtà una strategia programmata fin dall’inizio. Infatti, l’obiettivo finale dell’attacco lanciato all’ISIS prima in Iraq e poi in Siria è sempre stato quello di riuscire a trovare, dopo più di tre anni di guerra in quest’ultimo paese, una giustificazione sufficientemente solida per dare la spallata finale al regime alauita (sciita) di Damasco.

L’accelerazione da dare alla campagna di Siria viene ora dipinta, con l’aiuto della stampa ufficiale, come una necessità dettata dalle circostanze, nel modellare le quali gli Stati Uniti e i loro alleati non avrebbero avuto alcuna responsabilità.

Significativo in questo senso è stato il commento rilasciato nella serata di mercoledì dal portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Alistair Baskey, secondo il quale “Assad è stato il principale magnete per l’estremismo in Siria”, spingendo da tempo Obama a dichiarare che il presidente siriano “non è più legittimato a governare”.

Una ricostruzione onesta degli eventi, al contrario, mostrerebbe come siano stati precisamente gli Stati Uniti, assieme a paesi come Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, ad alimentare l’integralismo sunnita sia per combattere direttamente il regime di Assad, ovvero un rivale strategico in Medio Oriente, sia per seminare il caos in Siria e favorire un intervento militare esterno.

Ancora in questi giorni, d’altra parte, continuano ad apparire rivelazioni che descrivono come gli alleati di Washington abbiano finanziato e armato l’ISIS e le altre formazioni jihadiste per i propri scopi in Siria, a cominciare dalla Turchia. Il regime di Erdogan persiste inoltre nel mantenere un atteggiamento a dir poco ambiguo all’interno della “coalizione” anti-ISIS messa assieme da Obama, dal momento che si adopera con maggiore impegno per annientare le organizzazioni curde siriane che i fautori dell’emirato.

In sostanza, gli Stati Uniti vorrebbero far credere che le loro intenzioni erano rivolte unicamente alla stabilizzazione dell’Iraq, mentre l’allargamento delle operazioni belliche alla Siria era diretto solo ed esclusivamente a colpire l’ISIS con l’aiuto dei fantomatici “ribelli moderati” anti-Assad, per il cui addestramento il Congresso americano ha approvato qualche settimana fa uno stanziamento da 500 milioni di dollari.

Ora, invece, la strategia che assegna la priorità alla situazione irachena e che prevede un numero relativamente limitato di incursioni aeree su obiettivi legati all’ISIS non sarebbe più sostenibile, soprattutto perché - come ben sapevano a Washington - la stessa esistenza di formazioni ribelli moderate e filo-occidentali con qualche capacità dal punto di vista militare è sempre stata poco più di una fantasia propagandata dai media ufficiali.

Il riconoscimento da parte dello stesso governo americano della sostanziale impossiblità ad addestrare una forza efficace in grado di combattere sul campo l’ISIS e le forze del regime, nonché di costituire un nucleo di un futuro governo di transizione in Siria, ha dunque delle implicazioni preoccupanti.

Se la CNN ha comunque parlato di un progetto per “accelerare ed espandere il processo di selezione, addestramento e armamento dell’opposizione moderata”, ciò che si profila all’orizzonte non può essere che un intervento diretto in territorio siriano, come conferma la discussione all’interno del governo e degli ambienti militari americani circa la possibilità di stabilire una “no-fly zone” al confine con la Turchia.

Quest’ultima misura ricorda in maniera inquietante il devastante intervento “umanitario” della NATO in Libia nel 2011 dopo la manipolazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è da tempo richiesta dalla stessa Turchia come strumento per creare una zona-cuscinetto in Siria, utile per organizzare l’offensiva contro le forze di Damasco.

Oltre alla revisione strategica affidata al Dipartimento di Stato, l’amministrazione Obama ha annunciato poi un nuovo summit tra i vertici del Pentagono e i leader di oltre 30 paesi impegnati nella guerra all’ISIS per “ricalibrare” la campagna bellica.

In un segnale dell’imminente cambiamento degli obiettivi del conflitto, poi, il segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel, ha inviato una comunicazione dai toni “franchi” alla consigliera di Obama per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice, dove viene espressa “preoccupazione per la strategia complessiva in Siria” e si sostiene la necessità di “avere una visione più precisa su cosa fare del regime di Assad”.

Il procedere delle operazioni in Siria sta quindi rapidamente mostrando i veri motivi dell’ennesima guerra lanciata dagli Stati Uniti nel mondo arabo dietro la facciata dell’anti-terrorismo. Una “guerra al terrore”, quella relativa al capitolo siriano, la cui assurdità è resa evidente da svariati fattori.

Per cominciare, nel sostenere di avere come obiettivo primario la battaglia all’ISIS, Obama e la sua “coalizione” non solo escludono qualsiasi tipo di collaborazione con l’unico soggetto che ha finora combatturo seriamente i jihadisti - il regime di Assad - ma si adoperano per rovesciarlo, attraverso, tra l’altro, l’appoggio più o meno diretto allo stesso Stato Islamico.

