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di Michele Paris
Con la scadenza per trovare un accordo definitivo sul nucleare iraniano sempre più vicina, i paesi impegnati nel negoziato con la Repubblica Islamica sembrano essere ancora lontani dall’appianare tutte le divergenze emerse in oltre un decennio di dispute e in mesi di estenuanti trattative. Dopo una serie di incontri in varie capitali europee, anche il segretario di Stato americano, John Kerry, è giunto giovedì a Vienna per presenziare di persona a quelle che dovrebbero essere le fasi finali dei negoziati prima del termine fissato per lunedì prossimo.
L’ex senatore democratico aveva incontrato a Londra le proprie controparti di Gran Bretagna e Oman per poi raggiungere a Parigi i ministri degli Esteri francese e saudita. Il primo summit è stato cioè con governi relativamente aperti a un accordo equo, con il sultanato dell’Oman che lo scorso anno aveva svolto un ruolo decisivo nel raggiungimento di un’intesa provvisoria tra Washington e Teheran, mentre il secondo con rappresentanti di paesi che hanno al contrario assunto finora una posizione più intransigente.
Nella capitale austriaca le trattative tra le delegazioni dell’Iran e dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sono in corso dall’inizio della settimana nel tentativo di trovare un accordo o, quanto meno, un punto d’incontro che permetta di prorogare nuovamente le discussioni.
Il vertice in corso a Vienna è il culmine dell’accordo di Ginevra siglato tra le parti lo scorso anno ed entrato in vigore il 20 gennaio. L’accordo ad interim era stato poi prolungato per altri quattro mesi una volta preso atto dell’impossibilità di arrivare a un’intesa di ampio respiro entro la scadenza originaria del 20 luglio.
Le questioni più spinose sulle quali sarebbero arenate le trattative riguardano in particolare i tempi dell’eventuale revoca delle sanzioni economiche che gravano sull’Iran e le capacità di arricchimento che Teheran avrebbe facoltà di mantenere nel prossimo futuro per sviluppare un programma nucleare civile.
Secondo i media occidentali, l’atmosfera a Vienna non sarebbe tale da far prevedere un accordo entro il 24 novembre. Allo stesso tempo, nessuna delle parti sembra volere un crollo dei negoziati, così che la soluzione più probabile potrebbe essere un ulteriore prolungamento.A Washington, l’appena nominato numero due del Dipartimento di Stato, il vice-consigliere del presidente per la sicurezza nazionale Anthony Blinken, ha definito l’intesa con l’Iran “non impossibile”, ma ha attribuito la responsabilità per il raggiungimento di essa interamente a Teheran.
Il successo, ha spiegato Blinken, “dipende totalmente dal fatto che l’Iran sia disposto a fare le mosse che convincano noi e i nostri partner che il suo programma [nucleare] ha fini esclusivamente pacifici. Al momento, tuttavia, non siamo ancora a questo punto”.
Che l’Iran abbia piani per lo sviluppo di un programma nucleare con fini diversi da quelli civili non vi è in realtà alcuna prova e, oltrettutto, la validità dei riscontri portati dai governi occidentali e da Israele per dimostrare l’esecuzione di test militari in passato è stata messa in dubbio da più parti.
La riuscita dei negoziati e il ristabilimento delle normali relazioni tra l’Iran e l’Occidente, così come il ritorno a tutti gli effetti di questo paese nei circuiti del capitalismo internazionale, non dipende se non in minima parte dalle scelte e dalle decisioni del governo di Teheran o, più precisamente, della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei.
L’eventuale fine dello scontro sulla questione del nucleare ha a che fare invece molto più con fattori strategici legati all’opportunità - principalmente per gli Stati Uniti e, in seconda battuta, dei loro alleati - di normalizzare i rapporti con Teheran al fine di facilitare il perseguimento degli interessi occidentali in Medio Oriente.
L’esito positivo delle discussioni, secondo gli osservatori, è legato anche alle decisioni dei vertici della Repubblica Islamica, nella misura cioè in cui la delegazione guidata dal ministro degli Esteri, il “moderato” Mohammad Javad Zarif, riuscirà a far digerire ai “falchi” in patria le concessioni imposte dall’Occidente in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni.
