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di Fabrizio Casari
Mercoledì scorso, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un progetto di legge a firma di Ileana Ros Lehtinen, contenente una serie di misure ostili al Venezuela. Chi è questa signora? Conosciuta come "la lupa feroce" è parte importante del braccio politico e legislativo della Fondazione Nazionale Cubano-Americana e risponde alle lobbies di Miami composte dai fuggitivi causa socialismo di Cuba, Nicaragua e Venezuela.
Controlla il flusso di voti di destra in Florida e New Jersey, due stati chiave per vincere o perdere le elezioni presidenziali e spinge ogni disegno di legge e ogni iniziativa terroristica contro Cuba in particolare e contro i paesi democratici latinoamericani in generale.
Tra i suoi migliori amici figura l'assassino e terrorista Luis Posada Carriles, per il quale aprì persino un apposito fondo finanziario per pagare la difesa legale nel suo processo-farsa per immigrazione clandestina negli Stati Uniti. L’establishment di Washington non ha una grande considerazione della deputata cubanoamericana ma il suo peso elettorale non può essere ignorato. Sostenitrice senza sosta della famiglia Bush, è in prima fila per cercare di portare l'ulimo della nidiata, Jeb Bush, alla Casa Bianca.
Il suo riferimento costante, quando si tratta di legiferare sull’America latina non devota a Washington, è la legge Helms-Burton, cioè il concentrato di pirateria internazionale che estende le già illegali sanzioni contro Cuba a tutti i paesi del mondo che con Cuba si relazionano. Dalla sua nascita, l’obbrobrio legislativo ha bisogno del reiterato veto presidenziale a diversi paragrafi della legge, per evitare sanzioni e misure di reciprocità da parte del resto del mondo contro gli Stati Uniti
Un progetto simile a quello del Congresso è stato presentato anche al Senato, a firma del senatore democratico Bob Melendez e del repubblicano Marco Rubio, entrambi eletti in Florida con il voto della gusaneria cubano americana. Ci sono state opposizioni, in particolare quella di 14 deputati democratici, che con l’invio di una lettera al Presidente Obama si sono dichiarati contrari ad introdurre sanzioni contro Caracas. Entrambi i progetti di legge potrebbero essere armonizzati in un unico testo prima di essere inviato alla scrivania del presidente, che potrebbe comunque porre il veto e rifiutarsi di firmare.
In entrambi i testi viene previsto il blocco delle proprietà e il divieto di entrata negli Stati Uniti per i funzionari governativi venezuelani "che hanno violato i diritti umani " durante gli scontri tra le forze di sicurezza e i guarimberos della destra in corso da Febbraio ad oggi. Inoltre, il disegno di legge prevede il divieto di trasferimento di "dispositivi tecnologici che possono essere utili per il controllo e la repressione" e, soprattutto, stabilisce l'invio di un “aiuto finanziario alla società civile”.
Questo progetto rappresenta una nuova tappa negli Stati Uniti la politica ingerenti sta nei confronti del Venezuela e segue lo stesso percorso di altre leggi che negli ultimi 30 anni sono stati approvate per cercare giustificazioni giuridiche e legislative per le attività di sovversione statunitensi in America Latina .
Mentre è pura propaganda ideologica fa il divieto di ingresso negli Stati Uniti di funzionari governativi presunti responsabili di violazioni dei diritti umani, l’aspetto di sostanza sono i finanziamenti richiesti per sostenere la destra, impropriamente chiamata “società civile”.
La richiesta di fondi statali USA, infatti, indica la volontà di mettere a bilancio, cioè sulle spalle dei contribuenti, il denaro finora fornito dalle organizzazioni come la NED e USAID, nonché enti governativi travestiti da ONG che si sono sommati ai fondi occulti erogati direttamente dalla CIA e da imprenditori locali in accolita con settori dell’imprenditoria colombiana.
