di Michele Paris

Nel pieno del cosiddetto dibattito in corso negli ambienti ufficiali degli Stati Uniti attorno al problema delle crescenti disuguaglianze di reddito, due studi autorevoli negli ultimi giorni hanno nuovamente messo in luce come la crisi economica in corso stia premiando enormemente la ristretta cerchia al vertice della piramide sociale a discapito della grande maggioranza della popolazione americana.

La prima delle due indagini è stata condotta dal più grande sindacato statunitense - AFL-CIO - e fotografa una realtà ormai fuori da qualsiasi logica, con gli amministratori delegati delle 350 principali compagnie USA che nel 2013 hanno ottenuto compensi in media 331 volte superiori a quelli dei lavoratori medi.

In termini concreti, l’anno scorso la crema dell’aristocrazia economico-finanziaria d’oltreoceano è stata cioè premiata per i propri servizi con una media di 11,7 milioni di dollari, a fronte di un salario medio ricevuto dai meno privilegiati pari a poco più di 35 mila dollari.

Ancora più sbalorditivo, anche se tutt’altro che sorprendente, risulta poi il divario tra gli stessi 350 “CEO” americani e i lavoratori costretti a sopravvivere con il salario minimo federale, fissato alla miseria di 7,25 dollari l’ora (circa 15 mila dollari l’anno). In questo caso, i primi hanno fatto segnare, sempre nel 2013, introiti 774 volte superiori alla paga minina.

Per comprendere la portata di dati simili è sufficiente confrontarli con il passato. Nel 1950, infatti, il rapporto tra i guadagni dei manager più pagati negli USA e i lavoratori medi era di 20 a 1, mentre nel 1980, alla vigilia della controrivoluzione reaganiana, sarebbe salito a 42 a 1.

L’incremento vertiginoso dei compensi garantiti agli amministratori delegati giunge poi spesso in situazioni aziendali segnate da licenziamenti e congelamento delle retribuzioni dei lavoratori nonostante i frequenti aumenti dei profitti.

Nell’attuale sistema capitalistico, in definitiva, la più devastante crisi economica dal dopoguerra si è tradotta in una drammatica regressione delle condizioni di vita per le fasce più povere della popolazione, mentre contemporaneamente i ricchi e i super-ricchi  (negli Stati Uniti come altrove) stanno facendo registrare livelli di agiatezza senza precedenti.

I due processi, com’è ovvio, sono strettamente legati tra di loro, visto che impoverimento di massa, disoccupazione, compressione dei salari e peggioramento delle condizioni di lavoro sono componenti fondamentali del colossale trasferimento di ricchezza in corso, favorito da politiche economiche e sociali deliberate di una classe politica che è espressione unica dei poteri forti.

Qualche giorno prima della pubblicazione del rapporto dell’AFL-CIO, il centro studi californiano Equilar aveva a sua volta reso noti i dati sui compensi degli amministratori delegati più potenti degli Stati Uniti. Secondo questa seconda indagine, la media dei guadagni ai vertici delle prime 100 corporations americane nel 2013 ha sfiorato i 14 milioni di dollari, con un incremento rispetto all’anno precedente.

A guidare la speciale classifica è ancora una volta il co-fondatore e CEO di Oracle, Larry Ellison, in grado di portarsi a casa nei dodici mesi ben 78,4 milioni di dollari tra stipendio, azioni e “stock options”.

Ellison è l’incarnazione stessa della moderna aristocrazia che ha accumulato ricchezze da favola nel pieno della devastazione sociale con cui il resto della popolazione deve fare i conti. I suoi beni sono stimati attorno ai 48 miliardi di dollari - pari alla somma dei PIL di svariate decine di paesi - e lo collocano al quinto posto tra gli individui più ricchi del pianeta. Alle centinaia di proprietà immobiliari a sua disposizione, Ellison nel 2012 ha aggiunto nientemento che un’intera isola, quella di Lanai, alle Hawaii, la sesta per estensione dell’arcipelago del Pacifico, acquistata al 98% per una somma compresa tra i 500 e i 600 milioni di dollari.

La concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochissimi è confermata anche da altri dati. Tra il 1978 e il 2012, ad esempio, lo 0,5% della popolazione ha visto aumentare la propria percentuale della ricchezza complessiva negli Stati Uniti dal 17% al 35%. Se si considera poi la ristrettissima cerchia di super-ricchi, vale a dire lo 0,1% della popolazione americana, la quota di ricchezza nelle sue mani ammonta addirittura al 20% del totale.

I due rapporti di AFL-CIO ed Equilar sono stati accolti dalla stampa americana con il consueto disinteresse, tutt’al più riproponendo l’illusione che essi serviranno a convincere la classe dirigente della necessità di intervenire con provvedimenti concreti per invertire la tendenza e porre un freno alle disparità sociali e di reddito.

Come è già avvenuto negli ultimi anni, tuttavia, simili propositi verranno disattesi anche in questa occasione, e tra dodici mesi i nuovi studi sui compensi negli USA metteranno in luce con ogni probabilità un ulteriore allargamento del gap tra ricchi e poveri.

