di Carlo Musilli

"Temo i greci anche quando portano doni", diceva Lacoonte davanti al cavallo di Troia. Se oggi il sacerdote troiano fosse un europeo di sinistra, probabilmente userebbe parole simili dopo aver letto la composizione della nuova Commissione europea. Nella squadra presentata mercoledì dal neoeletto presidente Jean Claude Juncker, il socialista francese Pierre Moscovici ha ottenuto una posizione di assoluto rilievo, quella di commissario agli Affari economici e monetari dell'Unione.

Di per sé, la notizia suonerebbe come una vittoria non solo della Francia, ma di tutti i Paesi che - come l'Italia - puntano a un allentamento dell'austerità per spostare il mirino economico di Bruxelles sulla crescita. Moscovici, infatti, pur non essendo un guerriero capace di mettere in discussione i Trattati, è noto per la sua inclinazione antirigorista.

Purtroppo è già chiaro che il politico parigino non avrà le possibilità di manovra che François Hollande e Matteo Renzi avrebbero sperato. Un po' come Ulisse con il cavallo, l'astuto Juncker ha trovato il modo di blandire i suoi avversari e allo stesso tempo di condannarli alla sconfitta.

Il trucco dell'ex Premier lussemburghese si nasconde nella nomina di ben sette vicepresidenti. Uno di loro è il finlandese Jyrki Katanien, predecessore di Moscovici agli Affari economici, nonché falco intransigente e fedelissimo di Angela Merkel, che avrà competenze su lavoro, crescita, investimenti e competitività.

La sua missione prevede di gestire i 300 miliardi d'investimenti che Juncker ha promesso per stimolare l'economia europea nel prossimo triennio e - soprattutto - di "coordinare" l'attività dei commissari con competenze economiche, sulle cui decisioni avrà diritto di veto. Lo stesso Juncker ha spiegato che i vicepresidenti potranno “bloccare l’iniziativa legislativa, perché la Commissione dovrà funzionare come una squadra ben organizzata”. Traduzione: Moscovici non potrà fare nulla che non stia bene a Katanien. Con buona pace di chi sperava in un cambiamento di rotta della politica economica europea.

Non è però questa la sola difficoltà contro cui il povero socialista francese dovrà combattere. Nel gruppo dei portafogli economici, Moscovici è circondato da una serie di falchi come nemmeno in un museo di ornitologia: si va dal lettone Vladis Dombrovskis (vicepresidente per l'Euro e il dialogo sociale) al tedesco Gunther Oettinger (commissario all'Economia digitale), dalla polacca Elzbieta Bienkowska (che avrà competenze su Mercato unico e Industria) alla svedese Cecilia Malmstrom (Commercio), passando per la danese Margrethe Vestager (Concorrenza).

Di questi nomi, le tre donne - che in tutto sono appena nove sui 28 membri della Commissione - non solo sono liberiste convinte, ma provengono anche da Paesi che non fanno parte dell'Eurozona. Completerà il quadro lo spagnolo Luis De Guindos, membro del Partito popolare sostenuto dalla Merkel per la presidenza dell'Eurogruppo.

Un capitolo a parte riguarda la Gran Bretagna, che ha piazzato Jonathan Hill sulla poltrona di commissario alla Stabilità finanziaria, ai Servizi finanziari e all'Unione dei mercati finanziari. In altre parole, le redini della finanza europea saranno in mano alla City di Londra.

Si tratta forse di un calumet della pace offerto da Juncker al primo ministro inglese David Cameron, che negli scorsi mesi si era opposto strenuamente all'assegnazione della presidenza all'ex premier del Lussemburgo (sbagliando, visto che per la prima volta gli elettori si erano espressi conoscendo i candidati dei diversi schieramenti).

Di fronte a una Commissione del genere verrebbe da pensare che dalle urne fosse emerso un plebiscito per il Ppe. In realtà non fu così, anzi. Eppure quindici commissari appartengono ai popolari, sette ai socialisti e democratici, cinque ai liberaldemocratici e uno ai conservatori. Senza contare che i commissari sono commissariati in partenza dai vicepresidenti.

La débacle socialista è ben riassunta dalle parole di Moscovici in un'intervista al quotidiano finanziario Les Echos: "Prima di tutto dobbiamo applicare le regole, tutte le regole e nient’altro che le regole - ha detto -. E' escluso che si possa concedere una qualsiasi deroga, sospensione o eccezione. Le regole non offrono dei margini di interpretazione in funzione delle circostanze economiche e degli sforzi strutturali che sono operati".

Forse nessuno gli ha detto che due giorni fa la Francia ha ammesso di non riuscire a mantenere la promessa fatta a Bruxelles sul deficit, destinato a rientrare nel limite del 3% solo nel 2017, con altri due anni di ritardo rispetto agli impegni presi. O forse ha solo capito l'aria che tira, un po' come Lacoonte.

di Michele Paris

Alla vigilia del tredicesimo anniversario degli attacchi dell’11 settembre, il presidente Obama ha ufficialmente annunciato l’apertura di una nuova avventura bellica che consegna sempre più gli Stati Uniti a uno stato di guerra permanente. Oggi come nel 2001, le giustificazioni per l’ennesimo intervento all’estero sono apparentemente legate al dilagare del terrorismo internazionale, sia pure in una versione aggiornata, e oggi come nel 2001 le cause e le circostanze che hanno determinato l’ulteriore situazione di crisi continuano a essere tenute nascoste all’opinione pubblica.