Finora la Casa Bianca non sembra essere intenzionale ad appoggiare i due progetti di legge. Il Sottosegretario di Stato per l'America Latina, Roberta Jacobson, ha detto che "non è il momento" e ha sottolineato come l'ultima parola spetta al presidente Obama che, volendo, anche avrebbe potuto applicare sanzioni contro il Venezuela anche in assenza di una legge specifica. Pertanto, suggerisce la Jacobson, se non l’ha fatto è perché non considera utile, in questo momento, una strada di questo tipo nel confronto con Caracas.
Dunque Obama non firmerà la legge? "Se Obama vuole bloccarla, il leader democratico Harry Reid può evitare di sottoporla al voto del Senato, cosa molto più facile e più tranquilla del veto presidenziale", ha detto Mark Weisbrot, co-direttore del Centro di analisi, politica e ricerca economica .
La Jacobson, in un commento alla stampa, ha detto che "ciò che accade in Venezuela non ha nulla a che vedere con le relazioni bilaterali tra Caracas e Washington, ma è piuttosto una questione tra venezuelani" pur esprimendo dubbi circa la possibilità che il Segretario di Stato John Kerry possa incontrare il Cancelliere venezuelano Jaua al margine dell’assemblea OSA che si svolge questa settimana ad Asunciòn, in Paraguay.
Sebbene nella stessa occasione lo scorso anno l’incontro tra i due ebbe luogo in Guatemala, secondo la Jacobson "ora i due paesi non sono nella stessa punto". Inoltre, come previsto, ha respinto le accuse del governo bolivariano contro l'ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker, socio dell’ex presidente colombiano Uribe, istigatore dei paramilitari e anima nera della congiura contro il Venezuela .
Obama è conscio che le sanzioni produrrebbero un netto rifiuto da parte della comunità latinoamericana e del Vaticano, impegnati nella difficile mediazione tra il governo bolivariano e la destra nella Mesa de dialogo nacional. E’ poi necessario considerare che Washington continua ad avere dal Venezuela circa il 23% del suo fabbisogno energetico; dunque inasprire la tensione può rivelarsi controproducente.
Obama è freddo verso l'opzione delle sanzioni, comprendendo bene come sarebbe illusorio pensare di piegare il Venezuela misure inutili e odiose, che andrebbero incontro solo a critiche internazionali. Ha chiaro che, come nel caso di Cuba, una escalation di sanzioni, un blocco persino, non avrebbe alcun effetto significativo per il cambiamento di regime politico che auspica Washington e servirebbe solo a ricompattare ancora più i venezuelani in difesa della loro sovranità nazionale.
Porre sanzioni, infine, potrebbe spingere ulteriormente Caracas verso l’intensificazione delle relazioni con Russia, Cina e Iran, fino a far intravvedere una vera e propria possibile partnership commerciale e militare. Un incubo per la Casa Bianca che ben vale il rifiuto di una firma presidenziale all’isterìa di una destra a caccia di vendette.
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di Michele Paris
Nel pieno di una visita di quattro giorni in Europa, Barack Obama sta cercando di rassicurare gli alleati europei, in particolare quelli dell’ex blocco sovietico, circa il sostegno americano nel fronteggiare fantomatiche minacce alla stabilità del continente provenienti dalla Russia. Nella giornata di mercoledì a Varsavia, il presidente degli Stati Uniti ha anche incontrato per la prima volta il neo-eletto presidente ucraino, l’oligarca miliardario Petro Poroshenko, in concomitanza con un’intensificazione della repressione ai danni dei ribelli filo-russi e la diffusione di notizie di nuove stragi tra la popolazione civile.
Nell’offrire l’assistenza USA in ambito finanziario e della sicurezza al nuovo regime ucraino, Obama si è detto “profondamente colpito” dalla visione di Poroshenko per l’Ucraina e dai suoi piani per fare uscire il paese dalla crisi. Profondamente colpite sono con ogni probabilità anche le popolazioni nell’est del paese, bersaglio negli ultimi giorni degli assalti delle forze armate di Kiev e di gruppi paramilitari neo-fascisti per ristabilire l’ordine.