La politica di Washington e gli stessi ambienti finanziari internazionali, in ogni caso, vedono con crescente apprensione le conseguenze in termini di tensioni sociali create da una distribuzione sempre più irrazionale delle ricchezze.

Combinandosi a scrupoli elettorali in vista del voto di novembre per il rinnovo di gran parte del Congresso, questi timori hanno da qualche tempo convinto la stessa amministrazione Obama della necessità di promuovere improbabili e insignificanti iniziative populiste per combattere le disuguaglianze sociali e di redito. Questa presunta battaglia intrapresa dalla Casa Bianca, tra una raccolta fondi alla presenza di donatori miliardari e l’altra, è stata addirittura definita dal presidente democratico come “la sfida più importante dei nostri tempi”.

Le già scarse iniziative di legge proposte per ridurre le disuguaglianze - come il limitato innalzamento dello stipendio orario minimo avanzato da Obama - rischiano inoltre di sparire del tutto nel prossimo futuro. Infatti, il dominio dei poteri forti sulla politica di Washington potrebbe, se possibile, anche aumentare in seguito ad una recente sentenza della Corte Suprema USA, la quale ha cancellato i limiti sui contributi totali che un singolo individuo può erogare alle campagne elettorali di candidati a cariche pubbliche.

Come già ricordato, questi livelli di disparità economica stanno già provocando profonda frustrazione ed esplosive tensioni sociali tra la grande maggioranza della popolazione. Per questa ragione, la classe dirigente americana  (e non solo) oltre a creare continue crisi internazionali per dirottare verso l’esterno i propri conflitti interni, ha da tempo costruito un apparato di controllo da stato di polizia per reprimere ogni forma di dissenso o ribellione, come hanno rivelato i documenti della NSA resi noti grazie a Edward Snowden. Simili disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza nelle società capitalistiche moderne, d’altra parte, risultano sempre meno compatibili con un sistema autenticamente democratico.

di Michele Paris

Il lungo elenco delle promesse mancate del candidato alla presidenza degli Stati Uniti Barack Obama una volta giunto alla Casa Bianca include la riforma dell’immigrazione e lo stop alle drastiche misure adottate per contrastare gli ingressi illegali nel paese dall’amministrazione Bush.

Dopo più di cinque anni dal suo insediamento, infatti, non solo nessuna delle due promesse è stata mantenuta dal presidente democratico, ma il suo governo si è addirittura distinto come il più spietato della storia recente americana in materia di immigrazione.

A confermarlo sono i numeri record di espulsioni di coloro che sono entrati negli USA senza permesso e la lievità dei reati a loro attribuiti - quando qualche reato lo hanno effettivamente commesso - per giustificare un provvedimento così drastico.

Entrambi gli aspetti legati alla politica immigratoria dell’amministrazione Obama sono stati al centro di una recente approfondita indagine del New York Times, dalla quale risulta evidente come, a partire dal 2009, quasi i due terzi delle deportazioni abbiano riguardato immigrati che non hanno commesso alcun atto illegale o soltanto infrazioni trascurabili, come violazioni del codice stradale. Solo il 20% dei provvedimenti totali, invece, è seguito a gravi violazioni, come quelle legate al narco-traffico.

Il confronto con gli ultimi cinque anni dell’amministrazione Bush fornisce dunque l’occasione per mettere in risalto la crescente severità dell’agenzia governativa deputata al controllo dell’immigrazione (ICE, Immigration and Customs Enforcement) dopo il passaggio di consegne alla Casa Bianca.

I casi di espulsione di immigrati coinvolti in violazioni del codice stradale sono ad esempio passati da 43 mila tra il 2004 e il 2009 a 193 mila nei cinque anni successivi sotto Obama. Triplicate sono state invece le deportazioni dovute a rientri illegali negli Stati Uniti dopo un precedente provvedimento di espulsione.

Inoltre, l’amministrazione democratica ha sempre più frequentemente incriminato in maniera formale gli immigrati irregolari espulsi, fino al 90% del totale che ha lasciato forzatamente il paese nell’anno 2013. Questa decisione fa in modo che gli immigrati in questione non possano rientrare negli USA per almeno cinque anni e, nel caso dovessero essere sorpresi nel paese senza documenti, sono certi di finire direttamente dietro le sbarre.

“Per anni”, ha spiegato al New York Times la direttrice del National Immigration Law Center, Mariaelena Hincapié, “l’amministrazione Obama ha sostenuto che le deportazioni riguardavano soltanto gli irregolari criminali, ma i numeri parlano da soli. In realtà, questa amministrazione - più di qualsiasi altra - ha provocato la devastazione di comunità di immigrati nel paese, separando famiglie i cui membri sono stati fermati soltanto per avere guidato senza patente o per avere cercato di rientrare negli Stati Uniti nel tentativo disperato di riunirsi con i propri familiari”.