E le concessioni richieste è probabile che siano al limite della tollerabilità per Teheran, visto che il presidente della commissione parlamentare per il nucleare, Ebrahim Karkhaneh, in un’intervista rilasciata settimana scorsa all’agenzia di stampa iraniana Tasnim aveva accusato gli Stati Uniti di avere riportato i negoziati “indietro al livello zero”.
Karkhaneh si riferiva a un documento presentato dalla delegazione USA agli iraniani nel corso di un vertice in Oman ai primi di novembre, nel quale venivano elencate richieste impossibili da accettare, a cominciare dal numero e dalla qualità delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio da mantenere in funzione.Oltre a ciò, gli Stati Uniti avrebbero sollevato altre questioni delicate, come la sospensione a “lungo termine” del controverso reattore di Arak per la produzione di uranio e la possiblità di eseguire ispezioni internazionali virtualmente “illimitate”, anche in installazioni militari.
L’amministrazione Obama, d’altra parte, è a sua volta esposta a forti pressioni per imporre i termini più duri possibili all’Iran, soprattutto dopo la vittoria dei repubblicani nelle recenti elezioni di metà mandato. Al Congresso sono infatti già in preparazione proposte di legge non per smantellare le sanzioni, bensì per insaprirle se Teheran non si piegherà ai diktat di Washington.
Un prolungamento dei negoziati potrebbe comunque soddisfare un po’ tutte le parti in causa, come ha confermato giovedì la Associated Press citando esponenti del governo USA ma anche di quello israeliano. Da un lato, la nuova maggioranza al Congresso guadagnerebbe tempo per impostare una politica più articolata nei confronti dell’Iran, sia pure mantenendo la consueta linea dura, mentre dall’altro si eviterebbero rotture diplomatiche in un frangente delicato, visto soprattutto che Washington e Teheran stanno di fatto collaborando nella guerra in corso allo Stato Islamico (ISIS) in Iraq.
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di Michele Paris
L’unica modestissima proposta di “riforma” dei programmi di sorveglianza condotti dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) in discussione negli Stati Uniti è morta questa settimana al Congresso di Washington dopo che il Senato ha impedito l’approdo in aula per il voto al cosiddetto USA Freedom Act. Il provvedimento era stato unanimemente definito “di ampia portata” dalla stampa d’oltreoceano e ai suoi sostenitori sono mancati appena due voti per raggiungere i 60 necessari al superamento di un ostacolo procedurale detto “filibuster”.
A votare a favore dello USA Freedom Act sono stati quasi tutti i democratici con l’aggiunta di quattro repubblicani, tra cui uno dei possibili candidati alla presidenza nel 2016, il senatore del Texas Ted Cruz. Le maggiori recriminazioni si sono concentrate su due senatori che sembravano dover sostenere la legge, il democratico della Florida Bill Nelson - unico del suo partito a votare contro - e il repubblicano del Kentucky Rand Paul, stella del movimento libertario che ha correttamente giudicato l’iniziativa non abbastanza incisiva per porre un freno alle intercettazioni della NSA.
La legge appena bocciata intendeva portare fondamentalmente tre modifiche alle modalità con cui la NSA ha facoltà di raccogliere i “metadati” telefonici degli americani. In primo luogo, le informazioni non avrebbero dovuto più essere custodite direttamente dalla NSA ma sarebbero state conservate dalle compagnie telefoniche per un periodo non diverso da quello attuale, generalmente 18 mesi. La stessa agenzia, inoltre, per analizzare i metadati avrebbe dovuto presentare specifiche richieste per ogni singola intercettazione al cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), il quale peraltro ha finora sempre approvato le istanze del governo salvo in casi più unici che rari.
La legge prevedeva poi la creazione di una sorta di avvocato difensore dei destinatari dei provvedimenti di intercettazione nel corso delle udienze del FISC, ma non la presenza di questi ultimi. Attualmente, le udienze avvengono in totale segretezza e l’unica parte rappresentata è quella del governo.
Infine, le sentenze del FISC avrebbero dovuto essere rese pubbliche almeno in parte. Quest’ultima prescrizione era comunque di fatto vanificata da un’eccezione prevista nel caso la pubblicazione delle sentenze fosse stata giudicata rischiosa per la sicurezza nazionale.
