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di Michele Paris
In un tribunale di Washington, qualche giorno fa è iniziato un nuovo processo contro quattro ex mercenari della famigerata compagnia militare privata americana Blackwater, responsabili della sparatoria in una piazza di Baghdad che nel settembre del 2007 si concluse in una vera e propria strage di civili. La riapertura del procedimento giudiziario ai danni degli ex contractor del governo USA è stata seguita dalla pubblicazione di alcuni documenti del Dipartimento di Stato, dai quali si comprende a sufficienza sia il potere raggiunto da simili compagnie private nell’Iraq occupato sia la quasi totale libertà d’azione a loro garantita grazie alla protezione dei rappresentati di Washington nel paese mediorientale.
Alla sbarra presso il tribunale distrettuale della capitale degli Stati Uniti ci sono Nicholas Slatten, Dustin Heard, Evan Liberty e Paul Slough. Il primo è accusato di omicidio di primo grado, mentre le altre tre ex guardie private di omicidio (“manslaughter”) volontario e tentato omicidio. Le pene previste in caso di condanna potrebbero arrivare fino all’ergastolo per Slatten e partire da un minimo di trent’anni per i rimanenti imputati nel caso fossero riconociuti colpevoli anche di altri reati di minore gravità. Un quinto ex dipendente di Blackwater coinvolto nei fatti del 2007 è stato invece scagionato e un altro ancora ha raggiunto un patteggiamento con il Dipartimento di Giustizia.
Il risultato della sparatoria che vide protagonisti gli uomini di Blackwater nell’affollata piazza Nisoor di Baghdad fu la morte di 14 iracheni e il ferimento di altre 18 persone. Secondo la versione sempre sostenuta dai mercenari americani, la loro azione sarebbe stata la risposta a un possibile attacco suicida degli “insorti”. In un simile scenario, gli uomini che viaggiavano sul convoglio di Blackwater avrebbero perciò agito per legittima difesa.
Numerose indagini e testimonianze hanno però smentito categoricamente questa ricostruzione. Un’analisi degli avvenimenti fatta dal New York Times già nell’ottobre del 2007, ad esempio, aveva mostrato come non ci fosse stata alcuna minaccia per i contractor del governo americano. In particolare, la prima auto contro cui le guardie private spararono nella piazza, perché identificata come possibile minaccia, si era in realtà scontrata con i mezzi di Blackwater solo dopo che il suo conducente era stato colpito alla testa e aveva perso il controllo della vettura.
Una prima scarica di colpi di arma da fuoco sparati in piazza Nisoor dai mercenari americani sarebbe stata così seguita da una valanga di pallottole e granate, dirette anche contro le auto e i passanti che cercavano in tutti i modi di allontanarsi o trovare rifugio. Nessuna prova o testimonianza ha invece mai confermato spari da parte irachena, provenienti dalle auto nella piazza o dagli edifici adiacenti.
A sostegno dell’accusa in un processo inizialmente abbandonato nel 2009 ci sono ora le testimonianze di decine di cittadini iracheni superstiti, il cui trasferimento negli Stati Uniti è stato coordinato dall’FBI. Secondo uno degli assistenti del procuratore impegnati nel procedimento, alcune delle vittime della sparatoria erano civili che cercavano di evitare il fuoco dei contractor. Questi ultimi, una volta lasciata piazza Nisoor, iniziarono al contrario a far circolare la propria versione dei fatti, sostenendo che il convoglio su cui viaggiavano era stato assaltato dagli “insorti”, a cui avevano risposto armi alla mano per garantire la loro sicurezza.
Inoltre, lo stesso assistente procuratore ha spiegato come il Dipartimento di Stato americano avesse atteso quattro giorni prima di inviare alcuni uomini nella piazza di Baghdad per indagare sulla strage. Come se non bastasse, la stessa indagine ufficiale è stata definita caotica e incompleta, dal momento che era stata avviata con il solo scopo di “scagionare i contractor” al servizio proprio del Dipartimento di Stato.Nei giorni scorsi alcuni testimoni iracheni hanno già raccontato in aula la loro drammatica esperienza nella piazza Nisoor. La commozione di Mohammed al-Razaq Kinani, ad esempio, ha costretto il giudice che presiede l’udienza a licenziare temporaneamente i giurati. Kinani ha ricordato tra le lacrime di come il figlio di nove anni era stato ucciso dagli uomini di Blackwater dopo che una pallottola lo aveva raggiunto alla testa mentre era sul sedile posteriore della sua auto.
