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di Mario Lombardo
Alcuni giorni fa, un tribunale federale americano ha condannato a pene detentive relativamente pesanti tre manifestanti anti-NATO al termine di quello che è apparso a molti come una parodia di un procedimento legale in un paese democratico. I tre imputati, come è spesso accaduto negli ultimi anni negli Stati Uniti, non hanno in realtà rappresentato alcuna minaccia “terroristica” e i più che discutibili crimini di cui erano accusati sono derivati unicamente dall’attività istigatoria nei loro confronti di due infiltrati della polizia.
Il verdetto è stato emesso dal giudice della contea di Cook, nell’Illinois, Thaddeus Wilson e ha stabilito per Brian Church, Brent Betterly e Jared Chase pene rispettivamente di 5, 6 e 8 anni, al termine delle quali seguiranno per tutti altri 2 anni di libertà condizionata.
Già lo scorso mese di febbraio, i tre giovani alla sbarra erano stati giudicati colpevoli per i reati di possesso di materiale incendiario e di utilizzo di metodi violenti per disturbare la quiete pubblica. La giuria prescelta per il processo li aveva però scagionati dall’accusa più grave, quella di terrorismo secondo il dettato di una legge dell’Illinois approvata all’indomani dell’11 settembre 2001 e fino ad ora mai usata in aula nello stato del Midwest americano.
Il procuratore Anita Alvarez aveva condotto una durissima battaglia contro i tre imputati, insistendo sulle loro tendenze terroristiche e chiedendo ancora alla vigilia della decisione sull’entità della pena da parte del giudice Wilson fino a 14 anni di carcere nonostante la sentenza di febbraio. Church, Betterly e Chase sono in carcere già da più di 700 giorni e il periodo scontato dietro le sbarre verrà dedotto dalla loro pena definitiva.
Secondo i loro legali, nel caso dovesse essere riconosciuta la buona condotta, i tre potrebbero uscire dal carcere tra 6 e 18 mesi. Jared Chase, inoltre, soffre di una patologia neurodegenerativa chiamata malattia di Huntington, a causa della quale, secondo un neurologo chiamato a testimoniare durante il processo, il condannato 29enne, oltre a dovere essere assistito per ogni sua necessità nel prossimo futuro, potrebbe avere un’aspettativa di vita non superiore ai dieci anni.
In ogni caso, le disavventure legali dei tre uomini erano iniziate nel maggio del 2012 in seguito alla loro partecipazione alle proteste organizzate contro il vertice della NATO andato in scena a Chicago. In quell’occasione, secondo svariate organizzazioni a difesa dei diritti civili, le autorità americane erano ricorse a “violenze indiscriminate” per disperdere i manifestanti, arrestando centinaia di persone e ferendone alcune decine.
Church, Betterly e Chase vennero invece presi di mira probabilmente per le simpatie da loro nutrite nei confronti dei cosiddetti Black Bloc. L’arresto fu effettuato dalle forze di polizia in un appartamento del “south side” di Chicago mentre i tre uomini - secondo l’accusa - erano intenti a versare benzina in alcune bottiglie vuote allo scopo di produrre Molotov da utilizzare in assalti contro alcuni edifici della città, tra cui stazioni di polizia, il quartier generale della campagna elettorale del presidente Obama e l’abitazione del sindaco Rahm Emanuel.
In realtà, l’intera vicenda era apparsa da subito come una trappola preparata dalle forze di polizia di Chicago costruita sulle prestazioni di due infiltrati sotto copertura.
Nel corso del processo, infatti, erano emersi elementi che, pur non risparmiando agli accusati pene detentive, avevano dimostrato l’assurdità delle accuse nei loro confronti. Per cominciare, le prove consistevano soltanto in registrazioni segrete di conversazioni inconsistenti, impronte digitali rinvenute su bottiglie vuote di birra che sarebbero state utilizzate per la preparazione di Molotov, nonché benzina e altro materiale fornito interamente dagli agenti di polizia in incognito.