In secondo luogo, come già ricodato, la credibilità della “coalizione” anti-ISIS è pari a zero, poiché di essa fanno parte regimi come quello turco o saudita che sono i principali sponsor del fondamentalismo sunnita in Siria e che su di esso hanno investito in maniera tale, per cercare di rimuovere Assad, da rendere illusoria l’assenza di un secondo fine nell’unirsi alla campagna americana. Questi paesi hanno cioè accettato di partecipare alle operazioni ufficialmente condotte contro l’ISIS in Iraq e in Siria solo per ottenere dagli Stati Uniti un impegno a rivolgere le armi contro Damasco.

Il ruolo del governo americano di difensore dei valori democratici e del secolarismo contro la minaccia dell’integralismo religioso, infine, risulta tale solo sulle cronache e gli editoriali dei giornali “allineati”, mentre non ha alcun fondamento nella realtà dei fatti.

Dall’Afghanistan sotto occupazione sovietica alla Cecenia, dalla “rivoluzione” anti-Gheddafi in Libia alla guerra in corso in Siria, Washington ha infatti utilizzato il jihadismo sunnita come comodo strumento sia per combattere regimi nemici sia per giustificare il proprio intervento e la propria presenza in aree strategicamente importanti del pianeta.

di Michele Paris

Secondo quanto riportato dalla stampa giapponese, il primo ministro nipponico Shinzo Abe sarebbe intenzionato a sciogliere anticipatamente la camera bassa del Parlamento di Tokyo (Dieta), così da ottenere un nuovo mandato elettorale prima dell’ulteriore discesa dei livelli di popolarità del suo governo prevista nei prossimi mesi. Ufficialmente, la decisione sarebbe legata allo stato dell’economia e all’aumento della tassa sui consumi dall’8% al 10% che dovrebbe entrare in vigore nell’ottobre del prossimo anno.

Abe, cioè, intende valutare i nuovi dati sull’andamento del PIL giapponese che usciranno nella giornata di lunedì per riservarsi l’opzione, nel caso la crescita risultasse debole, di rinviare l’aumento dell’imposta all’aprile 2017. In tal caso, il premier ultra-conservatore potrebbe anche indire nuove elezioni che, con ogni probabilità, il suo Partito Liberal-Democratico (LDP) finirebbe per vincere senza particolari affanni.

Il governo giapponese aveva già introdotto un aumento dell’IVA dal 5% all’8% nell’aprile scorso, come previsto da un provvedimento preso dal precedente governo di centro-sinistra guidato dal Partito Democratico (DPJ), provocando un crollo dei consumi e una contrazione dell’economia pari al 7,1% nel secondo trimestre dell’anno.

Questa misura, assieme ad altre iniziative di stampo nazionalista e militarista nell’ambito della sicurezza nazionale e alla sostanziale incapacità di incidere sulle condizioni economiche della maggioranza della popolazione, ha provocato la rapida discesa degli indici di gradimento di un esecutivo che era stato propagandato come uno dei più popolari in assoluto nella storia recente del Giappone grazie ad aggressive politiche di stimolo alla crescita.

Vista l’esperienza dei mesi scorsi, Abe starebbe perciò pensando di posporre l’aumento della tassa sui consumi e di consolidare la propria maggioranza parlamentare mentre i numeri continuano a indicare un comodo margine di vantaggio per l’LDP sui partiti dell’opposizione praticamente allo sbando.

Il primo ministro si assicurerebbe così un nuovo mandato fino alla fine del 2018, in modo da poter adottare nei prossimi due anni una serie di misure estremamente impopolari senza doversi preoccupare a breve delle loro conseguenze sull’appuntamento con le urne.

Le decisioni principali che il governo nipponico intende prendere, oltre all’aumento dell’IVA, riguardano la riattivazione delle centrali nucleari dopo il disastro di Fukushima, l’aumento dell’impegno delle forze armate giapponesi all’estero, la riscrittura della Costituzione in senso militarista, l’approvazione di un controverso trattato di libero scambio “trans-pacifico” voluto dagli Stati Uniti (TPP) e, soprattutto, la “riforma” del mercato del lavoro e dei programmi di assistenza sociale.

Il fatto che Abe stia per mettere in atto una manovra profondamente anti-democratica, così da assicurarsi il prolungamento del suo mandato alla guida del paese senza fare i conti con gli elettori una volta adottate misure impopolari, testimonia della crisi politica in cui è precipitato il governo Liberal-Democratico che solo due anni fa aveva stravinto le elezioni.

Inoltre, la mossa del premier - che non risponde a nessuna necessità numerica in Parlamento né a pressioni o a eventi particolari che abbiano apparentemente messo in difficoltà il governo - rivela ancora una volta la natura di classe delle cosiddette “Abenomics”, cioè l’insieme delle politiche di libero mercato messe in atto o semplicemente annunciate dal gabinetto conservatore, risoltesi come altrove in benefici che hanno favorito quasi soltanto grandi aziende e speculatori di borsa, mentre risultano fortemente avversate dalla gran parte dei giapponesi.

Abe, in ogni caso, si incontrerà lunedì con il leader dell’alleato di governo, Natsuo Yamaguchi del partito buddista Komeito, per discutere i tempi dell’eventuale scioglimento della Camera dei Rappresentanti giapponese. Le date più probabili per il voto anticipato sembrano essere il 14 o il 21 dicembre.