La Casa Bianca, da parte sua, attribuisce le responsabilità di queste politiche sempre più inflessibili all’incapacità del Congresso di approvare una riforma dell’immigrazione per offrire un percorso verso la legalità ad almeno una parte degli 11,5 milioni di irregolari che vivono negli Stati Uniti.

I due rami legislativi, secondo Obama, nell’ultimo decennio sarebbero stati al contrario solerti nel produrre misure più severe nei confronti degli immigrati senza permesso, così che il governo si troverebbe, suo malgrado, nella posizione di dovere mettere in atto le leggi esistenti.

Obama, peraltro, aveva annunciato una propria iniziativa un paio di anni fa per provare a regolarizzare una parte degli immigrati ed evitare la deportazione, anche se rivolta solo a coloro che erano giunti da bambini negli Stati Uniti. La proposta si è però ben presto arenata in un Congresso dove soprattutto i repubblicani considerano ogni provvedimento vagamente indulgente sulla questione dell’immigrazione come un cedimento inaccettabile ad un’orda di irregolari, visti come una minaccia mortale all’identità americana.

Il percorso verso la regolarizzazione così proposto prevedeva in ogni caso una lunga serie di procedure gravose e costose, le quali si sarebbero risolte anche in un autentico programma di schedatura degli immigrati irregolari nel paese.

Per il momento, di fronte alle critiche provenienti da più parti e in vista delle elezioni di “metà termine” a novembre che fanno prevedere una pesante sconfitta per i democratici, l’amministrazione Obama sta cercando di correre ai ripari, visto che ha appena annunciato una revisione del processo di espulsione, così da renderlo “più umano”.

Dietro alla retorica repubblicana dell’invasione di immigrati irregolari, quasi sempre identificati con criminalità e delinquenza, e alle deportazioni spesso indiscriminate del governo, in ogni caso, si celano realtà drammatiche come quelle raccontate dal New York Times nella località di Painesville, nell’Ohio.

In questa cittadina, dove gli immigrati hanno lavorato per decenni nelle sue fabbriche, il quotidiano riporta ad esempio la vicenda dell’immigrata “irregolare” Anabel Barron, a rischio di espulsione dopo essere stata fermata per eccesso di velocità ed essendo stata trovata senza patente di guida. Dal momento che la donna era già stata deportata in passato, la sua situazione risulta particolarmente delicata, anche perché vive da quasi vent’anni negli Stati Uniti, dove sono nati i suoi quattro figli da cui ora potrebbe essere separata.

Ancora più agghiacciente è poi il caso di Arlette Rocha, suicidatasi ad appena 11 anni nella propria abitazione nell’aprile del 2010, alcuni mesi dopo che il padre era stato deportato in Messico. In seguito al provvedimento delle autorità, la madre aveva trovato un lavoro in fabbrica per sostenere la famiglia, lasciando la giovane a custodire i suoi tre fratelli più piccoli.

L’impennata delle deportazioni di immigrati irregolari, in ogni caso, era iniziata già nelle fasi finali dell’amministrazione Bush, tanto che durante la campagna elettorale per la Casa Bianca del 2008 Barack Obama aveva frequentemente criticato il presidente repubblicano su tale questione.

Dopo il successo alle urne, Obama aveva in realtà posto fine ad alcune pratiche odiose, come i raid nelle fabbriche e nelle aziende agricole del paese per verificare la regolarità dei lavoratori.

Il giro di vite contro gli immigrati non si è però attenuato con l’arrivo alla Casa Bianca di un presidente democratico ma, semplicemente, le modalità di persecuzione sono state in parte cambiate per limitare le pratiche più controverse.

Ad esempio, l’amministrazione Obama ha intensificato le operazioni degli agenti dell’immigrazione direttamente alle frontiere, mentre all’interno del paese - dove gli irregolari sono spesso insediati da più tempo e hanno stabilito legami più profondi - si è cercato talvolta di agire con maggiore cautela. Allo stesso tempo, tuttavia, un progetto pilota studiato durante l’era Bush è stato ampliato per estendere i controlli di polizia sulla regolarità dei permessi di residenza negli USA a qualsiasi individuo fermato o arrestato.

di Michele Paris

La continua mobilitazione dei manifestanti filo-russi in numerose città dell’Ucraina orientale sembra smentire in maniera evidente le insistenti pretese del regime golpista di Kiev e dei suoi sponsor occidentali circa un presunto complotto di Mosca messo in atto per giustificare un’invasione delle forze del Cremlino. Nella giornata di lunedì, dopo che l’ultimatum lanciato dalle autorità ucraine ai separatisti che avevano occupato svariati edifici governativi era stato ignorato, il presidente ad interim Oleksandr Turchynov ha minacciato un intervento militare per ristabillire l’ordine nelle circa dieci località interessate dai disordini.

Sempre lunedì, inoltre, un attacco al quartier generale della polizia ucraina nella città di Horlivka, non lontano da Donetsk, condotto da un centinaio di attivisti filo-russi, avrebbe provocato un certo numero di feriti e il decesso del capo della polizia locale.