I legali degli accusati hanno bollato come “fabbricate” questa e altre testimonianze. La loro strategia difensiva, secondo quanto riportato dai media americani, si baserebbe sul tentativo di convincere la giuria che il livello di violenza in quel periodo a Baghdad era tale da giustificare una reazione così forte in risposta alla minima minaccia percepita. A loro disposizione ci sarebbbe poi un presunto testimone che avrebbe accertato la presenza di “insorti” intenzionati a prendere di mira il convoglio di Blackwater. Infine, lo stesso numero molto elevato di testimoni dell’accusa potrebbe generare confusione circa la corretta ricostruzione dei fatti, senza fornire un quadro sufficientemente chiaro degli eventi e delle responsabilità.
La strage del settembre 2007 a Baghdad, in ogni caso, non è stata in nessun modo un caso isolato ma solo uno degli esempi più sanguinosi della dura repressione ai danni della popolazione irachena, messa in atto dai militari e dalle guardie private americane nel corso dell’occupazione del paese mediorientale.
Episodi come quello di piazza Nisoor, oltre a rimanere quasi sempre impuniti, rivelano il vero volto di un esercito di mercenari a cui ricorre sempre più frequentemente il governo americano e con il quale le forze armate ufficiali operano in stretto coordinamento. Blackwater, soprattutto, ha spesso occupato le pagine dei giornali di mezzo mondo per le proprie operazioni criminali, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan, dove ha ottenuto appalti del valore di miliardi di dollari dal Dipartimento di Stato e dalla CIA.
Secondo la stampa tedesca, addirittura, uomini di Blackwater - il cui nome è stato cambiato in Xe Services nel 2009 e in Academi nel 2011 - sono stati recentemente impiegati anche in Ucraina al fianco dei gruppi paramilitari neo-fascisti promossi dal nuovo regime di Kiev per reprimere nel sangue le manifestazioni anti-governative nelle regioni orientali del paese.
Il fondatore di Blackwater, l’ex membro delle forze speciali “Navy SEAL” Erik Prince, aveva ceduto la compagnia nel 2010 e proprio qualche settimana fa essa si è fusa con la rivale Triple Canopy, assumendo la nuova denominazione di Constellis Holdings.
Il livello di integrazione di questa compagnia con le forze di occupazione in Iraq e lo strapotere che essa aveva raggiunto sono state messe in luce da un dettagliato articolo pubblicato nel fine settimana dal New York Times a firma dell’autorevole giornalista investigativo James Risen.
I fatti raccontati da Risen sulla base del contenuto di documenti finora mai pubblicati risalgono all’agosto del 2007, poche settimane prima della strage di piazza Nisoor. Nell’estate di quell’anno, il Dipartimento di Stato aveva inviato in Iraq due investigatori - Jean Richter e Donald Thomas - con il compito di valutare la condotta già più che discutibile di Blackwater nel paese occupato.Nella lunga lista di violazioni del proprio contratto con il governo riscontrate da Richter e Thomas spiccavano, tra l’altro, la variazione senza il permesso del Dipartimento di Stato delle norme di sicurezza previste per la protezione dei diplomatici USA, come la riduzione del numero di guardie private da impiegare nei vari incarichi.
Inoltre, i mercenari tenevano armi e munizioni nelle proprie stanze private, dove davano vita a frequenti feste a base di alcool e in presenza di donne. Molte guardie avevano anche a disposizione armi che non erano autorizzate a usare. Tutt’altro che rari erano infine i casi in cui Blackwater gonfiava le proprie fatture dopo avere falsificato i registri del personale addetto alla protezione degli uomini del Dipartimento di Stato.
Secondo i due investigatori, Blackwater aveva potuto mantenere un simile comportamento grazie agli stretti legami stabiliti tra la compagnia e il personale dell’ambasciata americana in Iraq. I due investigatori avrebbero trovato conferma a loro spese della corretteza di questa conclusione.
Il 20 agosto del 2007, Richter fu infatti convocato dal responsabile per la sicurezza dell’ambasciata USA, Bob Hanni, il quale lo informò di avere ricevuto una richiesta per “documentare il comportamento inappropriato” dello stesso investigatore.
