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di Michele Paris
Dopo il successo elettorale riconosciuto ufficialmente qualche giorno fa, il Partito Popolare Indiano (BJP, Bharatiya Janata Party) ha visto il proprio leader, Narendra Modi, ottenere la nomina a primo ministro dal presidente Pranab Mukherjee. Il partito suprematista indù ha insolitamente conquistato la maggioranza assoluta dei seggi della camera bassa (“Lok Sabha”) del Parlamento indiano, consentendo al nuovo governo di imporre un’agenda politica basata su una serie di “riforme” ultraliberiste che smaschereranno in fretta la retorica populista adottata durante la campagna elettorale appena conclusa.
I 282 seggi ottenuti sui 543 complessivi dal BJP sono principalmente il risultato dell’avversione diffusa tra l’elettorato indiano nei confronti del Partito del Congresso, correttamente ritenuto responsabile della situazione in cui versa ancora la grandissma maggioranza della popolazione, costretta a fare i conti con povertà endemica, disoccupazione, corruzione, clientelismo, inflazione alle stelle e crescenti disparità sociali.
La misura della vittoria del partito di Modi è però soprattutto il risultato del sistema elettorale maggioritario indiano, visto che complessivamente il BJP ha ottenuto 172 milioni di voti - pari ad appena il 31% dei consensi espressi - in un paese che conta 1,2 miliardi di abitanti. Il numero dei voti è comunque più del doppio rispetto a quello fatto registrare dal partito nel 2009 e quest’ultimo ha inflitto al Partito del Congresso di Sonia Gandhi la sconfitta più pesante della propria storia (19,3%, 44 seggi).
Il vero entusiasmo per il BJP in India, in sostanza, lo si è visto non tanto tra i ceti più poveri, bensì tra i vertici delle grandi aziende, tra la borghesia urbana e negli ambienti del fondamentalismo indù dove Modi ha mosso i primi passi della sua folgorante carriera politica. Il business indiano, infatti, così come gli ambienti finanziari internazionali, aveva da tempo scaricato il Partito del Congresso, ritenuto incapace di implementare le “riforme” di libero mercato richieste di fronte alla resistenza manifestata dalla sua base elettorale.
In cima alla lista dei provvedimenti che il nuovo governo sarà chiamato ad adottare ci sono misure estremamente impopolari, come la soppressione dei sussidi energetici pubblici, la flessibilizzazione del mercato del lavoro, le privatizzazioni, il passaggio ad una tassazione regressiva che favorirà i redditi più alti e la fine delle restrizione all’afflusso di capitali stranieri, il tutto nascosto dietro a proclami che prospettano iniziative per rinvigorire la crescita economica e la creazione di posti di lavoro.
Questa agenda era stata fondamentalmente accettata anche dal Partito del Congresso. Il suo governo, agli inizi degli anni Novanta, aveva peraltro già inaugurato la svolta neo-liberista che avrebbe gettato le basi per la trasformazione dell’India in un serbatoio di manodopera a basso costo per il capitale internazionale. Ma la sua implementazione è stata giudicata troppo lenta e incerta di fronte agli affanni dell’economia domestica.
Inoltre, il Partito della dinastia Gandhi ha avuto la colpa di continuare ad impiegare una certa retorica progressista, promettendo di allargare le maglie del welfare indiano e di aumentare la spesa pubblica per finanziare programmi contro la povertà.
In un clima internazionale profondamente mutato dopo la crisi finanziaria globale del 2008 e con l’acuirsi della competizione sui mercati internazionali, Narendra Modi e il BJP sono stati visti come gli strumenti più adatti per procedere con la terapia d’urto voluta dalla borghesia indiana.
All’interno del nuovo partito di governo c’è comunque una chiara percezione delle tensioni sociali che genereranno le politiche dei prossimi mesi, tanto che lo stesso Modi nella giornata di martedì ha ritenuto di doversi presentare in Parlamento come l’uomo dei poveri. Il premier in pectore ha affermato che la sua azione di governo sarà a favore “delle aree rurali, dei contadini, degli intoccabili, dei più deboli…” e la priorità sarà “la soddisfazione delle aspirazioni e delle speranze dei poveri”.
In realtà, quelle che attendono l’India saranno politiche di classe pressoché interamente orientate alla promozione del business e fatte di attacchi alle classi più povere. A confermarlo subito dopo la diffusione dei risultati delle elezioni è stato ad esempio il leader del BJP, Subramanian Swamy, il quale in un’intervista al quotidiano The Hindu ha prospettato la fine dei sussidi statali per i beni alimentari e le forniture di energia, la vendita di beni pubblici e delle risorse naturali, l’abolizione delle imposte sul reddito. Secondo Swamy, non sarebbe stato possibile discutere di simili idee “rivoluzionarie” in campagna elettorale, poiché il suo partito sarebbe stato accusato di essere “a favore dei ricchi”.