La portata limitata della “riforma” presentata dal senatore democratico del Vermont e presidente della commissione Giustizia, Patrick Leahy, era dunque evidente. Non solo la NSA avrebbe continuato ad avere accesso ai dati telefonici degli americani, sia pure passando da un tribunale che rappresenta una parodia della giustizia, ma nulla sarebbe cambiato in merito allo stesso programma di sorveglianza relativo agli utenti stranieri o alle numerose altre operazioni illegali che vengono condotte negli USA e nel resto del mondo, a cominciare dal controllo del traffico sul web.
Oltretutto, anche con l’approvazione dello USA Freedom Act, la NSA avrebbe potuto continuare ad ascoltare liberamente le tefonate degli americani senza il permesso del FISC nel caso questi ultimi avessero comunicato con cittadini di altri paesi presi di mira dalle intercettazioni. Il senatore Leahy ha comunque criticato aspramente i repubblicani per avere affossato il provvedimento, accusandoli di avere agitato lo spettro di possibili attacchi terroristici se fosse stata implementata una qualsiasi limitazione delle facoltà della NSA.Con un misto di ignoranza e disonestà, un altro presunto candidato alla Casa Bianca per i repubblicani - il senatore della Florida Marco Rubio - ha collegato la legge al rischio di attentati in territorio americano da parte di membri dello Stato Islamico (ISIS). “Dio non voglia che domani ci dovessimo svegliare con la notizia che un membro dell’ISIS si trova negli Stati Uniti”, ha avvertito Rubio, aggiungendo che, “se la NSA non potrà intercettare le telefonate”, i piani terroristici di qualche fantomatico jihadista potrebbero essere portati a termine senza ostacoli.
Se ciò dovesse avverarsi, ha sostenuto poi il senatore cubano-americano, “la prima domanda da fare sarebbe: perché non ne eravamo al corrente ?”. Pur riferendosi implicitamente agli attacchi dell’11 settembre 2001, quando la NSA, per quanto è dato sapere, non aveva i poteri di sorveglianza attuali, Rubio, legato mani e piedi ai mafiosi della FNCA di Miami, ha ovviamente evitato di spiegare come il World Trade Center e il Pentagono abbiano potuto essere colpiti quando l’amministrazione Bush aveva a disposizione informazioni di intelligence che mettevano in guardia da attacchi terroristici con aerei dirottati.
La minaccia dell’ISIS da cui hanno messo in guardia i senatori repubblicani era stata citata alla vigilia del voto anche da due ex membri dell’amministrazione Bush, l’ex ministro della Giustizia Michael Mukasey e l’ex direttore della CIA Michael Hayden, i quali erano intervenuti firmando un articolo sul Wall Street Journal dal titolo: “La riforma della NSA che solo l’ISIS potrebbe apprezzare”.
Il riferimento all’ISIS ha così trovato spazio sui media americani anche se appare semplicemente assurdo, se non altro perché lo USA Freedom Act, come già ricordato, non avrebbe intaccato la possibilità della NSA di condurre le proprie operazioni all’estero.
Lo stop alla legge è stato definito uno schiaffo al presidente Obama, il quale ne aveva raccomandato l’approvazione nonostante l’ostinata difesa da parte della sua amministrazione dei programmi illegali di sorveglianza rivelati da Edward Snowden.
Oltre al Presidente, anche le principali compagnie di telecomunicazioni avevano sostenuto il provvedimento, aggiungendo perciò ulteriori dubbi all’efficacia di quest’ultimo. In realtà, la “riforma” della NSA sarebbe servita alla Casa Bianca e ai democratici come schermo per consentire la sostanziale prosecuzione dei programmi illegali, pur dando l’apparenza del cambiamento.
Anche per questa ragione il Partito Democratico si era compattato sulla legge in discussione, con i “falchi” della sicurezza nazionale - come la presidente della commissione del Senato per i Servizi Segreti, Dianne Feinstein - e quelli “liberal”, oppositori nominali della NSA, che hanno votato a favore del provvedimento malgrado le perplessità per il fatto che, rispettivamente, fosse considerata troppo severa o troppo poco incisiva.