Il giorno successivo, Richter e il suo collega, Donald Thomas, si recarono dal “project manager” di Blackwater in Iraq, Daniel Carroll, anch’egli ex Navy SEAL, per discutere dell’esito della loro indagine. Secondo quanto lo stesso Richter avrebbe successivamente comunicato al Dipartimento di Stato, Carroll minacciò di ucciderlo in maniera esplicita, aggiungendo che, vista la situazione dell’Iraq in quel periodo, non ci sarebbe stata per lui nessuna conseguenza penale.
Correttamente, Richter prese “sul serio la minaccia di Carroll”, dal momento che le questioni sollevate nella sua indagine potevano avere un “impatto potenzialmente negativo su un proficuo appalto per la sicurezza” dei diplomatici americani. Il collega di Richter, a sua volta, avrebbe confermato la versione del collega circa l’incontro con il numero uno di Blackwater in Iraq.
A rendere ancora più inquietante la situazione per Richter e Thomas fu il mancato appoggio ottenuto dall’ambasciata degli Stati Uniti nonostante le minacce di morte ricevute. A questi ultimi fu infatti ordinato di lasciare immediatamente l’Iraq, poiché la loro presenza era diventata “un ostacolo alle operazioni quotidiane e creava un ambiente inutilmente ostile” per i contractor privati.
Richter e Thomas furono così costretti ad abbondonare bruscamente il loro lavoro e a fare ritorno a Washington il giorno successivo. Quando, pochi giorni dopo, alcuni uomini della Blackwater si sarebbero resi protagonisti del massacro in piazza Nisoor a Baghdad, il Dipartimento di Stato avrebbe finalmente preso in considerazione gli avvertimenti dei due investigatori sulla compagnia stessa, ma senza decidere alcun provvedimento.
Le stesse successive indagini ufficiali sui fatti del settembre 2007, a cominciare dalla speciale commissione istituita dall’allora segretario di Stato, Condoleezza Rice, avrebbero accuratamente evitato di raccogliere la testimonianza dei due uomini che meglio di chiunque altro avevano descritto il comportamento criminale della principale agenzia di sicurezza privata operante in Iraq con la colpevole complicità del governo degli Stati Uniti.
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di Michele Paris
Con un’importante sentenza che ha in buona parte riconosciuto un sacrosanto diritto costituzionale, la Corte Suprema degli Stati Uniti questa settimana ha stabilito che le forze di polizia sono tenute a richiedere una specifica ordinanza di un giudice prima di esaminare il contenuto del telefono cellulare di un arrestato. Il parere espresso all’unanimità dal più alto tribunale americano è giunto in risposta a due cause, una delle quali aveva visto l’amministrazione Obama partecipare alle udienze preliminari in favore della polizia e contro il fondamentale diritto alla privacy dei cittadini.
Il verdetto è stato generalmente salutato dall’altra parte dell’oceano come una vittoria per i difensori dei diritti civili e un opportuno chiarimento circa l’applicazione di alcuni principi costituzionali nell’era degli smartphones e dei social networks.
Secondo i media americani, inoltre, la sentenza potrà avere un impatto più ampio, includendo ad esempio le perquisizioni di tablet e computer portatili, ma anche di abitazioni e uffici, nonché i dati e le informazioni conservate dalle compagnie telefoniche.
A scrivere il testo della sentenza è stato il presidente della Corte Suprema, John Roberts, il quale ha affermato, tra l’altro, che i “vecchi principi” della Costituzione “richiedono l’esclusione del contenuto dei telefoni cellulari dalle perquisizioni di routine”.
Lo stesso giudice ha paragonato l’esame dei telefoni degli arrestati da parte degli agenti di polizia alle “ordinanze generalizzate” usate dagli inglesi prima dell’indipendenza americana per perquisire a piacimento le abitazioni private alla ricerca di prove di attività criminali. “Il fatto che la tecnologia consenta oggi a una persona di avere letteralmente nelle proprie mani simili informazioni”, ha aggiunto Roberts, “non rende queste ultime meno soggette alle protezioni per le quali i padri fondatori hanno combattuto”.
Il contenuto dei telefoni cellulari degli arrestati, quindi, è coperto dalle protezioni garantite dal Quarto Emendamento alla Costituzione americana, il quale impedisce perquisizioni e confische da parte delle autorità senza il mandato di un giudice.