Alcune di queste ricette sono ricalcate su quelle adottate negli ultimi anni nello stato indiano di Gujarat, guidato proprio da Narendra Modi. Il modello Gujarat viene infatti esaltato per il clima estremamente favorevole al business e la drammatica compressione dei diritti dei lavoratori. Un modello di contenimento delle tensioni sociali basato anche sull’incoraggiamento del nazionalismo indù, sfociato nei pogrom anti-musulmani del 2002 che fecero centinaia di vittime e per i quali Modi viene da molti ritenuto in parte responsabile.
Proprio in relazione agli eventi del 2002, Modi era stato al centro di una controversia con il governo degli Stati Uniti, il quale nel 2005 gli aveva negato un visto di ingresso. Da quanto Modi è stato selezionato dal suo partito come candidato premier e in seguito alla diffusione dei primi sondaggi che davano quasi certa una vittoria del BJP nelle elezioni, l’amministrazione Obama ha però lanciato più di un segnale di distensione, mostrandosi pronta a dimenticare il suo coinvolgimento nei crimini contro la minoranza musulmana nello stato di Gujarat.
Il tentativo americano di coinvolgere in maniera definitiva l’India nei propri disegni anti-cinesi nel continente asiatico dovrebbe infatti trovare un alleato più sicuro nel prossimo premier. Modi, d’altra parte, è stato protagonista in campagna elettorale di svariate dichiarazioni incendiarie contro i vicini dell’India, a cominciare proprio dalla Cina. Nel mese di febbraio, ad esempio, nel corso di una visita nello stato di Arunachal Pradesh, dove una parte del territorio di confine viene rivendicata da Pechino, aveva affermato che la Cina deve “rinunciare alle proprie attitudini espansioniste”.
Questa settimana, poi, il segretario di Stato americano, John Kerry, si è complimentato con il leader del BJP già sulla lista nera di Washington, definendo significativamente la partnership degli USA con l’India come “assolutamente vitale”. Inoltre, lo stesso presidente Obama la settimana scorsa aveva invitato Modi alla Casa Bianca “alla prima occasione”.
Anche l’altro caposaldo dell’arco di alleanze americane in Asia - il governo giapponese - ha mostrato apprezzamento nei confronti di Modi nei giorni scorsi. Il primo ministro di estrema destra, Shinzo Abe, ha affermato che i rapport tra India e Giappone hanno “il più grande potenziale di sviluppo di qualsiasi altra relazione bilaterale nel pianeta”.
Dalla Cina e dal Pakistan, in ogni caso, non sono giunte per ora reazioni particolari al successo elettorale del BJP, a parte dichiarazioni ufficiali che esprimono meccanicamente la disponibilità a lavorare con il nuovo primo ministro.
Lo stesso Modi ha però invitato a Delhi il premier pakistano, Nawaz Sharif, in occasione del suo insediamento previsto per lunedì prossimo, mentre un think tank cinese ha salutato il prossimo capo di governo indiano come il “Nixon indiano”, in riferimento al cambiamento prodotto negli equlibri internazionali dopo la visita dell’ex presidente americano a Pechino nel 1972.
Modi, d’altra parte, ha già visitato la Cina in tre occasioni durante il suo incarico di primo ministro del Gujarat, principalmente per promuovere gli scambi commerciali tra il vicino settentrionale e il suo stato.
Sulle relazioni economiche sembra porre ora l’accento anche la dirigenza cinese per mantenere buoni rapporti con Delhi, ma la svolta verso destra del governo entrante di Narendra Modi e l’inasprirsi della rivalità con gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia promettono più di una scintilla sul fronte diplomatico tra i due pasi più popolosi del pianeta.
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di Mario Lombardo
Un nuovo capitolo dello stallo politico thailandese è stato aggiunto nella primissima mattinata di martedì con l’ingresso diretto nella crisi in corso delle Forze Armate indigene, senza dubbio l’istituzione più potente del paese del sud-est asiatico. In un’apparizione televisiva alle 3 del mattino locali, il comandante Prayuth Chan-ocha ha annunciato l’adozione della legge marziale, prefigurando così un sempre più probabile colpo di Stato, sia pure con modalità ancora da appurare.