Lo stesso Turchynov, tuttavia, aveva in precedenza mostrato qualche apertura sull’ipotesi di un referendum circa la struttura futura dell’Ucraina, anche se i manifestanti nelle regioni orientali sono intenzionati, sull’esempio della Crimea, ad inserire nell’eventuale consultazione popolare l’opzione dell’indipendenza e dell’ingresso nella Federazione Russa.

Turchynov, poi, ha proposto di tenere un referendum nazionale in concomitanza con le elezioni presidenziali del 25 maggio prossimo, così da diluire le tendenze separatiste, mentre i filo-russi vogliono che il voto si tenga soltanto nelle regioni al confine con la Russia. Il presidente è stato protagonista infine di una conversazione telefonica con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, al quale avrebbe chiesto il dispiegamento di “peacekeepers” nel paese per allentare la crisi e condurre operazioni “anti-terrorismo” con le forze di sicurezza ucraine. Visto il potere di veto della Russia al Consiglio di Sicurezza, è comunque evidente l’improbabilità di una tale ipotesi.

Da Mosca, intanto, non sembra esserci alcun desiderio di smembrare l’Ucraina, tanto che il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha appoggiato l’idea di un referendum per dare al paese una struttura federale, anche se ha tenuto a sottolineare che tutti i cittadini dovranno essere trattati allo stesso modo. Il regime installato a Kiev con l’appoggio dell’Occidente aveva infatti deciso in maniera tempestiva di cancellare lo status di lingua ufficiale del russo - assieme all’ucraino - in un gesto inequivocabile della natura delle forze “rivoluzionarie”.

Nonostante la retorica e le accuse lanciate contro il Cremlino, in ogni caso, sono i governi occidentali che continuano a soffiare sul fuoco della crisi, rendendo sempre più concreto il rischio di un confronto armato tra Kiev e Mosca che, a sua volta, potrebbe scatenare un conflitto tra la Russia e gli Stati Uniti o i loro alleati, com’è ovvio con conseguenze potenzialmente rovinose.

Questo pericolo alimentato dall’irresponsabile politica estera occidentale è stato denunciato nella serata di domenica dall’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, nel corso di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza richiesta da Mosca. Il diplomatico russo ha affermato che l’eventuale scivolamento dell’Ucraina nella guerra civile dipende ora dall’Occidente, correttamente accusato di avere provocato in maniera deliberata l’escalation della crisi nel paese dell’Europa orientale.

Churkin ha anche chiesto al governo ucraino di “avviare un dialogo genuino” con la maggioranza filo-russa nel paese, ricordando ai colleghi occidentali i pericoli derivanti dalla loro strategia, fondata sull’appoggio a forze “neo-naziste e anti-semite”.

Dal Cremlino hanno anche fatto notare come, vista la massiccia presenza di cittadini di nazionalità russa nelle regioni orientali dell’Ucraina, risulti inevitabile che una parte di essi stia partecipando alle proteste, pur non essendo agenti di Mosca. La composizione etnica di queste regioni renderebbe dunque pressoché inevitabile un qualche coinvolgimento diretto della Russia in caso di guerra civile.

Da Washington gli appelli russi sono stati però respinti, mentre si continua ad appoggiare i piani di repressione studiati da Kiev, così come vengono ribadite le accuse senza fondamento alla Russia di avere ammassato ai confini con l’Ucraina decine di migliaia di truppe e armamenti in vista di una possibile invasione. Le mosse del governo sembrano comunque essere concordate con l’Occidente, come rivelerebbe una visita non confermata nel fine settimana del direttore della CIA, John Brennan, a Kiev per “consultazioni” con i vertici della sicurezza interna ucraina.

I vari leader occidentali sembrano poi fare a gara nel rilasciare affermazioni ufficiali che ribaltano incredibilmente la realtà dei fatti. Il vice-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, ha ad esempio sostenuto che la “Russia è pronta a consentire ai suoi carri armati di passare attraverso le frontiere dell’Europa”, proprio mentre l’Occidente attraverso la NATO sta presiedendo ad un’escalation militare senza precedenti ai confini con la stessa Russia.

Minacce di ulteriori sanzioni contro Mosca non sono inoltre mancate ed esse sono state discusse anche in un vertice dei ministri degli Esteri UE andato in scena lunedì in Lussemburgo. Se gli Stati Uniti hanno peraltro già preso nuovi provvedimenti nei giorni scorsi, i partner europei continuano ad essere molto cauti, viste le implicazioni e i rischi economici che misure più severe potrebbero comportare.

La favola del complotto di Mosca dietro all’occupazione degli edifici governativi a Donetsk, Slavyansk, Kharkiv, Lugansk e altre località dell’Ucraina orientale è comunque smentita anche dalla crescente partecipazione alle proteste contro il regime di Kiev di alcune sezioni dei lavoratori dell’industria pesante indigena strettamente legata al mercato russo.