I senatori “liberal”, poi, hanno garantito il loro voto favorevole anche se la legge era stata sensibilmente indebolita rispetto al progetto iniziale, spiegando che essa avrebbe potuto rappresentare il primo passo verso una riforma complessiva, quanto irrealizzabile, dei programmi della NSA per ristabilire i principi costituzionali negli Stati Uniti.Qualsiasi “riforma” è destinata invece a rimanere lontano dall’aula nel prossimo futuro, visto che da gennaio il Senato, come già la Camera dei Rappresentanti, sarà a maggioranza repubblicana. La discussione al Congresso sull’argomento NSA riemergerà però nei prossimi mesi, visto che l’autorizzazione alla raccolta delle informazioni telefoniche a tappeto - basata sul dettato del famigerato Patriot Act - scade nel mese di giugno e, per proseguire, dovrà essere prorogata con un voto del Congresso.
Anche se potrebbe esserci qualche scaramuccia tra i repubblicani di tendenze libertarie, che vedono con estremo sospetto l’espansione di qualsiasi prerogativa del governo, e quelli “mainstream”, il rinnovo dell’autorizzazione dei programmi illegali della NSA non dovrebbe incontrare particolari ostacoli.
A oltre un anno dalle prime esplosive rivelazioni di Snowden, che hanno mostrato la rapida edificazione delle fondamenta di uno stato di polizia negli Stati Uniti, la classe dirigente americana non è stata dunque in grado di assicurare nemmeno una minima riduzione dei poteri assegnati a un apparato della sicurezza nazionale totalmente fuori controllo.
Dell’impegno per la difesa dei più fondamentali diritti costituzionali non vi è d’altra parte più traccia da tempo a Washington, dove i rappresentanti di una ristretta oligarchia difendono strenuamente politiche anti-democratiche rivolte contro i propri nemici: non il terrorismo internazionale bensì la grande maggioranza della popolazione americana.
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di Mario Lombardo
Di fronte all’offensiva americana volta a contenere l’espansione del proprio paese, il presidente cinese Xi Jinping è stato protagonista nei giorni scorsi di una serie di annunci e discorsi - durante e a margine degli appuntamenti internazionali del G-20 e dell’APEC - che hanno chiarito la strategia di Pechino per cercare di rompere l’accerchiamento in cui rischia di trovarsi la futura prima economia del pianeta.
Anche se in maniera indiretta, il leader del Partito Comunista Cinese ha in particolare risposto al presidente Obama con un’apparizione al Parlamento australiano un paio di giorno dopo l’intervento a Brisbane del collega americano.
Il messaggio di Xi è stato sostanzialmente rassicurante nei confronti dell’Australia, prospettando le occasioni a disposizione della borghesia indigena se il paese dovesse decidere di costruire una partership più solida con Pechino. “Un ambiente domestico armonico e stabile” assieme a “un ambiente internazionale pacifico” è quanto di cui ha bisogno la Cina, ha spiegato Xi, promettendo che il suo paese “non crescerà mai a spese degli altri”. Al contrario, il presidente cinese ha lanciato una dura critica a Stati Uniti e Giappone, sia pure senza nominarli, sostenendo che “i paesi che perseguono politiche bellicose sono destinati a morire” e a “sparire dalla storia”.
Cina e Australia avrebbero inoltre “tutte le ragioni per andare al di là delle loro relazioni economiche”, in modo da diventare “partner strategici che hanno una visione univoca e inseguono obiettivi comuni”. L’Australia, al contrario di USA e Giappone, non ha d’altra parte “problemi storici” con la Cina e anche per questo i due paesi possono essere “vicini che convivono in armonia”.
Xi ha comunque avvertito che la Cina non transigerà sui suoi interessi fondamentali, con un chiaro riferimento alla questione di Taiwan e alle dispute territoriali con vari paesi nel Mar Cinese Orientale e Meridionale. Le controversie con i propri vicini, in ogni caso, “possono essere risolte pacificamente” come Pechino ha già fatto in passato.
La leva principale del discorso di Xi a Canberra è stata rappresentata però dall’economia, visto che la Cina è il primo partner commerciale dell’Australia. Il presidente cinese non è apparso cioè interessato a lanciare velate minacce alla classe dirigente australiana per avere in sostanza assecondato gli Stati Uniti nei preparativi di un possibile conflitto con Pechino.
Anzi, Xi ha prospettato un futuro fatto di relazioni economiche ancora più solide, con la Cina che continuerà ad acquistare materie prime e altri prodotti dall’Australia per centinaia di miliardi di dollari, mentre investirà massicciamente in questo paese.