Durante le udienze che hanno preceduto la deliberazione di mercoledì, i legali dell’amministrazione Obama avevano sostenuto che l’analisi dei cellulari era da considerarsi legittima anche senza il mandato di un tribunale, poiché i sospettati in stato di fermo potevano cancellare informazioni importanti in essi contenute o contattare i loro complici. La Corte Suprema ha invece respinto entrambe le tesi, proponendo alle forze di polizia di prevenire questi rischi estraendo la batteria o riponendo il cellulare in un apposito contenitore che impedisca la ricezione del segnale.Secondo l’amministrazione Obama, poi, l’esame di un telefono cellulare non è in sostanza differente dalla perquisizione - consentita in caso di arresto - di una borsa o di un portafogli. Per i giudici, invece, questa operazione può essere effettuata solo per verificare se il cellulare nasconda un coltello o altri oggetti che rappresentino minacce materiali. Per il giudice Roberts, mettere sullo stesso piano le due perquisizioni è come affermare che “una gita a dorso di cavallo è materialmente indistinguibile da un volo sulla luna”.
Il primo caso all’attenzione della Corte Suprema che ha portato alla sentenza - “Riley contro California” - riguardava l’arresto di David Riley a San Diego nel 2009 dopo che la polizia a un normale posto di blocco aveva trovato armi cariche nella sua auto. Gli agenti avevano ispezionato lo smartphone di Riley, rilevando informazioni che lo collegavano a una sparatoria. Riley era stato alla fine condannato a 15 anni di carcere e una corte d’appello in California aveva stabilito che l’esame del suo cellulare non richiedeva l’ordinanza di un giudice.
Il secondo caso - “Stati Uniti contro Wurie” - era scaturito dall’arresto nel 2007 a Boston di Brima Wurie mentre spacciava crack. Tra gli oggetti confiscati c’era anche il suo telefono cellulare, dal quale la polizia ha potuto ricavare un indirizzo dove sono state poi rinvenute droga e armi. Nel processo di appello, tuttavia, i legali di Wurie avevano ottenuto il ribaltamento della condanna di primo grado proprio per l’utilizzo illegale delle informazioni reperite dal suo cellullare.
La sentenza definitiva della Corte Suprema è apparsa sorprendente a molti, soprattutto perché i tribunali inferiori negli ultimi anni sono più volte intervenuti a favore della polizia in casi riguardanti arresti e perquisizioni, spesso ritenute legali perché considerate necessarie a garantire la sicurezza degli agenti o a evitare la distruzione di prove. Gli stessi giudici supremi attualmente in carica, oltretutto, hanno ormai una lunga storia di sentenze favorevoli alle forze di polizia e volte a restringere i diritti dei sospettati.
Tuttavia, se il verdetto di mercoledì fissa senza dubbio un principio fondamentale, appare poco giustificato l’entusiasmo dei più importanti media “liberal” americani che hanno attribuito senza riserve una mossa, a loro dire, di impronta indubitabilmente progressista ad una Corte Supema composta in maggioranza da giudici ultra-reazionari.
Infatti, tra le pieghe della sentenza vi sono alcuni aspetti che rendono la decisione meno rassicurante di quanto appaia a prima vista. I giudici, ad esempio, sembrano a un certo punto affermare la validità del Quarto Emendamento come semplice copertura per evitare ricorsi e battaglie legali prolungate. Ciò risulta evidente nel riferimento alla facilità con cui la polizia può ottenere l’ordinanza di un tribunale per esaminare il contenuto di un telefono cellulare, secondo Roberts addirittura “in 15 minuti” grazie all’uso di “e-mail e iPads”.In una “opinione concordante” redatta dal giudice di estrema destra Samuel Alito, inoltre, viene chiesto al Congresso di intervenire sulla questione delle perquisizioni dei telefoni cellulari, così da bilanciare la garanzia della privacy dei cittadini con le necessità legate alla raccolta di prove delle forze dell’ordine.
Per il giudice nominato da George W. Bush, “sarebbere spiacevole se la difesa della privacy nel 21esimo secolo fosse lasciata principalmente alle corti federali”, costrette a decidere con il solo “strumento del Quarto Emendamento”. Quello che Alito intende, con ogni probabilità, è che il Congresso debba approvare delle regole che assegnino maggiori poteri alle forze di polizia durante gli arresti, in modo da restringere i casi di perquisizione per i quali si renda necessario richiedere un’ordinanza di tribunale.