Già coordinate con personale americano inviato in Ucraina, le politiche messe in atto da Kiev per reprimere nel sangue la rivolta sono state discusse anche con lo stesso Obama, il quale ha confermato di avere approvato i piani del presidente eletto per “ristabilire la pace e l’ordine”, consistiti finora in operazioni che hanno fatto centinaia di morti tra gli oppositori del regime golpista filo-occidentale.
Nella realtà capovolta della propaganda statunitense, d’altra parte, i massacri in Ucraina orientale per mano delle forze governative - di gran lunga più gravi di quelli attribuiti all’ex presidente Yanukovich - rientrerebbero nel disegno delle nuove autorità per trovare una soluzione pacifica alla crisi in atto, la cui responsabilità sarebbe interamente della Russia.
Obama ha poi ricordato a Poroshenko la necessità di procedere con le devastanti “riforme” economiche richieste da tempo dall’Occidente e, significativamente, ha invitato la “comunità internazionale” a sostenere lo stesso presidente ucraino, il quale, effettivamente, avrà bisogno di tutto l’appoggio possibile per implementare misure profondamente impopolari senza scatenare nuove manifestazioni di protesta.
Dopo il faccia a faccia con Poroshenko, l’inquilino della Casa Bianca ha tenuto un discorso pubblico sempre a Varsavia nell’ambito delle celebrazioni per ricordare i 25 anni dalle prime elezioni parzialmente libere in Polonia. Qui, Obama ha ribadito i temi affrontati il giorno precedente subito dopo l’arrivo nella capitale polacca, assicurando cioè i paesi dell’Europa orientale circa l’impegno americano nel garantire la loro integrità territoriale, peraltro non esposta a nessun genere di minaccia.
Per fare ciò, gli USA sborseranno 1 miliardo di dollari da destinare a programmi di aiuto e addestramento alle forze armate dei paesi membri della NATO posizionati ai confini con la Russia, comprese Ucraina, Georgia e Moldavia. Obama, inoltre, ha annunciato una “revisione” del dispiegamento delle truppe permanenti nel continente europeo alla luce della crisi in Ucraina, mentre verrà intensificata la presenza navale americana nel Mar Nero e nel Mar Baltico.
Tutte le iniziative - che dovranno essere approvate dal Congresso USA - prospettano un’escalation del militarismo a stelle e strisce in Europa e, dal momento che implicano una sorta di accerchiamento della Russia, rischiano di innescare un pericolosissimo conflitto con Mosca.
La stessa retorica impiegata da Obama nella sua visita in Polonia ha lasciato poco spazio a scenari pacifici, come conferma l’annunciato “impegno inderogabile” con gli alleati NATO, assicurato dalla “più forte alleanza [militare] del pianeta e dalle forze armate degli Stati Uniti d’America”, definite come “le più potenti della storia”.
Queste promesse non hanno comunque convinto del tutto i governi dell’Europa orientale, a cominciare da quello polacco. Il premier Donald Tusk ha infatti definito le misure proposte da Obama soltanto “un altro passo” del programma di aiuti americani, mentre il presidente Bronislaw Komorowski ha insistito sulla creazione di “ulteriori infrastrutture NATO come prerequisito per l’effettiva accoglienza” di altri soldati.
Alla vigilia della visita di Obama, d’altra parte, il governo di Varsavia aveva apertamente discusso della possibilità di ospitare una base militare americana in modo permanente. In una recente intervista, ad esempio, il ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski si era chiesto il motivo per cui una base USA non dovrebbe essere costruira in Polonia, dal momento che “ne esistono in Gran Bretagna, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia”.
Oltre ad essere basata su motivazioni strategiche ingannevoli, l’eventuale creazione di una base militare permanente in Polonia risulterebbe anche in violazione dell’accordo siglato tra NATO e Russia nel 1997 che proibiva appunto simili iniziative in Europa Orientale.