L’evoluzione delle relazioni bilaterali tra Pechino e Canberra auspicata da Xi comporterebbe tuttavia una drastica e delicatissima modifica degli orientamenti strategici dell’Australia, la quale dovrebbe di fatto rinunciare all’allineamento incondizionato con gli Stati Uniti, assicurato almeno dagli ultimi due governi laburista e conservatore.Come ha spiegato un commento pubblicato martedì dal quotidiano di Melbourne The Age, “la vicinanza strategica proposta [da Xi] metterebbe l’Australia in una posizione di compromesso, potenzialmente insostenibile, tra l’essere un partner militare e geografico cruciale per gli Stati Uniti nel loro riassetto verso la regione Asia-Pacifico… e il condividere interessi strategici con la Cina che vanno contro gli USA”.
In definitiva, Xi ha sfruttato e intende continuare a sfruttare a proprio vantaggio il dilemma che attraversa la classe dirigente e il business australiano, tra l’essere appunto una pedina di importanza vitale nella strategia americana in Asia e lo sviluppare lucrosi rapporti commerciali con il gigante cinese.
Un dilemma che scaturisce precisamente dall’impossibilità nel medio o lungo periodo di mantenere una posizione equidistante tra Washington e Pechino, poiché la strategia asiatica inaugurata dall’amministrazione Obama fin dal 2009 non ammette vie di mezzo, così come non ammette la crescita indipendente della Cina e il perseguimento, da parte di quest’ultima, di politiche da grande potenza che minaccino la supremazia USA in un’area fondamentale del pianeta.
L’identica incertezza sul futuro da dare agli orientamenti del proprio paese interessa non solo la classe dirigente australiana ma anche quelle di molti paesi dell’Estremo Oriente - come ad esempio le Filippine, l’Indonesia, la Thailandia o lo stesso Giappone - che vedono crescere esponenzialmente le proprie relazioni commerciali con la Cina pur conservando alleanze politiche o militari con gli Stati Uniti.
Pechino, d’altra parte, non potendo competere militarmente con Washington, offre incentivi economici spesso molto difficili da respingere. D’altro canto, gli USA cercano di intensificare soprattutto la cooperazione militare anti-cinese con molti paesi, dal momento che non hanno alcuna possibilità di tenere il passo di Pechino sul fronte economico, essendo anche l’inarrestabile declino della potenza economica americana ciò che sta alla base dell’aggressività evidenziata in Asia orientale.
Per la Cina, dunque, la speranza è che l’intensificazione dei rapporti commerciali con i propri vicini possa nel prossimo futuro minare le partnership stabilite dagli Stati Uniti con paesi come l’Australia, i quali vedrebbero così a rischio i propri interessi, sempre più legati a quelli di Pechino, appoggiando Washington in un eventuale conflitto tra le prime due potenze economiche del pianeta.
Che la strategia cinese possa raggiungere il proprio scopo pacificamente è tutto da vedere. Infatti, gli USA intendono contenere con ogni mezzo possibile proprio la crescente influenza di Pechino, soprattutto sul fronte economico, e hanno già mostrato di essere pronti a scatenare una guerra rovinosa per difendere i loro interessi strategici.Ad ogni modo, per il momento la scommessa australiana sembra essere quella di provare a bilanciare l’asservimento agli Stati Uniti - mostrato in più occasioni negli ultimi mesi dal primo ministro, Tony Abbott - con la possibilità di trarre i maggiori profitti possibili dalle relazioni con la Cina.
Anche in questo senso è da considerare il Trattato di Libero Scambio firmato tra i due paesi nei giorni scorsi dopo anni di negoziati. Secondo quanto sottoscritto da Pechino e Canberra, le tariffe doganali sui prodotti minerari e agricoli australiani esportati verso la Cina verranno abolite nei prossimi anni. Le aziende australiane dei servizi vedranno poi aprirsi le porte del mercato cinese, mentre quelle cinesi - ma solo del settore privato - potranno investire in Australia fino a circa un miliardo di dollari senza dover ottenere l’autorizzazione del governo di Canberra.
A dare la misura della futura integrazione delle due economie - a fronte dei fortissimi legami politici e militari che Canberra continua a intrattenere con gli Stati Uniti - basti infine citare un dato pubblicato dalla stampa in Australia nei giorni scorsi. Quando il trattato entrerà a pieno regime, cioè, la Cina dovrebbe giungere ad assorbire addirittura il 95% delle esportazioni complessive dell’industria australiana.