La decisione dell’esercito sarebbe stata presa per ristabilire l’ordine pubblico in Thailandia dopo sei mesi di scontri provocati dalle proteste dell’opposizione che continua a chiedere l’installazione di un esecutivo non eletto per mettere in atto una serie di “riforme”, volte sostanzialmente a impedire il ritorno al potere del clan Shinawatra.
L’occasione per dichiarare la legge marziale sembra essere giunta settimana scorsa dopo un attentato contro un gruppo di manifestanti anti-governativi a Bangkok che ha fatto 3 morti. Prayuth ha intimato alle formazioni allineate all’opposizione e a quelle filo-governative (“Camicie rosse”) di non allontanarsi dai siti in cui sono accampate, così da evitare scontri.
Soprattutto, il potente generale thailandese ha tenuto a rassicurare la popolazione che quello in corso non sarebbe un colpo di stato, chiedendo perciò la continuazione delle normali attività di tutti i giorni.
In realtà, la legge marziale consente alle Forze Armate di assumere ampi poteri, tra cui quelli di proibire assemblee pubbliche, perquisire edifici e veicoli privati a piacimento, imporre il coprifuoco, chiuedere i media, nonché sottoporre a interrogatorio e arrestare chiunque venga considerato come possibile sospetto.
Inoltre, nonostante la costituzione thailandese preveda la legge marziale, per giustificarne l’implementazione Prayuth nel suo annuncio ha fatto riferimento in maniera inquietante ad una norma del 1914, quando il paese era ancora una monarchia assoluta.
Il governo provvisorio di Bangkok, da parte sua, ha cercato di minimizzare la decisione dei militari, con il ministro della Giustizia ad interim, Chaikasem Nitisiri, impegnato a garantire che l’esecutivo “non ha problemi” con la legge marziale e che continuerà a “governare normalmente il paese”. Tuttavia, l’imposizione della legge marziale non è stata coordinata con le autorità di governo, le quali hanno appreso la notizia solo in seguito all’apparizione televisiva del capo delle Forze Armate.
Un’altra dichiarazione del generale Prayuth, inoltre, ha già sottratto al governo alcune competenze nell’ambito della sicurezza, sciogliendo cioè l’organo del gabinetto deputato a questo incarico (Centro per l’amministrazione della Pace e dell’Ordine), per essere sostituito da un’apposita unità dell’esercito.
Se poi le stazioni televisive hanno ricevuto indicazione di continuare a trasmettere i loro programmi, i militari hanno di fatto chiuso una decina di reti affiliate ai vari partiti politici, mentre a tutti i media è stato fatto divieto di “riportare o distribuire notizie o immagini che possano danneggiare la sicurezza nazionale”.
Malgrado le rassicurazioni, il governo nutre profondi timori per la situazione venutasi a creare nel paese, come confermano le dichiarazioni rilasciate dal primo ministro Niwattumrong Boonsongpaisan. Quest’ultimo - nominato recentemente dopo la rimozione di Yingluck Shinawatra in seguito ad una sentenza politica della Corte Costituzionale che l’ha ritenuta responsabile di abuso di potere - ha chiesto ai militari di rispettare la Costituzione, sostenendo che “qualsiasi operazione venga intrapresa [per ristabilire l’ordine] deve essere pacifica, non violenta e imparziale”.
D’altra parte, visto lo scenario attuale appare difficile credere che l’azione dei militari non rappresenti la preparazione della rimozione definitiva del governo eletto guidato dal partito Pheu Thai. Nelle prossime ore, secondo gli osservatori, risulterà chiaro se le Forze Armate riterranno più opportuno portare a termine un golpe a tutti gli effetti o, più probabilmente, se delegheranno la deposizione dell’esecutivo ai tribunali o al Senato, al centro in questi giorni delle manovre dell’opposizione per forzare la nomina di un nuovo primo ministro.
L’irruzione dei generali sulla scena politica thailandese era comunque ampiamente prevedibile e lo stesso Prayuth da mesi avvertiva che, pur non essendo interessati ad un colpo di stato, i militari sarebbero intervenuti nel caso le violenze nel paese fossero aumentate. La presunta neutralità finora ribadita dalle Forze Armate è però poco credibile, viste le tradizionali simpatie per l’opposizione e il loro allineamento con le altre istituzioni ostili a Thaksin (monarchia, burocrazia statale).
I militari, inoltre, avevano già deposto il premier-miliardario con un colpo di stato nel 2006, mentre nei giorni scorsi non hanno mosso un dito per impedire ai manifestanti anti-governativi di occupare una parte del palazzo del governo dove si trovava il primo ministro ad interim.