A Obama sono stati sufficienti meno di 15 minuti di diretta televisiva per notificare al paese l’invio di altri 475 soldati in Iraq e l’escalation delle operazioni militari non solo nello stesso Iraq ma anche in Siria per combattere la nuova creatura del fondamentalismo sunnita, ancora una volta emanazione diretta della politica estera criminale degli Stati Uniti.

Il coinvolgimento di Washington nella crisi siriana segna anche il “successo” dell’apparato militare e della sicurezza nazionale americano nel proprio sforzo per la rimozione del regime di Assad. Esattamente dodici mesi fa, l’amministrazione Obama fu costretta a una clamorosa marcia indietro dopo il fallimento del tentativo di bombardare la Siria a causa della vastissima opposizione popolare a una nuova guerra e, di riflesso, del mancato sostegno ottenuto dal Congresso.

In quell’occasione, un’operazione “false flag” dei “ribelli” anti-Assad con l’assistenza diretta della Turchia aveva cercato di creare un casus belli per l’intervento occidentale contro Damasco, operando un attacco con armi chimiche nei pressi della capitale siriana e attribuito poi al regime.

Oggi, invece, gli Stati Uniti sono giunti allo stesso obiettivo per un percorso diverso ma che rientra in una metodologia consolidata, ricorrendo cioè alla necessità di fermare l’avanzata di una formazione jihadista violenta - l’ISIS - che ha potuto però ottenere un grado di successo con pochi precedenti grazie proprio alle manovre degli USA e dei loro alleati a favore dell’opposizione armata in Siria.

Nel suo discorso nella notte italiana di mercoledì, Obama ha delineato una strategia da perseguire su più fronti. In primo luogo, l’inquilino della Casa Bianca ha escluso una ripetizione dei conflitti in Iraq e in Afghanistan, caratterizzati da una forte presenza di militari USA sul terreno. Questa pretesa è però in parte smentita dai fatti, visto che in Iraq sono già presenti ormai poco meno di duemila militari americani, anche se ufficialmente senza incarichi di combattimento.

Le garanzie della limitatezza dell’intervento in Iraq e in Siria contrastano poi con la vastità dell’obiettivo dell’estirpazione di un movimento che controlla immensi territori e che ha già costruito una rudimentale organizzazione di governo. Inoltre, le ammonizioni dello stesso Obama circa la lunga durata dell’impegno contro l’ISIS lasciano intendere una pressoché certa escalation, se sarà necessario anche con l’invio di truppe di terra, come hanno confermato anche le osservazioni circolate sui media in questi giorni di vari analisti vicini al governo di Washigton.

I modelli a cui Obama ha fatto riferimento mercoledì sono stati comunque lo Yemen e la Somalia, dove da anni la CIA e il Pentagono conducono bombardamenti illegali con i droni, ma anche azioni delle Forze Speciali, contro le formazioni integraliste AQAP (Al-Qaeda nella Penisola Arabica) e Al-Shabaab.

Al di là dell’ironia involontaria di Obama nel definire un “successo” le operazioni in questi due paesi, l’apparente cambiamento di strategia nella proiezione del potere degli USA nel mondo - da guerre con centinaia di migliaia di soldati a operazioni “mirate” - non solo è determinato dalla profonda impopolarità di conflitti sanguinosi con ingenti perdite in termini di uomini, ma risponde soprattutto alla dottrina interventista globale dell’imperialismo a stelle strisce elaborata nella sua forma più chiara proprio dall’attuale presidente. Un impegno multipolare per far fronte alle innumerevoli crisi nel pianeta esclude di per sé il continuo ricorso a contigenti militari significativi.

La tesi così sostenuta dal presidente democratico si risolve perciò in uno degli altri punti fermi della strategia mediorientale appena annunciata, vale a dire la creazione di un’alleanza internazionale per combattere l’ISIS e il sostegno militare e finanziario alle forze armate indigene. Fin dall’inizio delle operazioni contro l’ISIS in Iraq, gli USA e vari governi europei hanno garantito forniture ed equipaggiamenti militari alle forze regolari di Baghdad e ai peshmerga della regione autonoma del Kurdistan iracheno.

In territorio siriano, invece, come previsto la strategia americana dovrebbe basarsi sulla riesumazione delle forze ribelli “moderate”, semplicemente inesistenti o, quanto meno, spazzate via nei mesi scorsi dal regime di Assad, nonché dalla loro inettitudine e a causa del consenso praticamente nullo raccolto tra la popolazione.