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di Michele Paris
Nel relativo disinteresse dei media americani, una ex diplomatica molto vicina alla famiglia Clinton è finita qualche giorno fa sotto indagine nell’ambito di un’operazione di contro-spionaggio condotta dall’FBI. La donna, Robin Raphel, è considerata una delle voci più autorevoli a Washington tra quelle che appoggiano una partnership più solida degli Stati Uniti con il Pakistan e, pur non essendo stata finora incriminata formalmente, nei suoi confronti graverebbe l’accusa di avere fornito informazioni riservate proprio al governo di Islamabad.
Quando l’FBI ha fatto visita all’abitazione di Robin Raphel una decina di giorni fa, i giornali hanno subito ipotizzato che la ex funzionaria del Dipartimento di Stato avesse sottratto documenti classificati, per condividerli appunto con le autorità pakistane.
Se nei suoi confronti verrà aperto un formale procedimento non è ancora chiaro, ma il suo nulla osta di sicurezza è già stato sospeso, mentre il Dipartimento di Stato l’ha di fatto sollevata dal suo incarico nel del team assegnato alle questioni relative a Pakistan e Afghanistan.
Visto il silenzio che prevale sulla vicenda all’interno del governo USA, risulta al momento difficile comprendere quali siano i reali motivi o le ramificazioni dell’indagine ai danni di Robin Raphel. Tuttavia, le possibili implicazioni del caso si possono facilmente dedurre dal suo curriculum e dai suoi legami politici a Washington.
I giornali d’oltreceano hanno definito la donna come una presenza fissa nei circoli diplomatici degli Stati Uniti negli ultimi decenni. Nata Robin Johnson nel 1947 nello stato di Washington, la ex diplomatica aveva iniziato a lavorare per il governo come analista della CIA per poi giungere per la prima volta in Pakistan negli anni Settanta come funzionaria della famigerata Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale (USAID), con la quale gli USA distribuiscono aiuti economici e umanitari (e spesso spionaggio) a seconda dei propri interessi strategici.
Robin Rapel era già stata coinvolta in una vicenda dai contorni oscuri un quarto di secolo fa, sia pure in maniera indiretta. Nel 1988, infatti, il suo ex marito, l’ambasciatore USA a Islamabad Arnold Raphel, era morto assieme all’allora presidente pakistano, generale Zia ul-Haq, in un incidente aereo avvenuto in circostanze mai interamente chiarite.
I suoi rapporti con il Pakistan sono sempre rimasti molto solidi, come confermano i toni celebrativi dei giornali indiani nei giorni scorsi, i quali hanno ricordato tra l’altro come Robin Raphel fosse giunta in passato a mettere in discussione le fondamenta su cui Nuova Delhi basa la propria sovranità sul Kashmir.
Proprio al Pakistan è così legata quasi tutta la carriera della ex diplomatica americana. Nel 1992 fu il presidente Clinton a nominarla a sorpresa alla carica di assistente segretario di Stato per l’Asia centrale e meridionale. In questa veste, Robin Raphel aveva anche incontrato i vertici del regime talebano in Afghanistan per promuovere la costruzione di un mai realizzato gasdotto e di un oleodotto che avrebbero dovuto collegale il Turkmenistan al Pakistan.
Dopo altri incarichi, tra cui quello di ambasciatrice USA in Tunisia a partire dal 1997, Robin Raphel decise di lasciare il Dipartimento di Stato nel 2005, anche se il Pakistan sarebbe rimasto al centro dei suoi interessi professionali. Infatti, due anni dopo fu assunta dalla compagnia di consulenza Cassidy & Associates, lavorando come lobbista a favore di vari governi stranieri, tra cui ovviamente quello di Islamabad.Il suo ritorno al governo fu deciso poi sempre da un membro della famiglia Clinton, poiché fu Hillary nel 2009 a chiamarla nuovamente al Dipartimento di Stato guidato dalla ex first lady, assegnandola allo staff di Richard Holbrooke, a sua volta appena scelto come inviato speciale dell’amministrazione Obama per l’Afghanistan e il Pakistan.
Secondo quanto riportato dalla testata conservatrice Washington Free Beacon, quest’ultima nomina era avvenuta solo pochi giorni dopo la cancellazione della sua registrazione da lobbista per un governo straniero, contravvenendo perciò alla legge che prevede, per personalità che svolgono impieghi simili, un’attesa di almeno due anni prima di essere assunte dal governo.