L’LDP al governo viene accreditato dai sondaggi di una quota di voti vicina al 37%, al di sotto del 43% ottenuto nelle elezioni del dicembre 2012 ma ampiamente sufficiente per sconfiggere l’opposizione del Partito Democratico. Quest’ultimo avrebbe infatti un gradimento inferiore addirittura all’8%, almeno secondo un recente sondaggio diffuso dalla televisione pubblica NHK.

Ancora per qualche giorno, Abe sarà impegnato lontano dal Giappone e martedì a Pechino, durante il vertice dell’APEC, ha affermato di non avere preso alcuna decisione sul voto aniticipato. Le indicazioni in questo senso, tuttavia, sembrano piuttosto chiare.

Il quotidiano conservatore Yomiuri Shimbun ha ad esempio rivelato che il già ricordato numero uno del partito Komeito avrebbe dato ordine ai propri luogotenenti di accelerare i preparativi per le elezioni. Uno dei massimi dirigenti dei Liberal-Democratici, inoltre, in una conferenza stampa tenuta sempre martedì ha affermato che nel partito, “senza dubbio, prevarrà la volontà di sciogliere [anticipatamente] la camera bassa” del Parlamento. Per giovedì, infine, è in programma una riunione per pianificare la strategia elettorale del partito, a cui parteciperanno 120 parlamentari dell’LDP eletti per la prima volta nel 2012.

La strategia di Shinzo Abe ha comunque sorpreso molti all’interno della classe dirigente giapponese e tra la comunità internazionale degli affari. In linea generale, il governo di Tokyo è esposto a forti pressioni sia per mettere in atto le “riforme” per la liberalizzazione della propria economia sia per tenere sotto controllo un debito pubblico che, a oltre il 220% del PIL, è il più elevato di tutti i paesi industrializzati.

Precisamente per contenere l’esplosione del debito nipponico, il precedente governo del DPJ aveva deciso l’impopolare raddoppio dell’IVA in due fasi per portarla al 10% entro il 2015. Soprattutto dalla Banca Centrale del Giappone, protagonista di un programma di “stimolo” all’economia sul modello del “quantitative easing” della Fed americana, si stanno intensificando perciò gli appelli al governo per implementare l’aumento della tassa nei tempi previsti.

Anche nell’Esecutivo non mancano poi le voci che criticano il rinvio, a cominciare dal ministro delle Finanze, Taro Aso, il quale ha avvertito mercoledì in Parlamento che i fondi per il welfare giapponese saranno a rischio se l’IVA non salirà al 10% nel 2015.

I membri del governo più vicini al premier continuano al contrario a manifestare preoccupazione per le ripercussioni sull’andamento dell’economia. Secondo quanto riportato da Bloomberg News, il consigliere di Abe, Etsuro Honda, avrebbe ad esempio escluso l’aumento dell’imposta se l’economia giapponese dovesse far segnare una crescita inferiore al 3.8% nel terzo trimestre.

Le previsioni degli economisti indicano una crescita per il periodo luglio-settembre attorno al 2,8%. Su base annua, invece, la crescita ammonterebbe a un anemico 1%, contro l’1,5% registrato nel 2013.

Abe, in definitiva, si ritrova a fare i conti con una situazione economica ben più complessa del previsto e poco o per nulla migliorata - per non dire aggravata - dalle politiche adottate dal suo governo. Un labirinto, quello in cui si trova il Primo Ministro, da cui sembra ora voler uscire cercando di portare a termine l’adozione delle misure anti-sociali promesse al business indigeno e richieste dagli ambienti finanziari internazionali senza passare attraverso il giudizio degli elettori giapponesi.

di Bianca Cerri

Un uomo in blue jeans e stivali da cow-boy aspetta con grande impazienza l’autobus per andare al lavoro. Sul taschino della camicia ha appesa una targhetta simile ad un distintivo che lo identifica come “lavapiatti presso l’ufficio dello Sceriffo di contea”. In mano l’uomo stringe uno zainetto con dentro tutto l’occorrente per la colazione: panino, bibita e merendina. Quando l’autobus finalmente arriva sale e si siede tra la gente.

Molti lo osservano senza darlo a vedere, incuriositi dalla sua aria un po’ stranita senza sapere che l’uomo è uno dei disabili mentali arrivati nell’Iowa dal Texas, quasi mezzo secolo prima costretti a lavorare nello stabilimento per la lavorazione di carni avicole di Atalissa, una cittadina di circa quarantamila abitanti nel cuore della contea di Muscatine.

Per nove ore di seguito i ragazzi strangolavano, spennavano ed evisceravano tacchini sotto gli occhi implacabili dei capi-reparto al West Liberty Plant. La macellazione iniziava prima alle prime ore dell’alba. Salvo una breve pausa per il pranzo, andava avanti fino alla sera. La routine non cambiava mai, ogni giorno era identico a quello che l’aveva preceduto. Stesse azioni ripetute, stesso tran tran per oltre trent’anni.