Proprio sulla nuova campagna di addestramento e finanziamento dei ribelli anti-Assad e anti-ISIS si limiterà probabilmente a esprimersi il Congresso americano, evitando un voto formale per autorizzare operazioni di guerra in Siria che risulterebbe politicamente difficile da sostenere a poche settimane dalle elezioni di medio termine.

Obama, peraltro, ha fatto sapere mercoledì di non avere bisogno di alcuna autorizzazione del Congresso per lanciare una guerra senza limiti di tempo né vincoli in Siria. L’amministrazione democratica, per colpire i militanti dell’ISIS, intende infatti riferirsi alla già esistente autorizzazione all’uso della forza approvata da Camera e Senato all’indomani dell’11 settembre 2001.

Quel provvedimento intendeva però assegnare poteri straordinari al presidente solo contro i responsabili degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono, identificati nell’organizzazione di al-Qaeda. Com’è noto, da mesi i vertici di quest’ultima hanno però ripudiato l’ISIS, annunciando che questo gruppo di fanatici sunniti non fa parte della loro organizzazione terroristica.

Al fine di evitare spinose questioni legali che ora devono sembrare superate, Obama aveva recentemente fatto riferimento ai poteri costituzionali riconosciutigli come comandante in capo per operare gli oltre 150 bombardameni finora condotti contro l’ISIS in Iraq. Su queste basi, però, sarebbe necessario rispettare il dettato della War Powers Resolution del 1973, secondo la quale, in assenza di un voto del Congresso, il presidente deve mettere fine alle ostilità da lui dichiarate entro 60 giorni.

Per questa amministrazione, come per la precedente, la Costituzione e le leggi degli Stati Uniti sono tuttavia carta straccia, da manipolare secondo i propri bisogni. Già nel 2011 con la guerra in Libia, ad esempio, Obama aggirò i limiti imposti ai propri poteri, sostenendo che le operazioni nel paese nord-africano non erano da considerarsi una vera e propria guerra - nonostante i 50 mila morti e un paese devastato - perché le forze americane non correvano in pratica nessun rischio.

Inquietante, infine, è apparso il riferimento di Obama alla facoltà del suo paese di perseguire l’ISIS ovunque e senza tenere conto di alcun confine. Ciò lascia intendere possibili interventi futuri anche in altri paesi mediorientali, quelli ovviamente che manifestino resistenze all’egemonia americana, come Iran o Libano.

Parlando ieri alla nazione, Obama ha inoltre ribadito che l’uso della forza da parte statunitense è giustificato da qualsiasi presunta minaccia agli interessi cruciali degli USA. La portata di questa interpretazione risulta evidente proprio con l’ISIS e la Siria, visto che lo stesso Obama ha confermato come non ci sia alcuna indicazione che i jihadisti stiano progettando attacchi in territorio americano, ma questi ultimi potrebbero diventare una “minaccia crescente” se lasciati liberi di operare.

Nel commentare l’interminabile conflitto contro le forze del “terrore”, così, in maniera fintamente ingenua, il New York Times ha scritto giovedì che Obama, con la decisione appena presa, potrebbe avere assicurato un’eredità di guerra al suo successore, precisamente come aveva fatto George W. Bush nei suoi confronti. L’osservazione, nella sua superficialità, è il livello massimo di ammissione da parte di un giornale ufficiale, e quindi dell’establishment americano, dello stato di guerra senza fine che alimenta l’apparato di potere degli Stati Uniti, come risposta all’inevitabile declino di quel che resta della prima superpotenza del pianeta.

A tredici anni dal lancio del colossale inganno della “guerra al terrore”, dunque, la pace appare sempre più lontana, così come un miraggio è l’America in salute descritta da Obama sul finire del suo intervento di mercoledì. La guerra permanente al terrorismo - frutto volontario e assieme involontario della contraddittoria politica estera statunitense - non è che l’espressione di uno sforzo senza fine, e per questo destinato a fallire, di ricreare un equilibrio, in Medio Oriente come altrove, nel quale Washington possa promuovere i propri interessi ed estendere la propria influenza in maniera incontrastata.

di Michele Paris

Da qualche tempo il governo degli Stati Uniti accusa Pechino di condurre operazioni di spionaggio industriale ai danni delle proprie corporations per assicurare un vantaggio tecnologico alle compagnie cinesi. L’accusa, tuttavia, è stata in più occasioni rimandata al mittente e con molte ragioni, anche se Washington insiste che simili pratiche, quand’anche siano state messe in atto dall’intelligence a stelle e strisce, a differenza di quelle della Cina sono giustificate, poiché non avrebbero come fine quello di avvantaggiare il business americano.

Questa giustificazione, già di per sé molto discutibile, è stata smontata ulteriormente qualche giorno fa in seguito alla pubblicazione sulla testata on-line The Intercept di documenti riservati dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) americana forniti da Edward Snowden.

L’autore dell’articolo, Glenn Greenwald, spiega come un rapporto segreto emesso nel 2009 dall’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI) affermi apertamente la possibilità da parte della NSA quanto meno di considerare l’attività di spionaggio industriale in un prossimo futuro.