Lo stesso testo della sentenza del presidente John Roberts, d’altra parte, cita le condizioni nelle quali le garanzie del Quarto Emendamento potrebbero venire meno, quando cioè le “circostanze lo richiedano con urgenza”. In tal caso, le forze dell’ordine avranno facoltà di violare liberamente la privacy dei cittadini, facendo riferimento a situazioni di emergenza spesso molto difficili da valutare.
Una simile eccezione ricorda sinistramente tutte le giustificazioni, legate alle presunte necessità della “guerra al terrore”, a cui si sono appellati i governi e i giudici americani nell’ultimo decennio per implementare e convalidare misure profondamente anti-democratiche.
A questa eccezione, perciò, ha subito fatto riferimento il Dipartimento di Giustizia di Washington nel commentare a caldo la sentenza di mercoledì, annunciando l’impegno del governo nell’individuare le “circostanze urgenti” che consentano di calpestare la Costituzione e di procedere con l’analisi dei telefoni degli arrestati senza il fastidioso coinvoglimento di un giudice.
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di Michele Paris
Uno degli obiettivi principali del primo ministro ultra-conservatore del Giappone, Shinzo Abe, fin dal suo ritorno al potere sul finire del 2012 è stato quello di imprimere una svolta in senso militarista al paese, in modo da avere a disposizione uno strumento fondamentale per le ambizioni da “grande potenza” coltivate dall’estrema destra nipponica.
Per raggiungere lo scopo che lo stesso premier si era prefissato almeno un decennio fa, è però necessario modificare, o quanto meno “reinterpretare”, la Costituzione marcatamente pacifista del paese asiatico, approvata nel 1947 durante l’occupazione americana.
In particolare, nel mirino di Abe e del suo Partito Liberal Democratico (LDP) c’è l’articolo 9 che recita: “Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come strumento per la risoluzione delle dispute internazionali”. Per questa ragione, il Giappone non può mantenere “forze di terra, di mare, di aria e qualsiasi altra forza potenzialmente militare”.
Inizialmente, sull’onda del relativo entusiasmo suscitato tra i media e gli ambienti del business giapponesi dalla creazione del suo Gabinetto, Abe era intenzionato a riscrivere interamente questa parte della Costituzione. Di fronte alle resistenze del principale partner di governo del LDP, il partito buddista Nuovo Komeito, e soprattutto alla profonda opposizione popolare, Abe è stato però costretto a fare una parziale marcia indietro.
Per implementare qualsiasi modifica alla Costituzione giapponese è necessaria infatti l’approvazione di entrambi i rami della Dieta (Parlamento) con una maggioranza di due terzi. Gli emendamenti, inoltre, devono essere sottoposti a un referendum popolare.
Di fronte a questi ostacoli rivelatisi insormontabili, il primo ministro ha deciso così per una scorciatoia, inventando cioè il concetto profondamente anti-democratico di “reinterpretazione” della Costituzione stessa per raggiungere in sostanza lo stesso obiettivo.
Abe ha allora nominato una speciale commissione formata da personalità sulla sua stessa lunghezza d’onda a cui ha affidato l’incarico di fornire raccomandazioni circa il ruolo delle Forze di Auto-Difesa, ovvero l’esercito giapponese, istituite nel 1954 nonostante i limiti imposti dal dettato costituzionale. Ottenuto l’inevitabile appoggio della commissione al suo progetto, Abe si è presentato ai propri alleati per trovare un accordo sulla “reinterpretazione” dell’articolo 9, incontrando però maggiori ostacoli del previsto anche all’interno del suo stesso partito.
Il piano del premier si basa sul principio di “difesa collettiva”, in base al quale le forze armate giapponesi potrebbero partecipare ad azioni militari non solo per difendere il paese in caso di attacco ma anche a fianco di un alleato, se fosse quest’ultimo ad essere attaccato.La mossa di Abe è appoggiata dagli Stati Uniti, i quali vedono con favore la soppressione di qualsiasi vincolo costituzionale che limiti il pieno coinvolgimento del Giappone nelle manovre di Washington in Estremo Oriente. Queste ultime, com’è noto, prevedono un’escalation militare nei confronti della Cina, con il rischio concreto di scatenare una guerra rovinosa, e la parallela formazione - sempre in funzione anti-cinese - di un’alleanza militare con paesi come Australia, Filippine, Corea del Sud e, appunto, Giappone.