Il gabinetto del Pheu Thai si trova così in una posizione sempre più precaria e, probabilmente, con i giorni contati. I tentativi di indire una nuova tornata elettorale per il 20 di luglio dopo il voto di febbraio annullato dalla Corte Costituzionale sembrano essere ormai falliti, con la Commissione Elettorale - anch’essa simpatizzante dell’opposizione - che ha citato i probabili disordini che verrebbero nuovamente causati dalle inevitabili proteste di piazza dell’opposizione.
La crescente campagna anti-governativa è resa possibile anche dall’evidente riluttanza dei leader del Pheu Thai e delle “Camicie rosse” a mobilitare i propri sostenitori, organizzati nel Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura (UDD). Martedì, infatti, il leader di questa organizzazione, Jatuporn Promphan, si è rifiutato di condannare l’adozione della legge marziale, invitando anzi i propri uomini accampati a Bangkok a collaborare con i militari.
Addirittura, lo stesso Jatuporn si è detto disponibile a negoziare con il leader dell’opposizione di piazza, l’ex vice primo ministro Suthep Thaugsuban, se il generale Prayuth dovesse accettare di ricoprire il ruolo di mediatore.
I vertici dell’UDD nelle scorse settimane avevano più volte minacciato una marcia di milioni di persone sulla capitale nel caso il governo eletto fosse stato deposto con la forza ma il procedere degli eventi verso questa soluzione non ha comunque portato per il momento a nessuna reale mobilitazione.
Il timore del governo e dell’UDD è forse quello che le forze su cui si basano da oltre un decennio i successi del clan Shinawatra, vale a dire le classi più disagiate della Thailandia e quelle tradizionalmente escluse dal potere, possano sfuggire di mano e avanzare richieste di cambiamenti sociali ben più radicali di quelli approvati finora da Thaksin e Yingluck.
In definitiva, in presenza di tensioni sociali esplosive e con una situazione economica sempre più pesante, il governo auspica una soluzione indolore della crisi anche tramite l’intervento dei militari, a patto che questi ultimi non attuino l’ennesimo colpo di stato della storia thailandese.
Sul finire della giornata di martedì, intanto, il governo del premier Niwattumrong ha convocato una riunione di emergenza dell’esecutivo, mentre la Commissione Elettorale ha fatto sapere di avere ricevuto dal gabinetto provvisorio una richiesta per tenere le elezioni il 3 agosto prossimo. La stessa Commissione deciderà mercoledì se accogliere o meno la richiesta.
Tra le reazioni provenienti dall’estero, infine, spicca la mancata condanna delle Forze Armate da parte di Washington, in linea con l’atteggiamento tenuto dall’amministrazione Obama all’indomani delle sentenze anti-democratiche che i tribunali thailandesi hanno recentemente emesso contro l’ex premier Yingluck.
Il Dipartimento di Stato americano si è limitato ad emanare il consueto appello ad evitare atti di violenza, nella speranza che i militari - con cui gli USA vantano una stretta partnership - riescano ad incanalare la crisi in Thailandia verso una soluzione gradita e il meno imbarazzante possibile.
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di Michele Paris
Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato questa settimana una mossa senza precedenti, lanciando un’incriminazione formale di fronte ad un “grand jury” federale contro cinque ufficiali dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese con l’accusa di spionaggio industriale ai danni di alcune corporations americane. Per la prima volta, il governo americano ha messo sotto accusa presunti “hackers” non per le loro azioni individuali ma in quanto condotte come membri delle forze armate di un determinato paese e, in questo caso, della seconda economia del pianeta nel pieno di una rivalità sempre più marcata con Washington.
La portata della decisione presa dall’amministrazione Obama, assieme all’estrema improbabilità di ottenere una condanna, lascia intendere che l’incriminazione rappresenti una provocazione studiata per far salire la tensione tra i due paesi. Ciò è stato ammesso in maniera indiretta dallo stesso ministro della Giustizia americano (“attorney general”), Eric Holder, protagonista lunedì di una conferenza stampa nella quale ha affermato che le accuse sollevate in questa occasione sono “le prime in assoluto ai danni di attori conosciuti di uno stato”, accusati di avere “infiltrato obiettivi commerciali negli Stati Uniti con mezzi informatici”.
“Quando un paese straniero utilizza risorse militari o di intelligence contro un manager o una corporation americana per ottenere segreti industriali o informazioni commerciali sensibili a beneficio delle proprie compagnie pubbliche”, ha aggiunto Holder, “dobbiamo dire: basta!”.