Il documento è denominato “Quadriennal Intelligence Community Review” e, secondo Greenwald, rappresenta un’interessante “finestra sulla mentalità dell’intelligence americana nell’identificazione di future minacce agli Stati Uniti e nella predisposizione di contromisure” in risposta a questa eventualità.

Nello specifico, i documenti in questione si riferiscono a un “potenziale scenario nel quale gli USA potrebbero dover fronteggiare, nel 2025, un blocco [di paesi] centrato su un’alleanza tra Cina, Russia, India e Iran che minacci la supremazia americana”.

Tra i pericoli ipotizzati, vi è la perdita da parte degli USA del proprio vantaggio “tecnologico e innovativo”, così che “le capacità tecnologiche delle corporations multinazionali straniere superino quelle delle corporations americane”. Uno scenario di questo genere, continua il documento, “potrebbe mettere gli Stati Uniti in una situazione di svantaggio crescente - e potenzialmente definitivo - in settori cruciali come quelli energetico, medico, delle nanotecnologie e dell’IT”.

In questo caso, tutto il potenziale dell’apparato di intelligence degli Stati Uniti sarebbe utilizzato per soccorrere le corporations del paese in crisi di competitività. La NSA metterebbe cioè in atto uno sforzo “sistematico e su più fronti per raccogliere informazioni protette e ‘open source’ attraverso mezzi palesi, penetrazione clandestina (sia fisica sia informatica) e controspionaggio”. In particolare, le “cyber operazioni” da condurre dovrebbero servire a penetrare “centri segreti per l’innovazione” com i laboratori di “Ricerca e Sviluppo” di paesi e compagnie straniere.

In un grafico esplicativo - titolato significativamente “Acquisizioni tecnologiche con ogni mezzo” - viene spiegato inoltre che la comunità dell’intelligence americana sarebbe chiamata a fare “approcci clandestini”, ad esempio nei confronti di paesi come India e Russia, ipoteticamente impegnati in progetti di innovazione tecnologica, per “dissolvere la loro partnership”.

Dopo avere condotto le operazioni descritte per ottenere le informazioni necessarie e per indebolire la “catena di approvvigionamento intellettuale”, l’intelligence dovrebbe anche e soprattutto valutare “se e in che modo quanto scoperto possa esse utile all’industria americana”.

Negando quest’ultima affermazione, l’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale ha ribadito allo staff del sito The Intercept che gli Stati Uniti non si appropriano in nessun modo di informazioni aziendali per favorire compagnie private americane e che il rapporto rivelato da Snowden non riflette l’attuale politica dello spionaggio USA.

L’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale è stato creato una decina di anni fa dall’amministrazione Bush con il compito, tra l’altro, di supervisionare l’intera comunità di intelligence americana. L’ufficio è guidato dal 2010 dall’ex generale dell’aeronautica James Clapper, già responsabile impunito di spergiuro di fronte al Congresso per avere mentito deliberatamente sul monitoraggio di massa delle comunicazioni elettroniche degli americani da parte della NSA.

Vista la vastità delle operazioni che la NSA conduce in tutto il pianeta, è come minimo ipotizzabile che l’agenzia sia già impegnata nelle operazioni che i suoi portavoce smentiscono. Tanto più che tra i documenti forniti da Snowden lo scorso anno, alcuni avevano rivelato l’esistenza del programma “Blackpearl”, con il quale la NSA ottiene dati e informazioni proprio da network privati, tra cui quello del gigante petrolifero brasiliano a maggioranza pubblica Petrobras.

In ogni caso, anche prendendo per vere le rassicurazioni del governo, i documenti appena pubblicati da The Intercept, come osserva Greenwald, confermano che la sottrazione illegale di segreti commerciali è una pratica che l’intelligence USA considera legittima per proteggere le proprie multinazionali.

Questa realtà è d’altra parte tutt’altro che sorprendente, visto che la classe dirigente negli Stati Uniti come altrove identifica sostanzialmente gli interessi del business domestico con quelli dello stato.

Le ultime rivelazioni di Snowden, infine, giungono opportunamente a pochi mesi dall’incriminazione formale da parte della giustizia USA di cinque dipendenti del governo di Pechino con l’accusa di avere violato le reti di svariate compagnie private americane.

Nell’annunciare la decisione a maggio, il ministro della Giustizia, Eric Holder, aveva affermato pubblicamente che i cinque cittadini cinesi erano coinvolti in attività di spionaggio industriale “con il solo scopo di avvantaggiare le compagnie pubbliche e altri interessi” del loro paese, assicurando poi che simili azioni illegali venivano “categoricamente condannate dal governo degli Stati Uniti”, sempre che a commetterle siano però paesi stranieri e possibilmente rivali.

di Mario Lombardo

Con il voto in alcuni stati della costa orientale, nella giornata di martedì si è chiusa negli Stati Uniti la stagione 2014 delle primarie in vista delle elezioni di metà termine del 4 novembre prossimo per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington. L’appuntamento con le urne, già tradizionalmente disertato da molti elettori in assenza della sfida per la Casa Bianca, anche se potrebbe decidere il cambio di maggioranza al Senato, sembra suscitare ben poco interesse al di fuori dei media ufficiali e dei circoli di potere, confermando la crescente sfiducia degli americani verso un sistema totalmente bloccato e privo di reali alternative politche.