Negli ultimi anni, peraltro, le forze armate nipponiche hanno già contribuito alle avventure belliche statunitensi, sia in Afghanstan che in Iraq, ma l’intenzione di Abe è ora quella di attribuire ai propri militari la piena capacità di condurre operazioni di combattimento al fianco degli alleati.
Il Giappone, inoltre, è già ampiamente coinvolto nelle strategie belliche degli USA, come dimostra la presenza di basi militari americane sul proprio territorio. Tuttavia, mentre l’alleanza tra i due paesi obbligherebbe i militari americani ad assistere il Giappone in caso di aggressione nei suoi confronti, le forze armate di Tokyo non potrebbero ad esempio affiancare gli Stati Uniti in una guerra contro la Cina per via dei limiti costituzionali.
La “reinterpretazione” dell’articolo 9 ideata da Abe è comunque solo l’ultima delle iniziative adottate dal primo ministro a partire dal dicembre 2012. L’impronta militarista al paese è risultata evidente anche dall’aumento delle spese militari, così come dalla crescente aggressività mostrata nei confronti della Cina attorno alle dispute territoriali nelle acque condivise con il vicino occidentale.
Infine, il governo del LDP ha recentemente istituito un Consiglio per la Sicurezza Nazionale sull’esempio di quello americano, mentre ha rinvigorito l’alleanza strategica con Washington e avviato una campagna all’insegna del revisionismo storico nel tentativo di sminuire i crimini di guerra commessi dall’imperialismo giapponese negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.
Questa preoccupante evoluzione registrata a Tokyo ha determinato un deterioramento dei rapporti non solo con la Cina ma anche con la Corea del Sud, vittime entrambe della durissima occupazione giapponese fino alla seconda Guerra Mondiale. In maniera ovvia, i due paesi hanno perciò criticato aspramente l’intenzione del primo ministro giapponese di rivedere la propria Costituzione in senso miltarista.
Come già anticipato, le mire di Abe sulla Costituzione sono viste con sospetto anche dall’alleato di governo Nuovo Komeito, in larga misura a causa delle tendenze generalmente pacifiste della base elettorale di quest’ultimo partito, formata in prevalenza da giapponesi di fede buddista.
Per far digerire la “reinterpretazione” dell’articolo 9 a questo partito sono in corso da giorni accese trattative, visto che Abe vorrebbe affrettare i tempi dell’approvazione da parte del suo gabinetto. L’urgenza è resa necessaria dalla crescente opposizione nel paese per l’accelerazione militarista impressa dal governo e in previsione dell’imminente approvazione di un nuovo impopolare aumento dell’imposta sui consumi.Per superare le resistenze del partito Nuovo Komeito, Abe potrebbe apportare delle modifiche alla sua proposta, ad esempio inserendo il principio della “sicurezza collettiva” nell’ambito di operazioni militari approvate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa proposta, emersa durante i negoziati della scorsa settimana, secondo il quotidiano Asahi Shimbun sarebbe tuttavia già stata scartata.
Un’altra ipotesi potrebbe essere invece quella di consentire l’intervento militare soltanto nel caso in cui si presentasse “un pericolo esplicito” per la popolazione giapponese e non semplicemente se ci fosse “il timore” di una minaccia al paese, com’era stato inzialmente stabilito.
Secondo gli osservatori, in ogni caso, i due partiti riusciranno alla fine a trovare un punto d’incontro che permetterà al primo ministro di ottenere quanto desidera, come conferma la rassicurazione fornita da tempo dai vertici del Nuovo Komeito di non avere alcuna intenzione di abbandonare la coalizione di governo a causa della questione della “sicurezza collettiva”.
La volontà del governo di Tokyo di mettersi alle spalle in fretta la “reinterpretazione” della Costituzione circa il ruolo delle forze armate è più che comprensibile alla luce degli umori del paese. Come hanno mostrato svariati sondaggi, infatti, la percentuale dei giapponesi contrari all’iniziativa del premier Abe appare in continua crescita.
In una rilevazione risalente allo scorso maggio della rete televisiva NHK, ad esempio, il 41% degli intervistati si era detto contrario alla “reinterpretazione” contro il 34% di favorevoli. Secondo un sondaggio pubblicato qualche giorno fa dall’agenzia di stampa Kyodo, addirittura, i contrari sarebbero ora saliti al 55,4%, mentre quasi il 58% ha espresso il proprio malcontento per il metodo con cui Abe sta operando per implementare una vera e propria modifica costituzionale aggirando le regole stabilite.