I cinque ufficiali cinesi incriminati sarebbero assegnati alla cosiddetta “Unità 61398” dell’Esercito di stanza a Shanghai, descritta tra l’altro in un articolo apparso lo scorso anno sul New York Times. La rivelazione era basata su informazioni approssimative fornite dalla compagnia informatica Mandiant che accusava l’Unità 61398 di avere condotto una lunga serie di attività di spionaggio contro aziende americane.
Gli indagati dalla giustizia statunitense si ritrovano così con una trentina di capi d’accusa e, se saranno ritenuti colpevoli, rischiano in teoria lunghe pene detentive, anche se ovviamente il governo cinese non prenderà nemmeno in considerazione un’eventuale ipotesi di estradizione.
Secondo le autorità USA, le aziende prese di mira dall’attività di spionaggio dei cinque accusati sono il colosso della produzione di alluminio Alcoa, la costruttrice di centrali nucleari Westinghouse Electric, la produttrice di acciaio U.S. Steel, l’altro gigante della metallurgia Allegheny Technologies e la filiale americana della tedesca SolarWorld. I cinesi avrebbero anche intercettato comunicazioni di dirigenti del sindacato metallurgico United Steelworkers, coinvolti in una battaglia legale contro l’importazione di acciaio a basso costo dalla Cina.
Allo stesso modo, gli accusati sarebbero responsabili di operazioni di hackeraggio per ottenere informazioni e documenti riservati di queste compagnie, tutte impegnate in operazioni d’affari in Cina e, soprattutto, in cause legali con le loro rivali di questo paese per violazioni delle norme commerciali internazionali.
I documenti prodotti dal Dipartimento di Giustizia USA ipotizzano che alcune compagnie statali cinesi avrebbero ingaggiato l’Unità 61398 per ricevere “servizi informatici”, tra cui la creazione di un archivio con dati di intelligence relativi alle corporations americane.
Il ministero degli Esteri di Pechino ha prevedibilmente reagito in maniera molto dura alla notizia dell’incriminazione, affermando che la vicenda è stata fabbricata ad arte da Washington e prospettando un peggioramento delle relazioni bilaterali.
Inoltre, il governo cinese ha annunciato di avere sospeso le attività di un gruppo di lavoro con gli USA proprio sulle questioni relative al “cyber-spionaggio”, avviato più di un anno fa e già moribondo dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di monitoraggio dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA).
Nonostante l’ampio spazio ottenuto dalla notizia dell’incriminazione degli ufficiali cinesi sui media d’oltreoceano e la valanga di commenti che accolgono con entusiasmo il maggiore impegno dell’amministrazione Obama nel contrastare una pratica spionistica a cui la Cina ricorrerebbe regolarmente contro le aziende americane, la decisione proclamata da Holder è in realtà un esercizio di ipocrisia considerevole anche per gli standard difficilmente uguagliabili del governo americano.
I documenti segreti della NSA diffusi da Snowden nei mesi scorsi hanno infatti mostrato al mondo come gli Stati Uniti siano di gran lunga il principale responsabile di operazioni illegali di “hackeraggio” del pianeta. Il personale e le risorse a disposizione dell’apparato spionistico americano non hanno precedenti noti e permettono di intercettare virtualmente ogni comunicazione elettronica che avviene in ogni angolo del globo, in pratica senza alcun vincolo legale.
Le autorità di Washington questa settimana hanno nuovamente cercato di tracciare una linea tra le attività di spionaggio per la sicurezza nazionale e quelle a fini commerciali, con queste ultime giudicate più gravi rispetto alle prime. Oltre al fatto che una simile interpretazione risulta alquanto discutibile, se non totalmente falsa vista la clamorosa violazione dei diritti democratici che comporta l’intercettazione di telefonate, e-mail e traffico internet di cittadini privati innocenti, lo stesso governo USA non è estraneo ad operazioni contro compagnie straniere.
In relazione alla Cina, ad esempio, una recente rivelazione di Snowden aveva descritto l’attività di sorveglianza da parte della NSA contro il gigante dell’informatica Huawei, primo concorrente nella vendita di server e router nel mondo della statunitense Cisco Systems.
Lo spionaggio industriale e quello per motivi di sicurezza nazionale, d’altra parte, appaiono sempre più inscindibili per governi - come quello americano - diretta espressione dei grandi poteri economici e finanziari.
Lo stesso Holder, infatti, lo ha ammesso nella conferenza stampa di lunedì, quando ha affermato che “la nostra sicurezza economica e l’abilità di competere in maniera equa sul mercato globale sono legate in maniera diretta alla nostra sicurezza nazionale”.