Persino quando iniziarono a circolare le prime voci sui disabili costretti a macellare volatili per sessanta dollari al mese gli assistenti sociali rimasero perplessi ma tutto restò uguale a prima. Ogni qual volta venivano promessi inchieste e chiarimenti o aperte indagini sulla storia all’improvviso saltavano fuori difficoltà di vario tipo che rendevano “impossibile” arrivare alla verità.

Del resto, all’opinione pubblica la cosa interessava relativamente. Così la situazione rimase inalterata. Ancora oggi, sebbene si dica che i tempi siano cambiati, il governo Obama, sostiene di non sapere nulla dei malati di mente schiavizzati che sventravano animali con lo sguardo fisso e la testa persa in un altro mondo. Salvo una manciata di ore di sonno, che trascorrevano su materassi buttati a terra nei locali dove un tempo sorgeva un istituto scolastico, tutta la loro vita consisteva nella macellazione di volatili.

I vigilanti dell’azienda avicola, nota come Henry’s Turkey Service, raccontavano alla stampa locale che gli operai erano una grande famiglia allargata ma un’assistente sociale che aveva raccolto informazioni tornò di nascosto a visitare l’impianto, vide con i suoi occhi o ventuno disabili malnutriti e malandati costretti a lavorare in locali gelidi infestati dai topi e decise di non mollare la presa. Riuscì ad avvicinarli ed imparò i nomi di ciascuno di loro senza mai smettere di chiedersi come diavolo fossero finiti in un posto simile.

In un mondo che reputa banalmente inutile la presenza dei disabili nei vari settori lavorativi, la storia dei  malati di mente dell’Iowa potrà apparire insignificante ma, conoscendola, ci si accorge che non è così.

Tutto comincia alla fine degli anni ’60, quando due giovani agronomi, Kenneth Henry e T.H. Johnson, entrambi con un approccio alla vita decisamente di destra, a favore del “diritto” al possesso di armi, dell’espulsione degli immigrati clandestini e della segregazione razziale, fondarono la Henry’s Turkey Service. I due fecero fortuna e, approfittando dei fondi concessi dal governo a favore dei corsi di formazione per l’avviamento al lavoro dei minori affetti da patologie mentali, reclutarono una settantina di ragazzi psico-labili nei vari istituti del Texas.

Gene Berg, il lavapiatti in attesa alla fermata dell’autobus alla periferia di una cittadina dell’Iowa, fu prelevato da una comunità per disabili di Abilene a soli 12 anni e portato ad “acclimatarsi” nell’impianto per la lavorazione delle carni avicole distante migliaia di chilometri da casa. Pretesto ufficiale: favorire la sua graduale conquista dell’autonomia.

Già abbandonato dalla famiglia, Berg si ritrovò invece in un ambiente ostile, dove pene, mali e disagio aumentarono. Oggi ha sessantadue anni e dice che per lui la vita finì quando  iniziò a lavorare per la Henry’s Turkey Service.

I giovanissimi disabili venivano fatti alzare e buttati sotto una doccia gelida prima dell’inizio dei turni di lavoro. L’incubo fu identico per Willie Levi, trovato in una scuola per minorati psichici  di Orange. Il ragazzo, madre domestica e padre alcolizzato, avrebbe facilmente potuto diventare un campione d’atletica e si ritrovò invece a vivere in un edificio fatiscente dell’Iowa di proprietà del comune di Atalissa trasformato in stabilimento per la lavorazione delle carni avicole.

I tre fratelli Penney, reclutati nello stesso istituto di Berg, dove erano stati scaricati dai genitori perché “difficili da gestire” furono anche loro spediti nell’Iowa dal Texas per lavorare a tempo pieno nell’ammazzatoio. Bisognava imparare in fretta a lavorare tra melma e sangue e, soprattutto, abituarsi ad incombenze mostruose senza lasciarsi vincere dallo struggimento. Nei capannoni a diversi livelli tacchini, polli ed oche venivano uccisi in modo raccapricciante e poi spennati ed avviati alla lavorazione.

Ad Atalyssa venivano sterminati più di ventimila volatili al giorno ma le leggi che avrebbero dovuto proteggere i minori più vulnerabili erano già letteralmente evaporate. Autorità statali e agenzie federali voltarono le spalle ai ragazzi costretti ad affrontare ogni giorno una odiosa routine.

Nel maggio del 1981, Gene Berg tentò la fuga con in tasca venticinque centesimi, una  microscopica edizione della Bibbia e l’indirizzo della madre scarabocchiato su un pezzo di carta. Era arcistufo di tirare il collo a migliaia di pennuti mentre gli operai normodotati si divertivano alle sue spalle e disposto a correre qualunque rischio pur di allontanarsi sa quel posto che avrebbe messo in ginocchio anche persone non particolarmente deboli.

Berg, che oggi ha sessantadue anni, ricorda ancora che con i soldi comprò una merendina ma non riuscì a fare molta strada. I vigilanti lo ritrovarono per poi scortarlo oltre i cancelli che circondavano il piatto edificio di mattoni dove i volatili venivano massacrati.