Alcuni media anche occidentali hanno raccontato, ad esempio, della mobilitazione dei minatori della regione del Donbas, molti dei quali stanno sorvegliando gli edifici occupati e affermano di essere motivati dalla loro ferma opposizione alle politiche del nuovo governo centrale e dai timori per lo strapotere di milizie neo-fasciste, come il cosiddetto “Settore Destro”.

Le prospettive economiche dell’Ucraina, in particolare, suscitano estrema apprensione, con ogni probabilità non solo tra la popolazione filo-russa. Il prestito da 27 miliardi di dollari promesso dal Fondo Monetario Internazionale, infatti, richiederà misure di ristrutturazione e di devastazione sociale nel paese, con conseguenze molto pesanti soprattutto per i dipendenti dell’industria pesante nell’Ucraina orientale, decisamente poco competitiva sui mercati globali.

La minaccia alla maggioranza filo-russa, nonostante le rassicurazioni di Kiev e dell’Occidente, è più che mai concreta, visto che le organizzazioni neo-fasciste che avevano contribuito in maniera decisiva alla deposizione dell’ex presidente Yanukovich sembrano pronte ad intervenire nuovamente.

I membri di “Settore Destro”, soprattutto, sono stati chiamati alle armi dal loro leader, Dmitri Yarosh, il quale ha lanciato un appello alla mobilitazione per “difendere la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”, chiedendo alla popolazione di aiutare la sua milizia “a ristabilire l’ordine e la legalità”.

Simili appelli mettono i brividi a molti, dal momento che queste ed altre formazioni armate di estrema destra sono responsabili in larga misura della strage di manifestanti avvenuta nelle fasi finali della battaglia per la rimozione di Yanukovich nel febbraio scorso.

Che i cecchini responsabili dei decessi fossero membri dell’opposizione è stato confermato recentemente anche da un’indagine della TV tedesca ARD, secondo la quale sarebbe perciò confermata la tesi sostenuta qualche settimana fa dal ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, nel corso di una sconvolgente conversazione telefonica apparsa in rete con la responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton.

La “rivoluzione democratica” ucraina si è dunque realizzata grazie anche a forze simili - protagoniste nei mesi della lotta contro il governo di Yanukovich dell’occupazione di edifici governativi come sta ora accadendo nell’Ucraina orientale - nonché alla promozione da parte dell’Occidente di politici e partiti di destra, pronti a favorire la penetrazione di Washington o Berlino in un paese strategicamente cruciale per la Russia.

La prevalenza di formazioni ultra-reazionarie e apertamente razziste ha determinato l’inevitabile quanto limitato intervento della Russia in Crimea, strumentalizzato dall’Occidente per giustificare un ampliamento drammatico - e previsto da tempo - delle operazioni e della presenza NATO in svariati ex satelliti sovietici.

La trasformazione della Russia nell’aggressore è stata resa possibile infine da un’incessante propaganda orchestrata dagli stessi governi e media occidentali, in collaborazione con il nuovo regime-fantoccio di Kiev, pronto ad agitare continuamente lo spettro dell’invasione del paese da parte delle forze di Mosca.

di Fabrizio Casari

L’opposizione venezuelana, alla fine, ha dovuto cedere, costretta dal governo e dalla comunità internazionale a sedersi al tavolo per cercare una soluzione politica alla crisi. Il governo, che per bocca del suo Presidente Nicolas Maduro, aveva proposto da parecchio tempo l’istituzione di un tavolo negoziale, l’ha ottenuto. Voltare pagina nelle relazioni tra rivoluzione e controrivoluzione sarà tutt’altro che semplice, data l’assoluta polarizzazione del quadro politico interno. Il che non toglie che l’inizio del dialogo nazionale sia una buona notizia per tutti i venezuelani, che chiedono il ritorno ad un clima pacifico nel Paese.

Benchè le buone intenzioni di partenza - almeno da parte del governo - siano chiare, non sarà facile trovare una soluzione condivisa all’agenda sociopolitica del paese. E’ del resto evidente che la disponibilità del governo alla trattativa, per quanto generosa, avrà come limite invalicabile il riconoscimento da parte dell’opposizione dell’abilità dello stesso alla direzione del Paese, sancita dal voto dello scorso anno che consegnò la vittoria al Presidente Maduro.

Sedersi al tavolo del negoziato è stata una doppia sconfitta - interna ed internazionale - per la destra venezuelana variamente travestita. Lo è stata sul piano interno, perché non è riuscita a paralizzare il Paese, non ha potuto ampliare ai quartieri popolari le manifestazioni che hanno bloccato i quartieri ricchi, non ha ottenuto quello che era il solo ed unico scopo: le dimissioni del Presidente Maduro e la caduta del governo.

E non ha vinto nemmeno la battaglia sul piano internazionale, dal momento che ha puntato le sue carte sugli Stati Uniti, che sono dovuto però dovuti passare dall’OEA che ha risposto picche al tentativo di isolare il Venezuela e il suo governo, rinviando invece all’Unasur il compito di costruire una mediazione.