L’incriminazione ai danni degli ufficiali dell’esercito di Pechino, infine, fa parte di una campagna sempre più aggressiva orchestrata da Washington nell’ambito della cosiddetta “svolta” asiatica decisa dalla Casa Bianca per contenere l’espansionismo cinese.
Quest’ultima provocazione è arrivata infatti a breve distanza dalle recenti visite in Estremo Oriente del Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, e dello stesso Obama - entrambi impegnati a dare lezioni al governo cinese e a rassicurare gli alleati circa l’impegno americano al loro fianco contro Pechino - ma anche dalla riesplosione di contese territoriali tra la Cina, le Filippine e il Vietnam, istigate in varia misura direttamente da Washington.
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di Michele Paris
L’attacco al Parlamento libico di domenica scorsa e la sospensione della stessa assemblea legislativa dietro decisione di un ex generale dell’esercito ha gettato il paese nordafricano ancora più nel caos e reso sempre più concreto lo spettro della guerra civile dopo quasi tre anni dalla “liberazione” dal regime di Gheddafi favorita dalle bombe della NATO.
Dopo l’operazione contro il Parlamento per mano di alcune milizie fedeli al generale Khalifa Hifter, un altro generale alleato con quest’ultimo ha annunciato in diretta televisiva che i 60 membri dell’assemblea costituente libica verranno investiti del potere legislativo, mentre l’attuale governo funzionerà come esecutivo di emergenza.
Lo stesso portavoce delle forze protagoniste dell’assalto al Parlamento, generale Mokhtar Farnana, ha poi negato che quello andato in scena domenica sia un colpo di stato, ma ha affermato che la decisione è stata presa per evitare che la Libia diventi “un incubatore del terrorismo”. Bersaglio dell’operazione sono stati in particolare i parlamentari islamisti, accusati di avere favorito il proliferare di milizie estremiste nel paese.
Nella giornata di lunedì, il governo libico uscente ha però respinto le direttive provenienti dal generale Hifter, condannando l’attacco al Parlamento che avrebbe fatto 2 morti e più di 50 feriti. Inoltre, il comandante delle forze armate regolari ha chiesto ad altre milizie - questa volta di ispirazione islamista - di dispiegare i propri uomini a Tripoli per combattere le formazioni golpiste guidate da Hifter, con il rischio di innescare un conflitto interno ancora più sanguinoso.
Ad aggiungere confusione al già caotico scenario, alcune fonti governative hanno rivelato che ad appoggiare Hifter sarebbero state due milizie - al-Qaaqaa e Sawaaq, le due maggiori attive a Tripoli - che avevano finora operato a fianco dell’Esecutivo per cercare di mantenere l’ordine, come è ormai pratica comune nella Libia del dopo-Gheddafi.
Il Parlamento che Hifter sostiene di avere sciolto appare in stato di completa paralisi e diviso tra fazioni islamiste e secolari, a loro volta sostenute da svariate milizie. Recentemente, un nuovo primo ministro era stato scelto dai deputati islamisti ma la nomina è stata definita illegittima dai loro rivali, così che il premier ad interim non ha ancora formato il nuovo gabinetto. Secondo un deputato sentito dalla TV libica, l’attacco del fine settimana sarebbe avvenuto precisamente per impedire che il Parlamento ratificasse la formazione dell’esecutivo, dopo che proprio domenica i suoi membri avevano ricevuto la lista dei ministri proposti per farne parte.
I gruppi messi assieme dal generale Hifter sono legati alle milizie di Zintan, nella Libia occidentale, e rappresentano la forza principale nelle file anti-islamiste di Tripoli. L’altra forza dominante nella capitale è costituita invece da formazioni islamiste, provenienti in gran parte da Misurata. Già venerdì scorso, Hifter e i suoi uomini avevano orchestrato un’operazione contro le milizie islamiste a Bengasi, in quello definito dalle autorità centrali come un altro tentativo di golpe che ha fatto 70 morti.
Personaggio controverso e dal passato oscuro, Hifter era un fedelissimo di Gheddafi prima di defezionare e fondare il Fronte Nazionale di Salvezza per la Libia. Il generale si sarebbe poi trasferito negli Stati Uniti, vivendo per anni in Virginia, a breve distanza dal quartier generale della CIA. Tornato in patria dopo l’assassinio di Gheddafi, Hifter era stato protagonista di un video circolato lo scorso mese di Febbraio, nel quale in sostanza annunciava un colpo di stato in Libia, senza però riuscire a dare seguito alle proprie minacce.