Inoltre, la compagnia Cassidy & Associates si sarebbe messa in contatto con la stessa Raphel nemmeno un mese dopo il suo ritorno al Dipartimento di Stato, in modo da sfruttare precocemente i legami precedenti per promuovere politiche favorevoli al Pakistan. In particolare, la società di lobbying era interessata alla discussione “delle priorità e dei meccanismi” relativi alla gestione dei fondi e degli aiuti da destinare al paese centro-asiatico.
Secondo i media americani, d’altra parte, Robin Raphel nel suo ultimo incarico di governo avrebbe controllato la gestione di aiuti “non militari” a favore del Pakistan per oltre 7 miliardi di dollari.
I suoi guai con l’FBI non sembrano in ogni caso essere legati né a quest’ultimo aspetto del suo incarico né al conflitto di interessi emerso al momento del ritorno al Dipartimento di Stato. Una fonte governativa anonima ha invece spiegato alla CNN che un’indagine di contro-spionaggio come quella in corso “ha a che fare solitamente con accuse di avere passato informazioni a governi stranieri”.
Per altri ancora, come ha scritto l’agenzia di stampa indiana Aninews, se un comportamento illegale da parte di Robin Raphel c’è effettivamente stato, si tratterebbe esclusivamente di “negligenza” nel trattare documenti classificati oppure l’FBI intenderebbe fare pressioni sulla donna per ottenere informazioni su altre persone al centro delle indagini.
Quel che è certo è che Robin Raphel deve avere avuto nemici e detrattori molto potenti nell’apparato militare e dell’intelligence degli Stati Uniti vista la sua posizione tutt’altro che comune riguardo al Pakistan. Negli ultimi anni i rapporti tra Washington e Islamabad si sono infatti deteriorati in seguito alle continue violazioni della sovranità pakistana da parte americana a causa dei ripetuti bombardamenti con i droni per colpire presunti terroristi islamici.
Da parte sua, il governo americano ha spesso puntato il dito contro il Pakistan in maniera più o meno esplicita, accusando soprattutto i servizi di intelligence di appoggiare segretamente alcuni gruppi fondamentalisti, così da mantenere una certa influenza sulle vicende del vicino Afghanistan.
Per la stessa agenzia indiana Aninews, poi, anche alcuni funzionari del Dipartimento di Stato sarebbero concordi nel definire “straordinaria” la capacità di Robin Raphel di “avvelenare le acque della diplomazia in relazione alle questioni di India e Pakistan”.
In quest’ottica, la sorte di Robin Raphel potrebbe inserirsi nel riassetto delle priorità strategiche americane in Asia centrale, in concomitanza con il ritiro della gran parte delle truppe da combattimento dall’Afghanistan a fine anno e con l’intensificarsi degli sforzi per rafforzare la partnership strategica con l’India.Alla luce delle inclinazioni decisamente favorevoli al Pakistan attribuitele dai media, sarebbe d’altronde facile far credere a una sua attività spionistica per il governo di questo paese. Se così fosse, poi, le reazioni quasi euforiche registrate nei giorni scorsi sui giornali indiani dopo il suo congedo forzato dal Dipartimento di Stato confermerebbero ampiamente che Nuova Delhi ha recepito il messaggio proveniente da Washington.
Tutt’altro che da escludere è infine la possibilità che l’indagine ai danni della 67enne ex diplomatica possa rappresentare anche un colpo basso per mettere in imbarazzo Hillary Clinton, proprio mentre sta per prendere il via la corsa alla successione di Obama e la ex senatrice di New York appare come la logica favorita per il Partito Democratico.
Come già ricordato, Robin Raphel deve d’altra parte molto alla famiglia Clinton e soprattutto all’ex presidente, con il quale era entrata politicamente in sintonia fin dai tempi del loro primo incontro in Inghilterra sul finire degli anni Sessanta, quando i due erano studenti poco più che ventenni rispettivamente all’università di Cambridge e a quella di Oxford.
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di Emanuela Muzzi
LONDRA. Con un consenso sulla leadership al minimo storico e un programma elettorale che fa acqua da tutte le parti, Ed Miliband persiste sulla strada del voler negare ciò che appare evidente. Il recente discorso del leader Labour agli industriali britannici è cominciato con le facili ‘headlines’ da dare in pasto alla stampa presente alla conferenza annuale della CBI (Confederation of the British Industries) ed è terminato con un ‘No’ secco al giornalista di ITV che gli ha chiesto se riconoscesse le contestazioni sulla sua leadership interne al suo partito come una realtà della quale dover prendere atto.