Secondo il governo polacco, però, il comportamento della Russia avrebbe di fatto determinato l’annullamento dell’accordo, visto che Mosca ha trasgredito ad un’altra condizione in esso contenuta e cioè il divieto dell’uso della forza con l’obiettivo di violare “la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza” di un paese vicino.
In defintiva, come mostra l’ipocrisia del governo di Varsavia, per i governi occidentali e i loro alleati in Europa orientale basta creare una crisi ad hoc in un determinato paese per poi attribuire la responsabilità del caos e delle violenze che seguono alla potenza rivale (Russia) con una campagna mediatica a senso unico, in modo da ridurre a carta straccia gli accordi siglati in precedenza e adattare quindi la nuova realtà alle proprie esigenze strategiche.
La visita di Obama è stata poi accompagnata dalle ormai consuete minacce e ultimatum diretti alla Russia. Il presidente americano ha nuovamente invitato Putin a mettere fine alle manovre destabilizzanti in Ucraina per non incorrere in un aggravamento delle sanzioni già adottate dall’Occidente nelle scorse settimane.
Misure punitive - sostenute senza riserve dagli Stati Uniti e con qualche cautela in più dall’Europa visti i legami commerciali con la Russia - sono state discusse anche nel vertice del G-7 di Bruxelles dove Obama si è recato mercoledì dopo l’incontro con Poroshenko. Il summit era stato organizzato in seguito alla cancellazione di una riunione del G-8 programmato a Sochi e all’espulsione della Russia come ritorsione per l’annessione della Crimea.
Nel comunicato dei paesi membri del G-7, in particolare, è stato chiesto alla Russia di “accelerare il ritiro delle forze armate dalle aree di confine con l’Ucraina” e di “esercitare la propria influenza sui separatisti armati” per convincerli ad abbandonare la lotta contro il regime di Kiev.
Le provocazioni dirette contro Mosca e i tentativi del Cremlino di normalizzare i rapporti con l’Occidente, in ogni caso, saranno forse testati venerdì, quando Putin e i capi di stato e di governo dei paesi coinvolti nella crisi ucraina si incontreranno in occasione dei festeggiamenti per il 70esimo anniversario dello sbarco in Normandia.
Se non sembra essere all’ordine del giorno un faccia a faccia tra Obama e Putin, quest’ultimo si vedrà invece con il presidente francese Hollande, la cancelliera tedesca Merkel e il primo ministro britannico Cameron, nel tentativo di trovare una difficile via d’uscita ad una crisi sempre più cruenta.
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di Michele Paris
L’assalto della Corte Suprema americana ai principali diritti democratici negli Stati Uniti ha fatto segnare un nuovo capitolo questa settimana, con la mancata accettazione da parte del tribunale stesso di un delicatissimo caso relativo ad un noto reporter del New York Times. La vicenda in questione è quella di James Risen, il cui lavoro nel rivelare alcune delle manovre segrete dell’apparato della sicurezza nazionale degli USA potrebbe costargli un lungo periodo dietro le sbarre.
Rifiutandosi di deliberare sul caso “Risen contro Stati Uniti”, la Corte Suprema ha in sostanza confermato la sentenza del luglio scorso di un tribunale d‘Appello della Virginia che si era rifiutato di annullare un ordine emesso nei confronti di Risen per costringerlo a identificare la fonte all’interno del governo americano che gli aveva fornito informazioni riservate.
Il giornalista del Times era entrato in possesso di materiale classificato che descriveva come la CIA avesse cercato di ingannare l’Iran, spingendo i suoi scienziati ad accettare da un doppio agente russo un progetto per un meccanismo di innesco nucleare appositamente alterato. Questa informazione era contenuta in un capitolo del libro di Risen “State of War” del 2006 ed aveva spinto il Dipartimento di Giustizia ad aprire un procedimento penale nei confronti della presunta fonte, identificato nell’ex agente della CIA Jeffrey Sterling.
La causa aveva subito coinvolto Risen ma nel 2011 un giudice federale aveva dato ragione a quest’ultimo, affermando che un processo criminale non rappresentava una sufficiente giustificazione per rivelare le fonti e, nel caso di Sterling, le accuse mosse dal governo potevano essere dimostrate anche senza la testimonianza del giornalista.