A rendere ancora più cupo un clima generale fatto di difficoltà economiche persistenti, disuguaglianze sociali senza precedenti e preparativi per nuove guerre oltreoceano, sembra essere non solo la realtà di due partiti pro-business praticamente intercambiabili che monopolizzano la scena politica statunitense, ma anche la scarsità di sfide realmente competitive che andranno in scena tra meno di due mesi.

Come previsto negli USA, nel “midterm” la Camera dei Rappresentanti verrà rinnovata completamente, mentre al Senato saranno in palio 36 seggi sui 100 complessivi, di cui 21 attualmente detenuti da democratici e 15 da repubblicani.

Nel caso della Camera, è opinione ampiamente condivisa che i repubblicani riusciranno a conservare la maggioranza in maniera agevole, con addirittura un possibile incremento del margine di 35 seggi (234-199) che vantano sui democratici nel 113esimo Congresso uscente.

Dal momento che gli equilibri nei distretti elettorali dei singoli stati per la Camera di Washington risultano in gran parte consolidati, in pratica poco più di una settantina di seggi vedranno una reale competizione tra i candidati dei diversi schieramenti. Ancora meno sono poi i seggi per i quali le sfide si annunciano equilibrate, così che la composizione finale della Camera si discosterà solo in minima parte da quella attuale.

La drastica diminuzione del numero di elezioni competitive per la Camera è in parte il risultato delle modifiche dei distretti elettorali messe in atto in questi anni dalle assemblee legislative locali per assicurare il dominio di uno dei due partiti, attraverso l’inclusione nei confini dei distretti stessi di città o quartieri i cui elettori tendono a votare per il partito che si intende favorire e l’esclusione di quelli che propendono per l’avversario.

Soprattutto, però, questa dinamica è il risultato di una consolidata polarizzazione dell’elettorato americano, riscontrabile però quasi esclusivamente tra una percentuale relativamente ristretta di votanti che partecipano attivamente al processo di selezione della classe dirigente, laddove la grande maggioranza della popolazione rimane indifferente di fronte ad una scelta limitata a due partiti che sono espressione di diverse sezioni delle élites economico-finanziarie del paese.

Casi emblematici di questa realtà sono gli stati solitamente ascrivibili al Partito Democratico o a quello Repubblicano. Come accade nel corso delle campagne elettorali presidenziali, infatti, anche nella corsa al Congresso il partito che raccoglie ben poche fortune in un determinato stato evita in sostanza di “sprecare” risorse economiche in una competizione persa in partenza.

Ciò è evidente ad esempio in vari stati del sud, a grande maggioranza repubblicana, o viceversa nel nord-est e sulla costa occidentale, dove a prevalare sono i democratici. Particolarmente significativi sono i casi di California e Texas, i due stati con le più nutrite delegazioni alla Camera. In entrambi gli stati, secondo gli analisti d’oltreoceano, complessivamente solo due seggi sembrano essere realmente in bilico tra i candidati in corsa sui 55 in palio nel primo e i 36 nel secondo.

In molti casi, inoltre, il partito sfavorito non ha nemmeno presentato un candidato, come nello stesso Texas, dove i democratici non saranno presenti in una decina di distretti su 36. Le sfide per la Camera, in definitiva, si sono risolte in buona parte durante le primarie dei mesi scorsi, con i confronti interni ai due partiti tra l’anima moderata e ultra-conservatrice dei repubblicani e tra quella ugualmente moderata e “progressista” dei democratici.

Secondo gli standard dei media ufficiali americani, maggiore interesse dovrebbe destare la sorte del Senato, dove la maggioranza democratica di 55 seggi contro i 45 dei repubblicani appare seriamente a rischio. Anche in questo caso, dei 36 seggi che verranno rinnovati solo la metà circa vedrà sfide competitive, quasi tutte in stati tradizionalmente repubblicani o in bilico tra i due partiti.

Se i seggi aperti di Montana, South Dakota e West Virginia, dove i senatori democratici in carica hanno da tempo annunciato il loro ritiro, sembrano destinati ai repubblicani, altri quattro stati vinti da Mitt Romney su Obama nelle presidenziali del 2012 - Alaska, Arkansas, Louisiana e North Carolina - appaiono in bilico e, anzi, vedono al momento leggermente favoriti i democratici.

Questi ultimi hanno però dei margini molto ristretti visto il clima politico a loro sfavorevole e non possono permettersi in pratica nessuna sconfitta in stati dove sono maggiormente favoriti, nonostante debbano talvolta fronteggiare agguerriti rivali repubblicani.