Del resto, gli Stati Uniti non hanno mai avuto una legge che proibisca di sfruttare i disabili. Anzi, proprio secondo la legge i lavoratori mentalmente o fisicamente ritardati, non avendo la capacità di svolgere mansioni precise, difficilmente verrebbero assunti e devono  accontentarsi di un salario ben al di sotto dei minimi previsti per i cittadini normodotati. Le imprese che superano ogni limite di decenza al massimo vengono multate.

Moltissime associazioni benefiche, industrie, aziende  e persino le scuole hanno sempre approfittato dei diversamente abili costringendoli a lavorare per pochi centesimi l’ora. Nel caso della Goodwill Industries International, una delle più grandi realtà del volontariato e del no-profit nel mondo, ad esempio, sfruttare le persone più vulnerabili per crearsi la reputazione di benefattori, è una regola. “We believe in Work”, ovvero “Crediamo nel lavoro” è il motto della Goodwill. Il che non impedisce ai dirigenti di portarsi a casa trecentomila dollari l’anno lasciando ad esempio a persone come Harold Leigland, un commesso cieco dalla nascita solo le briciole.

Il paragrafo 14 comma C della legge federale stabilisce infatti anche che i minimi salariali possono essere ulteriormente ridotti nel caso di soggetti ciechi, cerebrolesi o tossicomani. Non esiste una regola fissa, l’imprenditore deve rivolgersi al dipartimento del Lavoro e, una volta ottenuto il nulla-osta, stabilirà l’importo a suo piacimento. Sono soprattutto le organizzazioni umanitarie che si appellano al diritto di pagare i disabili il minimo possibile anche se non mancano certo gli industriali. Un numero infinito di aziende vive ormai raschiando quello che si usa definire il fondo del barile.

Citando a caso, Cross Roads Support, Kinston Automotive and Tire, nella Carolina del Nord sono state autorizzate negli ultimi tre mesi a tagliare di netto lo stipendio dei disabili riducendolo a due dollari e settantacinque l’ora. Un importo che non basta neppure a coprire l’abbonamento dell’autobus.

La lista è lunghissima è comprende alberghi lussuosi come il Ramada Inn e l’Holyday Inn, catene di fast food tra cui le arcinote McDonald e Highway 55 Burgers, produttori di materiali da imballaggio come Coleman Assembly in Massacchussets, grandi librerie come Bayfield e persino il Politecnico di Fox Valley, che pagano ai disabili salari compresi tra i 28 ed il 41 centesimi per ogni ora di lavoro.

Quanto agli enti istituzionali, il ministero dei Trasporti del Wisconsin godeva di questo privilegio già dalla fine del 2012.  Comunità-famiglia  e no-profit  di qualunque categoria pagano ai disabili salari da fame. Grandi organizzazioni umanitarie, come anche la Goodwill, vietano addirittura ai dipendenti disabili di servirsi degli stessi bagni degli altri lavoratori. In compenso, ma questo è noto, nel 1980 boicottarono, capitanati da Ted Turner, i giochi olimpici per protesta contro quella che definirono “invasione dell’Afghanistan” da parte dell’Unione Sovietica, ma non risulta abbiano mai trovato nulla da ridire sullo sterminio del popolo afgano da parte degli americani.

Jim  Burnett, campione di maratona, lavora per la Goodwill. Burnett viene descritto come lavoratore modello oltre che volenteroso. D’altra parte, se a 49 anni vince ancora gare di maratona, è ovvio che la disabilità non influisce sul suo rendimento. Ma i suoi guadagni sono assai esigui, soprattutto se paragonati  ai circa sessanta milioni l’anno che l’impresa no profit corrisponde ai suoi dirigenti. Di circa centomila dipendenti della Goodwill, almeno ottomila risultano essere disabili mentali e, nonostante i fondi provenienti da casse pubbliche, sono tutti regolarmente sotto-pagati.

Eppure la Goodwill ha attecchito anche in Italia ed in molti altri paesi del mondo e realizza miliardi rivendendo ad esempio gli abiti di seconda mano che la gente getta negli appositi cassonetti. Ogni filiale è assolutamente indipendente dall’altra e quella di Los Angeles risulta essere decisamente la più generosa di tutte, con dirigenti che percepiscono compensi di circa quattrocentomila dollari l’anno. Dei nove milioni di dollari ricevuti dal governo della filiale Goodwill in Connecticut, due milioni sono andati al presidente David Turner ed al suo staff.

L’America del nuovo millennio, grazie alla legge federale, ha però mantenuto il privilegio in tutti gli stati di sfruttare le braccia dei disabili per ingrassare le tante lobbies politiche che, ad esempio, in Missouri fagocitano circa due milioni di dollari l’anno.

In sintesi, stiamo parlando di una forza-lavoro composta da circa trecentomila addetti costretti a lavorare e al tempo stesso inventarsi il modo di sopravvivere nonostante gli impedimenti dovuti alla loro condizione. La direzione generale di Goodwill continua però a vantarsi di aver offerto “una grande opportunità” a persone che sarebbero stare escluse comunque dal  mondo del lavoro.