Le conversazioni raccolte dalla polizia, come ha fatto notare la difesa durante il dibattimento in aula, erano caratterizzate più che altro da frasi bizzare ed evidenziavano la mancanza di preparazione dei tre imputati in relazione a possibili azioni dimostrative violente. In una discussione registrata, addirittura, Brian Church rifiutava esplicitamente l’invito di uno dei due agenti infiltrati a provare l’efficacia delle Molotov contro un qualche bersaglio a Chicago.
Secondo l’avvocato di Brent Betterly, perciò, “la guerra al terrore non può andare tanto in là” fino a includere il caso in questione e, infatti, la vicenda dei cosiddetti “NATO Three” dimostra ancora una volta come le misure di polizia adottate negli USA dopo l’11 settembre 2001 siano destinate in primo luogo a reprimere e scoraggiare ogni forma di dissenso interno.
Lo stesso Betterly, d’altra parte, nelle fasi finali del processo qualche giorno fa ha ribadito pubblicamente il proprio impegno “pacifico contro le potenze occidentali e le corporations transnazionali”, identificando la sua battaglia morale con quella di tutte le “persone oppresse”.
La sorte dei tre condannati conferma anche come gli Stati Uniti valutino in maniera diametralmente opposta le manifestazioni di protesta a seconda che avvengano all’interno dei confini propri e di quelli di paesi amici o contro governi poco graditi.
Così, ad esempio, mentre i gruppi neo-fascisti che hanno rovesciato un governo democraticamente eletto in Ucraina o i manifestanti violenti finanziati da Washington in Venezuela vengono considerati alla stregua di eroi della democrazia, coloro che protestano contro il sistema negli USA, oppure contro il regime golpista di Kiev o la dittatura militare in Egitto, risultano al contrario minacce - spesso di natura “terroristica” - da eliminare senza nessuno scrupolo.
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di Michele Paris
L’ultima tappa della trasferta in Estremo Oriente del presidente americano Obama è stata caratterizzata dalla firma di un importante trattato decennale con il governo delle Filippine che consentirà ad un contingente delle forze armate statunitensi di tornare ad occupare alcune basi militari nel paese-arcipelago del sudest asiatico. L’intesa, allo studio da tempo, è stata siglata alla vigilia dell’arivo di Obama a Manila dal segretario alla Difesa filippino, Voltaire Gazmin, e dall’ambasciatore USA, Philip Goldberg.
Il testo dell’accordo è stato redatto con la precisa intenzione di occultare sia le modalità della sua applicazione che gli obiettivi reali che hanno portato alla firma, fondamentalmente per via della diffusa ostilità popolare nei confronti della presenza militare della ex potenza coloniale nelle Filippine e per aggirare la proibizione prevista dalla Costituzione di questo paese in merito alla creazione di basi militari straniere permanenti entro i propri confini.
Secondo i due governi, infatti, il trattato bilaterale non sarebbe rivolto al contenimento o all’accerchiamento della Cina, mentre servirebbe unicamente a favorire l’addestramento delle forze armate filippine e la cooperazione in caso di missioni umanitarie o di assistenza in seguito a disastri naturali. La presenza di soldati USA, viene spiegato inoltre, non sarà permanente ma a “rotazione” e l’accesso alle basi filippine avverrà a seguito di “inviti” del governo di Manila.
In realtà, l’accordo appena mandato in porto con le Filippine rientra in pieno nei piani strategici americani per incrementare le pressioni sulla dirigenza cinese e cercare di subordinare gli interessi di Pechino in quest’area del globo a quelli degli Stati Uniti.
La rilevanza dell’accordo è evidente anche dal fatto che esso giunge a oltre due decenni di distanza dalla decisione presa dalle Filippine di chiudere le basi americane sul proprio territorio dopo quasi un secolo di presenza militare a stelle e strisce. La collaborazione in ambito militare tra Washington e Manila, peraltro, era ripresa già a partire dal 2002 e, soprattutto con il pretesto della lotta al terrorismo, alcuni contingenti USA sono stati da allora impiegati nelle Filippine.
D’ora in avanti, tuttavia, la presenza americana risulterà più massiccia e, per ammissione del responsabile per l’Asia del Consiglio per la Sicurezza Nazionale USA, Evan Medeiros, i vertici militari americani potrebbero prendere in considerazione l’utilizzo di “svariate strutture” ancora da costruire o già esistenti, tra cui la base navale di Subic, occupata dalle forze degli Stati Uniti fino al 1992.