Più in generale, lo stesso sondaggio ha evidenziato il raggiungimento da parte dell’esecutivo guidato dal LDP del punto più basso in termini di gradimento (52,1%) dal suo insediamento a fine 2012, prospettando una crescente opposizione nel paese nei confronti non solo della riproposizione di un pericoloso militarismo, fortemente avversato dalla maggioranza della popolazione, ma anche delle ricette economiche ultra-liberiste su cui si basa il programma di governo di Shinzo Abe.
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di Mario Lombardo
Prima dell’arrivo a Baghdad nella giornata di lunedì per un delicato colloquio con il premier iracheno Maliki, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha trascorso la domenica incontrando il neo-presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, al quale ha manifestato l’intenzione degli Stati Uniti di ristabilire la piena partnership con il nuovo regime al Cairo dopo le relative incomprensioni seguite al colpo di stato del luglio scorso e alla durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani.
La disposizione più che benevola degli USA si è concretizzata con l’annuncio da parte dell’ex senatore democratico dello sblocco di 650 milioni di dollari destinati ai militari egiziani, che erano stati congelati dall’amministrazione Obama in seguito alla deposizione dell’ex presidente Mohamed Mursi. Questa cifra corrisponde alla prima tranche di un pacchetto da circa 1,3 miliardi di dollari che Washington eroga annualmente alle forze armate dell’Egitto, sostanzialmente in cambio del mantenimento del paese nord-africano nell’orbita strategica degli Stati Uniti.
Sulla questione degli aiuti militari, dunque, Kerry ha assicurato che i due paesi alleati sono “sul binario giusto” e che anche la fornitura di 10 elicotteri Apache, precedentemente sospesa, verrà autorizzata “molto presto”.
La visita di Kerry al Cairo è giunta significativamente il giorno successivo alla conferma in appello della condanna a morte di ben 183 sostenitori dei Fratelli Musulmani, tra cui l’ex guida suprema del movimento islamista, Mohamed Badie. Come molti altri processi andati in scena in Egitto nei mesi scorsi, anche quello di sabato non è stato altro che una farsa, essendo sfociato in una sentenza emessa al termine di un’udienza durata appena 15 minuti e condotto senza il minimo rispetto dei diritti degli imputati.
Simili pratiche sono estremamente diffuse nell’Egitto controllato dalla giunta militare guidata da Sisi, tanto che lo stesso Kerry ha ammesso di essere stato costretto ad esprimere “il nostro sostegno per i diritti e le libertà universali di tutti gli egiziani, incluse le libertà di espressione e di associazione”.
Le parole del numero uno della diplomazia USA sono evidentemente cadute nel vuoto, visto che lunedì un altro tribunale egiziano ha inflitto condanne tra 7 e 10 anni di carcere a tre giornalisti di Al Jazeera, accusati di avere fornito aiuto materiale ad un’organizzazione terroristica, cioè ai Fratelli Musulmani. I reporter condannati sono stati puniti per avere raccontato gli eventi seguiti al golpe in maniera troppo favorevole al governo eletto dei Fratelli Musulmani, sostenuto dalla monarchia del Qatar a cui appartiene il network arabo.
Anche durante questo procedimento, le basilari norme democratiche sono state deliberatamente calpestate, ad esempio con il ricorso a prove del tutto inconsistenti per dimostrare la presunta colpevolezza dei tre giornalisti.
Il governo che l’ex generale Sisi si appresta a guidare, d’altra parte, ha presieduto non solo a innumerevoli processi come quelli appena descritti ma anche al brutale soffocamento di qualsiasi forma di opposizione al nuovo regime. Come già ricordato, a farne le spese sono stati soprattutto i Fratelli Musulmani, tra cui si sono contate migliaia di morti e decine di migliaia di arresti.
Come corollario della repressione, Sisi ha presieduto all’emanazione di leggi che hanno di fatto bandito qualsiasi forma di protesta, mentre ha favorito la stesura di una nuova Costituzione che ha fissato il ruolo privilegiato dei militari nel paese. Per legittimare tutto ciò, il regime ha organizzato con il consenso dell’Occidente le elezioni presidenziali del Maggio scorso, nelle quali Sisi ha ottenuto il 97% dei consensi in una consultazione segnata dall’astensionismo di massa, nonché da brogli e intimidazioni.Una nuova testimonianza del clima che si respira nell’Egitto di Sisi è giunta poi nel fine settimana con una rivelazione pubblicata dal Guardian, nella quale si racconta della prigione militare segreta di Azouli. Svariate testimonianze, raccolte dal quotidiano britannico, descrivono i raccapriccianti metodi di tortura riservati agli ospiti della struttura, spesso arrestati “a caso” o a seguito di “prove estremamente esili”.