E nemmeno con l’Unione Europea è andata meglio, dal momento che la centralità della diplomazia italiana ha ottenuto il coinvolgimento del Vaticano. Ma non della Conferenza Episcopale Venezuelana (tra le più reazionarie dell’America Latina), come chiedeva in seconda battuta Capriles, bensì con un intervento della Segreteria di Stato Vaticana, diretta dal Cardinale Parolin, braccio destro di Papa Bergoglio, così come proponeva il governo.

E il senso della sconfitta politica, quali che siano i punti in discussione dell’agenda per il dialogo nazionale, è data anche dalla spaccatura della stessa destra, divisa tra l’area radicale dei fascisti travestiti da liberali e quella dei liberali che si servono dei fascisti. Persino la BBC, notoriamente una delle voci più ostili al governo chavista, ieri metteva come notizia d’apertura del suo sito Internet in spagnolo come la stessa base popolare dell’opposizione fosse ormai stanca delle manifestazioni violente. Ebbene, l’apertura del dialogo con il governo sancisce proprio questa spaccatura interna e, comunque, un deciso cambio di rotta della destra.

Perché sedersi al tavolo con il governo implica necessariamente il riconoscimento del governo stesso, cosa che fino ad oggi non era mai avvenuta, visto che la destra non riconosce la vittoria di Maduro e annuncia l’esibizione di prove dei presunti brogli elettorali che, ad un anno di distanza, non sono mai arrivate. Inoltre, sedersi con il governo non può che prevedere la fine degli scontri di piazza, dal momento che sarebbe impossibile riunirsi con il governo mentre fuori si lascia la parola alle armi. Dovrà semmai essere convincente nell’opporsi alle sue frange più estreme, dal momento che il fallimento di quel tavolo di negoziati priverebbe la destra dell’unica occasione di visibilità e credibilità internazionale di cui potrà disporre.

D’altra parte la destra non aveva altre strade possibili. Il rifiuto crescente della popolazione alle loro "guarimbas", la reazione della sinistra e la crescente opera di indagine e intervento delle forze di sicurezza rendevano sempre meno semplici violenze e blocchi stradali. E comunque si erano resi conto di come l’ombrello finanziario e politico che offrono gli Stati Uniti e l’aiuto dei paramilitari colombiani legati all’ex-presidente e criminale di guerra Uribe non erano sufficienti a ribaltare il quadro politico del paese o a conquistare città o stati.

Inoltre, la comunità internazionale riconosceva comunque il diritto del governo a difendere l’ordine e la pace nel paese. Per questo la parte meno stupida dell’opposizione ha deciso di accettare il dialogo per strappare quante più condizioni possibili in cambio del ritiro dalle piazze, mentre quella più recalcitrante e fascistoide continua a proporre le barricate come via per la soluzione politica.

Niente di strano, l’opposizione, in Venezuela, è per sua natura golpista. Indipendentemente dagli errori di politica economica, sociale o monetaria che imputano al governo di Nicolas Maduro, lo schieramento guidato da Capriles e Lopez non ha mai scelto il terreno democratico per il confronto politico come unica modalità della lotta politica e non ha mai escluso, anzi lo ha perseguito in ogni modo, il progetto di rovesciamento violento del sistema politico.

Non a caso, nel 2002, un colpo di Stato rovesciò il presidente Chavez e insediò Carmona, leader della Confindustria locale, al potere. Duro nemmeno 48 ore, giacché il popolo venezuelano scese nelle strade e rimise fisicamente il suo Presidente al suo posto. Ma molti personaggi che oggi guidano l’opposizione in Parlamento e nelle piazze, in quel colpo di stato si riconobbero e per quel putch si adoperarono.

Un’agenda comune per il Venezuela non sarà dunque praticabile; sarà invece possibile incontrare una mediazione sulle politiche economiche e monetarie, necessarie per affrontare anche solo parzialmente un’inflazione crescente e preoccupante e per discutere di come ricollocare i flussi di spesa in un quadro mutato dal punto di vista degli ingressi petroliferi, ridottisi causa prezzo internazionale del greggio. Quanto alle richieste di liberazione degli arrestati durante un mese di assalti armati contro sedi di istituzioni, assassinii e distruzioni, difficilmente potranno essere accolte.

Per venire incontro alle richieste dell'opposizione é ipotizzabile che il governo possa promuovere un’indagine attenta per dividere nelle sanzioni chi ha avuto un ruolo diretto e dirigente negli eventi delittuosi, da coloro i quali vi hanno sì partecipato ma senza aver commesso gravi delitti di cui rispondere. Con i primi difficilmente potrà aprirsi un cammino d’indulgenza, mentre per i secondi il governo potrebbe mostrarsi clemente, dimostrando così, nello stesso tempo, volontà di mediazione insieme alla certezza e vigenza del diritto.