L’amministrazione Obama aveva però fatto appello e la già ricordata decisione del tribunale di Richmond, in Virginia, aveva ribaltato il verdetto di primo grado. Due dei tre giudici assegnati al caso avevano cioè sostenuto che il Primo Emendamento della Costituzione americana - che garantisce, tra l’altro, la libertà di parola e di stampa - non può essere applicato ai giornalisti che ottengono notizie riservate e la cui diffusione costituisce un atto criminale.
Risen, perciò, avrebbe potuto essere costretto a testimoniare di fronte ad un Grand Jury nel caso Sterling, dal momento che “un resoconto diretto e di prima mano… sulla condotta criminale oggetto di indagine… non può essere ottenuto con mezzi alternativi”.
La decisione della Corte Suprema di non intervenire nel caso in questione equivale ad un’approvazione sia della sentenza del tribunale d’Appello del 2013 sia della posizione del governo. A differenza dei tribunali inferiori, la Corte Suprema può infatti rifiutare le cause presentate alla propria attenzione senza offrire alcuna spiegazione. La maggior parte dei casi, anzi, viene trattata proprio in questo modo dalla Corte Suprema che può così approvare in maniera tacita i verdetti emessi dai tribunali inferiori senza apparentemente intervenire nel merito.
James Risen, da parte sua, ha sempre sostenuto di essere pronto a finire in carcere piuttosto che rivelare il nome della sua fonte. Di fronte alla Corte Suprema, il reporter premio Pulitzer ha affermato che l’attività giornalistica investigativa sulle questioni relative alla sicurezza nazionale potrebbe diventare impossibile se il governo avesse facoltà di costringere a rivelare l’identità delle fonti.
La decisione della Corte Suprema di lasciare inalterata la sentenza della Corte d’Appello di Richmond contro Risen contraddice inoltre una lunge serie di verdetti di vari tribunali americani che, al contrario, in passato hanno riconosciuto il diritto alla protezione garantita dal Primo Emendamento ai giornalisti in relazione alle proprie fonti.
Sia i precedenti verdetti che quello del luglio scorso della Corte d’Appello si sono basati su un’altra decisione della Corte Suprema: “Branzburg contro Hayes” del 1972. In quell’occasione, il supremo tribunale americano aveva in realtà respinto l’interpretazione che il Primo Emendamento possa proteggere tout court i giornalisti dall’obbligo di testimoniare imposto da un Grand Jury.
Tuttavia, uno dei giudici della Corte aveva stilato un parere nel quale invitava i tribunali a trovare “il giusto equilibrio tra la libertà di stampa e l’obbligo di ogni cittadino di fornire la propria testimonianza” se ritenuta “rivelante”.
Per oltre tre decenni, questa sentenza della Corte Suprema è stata interpretata quasi sempre a favore dei giornalisti e a sostegno di un principio democratico fondamentale. Poco dopo il lancio della “guerra al terrore”, però, il clima è cominciato a cambiare anche in questo ambito, così che la stessa sentenza è utilizzata ora sempre più dai tribunali e dal governo per perseguire quei giornalisti e le loro fonti segrete che rivelano notizie riservate, anche se di rilevante interesse pubblico.
Questa involuzione e il conseguente drammatico deterioramento del clima democratico negli Stati Uniti sono confermati anche dal fatto che l’amministrazione Obama continua a condurre una campagna senza precedenti contro le fughe di notizie dall’interno delle agenzie governative. A tutt’oggi, l’amministrazione democratica ha già avviato ben otto procedimenti giudiziari contro presunti responsabili di rivelazioni di informazioni segrete alla stampa, mentre tutte le precedenti amministrazioni combinate si erano fermate a tre.
