di Andrea Santoro

A distanza di un mese dall’accordo sulla tregua stipulato dal Governo Ucraino, dalla federazione Russa e dalle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, sotto il controllo dell’OSCE, la situazione non appare migliorare, né tantomeno le promesse del presidente ucraino Poroshenko sul ritiro graduale delle truppe sembrano trovare riscontro nelle notizie che arrivano dalla capitale, dove si continua a sparare e i colpi delle armi pesanti rimbombano quotidianamente nei pressi dell’aeroporto.

L’accordo di pace prevedeva, oltre ovviamente al cessate il fuoco, la ritirata di entrambi gli schieramenti per una distanza di almeno quindici chilometri dalle zone di conflitto e la tutela dei corridoi umanitari. Purtroppo già dalla notte successiva alla firma dell’accordo, quella tra il sei e il sette settembre, si è capito chiaramente che la situazione non sarebbe migliorata in tempi brevi, visto che già dal mattino seguente gli osservatori OSCE riportavano il lancio di missili ad opera del governo ucraino dall’interno dell’aeroporto verso le case dei civili, registrando altre vittime tra i civili.
Ad oggi, otto ottobre, il conteggio dei morti durante la tregua è di ottantotto persone, mentre i feriti sono 316.

I numerosi osservatori internazionali presenti sul luogo riportano come il centro delle città di Donetsk e Lugansk siano al momento tranquille, con negozi aperti, uffici funzionanti e ospedali operativi; ciononostante nella zona nord della città di Donetsk si continua a combattere per il controllo dell’aeroporto, tuttora occupato dalle forze governative che, sfruttando l’intricato tessuto di cunicoli costruito in epoca sovietica, vengono quotidianamente accusate di continuare ad accumulare armi per tentare una nuova avanzata, nonostante quello attuale sia l’unico spazio ormai rimasto all’esercito di Kiev, che sembra però intenzionato a non demordere.

È proprio in questa zona che nelle ultime ore si sono intensificati i combattimenti, dopo che il sei ottobre il municipio di Donetsk ha dato notizia di quattro cittadini morti per mano dell’esercito regolare ucraino, che di fatto assedia un’area russofona che, tramite referendum popolare e la scelta di autodeterminazione, di fatto ignorata se non addirittura derisa da Unione Europea e Stati Uniti, ha scelto di essere indipendente o Stato confederato del territorio russo.

Chiaramente da parte di Kiev non vi è alcuna risposta riguardo le vittime, si preferisce anzi demandare la responsabilità delle violenze ai ribelli, inverosimilmente accusati di sparare sui propri concittadini: il primo ottobre, primo giorno di scuola, un colpo di mortaio sparato a soli quattro chilometri dall’aeroporto ha causato altre sette vittime, tutti civili.

Durante questi trentun giorni di supposta tregua nessun osservatore internazionale ha confermato la presenza di soldati o corpi speciali russi, non escludendo però che possano esserci volontari provenienti da Mosca tra le fila dei ribelli; viceversa l’unica presenza russa confermata è formata dal continuo invio di aiuti umanitari: dopo i primi due convogli in aiuto della città di Lugansk, durante le prime due settimane di settembre sono stati inviati circa duecento camion a Donetsk con duemila tonnellate di cibo, vestiti, acqua e generatori di energia.

La maggioranza dei primi ministri europei ha definito questo transito di aiuti umanitari, vagliati e approvati dall’OSCE, come un gravissimo gesto di prevaricazione nei confronti della sovranità nazionale ucraina da parte della Russia, il presidente Renzi ha inoltre dichiarato a riguardo che bisogna “essere uniti nella condanna del comportamento della Russia e sono inaccettabili le violazioni del diritto internazionale”.

Evidentemente non vengono considerate tali le continue violazioni degli accordi da parte del braccio armato del presidente Poroshenko, soprattutto per quanto riguarda le clausole della tregua: le truppe governative non sono state ritirate entro i quindici chilometri concordati, anzi, al contrario, hanno mantenuto la posizione continuando ad armare quel che resta dell’aeroporto, ormai praticamente raso al suolo.

In realtà le repubbliche cosiddette “separatiste” della regione del Donbass sono tre, Lugansk, Donetsk e Charkiv, ma soltanto le prime due sono al centro delle contese internazionali ed il motivo è facilmente immaginabile: la zona geografica compresa all’interno del bacino del Donec produce autonomamente il 20% del PIL complessivo ucraino.

Certo è una facile strategia, per i media europei e per i rappresentati nazionali e internazionali, agitare lo spettro del bolscevismo o evocare Putin il malvagio, delegando alle oligarchie la responsabilità di tanto sangue: incolpare il presidente russo di essere un oligarca, per quanto possa avere dei risvolti di concretezza, appare ironico se contrapposto al presidente Poroshenko, personaggio molto influente all’interno dell’economia Ucraina.

Appare singolare inoltre come la volontà popolare di autodeterminazione, così spesso ricordataci e invocata dai portavoce delle Nazioni Unite, venga così ampiamente disattesa: i risultati referendari hanno lasciato spazio a ben poche interpretazioni, considerata un’affluenza media dell’ 80% in Paesi dove l’astensionismo è prassi, cui va aggiunto un risultato che ha visto trionfare il “si” all’indipendenza con una media del 96%.

E ancora: considerato che la cultura locale esprime la propria essenza attraverso la lingua russa, non appare chiaro il motivo per cui le genti ucraine dovrebbero sottostare ad un’autorità sovranazionale quale la comunità europea, da cui, oltre al cambio di moneta, erediterebbero sanzioni e debito pubblico mai contratti.

Nel frattempo è forte l’apprensione tra i civili dell’area del Donbass per le previste esercitazioni congiunte dell’esercito governativo con le forze delle Nazioni Unite e sono già molte le manifestazioni in programma al fine di scongiurare questa possibilità, che potrebbe trasformare l’esercito governativo da occupante illegittimo a forza militare stabile, ripristinando lo status quo precedente al referendum.

Non resta perciò che attendere l’arrivo dell’inverno, che i meteorologi prevedono se possibile ancor più rigido del solito: continua contingentemente l’embargo russo sul gas, e per l’esercito ucraino sarà molto complesso riuscire ad avanzare senza la necessaria ed adeguata attrezzatura. Sono infatti molti i malumori tra i soldati dovuti alla mancanza del materiale necessario, oltre alla consapevolezza che l’inverno, in una Ucraina senza gas, sarà quanto mai lungo e difficile.




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