Ma risulterà pressoché impossibile veder uscire da quel tavolo un’agenda di politiche sociali condivisa. Perché l’opposizione venezuelana, priva di qualunque connotazione culturale, si caratterizza ideologicamente come un aggregato intriso di razzismo sociale. E’ l’odio di classe il cemento che riunisce una vecchia classe e i suoi figli privata dei suoi privilegi storici. La rivoluzione bolivariana ha messo al centro dei suoi programmi sociali la lotta alla povertà, e non ai poveri, e ha deciso di destinare le risorse del petrolio per ampliare il diritto di cittadinanza politica e sociale a tutti i venezuelani e di promuovere l’unità latinoamericana come parte importante della sua stessa sovranità nazionale.

D’altra parte il processo di democratizzazione del Venezuela è stato ed è tuttora un cambio di paradigma generale nel paese di Bolivar e Chavez che suona come un insulto ad una borghesia razzista, corrotta e viziata. Per una destra abituata a consegnare la sovranità nazionale agli Stati Uniti e a governare con corruzione, privilegi, arricchimenti illeciti quanto smodati - e alla bisogna con le stragi - il cammino della Rivoluzione Bolivariana è stato un colpo insopportabile ed ininterrotto.

L’ingresso nella scena politica di milioni di venezuelani un tempo emarginati dalla vita del Paese, ha prodotto un ribaltamento persino numerico negli schemi con i quali il Venezuela si riproduceva politicamente.

Infatti, le ripetute vittorie elettorali del Comandante Chavez sono state possibili proprio grazie all’irruzione nella contesa elettorale dei settori più poveri della popolazione, che per la prima volta in decenni, trovarono nella rivoluzione la loro rappresentanza sociale e politica. E’ del resto grazie a questa irruzione degli ultimi che i primi di sempre hanno smesso di essere tali.

Ed è proprio grazie a questi milioni di venezuelani che gli scontri non sono dilagati in tutte le città e, spesso, sono rimasti confinati in alcuni quartieri. Ora è possibile voltare pagina? Il tempo lo dirà, ma certo il governo ha bisogno di proseguire con le riforme; la necessità di risolvere i problemi endemici che tutt’ora affliggono il paese è davvero urgente ed è per poterlo fare che il Paese ha bisogno di pace e di un clima politico costruttivo.

C’è bisogno di rimettere al centro le riforme e l’aggiornamento politico delle tesi con le quali il chavismo ha potuto e saputo trasformare una repubblica petrolifera in una nazione. Pensare ad una alleanza con la classe imprenditoriale, sul modello brasiliano, può risultare inutile vista la natura ideologica della stessa. Ma bisognerà comunque provarci e da quel tavolo non ci si dovrà alzare. Obbligare la destra a proporre qualcosa è il primo passo per sconfiggerla di nuovo.


di Michele Paris

La prima visita in Cina da Segretario alla Difesa americano di Chuck Hagel avrebbe dovuto servire, nelle intenzioni ufficiali, a migliorare le relazioni tra le forze armate delle prime due economie del pianeta. In realtà, la trasferta asiatica dell’ex senatore repubblicano ha finito per mostrare pubblicamente le crescenti tensioni tra Washington e Pechino, nonché i pericoli derivanti dal riassetto strategico dell’amministrazione Obama in Estremo Oriente.

Nella giornata di lunedì, in realtà, Hagel aveva potuto assistere a un concreto segnale di apertura da parte cinese, visto che era diventato il primo esponente di un governo straniero ad avere accesso all’unica portaerei di questo paese, la Liaoning. Il giorno successivo, tuttavia, gli animi tra USA e Cina si sono accesi nel corso di una tesissima conferenza stampa congiunta tra Hagel e la sua controparte, generale Chang Wanquan.

Uno scontro verbale è andato in scena attorno alle dispute territoriali tra la Cina e alcuni paesi vicini, a cominciare dal Giappone. Il generale Chang ha affermato che il suo paese rivendica una “sovranità indiscutibile” sulle isole Diaoyu (Senkaku in giapponese) nel Mar Cinese Orientale, nonostante esse siano controllate dal governo di Tokyo.

Il ministro della Difesa cinese, pur suggerendo che le sue forze armate sono pronte a difendere gli interessi del paese se messi in pericolo e ammonendo che sulla “sovranità territoriale” non ci saranno “compromessi, concessioni né trattati”, ha comunque escluso che Pechino possa intraprendere azioni militari nei confronti del Giappone.

Lo stesso Chang ha inoltre bollato il comportamento del vicino orientale come “provocatorio”, mentre ha confermato la linea cinese in merito alla risoluzione delle varie contese territoriali, da affrontare cioè attraverso negoziati bilaterali.

L’amministrazione Obama e i suoi alleati, al contrario, sostengono la necessità di giungere a una risoluzione delle dispute all’interno di un meccanismo multilaterale - in cui Washington dovrebbe giocare un ruolo di primo piano - o di organizzazioni sovranazionali come l’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico).

Hagel, da parte sua, nel corso dell’incontro con i giornalisti a Pechino ha ribadito la posizione ufficiale degli USA, cioè che essi non intendono prendere le difese di nessuna delle parti in causa. L’assurdità di questa affermazione è emersa però subito dopo, quando Hagel ha ricordato come gli Stati Uniti abbiano stipulato trattati di mutua difesa con il Giappone e le Filippine che il suo governo intende onorare.