Quella con le Filippine è dunque solo l’ultima e probabilmente più esplicita manovra da parte americana per rafforzare i legami militari con gli alleati asiatici, come è apparso evidente dalla visita di Obama nel continente.
La settimana scorsa in Giappone, ad esempio, il presidente democratico ha ribadito l’impego del suo paese a fianco di Tokyo in caso di “aggressione” da parte cinese in relazione alle isole Senkaku/Diaoyu nel Mar Cinese Orientale al centro di una disputa con Pechino.
Successivamente, in Corea del Sud, la presidente Park Geun-hye ha accettato le richieste americane di rimandare a dopo il dicembre del 2015 il trasferimento da Washington a Seoul del comando militare operativo delle forze armate indigene in tempo di guerra. Inoltre, la Corea del Sud ha dato il via libera all’integrazione del proprio sistema di difesa anti-missilistico con lo scudo anti-balistico che gli USA stanno pianificando nella regione, sempre in funzione anti-cinese.
La prima visita di un presidente americano in Malaysia da quasi mezzo secolo a questa parte, infine, ha portato risultati interessanti per gli Stati Uniti, soprattutto alla luce del fatto che questo paese - a differenza degli altri tre inclusi nel tour asiatico di Obama - non è formalmente un alleato di Washington.
Il comunicato ufficiale del governo malese ha cioè sottolineato la propria adesione ai principi avanzati dagli americani in merito alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, da risolversi attraverso un arbitrato internazionale e non con trattative bilaterali come vorrebbe Pechino.
Obama e il primo ministro Najib Razak hanno poi annunciato un innalzamento del livello delle relazioni tra i due paesi, legati ora da quella che è stata definita come una “partnership completa”, e ribadito la cooperazione militare in essere da tempo. In cambio, l’inquilino della Casa Bianca ha dato la propria legittimazione al governo autoritaro di Kuala Lumpur, rifiutandosi di incontrare il leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim, e tacendo sulle più recenti disavventure giudiziarie di quest’ultimo, vittima recentemente di nuovi procedimenti motivati politicamente.
Come è accaduto in occasione delle precedenti tappe del viaggio di Obama nei giorni scorsi, anche lunedì i media cinesi hanno accolto con estrema diffidenza le iniziative degli USA e dei loro alleati, così come le rassicurazioni del presidente che le intenzioni di Washington nulla avrebbero a che vedere con i tentativi di contenere l’espansione di Pechino.
Per l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, dunque, l’accordo difensivo tra gli Stati Uniti e le Filippine sarebbe “allarmante” e potrebbe spingere il governo di Manila ad intraprendere azioni “sconsiderate”. Secondo lo stesso editoriale, “l’amministrazione del presidente filippino Benigno Aquino ha messo in chiaro le proprie intenzioni: cercare il confronto con la Cina grazie all’appoggio degli USA”, rendendo perciò più difficile, “se non impossibile, una soluzione amichevole alle dispute territoriali” in corso.
L’atteggiamento sempre più provocatorio nei confronti della Cina da parte del presidente Aquino è indubbiamente la conseguenza dell’incoraggiamento americano, anche se gli stessi Stati Uniti, nonostante la retorica, continuano ad essere protagonisti diretti di gesti volti a mettere pressioni su Pechino.
Un articolo pubblicato lunedì dal Wall Street Journal, ad esempio, ha rivelato come il Comando USA dell’area Pacifico abbia già preparato una serie di risposte da mettere in atto in caso di “qualsiasi futura provocazione cinese nel Mar Cinese Orientale e Meridionale”.
Le misure previste - che vanno dall’invio di bombardieri B-2 ad esercitazioni di portaerei nei pressi delle coste della Cina - servirebbero anche a rassicurare gli alleati asiatici preoccupati per una possibile azione da parte di Pechino simile a quella russa in Crimea.