Visti i suoi legami con la CIA, che aveva selezionato l’ex generale di Gheddafi per favorire la nascita di una forza pronta a rovesciare il regime, è dunque possibile che Hifter sia stato utilizzato da Washington - o da fazioni all’interno dell’apparato militare o dell’intelligence americano - per provare un colpo di mano nel paese nordafricano con l’obiettivo di riportare un minimo di ordine e infliggere un colpo alle formazioni islamiste o, quanto meno, di testare le capacità dello stesso Hifter all’interno del confuso panorama politico libico.
Quel che appare certo, in ogni caso, è che il precipitare della situazione in Libia è la diretta e drammatica conseguenza dell’intervento “umanitario” occidentale del 2011, responsabile della totale destabilizzazione non solo di uno dei paesi più stabili e (relativamente) prosperi del continente ma anche dell’intera regione.
Il dopo-Gheddafi in Libia è sfociato nello strapotere di una miriade di milizie armate violente, spesso di ispirazione fondamentalista quando non apertamente affiliate al terrorismo internazionale, sulle quali Washington, Parigi e Londra avevano contato per dare la spallata al regime.
Una volta ultimate le operazioni militari, queste stesse milizie si sono rifiutate di deporre le armi e, approfittando del vuoto di potere venutosi a creare in un paese praticamente senza una società civile o un’opposizione organizzata, hanno creato proprie zone di influenza, talvolta collaborando con le forze armate ufficiali e quelle di polizia ma, soprattutto, dando vita a continui scontri interni per il controllo del territorio.
Nelle regioni orientali, in varie occasioni le milizie si sono anche impadronite dei pozzi petroliferi sottraendoli al controllo del governo centrale, mentre qualche mese fa una di esse è stata addirittura protagonista del rapimento dell’ex primo ministro, Ali Zeidan, accusato di complicità con il raid americano che aveva portato alla cattura del leader di al-Qaeda, Anas al-Liby.
Il succedersi degli eventi in Libia rappresenta così un motivo di grave imbarazzo per i governi che hanno apoggiato la cosiddetta “rivoluzione democratica” contro il regime di Gheddafi, nonostante i tentativi dei media ufficiali di occultare le implicazioni dell’impegno occidentale in questo paese.
L’ambiguità dell’approccio dell’Occidente e, soprattutto, degli Stati Uniti al fondamentalismo islamico è apparsa infatti in tutta la sua evidenza proprio in Libia, così come i pericolosi effetti collaterali di un politica sconsiderata, ugualmente riscontrabili nella crisi in Siria.
Washington, in sostanza, ha appoggiato finanziariamente e militarmente formazioni estremiste in Libia per condurre la propria guerra contro Gheddafi, finendo poi per subire le conseguenze dell’inevitabile rafforzamento di questi stessi gruppi armati, con effetti sia sugli interessi americani - come dimostrò clamorosamente l’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore USA Christopher Stevens nel 2012 per mano di fondamentalisti sunniti - sia sulla stabilità di Tripoli e di altri paesi dell’Africa sub-sahariana, come il Mali o la stessa Nigeria.
La Libia, infine, rappresenta da qualche tempo un autentico serbatoio di guerriglieri estremisti per il conflitto in corso in Siria, utilizzati più o meno tacitamente come forza d’urto dagli Stati Uniti e dai loro alleati che, perciò, sembrano qualcosa di più che semplici spettatori passivi di un flusso di armi e uomini a cui ufficialmente sostengono di opporsi.
Ciò è risultato evidente, tra l’altro, da una rivelazione pubblicata a fine aprile dalla testata on-line The Daily Beast, secondo la quale da quasi un anno una base creata nel 2011 dalle Forze Speciali USA non lontana da Tripoli sarebbe finita nelle mani di gruppi armati affiliati ad al-Qaeda. I reparti scelti americani che da questa struttura avevano operato al fianco di gruppi fondamentalisti per abbattere il regime di Gheddafi ne hanno perso il controllo la scorsa estate dopo almeno due precedenti incursioni da parte dei jihadisti.
I militanti islamici che ora la controllano, dopo avere beneficiato delle operazioni NATO in Libia, sono attivi nel reclutamento e invio di guerriglieri in Siria, dove condividono di fatto l’obiettivo immediato degli Stati Uniti nel paese mediorientale, vale a dire la rimozione del regime secolare di Bashar al-Assad.