Una dimostrazione di come Miliband manchi completamente di prontezza di riflessi, carisma, dialettica, sense of humour, sarcasmo, complicità, contatto con la base del suo stesso partito, tenacia e di tutte quelle qualità che ci aspetteremmo dal leader di uno dei partiti politici più importanti del mondo democratico, tanto più in una fase di campagna elettorale.
Gli inglesi, e non solo, non vedono in Ed the Red un futuro primo ministro: secondo i dati della Ipsos Mori, solo il 13% dei cittadini britannici (ovvero uno su otto) pensa che ed Miliband sia adatto a diventare Primo Ministro. Per dare un’idea dei dati aggiornati, i Conservatives sono al 32%, il Labour al 29%, I Lib Dem al 9% e i razzisti dell’UKIP al 14%. La tendenza dei Labour in vista delle prossime politiche in Maggio 2015 è in perdita (- 4 punti in percentuale sinora).
Mentre sul dramma della successione alla poltrona a Downing Street si alza il sipario mediatico, dietro le quinte, come nella migliore tradizione shakesperiana, trionfa il complotto. Secondo l’Independent la lobby ebraica, da sempre sostenitrice dei Labour e vicina ai Miliband, avrebbe ritirato il sostegno al partito dopo il dichiarato e coerente appoggio dei Labour ai Palestinesi per voce di Ed e del ministro degli esteri ombra, Douglas Alexander, cui ha fatto seguito il recente voto in favore del riconoscimento dello Stato Palestinese.
Un voto storico, che anche il conservatore Richard Ottawaya, capo del Foreign Affairs Select Committee, ha riconosciuto come inevitabile dopo gli attacchi israeliani a Gaza che hanno causato tra lo scorso Luglio e Agosto oltre duemila morti tra la popolazione civile.
Nonostante il tabloid inglese parlando di difficoltà persino “nell’organizzare una cena per raccogliere fondi presso la comunità ebraica” abbia citato fonti anonime, la BBC non ha perso l’occasione di rinnovare la sua complicità con il governo Cameron, rilanciando la notizia (senza fonti) e scatenando così la reazione delle associazioni contro l’antisemitismo. Insomma, l’atmosfera è ‘toxic’.
Le dinamiche faziose e corporative non vengono bilanciate da un’alternativa politica forte e credibile, questo è il problema. Nel suo programma Miliband annuncia un elenco di slogan dei quali è arduo immaginare la reale fattibilità. A cominciare dallo “spingerò le compagnie che gestiscono gas ed eletticità a congelare le bollette fino al 2017”, omettendo di dire come pensa di fare in un contesto di libero mercato.
Ugualmente poco praticabile risulta l’idea di "restituire potere ai proprietari che affittano i propri immobili cancellando le tasse sull’affitto e stabilizzando i contratti d’affitto”; improbabile, per non dire impossibile, che questo farà scendere il prezzo degli affitti e favorirà gli inquilini che sono la parte sociale più povera ed indifesa.
Quanto alla finanza c’è poi la promessa di “riformare le nostre banche in modo che supportino le piccole imprese"; ma in realtà il governo britannico non ha nessun potere effettivo sugli istituti bancari.
E, infine, il dramma del lavoro viene affrontato con propaganda allo stato puro, che gli fa dire “impedirò alle agenzie per il lavoro di reclutare solo dall’estero”; ma che le ‘recruitment agencies’ facciano lavorare solo stranieri è una dichiarata menzogna con la quale Miliband tenta di compiacere l’elettorato britannico giovane e disoccupato, gli indecisi, i moderati e anche gli insoddisfatti di destra e conservatori abbindolati dalla issue elettorale anti-immigrati.
Le agenzie in Gran Bretagna non reclutano assolutamente solo stranieri, anzi è esattamente l’opposto e, a conferma di questo, Ed Miliband si è guardato bene nel discorso alla CBI dall’affrontare questo punto perché gli industriali lo avrebbero contestato. Purtroppo tra le qualità di un leader è necessaria la buona fede, che in questo caso purtroppo non c’è. Nemmeno questa.