Simili “analisi” giornalistiche, così come gli annunci del governo di Washington, tralasciano però puntualmente di spiegare le vere ragioni della crisi ucraina come del vertiginoso aumento delle tensioni in Asia orientale, da ricercare non nelle ambizioni di Russia o Cina, bensì precisamente nella stessa provocatoria politica estera degli Stati Uniti.
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di Emanuela Muzzi
Londra. "To bet or not to bet, that is the question...”. Per stare al passo con i tempi Shakespeare, in occasione del suo 450esimo compleanno, dovebbe aggiornare il dubbio amletico e farsi una passeggiata in una delle high streets londinesi dove i “betting shops” proliferano e gli inglesi buttano soldi a palate nella speranza di ripagare i debiti. La scommessa su tutto e su tutti del resto è lo sport nazionale nel Regno Unito.
Il governo Tory-LibDem ha inizialmente spinto il business e puntato sugli incassi del “gambling ufficiale e legalizzato” il che ha portato al proliferare dei centri scommesse, postacci lugubri che degradano le strade principali e le aree commerciali.
Mentre la working class si avvelena con la nuova droga delle “crack cocaine”, ovvero i terminal elettronici per le scommesse, white collars e lobbies scommettono sul prossimo cavallo vincente: alle prossime elezioni politiche del 2015 Labour e Tory sono spalla a spalla al 35%, LibDem al 9% mentre i nazionalisti dell’Ukip al 13% (agenzia Populus dati aggiornati al 25 Aprile) mentre la polling agency YouGov dà i Labours al 38%, i CONs al 32%, l’ Ukip al 14% ed i LibDem all’8%. Per avere un’idea bisognerebbe mediare tra i due dati, ma come si sa, i polls possono sbagliare anche di molto e poi da qui al 2015 “it’s a long way to go”.
La verità è che, comunque, chi vive in Gran Bretagna sa che tira un’arietta inquinata, specialmente a Londra, dove l’intenzione di voto è ancora nebbiosa: gli inglesi non sanno più su chi scommettere.
Un indice della situazione è sicuramente il dibattito Clegg-Farage, un evento televisivo che ha “democratizzato” il volto bidimensionale del nazional-populista anti-immigrazione ed anti Europa Nigel Farage, segretario dell'Ukip (UK Independence Party), dandogli inoltre la possibilità di comunicare concetti arroganti e semplici alla vasta audience televisiva, esponendo al contempo la strutturale debolezza dialettica del leader LibDem, Nick Clegg, alle solide certezze di un razzista. Risultato: valanga di adesioni all’Ukip.
I polls lo danno come secondo partito vincente alle europee del prossimo 22 Maggio, data che coincide drammaticamente con le elezioni politiche locali in Inghilterra e Irlanda del Nord. Se la scommessa vincente sarà quella della destra xenofoba saranno le urne a dirlo, nel frattempo il “gambling” è sempre più sottobanco, anche perché, come spesso accade, chi vota estrema destra non lo dichiara.
Il plot di sapore shakespeariano alza il sipario sulla tragedia: Clegg lancia un grido d’allarme sulla catastrofe e punta la lancia bipartisan verso Labour e Tories: “Entrambi non stanno facendo nulla per fermare la destra xenofoba”, perché hanno paura di perdere voti e sono troppo indaffarati a tappare i buchi delle divisioni interne. Bisogna ammettere che almeno lui la faccia ce l’ha messa contro “il cattivo”.
Ma per vedere l'ultimo atto della vendetta di Amleto e del duello finale bisogna aspettare. Per il momento al posto della tragedia di William Shakespeare, qui a Londra, va in scena la tragedia di William Hill: il principale player dell’industria delle scommesse è disperato perché il governo ha aumentato la tassa sulle scommesse e si trova a chiudere almeno 900 dei suoi “betting shops”. Nella tragedia, almeno una buona notizia.
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di Michele Paris
A quasi un mese dal primo turno delle elezioni presidenziali in Afghanistan, la Commissione Elettorale Indipendente del paese tuttora sotto occupazione occidentale ha reso noti i risultati quasi definitivi che prospettano, come previsto, il ballottaggio tra i due candidati con il maggior numero di consensi. Il più votato sembra essere l’ex ministro degli Esteri fortemente gradito agli Stati Uniti, Abdullah Abdullah, con il 44,9%, seguito dall’economista Ashraf Ghani con il 31,5%.