Consapevole delle resistenze tra la popolazione e la maggior parte dei media contro un simile giro di vite la cui vittima è la libertà di stampa, il Ministro della Giustizia, Eric Holder, proprio settimana scorsa aveva affermato pubblicamente che il suo dipartimento potrebbe non richiedere l’incarcerazione dei giornalisti che si riufiutano di testimoniare.
La dichiarazione è sembrata essere un tentativo di placare le polemiche che sarebbero esplose in seguito all’imminente decisione della Corte Suprema sul caso Risen, peraltro non citato esplicitamente da Holder, anche se essa è stata esposta come una semplice ipotesi e il governo continua a riservarsi il diritto di incriminare i giornalisti che intendono difendere le proprie fonti.
Secondo i principali media americani, comunque, il governo avrebbe mostrato un certo ammorbidimento negli ultimi mesi, come confermerebbe la pubblicazione lo scorso febbraio da parte del Dipartimendo di Giustizia di nuove direttive interne volte a limitare i casi in cui l’accusa nel corso di processi possa costringere i giornalisti a testimoniare.
Le nuove norme, in realtà, sono state soltanto l’ennesima manovra diversiva dell’amministrazione Obama, visto che prevedevano il solito compromesso tra le necessità della “sicurezza nazionale e la salvaguardia del ruolo essenziale della libertà di stampa”, concendendo quindi ampia facoltà di interpretazione di una direttiva ufficialmente implementata a favore di quest’ultima.
La battaglia del governo degli Stati Uniti contro giornalisti e fonti di rivelazioni spesso esplosive è d’altra parte risultata più che evidente in questi anni con persecuzioni ai danni, tra gli altri, di Bradley (Chelsea) Manning, Edward Snowden, Julian Assange o John Kiriakou, l’ex agente della CIA processato e incarcerato per avere ammesso pubblicamente il ricorso a metodi di tortura negli interrogatori di presunti terroristi.
La guerra di Washington alla libertà di stampa, infine, era stata palesata clamorosamente anche lo scorso anno, quando era circolata la notizia che il Dipartimento di Giustizia aveva disposto segretamente l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche di decine di giornalisti della Associated Press nell’ambito di un’indagine sulla rivelazione di una notizia riservata relativa ad un attentato terroristico sventato dalle autorità.
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di Carlo Musilli
Jean-Claude Juncker è "un nome, non il nome", secondo Matteo Renzi. Per David Cameron, invece, l'ex premier del Lussemburgo è il più inaccettabile dei conservatori: se sarà lui il prossimo presidente della Commissione europea, la Gran Bretagna dirà addio all'Unione. Stando a quanto riporta Der Spiegel, la minaccia sarebbe arrivata dal primo ministro britannico martedì scorso, durante l'ultimo vertice Ue.
Il numero uno di Downing Street ritiene che la scelta di Juncker "destabilizzerebbe così tanto il suo governo - si legge sul settimanale tedesco - che Londra sarebbe costretta ad anticipare il referendum sulla permanenza nell'Unione europea", e il risultato a quel punto sarebbe certamente favorevole all'uscita, perché "un uomo degli anni Ottanta non può risolvere i problemi dell'Europa di oggi". Questa posizione ieri ha incassato anche l'autorevole sostegno del Financial Times, d'accordo con la necessità di rintracciare un "volto nuovo".
Cameron si sarebbe rivolto in particolare alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che però venerdì scorso - dopo qualche esitazione - ha confermato l'appoggio della Germania alla candidatura di Juncker.
In termini generali, le conclusioni cui giunge il premier inglese possono essere condivisibili: dopo essersi riempiti la bocca per mesi di espressioni propagandistiche come "rinnovamento" e "cambio di rotta", i leader europei cadrebbero nella più grottesca incoerenza se scegliessero come presidente della Commissione l'ex numero uno dell'Eurogruppo, un veterano simbolo della nomenclatura che negli ultimi anni ha governato a Bruxelles. Sarebbe come ammettere che ogni cambiamento è possibile soltanto nel magico regno delle vuote ciarle.