Ma questo non cambia che in Missouri presidente e alti dirigenti di Goodwill abbiano falsificato ad arte centinaia di fatture ed altri documenti ufficiali con ammirevole disinvoltura. Non solo non ci sono stati miglioramenti della qualità di vita per i disabili ma, nonostante l’arresto Ronald Partee, presidente di Goodwill, Missouri è finito in carcere ma, incredibilmente, anche dietro le sbarre Partee ha continuato ad amministrare le entrate per un totale di circa settanta milioni di dollari l’anno. Nella mega-truffa erano implicati anche dozzine di alti papaveri che però hanno comunque incassato compensi per due milioni di dollari l’anno.

Nella Carolina del Nord, una coppia i coniugi al soldo di Goodwill portava oltre ottocentomila dollari l’anno. La stessa cifra, più o meno, donata da Goodwill alle popolazioni sub-sahariane. Samuel Bageston, l’uomo che scritto l’articolo quattordici, cattedra di economia presso la facoltà di legge del Michigan, stima che il lavoro di un disabile mentale non può in nessun modo valere più di tre dollari l’ora. Ma in un paese che ha come dio il libero mercato, a vincere è sempre il diavolo.


















di Michele Paris

La competizione crescente tra Cina e Stati Uniti in Estremo Oriente ha segnato come previsto anche le fasi iniziali del summit della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica (APEC) in corso questa settimana alle porte di Pechino. Nonostante i toni relativamente cordiali e alcuni punti di intesa raggiunti, i leader delle prime due potenze economiche del pianeta si sono impegnati in particolare nella promozione di altrettanti trattati di libero scambio da cui risulta escluso il rispettivo rivale.

L’atteggiamento come al solito di sfida degli USA dietro le apparenze rassicuranti era apparso subito evidente nell’intervento tenuto lunedì dal presidente Obama di fronte ai top manager delle principali compagnie delle 21 “economie” che compongono l’APEC. Qui, Obama aveva riaffermato la presunta necessità della leadership globale del suo paese e il suo status di “potenza del Pacfico”, con le ovvie implicazioni riguardo alle ambizioni cinesi.

Nei confronti di Pechino, il presidente democratico ha poi in sostanza chiarito quali siano le condizioni alle quali gli Stati Uniti accetteranno pacificamente la crescita della Cina, cioè se essa manterrà un ruolo subordinato a Washington sullo scacchiere internazionale. Obama ha in primo luogo chiesto un maggiore impegno per l’apertura del mercato cinese al capitale estero e la tutela degli investitori, i quali dovrebbero essere tra l’altro messi nelle condizioni di competere alla pari con le compagnie indigene.

Queste e altre richieste comportano appunto la sottomissione della Cina e della regione del sud-est asiatico alle regole del capitalismo a stelle e strisce. Lo stesso obiettivo, Washington intende perseguirlo anche con un altro strumento promosso a Pechino in questi giorni, vale a dire il trattato di libero scambio denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP).

Con un gesto provocatorio verso le autorità cinesi, Obama ha presieduto sempre lunedì a un vertice presso l’ambasciata americana con i leader degli altri 11 paesi che dovrebbero far parte del TPP. L’incontro ha alla fine prodotto soltanto un comunicato nel quale sono stati sottolineati i progressi fatti nel superare divisioni e resistenze alla firma del trattato, anche se in un’intervista al Wall Street Journal il ministro per il Commercio della Nuova Zelanda, Tim Groser, ha assicurato che la ratifica definitiva del TPP potrebbe giungere già all’inizio del prossimo anno.

La Partnership Trans-Pacifica continua tuttavia a essere estremanente controversa. Alcuni dettagli resi pubblici grazie a WikiLeaks hanno messo in luce negli ultimi mesi come il trattato sia un mezzo per smantellare le regolamentazioni al business previste dai singoli stati e per diminuire drasticamente il peso delle aziende pubbliche, assicurando alle corporations private - soprattutto americane - il dominio incontrastato sull’economia dell’Estremo Oriente e dell’area del Pacifico.

Inoltre, alcuni paesi continuano ad avere parecchie perplessità sul trattato, dal momento che, ad esempio, la sua ratifica significherebbe l’apertura di settori protetti come quello agricolo, la neutralizzazione di iniziative per la difesa dell’ambiente nei singoli stati o l’imposibilità di accedere per i paesi più poveri a medicinali a basso costo.

Come si rendono ben conto a Pechino, il TPP è più in generale una delle armi principali in mano agli Stati Uniti per cercare di mettere in atto un vero e proprio accerchiamento economico della Cina, già in fase avanzata anche dal punto di vista militare.

Premere per l’approvazione del TPP nel contesto dell’APEC da parte statunitense rappresenta dunque una chiara provocazione verso Pechino. Oltre a essere esclusa dal TPP, la Cina potrebbe infatti perdere dall’introduzione del trattato qualcosa come 100 miliardi di dollari ogni anno in mancate esportazioni.

Oltretutto, il presidente cinese Xi Jinping era intenzionato questa settimana a lanciare in maniera formale i negoziati per un trattato alternativo, cioè la cosiddetta Area di Libero Scambio dell’Asia e del Pacifico (FTAAP), ma gli sforzi di Pechino sarebbero stati bloccati proprio dagli Stati Uniti, interessati invece a mettere al centro del vertice APEC il TPP.