Fuori dai giochi è rimasto invece il presunto favorito del presidente uscente Hamid Karzai, l’altro ex ministro degli Esteri Zalmay Rassoul (11,5%). Quest’ultimo, tuttavia, assieme al quarto classificato, l’islamista Abdul Rassoul Sayyaf (7,1%), potrebbe giocare ora un ruolo di primo piano nelle trattative già in corso per garantire il proprio blocco elettorale a uno dei due candidati qualificatisi per il secondo turno.
I risultati appena annunciati sono comunque considerati ancora provvisori, visto che che essi dovranno essere combinati con il responso della commissione incaricata di verificare le denunce di brogli che pesano su circa mezzo milione di voti sui 7 milioni espressi.
Secondo quanto comunicato ai media dalle autorità afgane, i dati definitivi dovrebbero essere diffusi il 14 maggio prossimo e la data del ballottaggio - nel caso quasi certo che Abdullah non riuscisse a superare la soglia del 50% anche dopo un’eventuale modifica dei risultati preliminari - potrebbe essere fissata al 7 giugno.
Come previsto dalla Costituzione, il presidente Karzai non ha potuto candidarsi per un terzo mandato alla guida del paese centro-asiatico dopo avere vinto tra pesanti accuse di brogli nel 2004 e nel 2009. Cinque anni fa, in particolare, lo stesso Abdullah si rifiutò di partecipare al ballottaggio dopo essere giunto dietro a Karzai nel primo turno.
Scrupolo principale degli Stati Uniti, in ogni caso, è quello di installare a Kabul un nuovo governo fantoccio con un leader che causi meno problemi di quelli sorti negli ultimi anni dell’amministrazione Karzai, durante i quali il presidente ha ripetutamente criticato gli occupanti, soprattutto per i raid notturni delle forze speciali USA nelle abitazioni private dei cittadini afgani che continuano a causare vittime civili.
Obiettivo americano è in primo luogo quello di giungere finalmente alla firma del sospirato “trattato bilaterale per la sicurezza” che consentirà a Washington di mantenere un significativo contingente militare in Afghanistan dopo il ritiro delle forze straniere di combattimento previsto per il 31 dicembre prossimo.
Se Karzai si è ripetutamente rifiutato di sottoscrivere l’accordo a causa dell’impopolarità della presenza USA nel suo paese, tutti gli otto candidati alla carica di presidente hanno manifestato la loro intenzione di firmare il documento, negoziato da tempo con l’amministrazione Obama per assicurare la presenza indefinita in Afghanistan di circa dieci mila soldati in una manciata di basi militari.
D’altra parte, sia Abdullah che Ghani hanno avuto modo di mostrare la loro fedeltà all’autorità occupante negli anni successivi all’invasione. Il primo è stato il ministro degli Esteri di Karzai dal dicembre del 2001 al 2005 e, pur essendo di etnia mista Pashtun e Tagika, ottiene la gran parte dei consensi nel paese tra i membri della seconda. Inoltre, Abdullah è stato in grado di intercettare i voti dell’etnia Hazara grazie alla nomina a candidato alla vice-presidenza del “warlord” Mohammad Mohaqiq.
Ashraf Ghani, invece, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti dove ha conseguito un master alla Columbia University e ha insegnato a Berkeley e alla Johns Hopkins. Di etnia Pashtun e ministro delle Finanze di Karzai tra il 2002 e il 2004, Ghani ha anche lavorato per la Banca Mondiale negli anni Novanta.
In queste elezioni si è presentato al fianco del candidato vice-presidente Abdul Rashid Dostum, leader dell’etnia Uzbeka e discusso comandante militare di una milizia anti-talebana che nell’ottobre del 2001 massacrò oltre duemila prigionieri arresisi nella località di Kunduz, nell’Afghanistan settentrionale.
Nonostante il vantaggio di Abdullah dopo il primo turno, l’esito finale della corsa alla presidenza appare tutt’altro che scontato. Il terzo classificato, Abdul Rassoul Sayyaf, gode infatti del sostegno del potente clan Karzai, le cui risorse potrebbero risultare decisive per il candidato che eventualmente riuscirà ad assicurarsi il suo appoggio in vista del ballottaggio.