D'altra parte, scartare a priori Juncker non è affatto semplice. Era lui il candidato ufficiale del Partito popolare europeo, lo schieramento che - pur avendo perso milioni di voti rispetto alle consultazioni del 2009 - si è classificato primo alle recenti elezioni comunitarie. Spetterebbe quindi a lui il tentativo di creare una nuova squadra di governo a Bruxelles, come ha riconosciuto perfino Alexis Tsipras, candidato dalla sinistra alternativa rappresentata dal GUE.
Negare a Juncker questa possibilità significherebbe far prevalere gli interessi delle cancellerie sul volere degli elettori, che per la prima volta si sono espressi (o avrebbero dovuto esprimersi) sapendo a monte chi fossero i candidati presentati dai diversi schieramenti per la guida della Commissione (in prima linea per il Partito socialista europeo c'era il tedesco Martin Schulz, mentre i liberali avevano mandato avanti il fiammingo Guy Verhofstadt). Che senso ha avuto fare quei nomi se ora basta una manovrina di palazzo vecchio stile per ribaltare tutto?
In ogni caso, stavolta i leader di governo degli Stati membri non avranno l'ultima parola: spetterà a loro il compito d'indicare il nome del nuovo presidente della Commissione, ma l'elezione finale dovrà passare per il voto del Parlamento europeo, il che renderà probabilmente ancora più difficoltoso il superamento degli interessi contrapposti.
Il problema fondamentale riguarda però le alternative. Se non Juncker, chi? Oltre a Cameron si oppongono alla nomina del Ppe l'ungherese Viktor Orban, lo svedese Fredrik Reinfeldt, l'olandese Mark Rutte e il finladese Jyrki Katainen. Nessuno di loro, è evidente, punta all'elezione di qualche più illuminato progressista. Al contrario, per questi signori il non plus ultra sarebbe un ometto scialbo e poco incline al perseguimento dell'ideale comunitario.
Il premier britannico, dal canto suo, accentua ogni giorno di più la propria attitudine antieuropea per esigenze di politica interna. Il governo di Londra deve farsi interprete del crescente sentimento di ostilità dell'elettorato nei confronti di Bruxelles se vuole sperare di porre un limite all'avanzata dell'Ukip, partito di estrema destra e acerrimo nemico dell'Ue, che alle elezioni ha registrato un vero e proprio boom (il suo leader, Nigel Farage, ha incontrato Beppe Grillo in vista di una possibile alleanza con M5S nel Parlamento europeo).
Fin qui, i nomi più accreditati al posto di Juncker sono tre: il polacco Tusk, il finlandese Katainen e l'irlandese Kenny, tutti più o meno esplicitamente auto-candidati. La settimana scorsa si è detto perfino che Renzi potrebbe cercare di entrare nella partita proponendo il nome di Enrico Letta, ma si tratta di un'eventualità assai remota.
Nonostante il premier italiano sia anche il segretario del partito più votato d'Europa e dal primo luglio inizi il semestre italiano di presidenza Ue, sulla strada di Letta ci sono almeno due ostacoli insormontabili: primo, il vertice della Commissione è tradizionalmente riservato a Paesi che non rientrano fra le maggiori potenze (il presidente uscente è il portoghese Josè Manuel Barroso); secondo, all'Italia è già stata concessa una casella internazionale d'importanza capitale come la presidenza della Banca centrale europea, in mano a Mario Draghi.
A prescindere dalle qualità personali e al grado d'indipendenza di un candidato alternativo a Juncker, è evidente che la scelta di un nome di compromesso dimostrerebbe ancora una volta quanto il potere europeo sia in mano a un'oligarchia. Dopo aver concesso agli elettori un potere decisionale, si sceglierebbe di sottrarglielo a giochi fatti, ora che la campagna elettorale è finita. Come a dire "abbiamo scherzato". Proprio quello che ci vuole per combattere l'antieuropeismo.