L’ostruzionismo americano conferma l’attitudine allo scontro che caratterizza la politica estera dell’amministrazione Obama, poiché l’FTAAP - a differenza del TPP - è un progetto partorito proprio all’interno dell’APEC, anche se viene da tempo promosso direttamente dal governo cinese.

Alla fine, la Cina ha ottenuto martedì soltanto l’approvazione di una “iniziativa di studio” della durata di due anni sull’FTAAP, definito dallo stesso Xi come lo strumento per “aprire le porte chiuse all’interno dell’area Asia-Pacifico” e garantire la crescita economica in un periodo di stagnazione.

Le pressioni americane, in ogni caso, stanno provocando reazioni contrastanti all’interno della leadership cinese, come dimostrano iniziative adottate proprio nei giorni scorsi sia per contrastare l’accerchiamento da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati sia, al contrario, per lanciare qualche segnale distensivo a Washington.

Ascrivibile al primo caso è l’annuncio fatto domenica scorsa dello stanziamento di 40 miliardi di dollari per la creazione di un fondo destinato a realizzare infrastrutture e allo sfruttamento di risorse naturali nei paesi vicini alla Cina, così da favorire i traffici commerciali e l’approvvigionamento energetico di Pechino.

La Cina ha inoltre appena concluso un trattato di libero scambio con la Corea del Sud e un altro simile sembra essere in dirittura d’arrivo con l’Australia. Nei giorni scorsi, infine, Cina e Russia hanno siglato un secondo importante accordo di fornitura di gas naturale dopo quello sottoscritto a maggio da Putin e Xi.

I due accordi potrebbero nel prossimo futuro portare 68 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Siberia alla Cina, la quale diventerebbe così il primo cliente del gas russo davanti alla Germania. Per Pechino, la partnership energetica con Mosca garantisce approvvigionamenti più sicuri dal punto di vista logistico rispetto alle rotte navali presidiate dalle forze USA, mentre per la Russia rappresenta l’accesso a un colossale mercato alternativo a quello europeo, messo a rischio nel medio o lungo periodo dalle crescenti tensioni esplose dopo la crisi in Ucraina.

Tra le misure adottate da Pechino e che assomigliano molto a concessioni verso gli Stati Uniti spicca invece l’intervento di lunedì da parte dalla Banca Centrale cinese per far salire in un colpo solo il valore del renminbi dello 0,37%. L’iniziativa favorisce evidentemente i paesi e le aziende che esportano in Cina e sembra rispondere alle richieste che Washington fa da tempo per consentire il rafforzamento della moneta cinese.

Pechino, poi, ha annunciato che a partire dal 17 novembre sarà possibile scambiare azioni tra la borsa di Shanghai e quella di Hong Kong, così che gli investitori stranieri, liberi di operare su quest’ultima, avranno per la prima volta accesso diretto alla prima. Per un analista della banca UBS sentito lunedì dal New York Times, la decisione può essere considerata “una pietra miliare nell’evoluzione del settore finanziario cinese e nel processo di apertura del mercato dei capitali” di questo paese.

In quello che i media internazionali hanno definito come un esempio della possibile collaborazione tra USA e Cina, i due paesi hanno poi confermato martedì il raggiungimento di un’intesa sull’eliminazione delle tariffe doganali per una serie di prodotti tecnologici, mentre il giorno prima era stata la volta di un accordo sul prolungamento della durata dei visti di ingresso nei due paesi.

Al di là di concessioni o controffensive da parte della Cina, la linea provocatoria tenuta dagli Stati Uniti nel corso del vertice APEC proseguirà quasi certamente anche nei prossimi appuntamenti internazionali, a cominciare dal summit dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) che si terrà tra mercoledì e giovedì in Myanmar, con al centro le dispute territoriali tra Pechino e vari paesi vicini, e da quello del G-20 nel fine settimana a Brisbane, in Australia, dove il presidente Obama dovrebbe pronunciare un importante discorso sulla “leadership USA nell’area Asia-Pacifico”.

di Emanuela Muzzi

Londra. Se la Serbia guardi oggi ad est o ad ovest, verso Bruxelles o Mosca, in fondo non è una questione rilevante per chi concepisca l’Unione Europea come unione dei popoli, come civiltà comprensiva e multiculturale e non come zona di esercizio del potere delle banche centrali o area geo-economicamente strategica. Certamente le strategie economiche contano: ad esempio la decisione presa in questi giorni della Serbia di rimandare l’inizio della costruzione del corridoio “South Stream” ha infuriato Putin e portato la Russia a richiedere il taglio del 28% ed il pagamento del debito sulle forniture di gas accumulate sinora a Belgrado.

Pare infatti che Belgrado abbia scatenato la ritorsione di Mosca perché si è allineata con la politica della Ue rispetto al corridoio del gas “South Stream”. Questo è rilevante per capire il contesto strategico. Ma il testo in vista dell’entrata nella Ue dovrebbe riguardare il livello di democrazia e lo stato del rispetto dei diritti umani.