Pur dovendo giocare sulla difensiva, il Partito Democratico ha comunque qualche carta da giocare in tre stati dove i seggi in palio sono occupati da senatori repubblicani. In Kentucky a essere in pericolo è addirittura il leader di minoranza Mitch McConnell, accreditato dai sondaggi solo di un lieve vantaggio sulla 35enne democratica Alison Lundergan Grimes. In Georgia, invece, i democratici con Michelle Nunn - figlia dell’ex senatore Sam Nunn - sembrano avere un margine, anche se precario, sull’imprenditore repubblicano David Perdue.

Più complessa è infine la situazione in Kansas, dove il ritiro del candidato democratico, il procuratore distrettuale Chad Taylor, avrebbe singolarmente complicato le cose per il repubblicano in carica, Pat Roberts. La mossa di Taylor, infatti, potrebbe favorire un candidato indipendente ben finanziato, l’imprenditore Greg Orman, il quale secondo alcuni avrebbe accettato di votare con i democratici se eletto al Senato in cambio, appunto, del ritiro dalla corsa dello stesso Taylor.

I repubblicani stanno investendo ingenti risorse per conquistare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, così da ostacolare ulteriormente, secondo la versione ufficiale, l’implementazione dell’agenda del presidente Obama o per promuovere il loro programa. In realtà, anche se il Senato dovesse passare di mano, le differenze rispetto alla situazione attuale nei prossimi due anni potrebbero non essere particolarmente evidenti.

Obama, oltre a mantenere il potere di veto sui provvedimenti del Congresso che può essere neutralizzato solo con una maggioranza dei due terzi di entrambe le camere, ha già visto affondare in questi anni molte delle sue iniziative alla Camera dei Rappresentanti, nonostante l’appoggio della maggioranza democratica al Senato. Quel che è certo, è che il ribaltamento degli equilibri al Senato produrrebbe invece un nuovo spostamento a destra dell’asse politico di Washington.

In ogni caso, se fino a pochi mesi fa le probabilità di mantenere una maggioranza anche risicata al Senato sembravano reali per i democratici, oggi la situazione appare ribaltata e il partito del presidente viene dato decisamente in affanno.

A conferma di quanto descritto in precedenza sulla totale sfiducia degli elettori verso la classe politica americana, un recentissimo sondaggio Gallup ha rivelato come appena il 14% degli elettori approvi l’operato del Congresso. Questo livello infimo di gradimento a due mesi dalle elezioni è il più basso mai registrato da Gallup da quarant’anni a questa parte.

L’insoddisfazione si concretizzerà con percentuali di astensione elevatissime, mentre saranno i democratici a pagarne maggiormente il prezzo nelle scelte degli elettori, visto che controllano la Casa Bianca. Anche se il suo nome non apparirà sulle schede, Obama rappresenta poi un’ulteriore zavorra per i candidati democratici, soprattutto negli stati considerati di tendenze conservatrici, come dimostra il gradimento in continua caduta della sua amministrazione.

Assieme alle elezioni per il Congresso, il 4 novembre gli elettori americani saranno chiamati a scegliere anche molti governatori e assemblee legislative statali, dove a dominare attualmente sono i repubblicani. Dopo i successi del 2010, però, governatori e parlamentari locali del Partito Repubblicano hanno generalmente messo in atto devastanti politiche anti-sociali e sembrano quindi dover andare incontro a non poche sconfitte.

Tra i governatori repubblicani maggiormente a rischio ci sarebbero Tom Corbett (Pennsylvania), Rick Snyder (Michigan), Scott Walker (Wisconsin) e Rick Scott (Florida). Il possibile cambio alla guida di questi stati non preannuncia comunque significative variazioni dell’agenda politica, come potrebbe accadere in Florida, dove il candidato democratico sarà infatti un ex repubblicano, vale a dire l’ex governatore Charlie Crist.

Nel complesso, il voto di “midterm” è caratterizzato da livelli di spesa da record nelle campagne elettorali, grazie anche a più o meno recenti sentenze della Corte Suprema che hanno abbattuto gran parte dei limiti alle contribuzioni per i donatori più facoltosi. In alcune competizioni a livello statale, come in quella per un seggio al Senato in Kentucky o per la carica di governatore in Florida, la spesa complessiva dei candidati ha addirittura già superato i 100 milioni di dollari.

Questa è d’altra parte la logica conseguenza dell’evoluzione di un sistema politico fatto di ricchi e al servizio dei ricchi, con la conseguente emarginazione delle classi disagiate, tanto che il continuo lievitare delle somme spese nelle campagne elettorali risulta ormai inversamente proporzionale al livello di interesse degli elettori e alla credibilità agli occhi di questi ultimi della classe politica americana.

di Michele Paris

Il grado di collaborazione raggiunto in questi ultimi anni tra la stampa ufficiale negli Stati Uniti e gli organi di governo è stato messo ulteriormente in luce qualche giorno fa da un’indagine apparsa sulla testata on-line The Intercept, co-diretta dall’ex editorialista del Guardian Glenn Greenwald, noto per avere pubblicato molti dei documenti riservati sulla NSA forniti da Edward Snowden.