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di Emanuela Muzzi
Londra. Anche nel Regno Unito la prospettiva di un’alleanza Grillo-Farage ha sollevato polemiche: nonostante la foto della “strana coppia” nessuno crede che MS5 e UKIP si spartiranno poltrone a Strasburgo. Ed il motivo è la sostanziale differenza di vedute dei due partiti, o meglio, dei due movimenti pseudo populsti. Anche il grillino Giuseppe Brescia ha fatto i necessari distinguo:“L’Ukip è un partito xenofobo, il nostro no”.
Ha ragione il parlamentare grillino: infatti l’M5S non è un movimento xenofobo, è un movimento misogino. E questa è una “differenza di vedute” insormontabile. Tra l’anti UE e anti immigrazione Farage e l’antitutto (soprattutto anti-donne del Pd quando avversarie politiche) c’è una differenza ‘filisofica’ di fondo. Il razzismo violento contro gli immigrati dall’Unione europea nel Regno Unito promosso dal capo dell’Independent Party ha una costanza pericolosa che gli è valsa il 29.1% dei voti e 24 poltrone a Strasburgo (il primo partito contro il Labour 25.4%, the Conservatives 24.6%).
E’ un movimento reattivo premiato dagli elettori britannici che credono così di potersi difendere dalla competizione degli skilled workers e colletti bianchi in fuga principalmente da Francia, Polonia, Spagna e Italia; laureati e “masterizzati” preparatissimi che fuggono da crisi, corruzione e pressioni politiche che li schiacciano e li escludono. Se Farage se la prende più o meno apertamente con gli immigrati dei paesi dell’Est è perché è un furbo. Sa molto bene che la retorica sul tasso di delinquenza in Romania (e Bulgaria) ha sempre successo sugli elettori di tutti i livelli sociali; è la retorica vincente per prendere voti.
Chi vive a Londra sa molto bene che gli immigrati più temuti dai British sono quelli che gli stanno di fatto togliendo i posti di lavoro qualificati; nella finanza o nelle banche ad esempio, dove gli italiani sono richiestissimi per il livello di preparazione. Ma anche in ambito medico o della ricerca. Gli inglesi non sono anti europei ed anti immigrazione perchè qualche decina di migliaia di camerieri o commessi italiani o spagnoli scappa dal paese d’origine per sopravvivere; sono contro l’immigrazione qualificata.
Se la prendono con i cittadini UE per un motivo che evidentemente gli esponenti del M5S non sanno e non capiscono nella loro ignoranza sostanziale (e maleducazione formale): ovvero che per la legge britannica non se la possono prendere con i cittadini immigrati provenienti dai paesi del Commonwealth o con persone di razze diverse, ovvero con il colore della pelle diverso. E questo perché c’è una legge molto severa che punisce la discriminazione razziale e che regola ad esempio la distribuzione dei benefit o l’assegnazione dei posti di lavoro; le stesse applications per i posti di lavoro vengono condotte in base a criteri di rappresentanza in percentuale delle diverse etnie e dei generi (maschio-femmina).
Ma che vogliate che ne sappiano i grillini di queste cose; per loro basta aprire bocca, fare due battute usando i parametri “culturali” berlusconiani ed è fatta; gli italliani gli vanno dietro, li votano con la stessa coscienza con la quale hanno votato Berlusconi, perché se prima la droga elettorale era la televisione ora è il web, e Grillo, (animale mediatico) lo ha capito molto bene.
Comunque vada, se Farage si mette con Grillo ci guadagna soltanto, dato che le poltrone a Strasburgo sono una questione di numeri, il voto può essere libero, i punti in comune se li inventeranno e così via.
Ma dal punto di vista “italiano” il sodalizio di Grillo con i razzisti xdenofobi di Farage è grave, perché sarebbe un’alleanza contro gli italiani. Un’alleanza in Europa con chi è contro i cittadini italiani pur nascondendolo abilmente e diplomaticamente.
Evidentemente degli Italiani e del Paese a “Beppe” non gliene importa nulla, lo ha dimostrato chiaramente con la vicenda degli insulti alla Presidente della Camera. A Strasburgo sarà il nuovo Borghezio: un MEP di cui vergognarsi.