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di Carlo Musilli
Sul piatto c'erano più di 3.200 euro al mese, ma gli svizzeri hanno detto no. Lo hanno fatto con una percentuale quasi bulgara: il 76,5% degli elettori che lo scorso weekend si sono recati alle urne ha bocciato il referendum d'iniziativa popolare "per la protezione di salari equi". Il progetto, sostenuto dai sindacati e osteggiato da governo e imprenditori, prevedeva uno stipendio minimo legale a livello nazionale di 22 franchi l’ora (18 euro), ovvero circa 4mila franchi al mese (poco meno di 3.300 euro) per un impiego a tempo pieno di 42 ore settimanali. A conti fatti, sarebbe stato lo stipendio minimi più alto del mondo, eppure è stato respinto in tutti i 26 cantoni e semi-cantoni.
È la terza volta in poco più di un anno che gli svizzeri sono chiamati a votare sul capitolo remunerazioni: lo scorso novembre avevano respinto con circa il 65% di voti contrari l’iniziativa "1-12 - Per salari equi", la quale prevedeva che in ogni impresa il salario più alto non potesse superare di oltre 12 volte quello più basso; nel marzo 2013, invece, avevano approvato con oltre il 67% di schede favorevoli il referendum contro le paghe esorbitanti dei manager.
Ora, finché si parla degli eccessi riservati a pochi eletti, il rifiuto è comprensibile. Ma come si spiega che più di tre persone su quattro abbiano respinto una manna dal cielo nelle tasche dei lavoratori più umili? Secondo Johann Schneider-Ammann, ministro dell'Economia, l'innovazione avrebbe causato una perdita di occupazione (anche se, ad oggi, il tasso di disoccupazione svizzero è pari al 3,5%, uno dei più bassi al mondo), e a risentirne maggiormente sarebbero stati proprio i lavoratori meno qualificati e quelli attivi nelle zone periferiche.
La sua posizione è la stessa della destra svizzera e dell'intera classe imprenditoriale del Paese, che di fronte alla prospettiva di dover mettere mano al portafoglio aveva agitato perfino lo spauracchio della delocalizzazione. Certo, se il primo criterio per scegliere dove produrre fosse il costo del lavoro, è evidente che con o senza referendum a nessuno verrebbe in mente di aprire un'azienda in Svizzera. Peccato che si debba tener conto anche di fattori come la logistica, i tempi della giustizia e - soprattutto - il fisco.
Se si guarda oltre l'orizzonte degli stipendi, si nota che il contesto svizzero nel suo complesso rappresenta una dorata eccezione nel panorama europeo. Sono del tutto improponibili i paragoni con la Francia (dove il salario minimo è di poco più di 9 euro l'ora) o la Germania (che ha recentemente introdotto un tetto minimo di 8,5 euro l'ora, in vigore dall'anno prossimo). Eppure la differenza macroscopica fra il salario chiesto dal referendum e quello garantito nelle prime due economie dell'Eurozona deve aver indotto diversi lavoratori a temere davvero di perdere il posto.
Un'eventualità che secondo i sindacati e i partiti di sinistra non si sarebbe mai realizzata. Perché? Semplice, perché la Svizzera è straricca. Nelle imprese private lo stipendio medio è di 6.118 franchi lordi al mese, mentre i lavoratori che guadagnano meno di 4mila franchi rappresentano solo il 10% e sono perlopiù concentrati in settori come il commercio al dettaglio, la ristorazione e l'agricoltura. In uno scenario di questo tipo, considerando anche un costo della vita impensabile per un europeo medio, la tesi dei promotori del referendum era che pagare qualcuno meno di 22 franchi l'ora fosse semplicemente vergognoso.
E' probabile che i sindacati e la sinistra non siano stati sconfitti solo dalla campagna di terrore degli oppositori, ma anche da quel non so che di xenofobo che serpeggia nel dna del loro Paese. Gli svizzeri, mediamente, non vedono di buon occhio gli immigrati, considerando che in passato hanno proibito la costruzione di minareti sul territorio nazionale, approvando invece un referendum "per l'espulsione degli stranieri che commettono reati".
Lo scorso gennaio è passato addirittura un referendum per l'introduzione di quote che limitino il numero di lavoratori stranieri ammessi in Svizzera (il ddl dovrebbe essere presentato a breve). Una decisione che ha danneggiato i rapporti fra Berna e Bruxelles, poiché di fatto restringe arbitrariamente gli accordi per la libera circolazione nell'area Schengen.
Insomma, non serve cercare troppo nelle pieghe della giurisprudenza elvetica per sapere con quanta acredine vengano accolti molto spesso i nostri connazionali frontalieri, ovvero gli italiani che ogni giorno vanno in Svizzera per lavorare e ogni sera tornano a casa al di qua delle Alpi. E non serve un genio per capire che con un salario minimo di quel tipo si sarebbero moltiplicati. Lo hanno capito persino più di tre svizzeri su quattro.