In seguito a una richiesta basata sul Freedom of Information Act, la CIA ha reso pubbliche centinaia di pagine di documenti riguardanti appunto le relazioni esistenti tra la principale agenzia di intelligence a stelle e strisce e i giornalisti americani. Il quadro che ne è risultato, sia pure molto parziale, è al tempo stesso scoraggiante e relativamente prevedibile.

In sostanza, Greenwald ha delineato un rapporto estremamente cordiale tra le due parti, con richieste di commenti o modifiche sui pezzi ancora da pubblicare e scambi di opinioni nonostante i rappresentanti della stampa sarebbero tenuti a mantenere le distanze, se non un senso decisamente critico, nei confronti di un’agenzia responsabile di innumerevoli crimini e violazioni dei diritti umani e civili.

La vicenda che ha trovato maggiore spazio nell’articolo e che è rimbalzata su qualche testata negli Stati Uniti è quella dell’ex giornalista del Los Angeles Times, specializzato in questioni di intelligence, Ken Dilanian. Di quest’ultimo, dal maggio scorso passato alla Associated Press, vengono presentate una serie di e-mail scambiate con l’ufficio per le relazioni esterne della CIA, a conferma dei suoi “stretti rapporti con l’agenzia”, alla quale prometteva “una copertura giornalistica positiva e talvolta inviava intere bozze di articoli per essere valutati prima della pubblicazione”.

La corrispondenza in questione riguarda soltanto alcuni mesi nel corso del 2012, sufficienti però a chiarire quali siano i metodi “critici” impiegati dai professionisti dell’informazione negli Stati Uniti e, con ogni probabilità, non solo.

Tra gli esempi riportati da The Intercept, vi è un messaggio inoltrato da Dilanian a uno sconosciuto addetto all’ufficio stampa della CIA nel quale lo informa di essere al lavoro “su una storia relativa all’attività di controllo del Congresso sui bombardamenti con i droni”.

L’articolo, secondo il giornalista all’epoca alle dipendenze del Los Angeles Times, poteva “offrire una buona opportunità per voi ragazzi [della CIA]”. A Dilanian, cioè, premeva far sapere all’agenzia di Langley che il suo pezzo sarebbe potuto servire a “rassicurare l’opinione pubblica” sulle operazioni dei droni USA all’estero, responsabili di un numero imprecisato di vittime civili.

In un’altra occasione, invece, Dilanian aveva scambiato varie comunicazioni con la CIA in relazione ad un articolo in fase di preparazione sulle operazioni clandestine della stessa agenzia in Yemen. Alla fine, il giornalista aveva inviato ai suoi interlocutori una bozza modificata secondo le indicazioni ricevute, chiedendo se la nuova versione “appariva migliore”.

Di casi simili ve ne sono molti e tutti illuminanti. Nel giugno del 2012, ad esempio, dopo che alcuni membri del Congresso avevano inviato al presidente Obama una lettera per esprimere la loro preoccupazione nei riguardi del programma di bombardamenti con i droni condotto dalla CIA, Dilanian aveva scritto all’agenzia per prospettare l’ennesima “buona opportunità” per limitare i danni.

La lettera di deputati e senatori era giunta in seguito alle notizie che descrivevano varie incursioni con i droni in Pakistan e in Yemen con decine di morti tra la popolazione civile, il tutto senza alcun reale controllo sulle operazioni da parte del Congresso. In questa occasione, Dilanian informò la CIA che stava preparando un articolo “non solo rassicurante per l’opinione pubblica” ma che avrebbe fornito anche “la possibilità di fare luce sulla disinformazione relativa ai droni che a volte giunge dai media locali”.

Il giornalista americano chiedeva l’aiuto della CIA nel produrre una storia nella quale sarebbero stati citati esponenti del governo che sostenevano che il programma di bombardamenti veniva svolto con la dovuta attenzione per evitare “danni collaterali”, smentendo così quelle notizie che riportavano numerose vittime civili.

Qualche giorno dopo, Dilanian avrebbe risposto alla diffusione della notizia dell’uccisione con un drone in Pakistan del leader di al-Qaeda, Abu Yahya al-Libi, assieme ad almeno una decina di persone, sostenendo che il jihadista ricercato dagli USA era in realtà l’unica vittima dell’operazione. In un’e-mail inviata alla CIA prima della pubblicazione del pezzo, Dilanian chiedeva se l’agenzia avesse qualcosa da obiettare alla sua versione.

Prevedibilmente, la CIA non aveva nulla da eccepire, ma parecchi mesi più tardi Amnesty International avrebbe diffuso un rapporto sulla vicenda di al-Libi, rivelando che il missile lanciato da un drone aveva ucciso cinque uomini, tra cui oltretutto non figurava lo stesso militante fondamentalista. Al-Libi sarebbe stato ucciso da un secondo attacco avvenuto poco dopo il primo e che fece altre 15 vittime.

Almeno una modifica suggerita dall’ufficio stampa della CIA è stata riscontrata da Greenwald nella versione pubblicata di un articolo di Ken Dilanian sul Los Angeles Times, nonostante la corrispondenza resa pubblica non riveli il contenuto dei messaggi inoltrati dalla stessa agenzia di intelligence.