Sia Abdullah che Ghani hanno inoltre già promesso un qualche ruolo per Karzai all’interno della nuova amministrazione. Il presidente e il suo clan, da parte loro, sono fortemente interessati a mantenere gli appoggi necessari per conservare le ricchezze accumulate in questi anni e la loro posizione di potere in Afghanistan.
Secondo i media occidentali, il primo turno delle presidenziali andate in scena il 5 aprile scorso sarebbe stato un successo inaspettato. Su 12 milioni di elettori registrati, 7 si sono recati alle urne, anche se più di un seggio su dieci è rimasto chiuso per il timore di possibili attacchi dei Talebani.
Questi ultimi, tuttavia, non sono stati protagonisti di incursioni su larga scala come nelle elezioni precedenti, secondo molti osservatori per risparmiare le forze in previsione della tradizionale offensiva di primavera che potrebbe essere scatenata nelle prossime settimane.
Pur in un clima relativamente normale, il voto si è tenuto alla presenza di centinaia di migliaia di soldati afgani dispiegati per il paese, mentre nelle città principali come Kabul o Kandahar la popolazione è stata sottoposta a numerosi blocchi stradali e a controlli pervasivi.
Gli Stati Uniti, infine, oltre ad avere finanziato con oltre 100 milioni di dollari la consultazione elettorale che dovrebbe segnare il primo passaggio di poteri pacifico nella storia dell’Afghanistan, continua ad avere 33 mila soldati nel paese sui 50 mila totali che compongono le forze di occupazione.
Un simile scenario, perciò, rende a dir poco assurde le congratulazioni espresse dall’amministrazione Obama per il processo “democratico” di un Afghanistan “sovrano”, rivelando ancora una volta l’ipocrisia della politica estera degli Stati Uniti, fortemente critici – ad esempio – nei confronti del presunto ruolo della Russia nel referendum, non riconosciuto, organizzato in Crimea nel mese di marzo.
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di Michele Paris
Barack Obama ha inaugurato una delicata trasferta in Asia che sarà caratterizzata dai tentativi di rassicurare i principali alleati di Washington circa l’impegno americano nel continente di fronte ad una Cina sempre più intraprendente. Il tono della visita del presidente degli Stati Uniti è stato fissato in un’intervista ad un quotidiano giapponese alla vigilia del suo arrivo a Tokyo, nella quale le minacce verso Pechino sono state a malapena celate dagli appelli a risolvere diplomaticamente le controversie che stanno agitando l’Estremo Oriente.
Dopo il Giappone, il presidente americano si recherà in Corea del Sud e successivamente in Malaysia e nelle Filippine. Il viaggio in corso è stato deciso dall’amministrazione democratica per rimediare a quello cancellato lo scorso ottobre nel pieno della crisi interna seguita alla mancata approvazione del bilancio federale USA.
La presenza in Asia e le parole di Obama sono state accolte con estrema diffidenza in Cina, dove l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha definito ad esempio la politica USA nel continente “uno schema calcolato per ingabbiare il gigante asiatico in rapida crescita”. Ancora, l’editoriale apparso mercoledì ha invitato Washington a “riconsiderare il proprio anacronistico sistema di alleanze” e a smettere di “assecondare gli alleati, come Giappone e Filippine, i quali hanno riacceso le tensioni nella regione con azioni provocatorie”.
Una chiara provocazione è invece quella che è apparsa sulle pagine della testata nipponica Yomiuri Shimbun poco prima dell’atterraggio di Obama in Giappone. Il presidente democratico ha ribadito quanto avevano sostenuto alcuni esponenti della sua amministrazione nelle precedenti trasferte asiatiche, a cominciare dal numero uno del Pentagono Chuck Hagel lo scorso novembre, e cioè che gli Stati Uniti sono sostanzialmente pronti a dichiarare guerra alla Cina.