Belgrado è indubbiamente Europa dal punto di vista storico-culturale: una città dove per secoli culture diverse hanno convissuto pacificamente tra le rive del Danubio e della Sava anche dopo la morte di Tito, finché non è cominciata la grande tragedia di una guerra e scatenata da tre gerarchi al potere, Milosevic, Tudjiman e Itzebegovic, che ha riportato l'orrore dello sterminio di massa nel cuore dell'Europa sotto gli occhi non curanti dell'Occidente, interessato all'area balcanica solo per destabilizzarla e instaurare un nuovo quadro politico. Ma comunque i serbi agli ordini di Mladic e del mito della Grande Serbia, da Vukovar a Sebrenica, hanno macchiato la ‘Città bianca’ in modo permanente di crimini contro l’umanità.

La Commissione europea ritiene che i passi necessari alla rivisitazione critica di quanto avvenuto non siano ancora stati del tutto compiuti e che, in primo luogo l’amministrazione della giustizia, sia utilizzata a difesa di una casta. Secondo il rapporto UE sul progresso della Serbia in vista di un eventuale ingresso nell’Unione (Enlargement Strategy and Main Challenges 2014-15), la strada da fare verso un assetto democratico è ancora lunga e piena di ostacoli, anche in ordine alla libertà di stampa e libera informazione: il popolare talk show d’inchiesta ‘Utisak Nedelje’ (‘Impressioni della settimana’) in onda sulla TV serba B92 è stato soppresso il mese scorso; la direttrice del programma Olja Beckovic ha dichiarato che il bavaglio è opera del primo ministro Aleksandar Vucicic.

Tema molto delicato e in qualche modo riflesso innegabile delle difficoltà nella completa democratizzazione del paese. Del resto il neoeletto Primo Ministro, leader del Partito Progressista, tra i primi provvedimenti del suo mandato ha imposto al Parlamento il voto d’urgenza su tre decreti legge sulla regolamentazione dei media il cui testo non è stato reso noto all’informazione pubblica. Anche l’Osce lo scorso agosto ha ufficialmente espresso preoccupazione per la diretta ingerenza dello stato sui media e sulla censura online in Serbia.

Per proseguire sul percorso Belgrado-Bruxelles, troviamo le Corti di giustizia: nel report, la Commissione Ue conclude: “Scarsi progressi sono stati fatti nel campo giudiziario e dei diritti fondamentali”, specificando che, nonostante l’assegnazione di nuovi magistrati e una riforma giudiziaria in corso d’opera, l’accesso alla giustizia è ancora scarso e che, nei casi di crimini compiuti durante le guerre jugoslave, non c’è alcuna protezione dei testimoni.

In sostanza la Commissione - benché moderatamente - critica Belgrado, limitando le raccomandazioni al paese candidato a fattori di implementazione ed ottimizzazione di sistema, a dispetto di dati che parlano di violazioni sostanziali dei diritti umani delle minoranze e dei diritti delle donne, dell’accesso al lavoro ed alla rappresentanza politica e del diritto all’accesso alla giustizia, anche quella civile ordinaria. La Commissione, piuttosto, era stata decisamente più esplicita nello scoraggiare Belgrado dalla costruzione del corridoio South Stream in vista dell’accesso all’Unione.

Vero è che l’Unione Europea che ha appena avuto come suo presidente di turno l’Ungheria del nazista Orban, quando parla di diritti politici non può alzare la voce più di tanto se non vuole scatenare l’ilarità generale. Ma l’attenzione rivolta solo alla vicenda del South Stream ricorda come Bruxelles - che si tratti di Ungheria, di Serbia o di qualunque altro paese - sia interessata quasi esclusivamente all’economia.

L’ingresso di Belgrado offre un’ulteriore potenziale zona franca nel cuore del Vecchio Continente e l’ennesima occasione di bypassare le clausole sociali di mercato. Risorse naturali minerarie e braccia a basso costo sono il carburante ideale per i forzieri delle banche europee pronte all’invasione della Serbia come già è successo in ogni altro paese dell’Est Europa.

E non solo di Serbia si tratta. Sul tavolo della Commissione c’è anche il ‘break down diplomatico’ con la Turchia: lo scorso luglio il primo ministro turco Erdogan ha detto che di fronte ad un nuovo attacco ai ‘bosniaks’, (l’etnia musulmana sterminata dalle truppe serbe durante la guerra bosniaca) non avrebbe esitato a mandare una flotta di navi da guerra con 100mila turchi nel porto di Neum; Vu?i? ha subito risposto che una simile minaccia, se confermata, avrebbe destabilizzato la regione.

Naturalmente, come nelle migliori tradizioni, l’affresco della battaglia navale ottomana nel cuore dell’Adriatico, dipinto da Erdogan in piena campagna elettorale, è stato diplomaticamente annacquato dall’ambasciatore turco a Belgrado Kemal Bozay. Ma del resto, sempre in tema di allargamento Ue, potremmo ricordare quando Erdogan, parlando di Europa, disse che il Kossovo è territorio turco…Il silenzio di Bruxelles al riguardo era scontato, visto che Ankara è membro della NATO e che, dunque, le critiche vanno vellutate. Calcolando che la Serbia dovrebbe entrare nell’Unione nel 2020 e la Turchia nel 2023, tutto sommato possiamo ancora goderci qualche anno di tranquillità. E di noia.



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