Mostrando un’evidente impazienza, il Segretario alla Difesa americano ha poi aggiunto che gli USA ritengono legittimi i confini attuali in Asia orientale e sostengono l’integrità territoriale dei loro alleati, confermando di fatto che su tale questione l’amministrazione Obama sarebbe pronta anche a entrare in guerra con la Cina.

Già nella visita di qualche giorno prima in Giappone, Hagel aveva d’altra parte assunto posizioni provocatorie, accostando ad esempio l’annessione della Crimea da parte della Russia alle rivendicazioni territoriali della Cina. Descrivendo involontariamente alcuni dei principi che caratterizzano la politica estera del suo paese, il capo del Pentagono aveva avvertito Pechino e Mosca che “non è possibile… ridefinire e violare la sovranità e l’integrità territoriale delle nazioni attraverso la forza, la coercizione o l’intimidazione, sia che si tratti di piccole isole nel Pacifico o di paesi più grandi in Europa”.

Sempre a Pechino, Hagel ha continuato la sua predica al collega cinese tornando sulla decisione presa dal suo governo lo scorso novembre di istituire una “zona di identificazione per la difesa aerea” nel Mar Cinese Orientale. L’iniziativa - volta a creare un’area situata al di fuori dello spazio aereo della Cina che consenta alle autorità di avere tempo a sufficienza per identificare possibili minacce e prendere le misure necessarie a prevenirle - è stata nuovamente condannata perché presa in maniera “unilaterale e senza consultazioni”, con il pericolo di provocare “pericolosi conflitti”.

Alla decisione di Pechino di creare una “zona di identificazione”, creata peraltro da tempo sia da Washington che da Tokyo al largo delle proprie coste, gli Stati Uniti avevano risposto facendo volare all’intero di essa dei B-52 dotati di armi nucleari senza alcuna notifica preventiva al governo cinese.

Il rischio dell’esplosione di un conflitto in Asia orientale in seguito alle rivalità riaccesesi in questi ultimi anni è in realtà la diretta conseguenza non tanto dell’espansionismo cinese, quanto della rinnovata aggressività degli Stati Uniti in questo continente. La strategia di accerchiamento della Cina messa in atto dagli Stati Uniti si è accompagnata inoltre all’incoraggiamento rivolto agli alleati a tenere un comportamento più provocatorio nei confronti di Pechino.

Ciò, a sua volta, ha determinato una corsa alla militarizzazione di paesi come Giappone e Filippine, facendo aumentare seriamente il pericolo di scontri armati per questioni, come quelle territoriali, ritenute fino a pochi anni fa relativamente secondarie.

Un’altra questione delicata emersa nel corso della visita in Cina di Hagel è stata quella dello spionaggio industriale e della guerra tecnologica. Gli Stati Uniti hanno infatti chiesto ai cinesi di mostrare maggiore trasparenza circa le proprie capacità in questo ambito, presumibilmente in risposta ad un’inziativa americana recentemente svelata dal New York Times.

Washington, cioè, qualche mese fa avrebbe consegnato a Pechino un rapporto che descrive i principi a cui si ispirerebbe il Pentagono per combattere i “cyber attacchi” di paesi e organizzazioni rivali. Hagel ha così sollecitato il generale Chang su questo punto, il quale però si è limitato ad affermare che “le attività delle forze armate cinesi nel cyberspazio… non rappresentano una minaccia per nessuno”.

Media e commentatori d’oltreoceano continuano comunque a dare ampio spazio alle critiche rivolte dall’amministrazione Obama alla Cina, perché ritenuta responsabile di numerosi attacchi informatici, spesso per ottenere informazioni sensibili dalle compagnie private americane.

Il governo degli Stati Uniti, tuttavia, appare ormai screditato anche su questo fronte, dopo che i documenti riservati diffusi nei mesi scorsi grazie a Edward Snowden hanno rivelato come le operazioni di spionaggio e intercettazione dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) risultino virtualmente illimitate e prendano di mira specialmente la Cina.

In riferimento allo spionaggio industriale, poi, proprio lo scorso mese di marzo il New York Times aveva descritto nel dettaglio le attività di hackeraggio da parte dell’intelligence statunitense ai danni del colosso cinese delle telecomunicazioni, Huawei.

La visita di Hagel in Cina si è chiusa con un intervento all’Università Nazionale per la Difesa, dove l’ostilità nei confronti degli Stati Uniti è apparsa ancora una volta evidente. Il Segretario alla Difesa ha affrontato le domande di alcuni ufficiali cinesi, spesso legate alle manovre provocatorie di Washington nel continente asiatico.

Il numero uno del Pentagono, senza troppo successo, ha provato a rassicurare la platea sulle intenzioni benevole dietro alla svolta strategica del suo paese in Asia, messa in atto invece proprio allo scopo di contrastare la crescente influenza della Cina in un’area del globo cruciale per gli interessi di una superpotenza che ha imboccato da tempo la via del declino.


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