Il 16 maggio 2012, infatti, un pezzo uscito sul principale quotidiano della California, relativo al coinvolgimento della CIA nella “guerra al terrorismo” in Yemen, appare parzialmente diverso rispetto alla bozza della stessa storia sottoposta dal reporter all’agenzia due settimane prima.

Su indicazione della CIA, Dilanian aveva rimosso l’esplicito riferimento alla presenza di membri dell’agenzia nel paese della penisola arabica, dove stavano collaborando con clan locali per fornire le informazioni di intelligence necessarie alle incursioni dei droni USA, sostituendolo con un cenno più vago a “un piccolo contingente di truppe americane” e aggiungendo la presenza di Al-Qaeda nel territorio in questione.

Il lavoro di disinformazione svolto da Dilanian è confermato infine da uno scambio di messaggi sulle polemiche seguite alla collaborazione della CIA con la regista e lo sceneggiatore del film “Zero Dark Thirty” - rispettivamente Kathryn Bigelow e Mark Boal - sull’assassinio di Osama bin Laden. I repubblicani, in particolare, avevano criticato l’amministrazione Obama per avere condiviso con gli autori del film di propaganda alcune informazioni riservate sul blitz in Pakistan.

Per Dilanian la vicenda rappresentava una nuova occasione di intervenire per proteggere la CIA dalle conseguenze della rivelazione. In questo caso, il reporter proponeva di scrivere un articolo nel quale si sosteneva che le informazioni fornite per la realizzazione di “Zero Dark Thirty” erano “routine” e che non si discostavano da quelle che l’agenzia aveva offerto al mondo del cinema in altre occasioni, dimostrando così che “l’episodio non rappresenta affatto uno scandalo”.

Un anno più tardi, scrive Greenwald, un documento interno della CIA, pubblicato in seguito ad una richiesta approvata in base al Freedom of Information Act, avrebbe confermato che l’ufficio per le relazioni esterne dell’agenzia di Langley – lo stesso con cui era in contatto Dilanian – aveva chiesto e ottenuto modifiche alla sceneggiatura del film per fare apparire la CIA sotto una luce migliore. La corrispondenza di Dilanian con la CIA è costellata anche di espressioni che rivelano la familiarità dei rapporti tra le due parti e l’entusiasmo con cui il giornalista sottoponeva il proprio lavoro all’esame dell’intelligence americana.

Raggiunto da Greenwald per commentare i suoi legami con la CIA, Ken Dilanian ha definito la condivisione dei suoi articoli con l’agenzia prima della pubblicazione - cosa che, inoltre, andava contro il codice di autoregolamentazione interno alla redazione del Los Angeles Times - soltanto come una “pessima idea”.

La condotta di Dilanian e il suo minimizzare le rivelazioni di The Intercept testimoniano di un’evoluzione del ruolo della stampa ufficiale negli Stati Uniti specifico di questi ultimi anni. In particolare, il clima venutosi a creare dopo l’11 settembre 2001 ha determinato una sorta di rapporto di simbiosi tra la stampa “manistream” e il governo di Washington, all’interno del quale le notizie da pubblicare devono passare attraverso una vera e propria censura o, sempre più spesso, auto-censura.

In questo scenario, il diritto del pubblico all’informazione viene subordinato alle necessità della sicurezza nazionale con conseguenze catastrofiche per la libertà di stampa. I media principali, ormai in mano a grandi corporations e diretti da multimilionari, si dimostrano peraltro perfettamente a loro agio in questa realtà.

Il New York Times, solo per citare una pubblicazione ritenuta tra le più prestigiose, nell’America del post-11 settembre aveva ad esempio rimandato la pubblicazione della notizia dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione Bush di un programma di intercettazione illegale su richiesta della Casa Bianca, così da non compromettere la rielezione del presidente repubblicano nel 2004.

Inoltre, la stessa testata aveva concordato con l’amministrazione Obama la pubblicazione dei documenti riservati del Dipartimento di Stato ottenuti da Wikileaks, mentre l’allora direttore, Bill Keller, si era impegnato in prima persona nell’opera di demolizione dell’immagine di Julian Assange, giungendo inoltre a scrivere in un famigerato editoriale che la libertà di stampa consisteva principalmente nella “libertà di non pubblicare determinate informazioni”, verosimilmente se considerate dannose per il governo.

La condotta di Ken Dilanian non è dunque un’eccezione, visto che la sola indagine di The Intercept ha riscontrato contatti abituali tra la CIA e reporter o editorialisti di altre testate, come Washington Post, New York Times, Wall Street Journal, Fox News e NPR (National Public Radio).

Oltre a discutere del materiale da pubblicare, molti esponenti della carta stampata e dell’informazione digitale vengono frequentemente invitati al quartier generale della CIA per “briefing e altri eventi”, a cui partecipano, assieme ai giornalisti, anche alcuni dei cosiddetti “ombudsmen” di varie testate, la cui figura negli USA, secondo molti, dovrebbe essere garanzia della trasparenza e della qualità dell’informazione.


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