Ciò avverrebbe nel caso dovessero scoppiare le ostilità tra Pechino e Tokyo attorno alla sovranità sulle isole Senkaku (Diaoyu in cinese), la cui difesa rientrerebbe appunto nel dettato dell’articolo 5 del trattato di mutua cooperazione tra USA e Giappone, il quale prevede l’intervento militare in caso di aggressione ai danni di quest’ultimo. Queste isole nel Mar Cinese Orientale sono controllate da Tokyo ma rivendicate dalla Cina e negli ultimi anni sono state al centro di un’accesa disputa tra i due paesi soprattutto a causa di iniziative provocatorie da parte giapponese, come la nazionalizzazione decisa dal precedente governo Democratico nel settembre del 2012.
L’arrivo di Obama, inoltre, era stato anticipato da un’altra provocazione giapponese. Lunedì il primo ministro, Shinzo Abe, aveva inviato un’offerta votiva al tempio shintoista Yasukuni, considerato una sorta di simbolo del militarismo del Giappone e dedicato ai caduti nei conflitti del passato, tra cui figurano svariati criminali di guerra. Abe aveva visitato di persona lo stesso tempio lo scorso dicembre, suscitando come di consueto le proteste di Cina e Corea del Sud.
Come se non bastasse, il giorno successivo il ministro dell’Interno di Tokyo, Yoshitaka Shindo, e circa 150 membri del P
arlamento si sono recati a Yasukuni, provocando nuovamente le reazioni di Pechino e Seoul proprio alla vigilia della visita di Obama.
Scopo dell’incontro con Abe dovrebbe essere anche quello di promuovere la firma della cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), il mega-trattato di libero scambio in fase di negoziazione tra dodici paesi asiatici e del continente americano, di cui USA e Giappone sono i membri più importanti.
Se in molti soprattutto a Washington si aspettavano un annuncio sul raggiungimento di un accordo definitivo in concomitanza con la visita di Obama a Tokyo, le aspettative sono diminuite nelle ultime settimana, visto che permangono alcuni disaccordi tra la prima e la terza potenza economica del pianeta, in particolare attorno alle questione delle tariffe doganali sui prodotti agricoli.
Le divergenze sul TPP sono fortmente rivelatrici delle tensioni latenti tra USA e Giappone, conseguenza indesiderata della “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama, la quale al contrario aveva come obiettivo l’allineamento strategico totale con Tokyo in un frangente storico caratterizzato dalla crescente rivalità con la Cina.
In definitiva, il riorientamento strategico verso l’Asia degli Stati Uniti ha come obiettivo l’affermazione dell’egemonia americana assoluta nel continente, finendo per causare frizioni con un governo di estrema destra come quello giapponese, intenzionato a ritrovare un proprio spazio indipendente nel continente attraverso il riarmo e la promozione di sentimenti nazionalistici.
Quest’ultima evoluzione con il gabinetto Abe e in concomitanza con il peggioramento dell’economia ha fatto emergere gli interessi talvolta divergenti tra Tokyo e Washington, resi evindenti non solo dalla questione del TPP ma anche dal persistente gelo tra Giappone e Corea del Sud, la cui partnership in funzione anti-cinese dovrebbe essere invece uno dei capisaldi della strategia americana in Asia orientale.
Le stesse complicazioni Obama le incontrerà anche durante la seconda tappa del suo tour asiatico, a Seoul. Qui, il presidente americano giunge inoltre nel pieno di un nuovo scontro tra Nord e Sud, con accuse nei confronti di Pyongyang per un ulteriore presunto test nucleare che il regime stalinista potrebbe mettere in atto nel prossimo futuro.
Importante sarà infine anche la sosta nelle Filippine, il cui governo del presidente Benigno Aquino ha anch’esso assunto negli ultimi anni un atteggiamento di sfida nei confronti di Pechino fino a sfiorare in più occasioni lo scontro aperto a causa di alcune isole contese nel Mar Cinese Meridionale.
Manila rappresenta d’altra parte un altro alleato cruciale per gli Stati Uniti nel tentativo di accerchiamento della Cina, in questo caso sul fianco meridionale. Nelle Filippine, infatti, Obama discuterà gli ultimi dettagli di un accordo bilaterale che dovrebbe garantire una presenza fissa di un contingente militare americano nelle basi del paese del sud-est asiatico.