Con queste premesse, in ogni caso, Kerry ha potuto affermare che il presidente Sisi ha dato la “forte impressione” di essere impegnato “nella revisione delle leggi sui diritti umani” e delle norme “del processo giudiziario”. La fiducia del segretario di Stato americano nelle potenzialità del regime, la cui vera natura ha cercato cinicamente di nascondere, è confermata anche dall’estrema cordialità degli incontri di domenica.
Kerry, ad esempio, ha avuto parole di stima per il ministro degli Esteri, Sameh Shoukry, assieme al quale l’ex candidato alla Casa Bianca ha detto di avere lavorato negli anni passati. Shoukry, infatti, è stato ministro durante l’era Mubarak e ambasciatore del suo paese negli Stati Uniti tra il 2008 e il 2012.
Il ritorno al potere dei militari e di uomini già facenti parte del regime di Mubarak, dopo la parentesi dei Fratelli Musulmani seguita alla rivoluzione del 2011, non crea dunque alcun imbarazzo all’amministrazione Obama, quato meno esteriormente, nonostante quasi tre anni e mezzo fa l’allora dittatore venne invitato a dimettersi proprio da Washington nel pieno della rivolta di piazza Tahrir.
In quell’occasione, peraltro, gli USA scaricarono l’alleato Mubarak con riluttanza solo dopo che la sua posizione era diventata insostenibile e il discredito americano - già ampiamente diffuso tra gli egiziani - rischiava di aumentare ulteriormente con conseguenze disastrose.
In seguito alla rivoluzione, gli Stati Uniti avevano finito per accettare, pur senza entusiasmo, il governo di Mursi e dei Fratelli Musulmani, una volta accertato che quest’ultimo non avrebbe minacciato in maniera seria gli interessi americani (e israeliani) nella regione.
L’ondata di proteste popolari contro il governo, tuttavia, avrebbe compromesso irrimediabilmente anche la posizione di Mursi, spingendo gli USA ad avallare il colpo di stato militare guidato dal generale Sisi. Le modeste critiche rivolte talvolta alla giunta militare hanno infine lasciato spazio alla totale accettazione del nuovo presidente, come conferma la visita di Kerry.Nonostante la sanguinosa repressione, l’abbraccio a Sisi conferma che gli Stati Uniti hanno assistito all’esito più favorevole possibile della crisi in Egitto, dove un nuovo uomo forte legato a Mubarak ha riconquistato il potere, garantendo il controllo delle piazze e il quasi totale allineamento del Cairo agli interessi strategici di Washington.
Gli unici scrupoli mostrari da Kerry sono legati alla necessità di fare apparire la repressione in atto come una parentesi trascurabile anche se sgradevole, così da rassicurare l’opinione pubblica internazionale circa il percorso “democratico” intrapreso dal nuovo Egitto. A questo scopo sono servite le frasi del tutto vuote pronunciate al Cairo dal capo della diplomazia USA, il quale ha assicurato che con Sisi ha discusso del “ruolo essenziale in una democrazia di una società vivace, di una stampa libera, dello stato di diritto e [della garanzia] di un giusto processo”.
Al di là delle dichiarazioni, la visita del segretario di Stato in Egitto nel fine settimane non fa che confermare ancora una volta la reale attitudine “democratica” della classe dirigente d’oltreoceano, pronta come sempre a collaborare con qualsiasi regime dittatoriale che garantisca gli interessi dell’imperialismo americano. Tanto più in una situazione come quella attuale di grave instabilità nella regione mediorientale, segnata dalle crisi in Iraq e in Siria che saranno inevitabilmente al centro dei colloqui di John Kerry nel prosieguo della sua trasferta nel mondo arabo.
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di Michele Paris
Nel corso di questi ultimi anni le forze di polizia, in ogni angolo degli Stati Uniti, stanno ricevendo in maniera costante forniture di armi ed equipaggiamenti militari dal Pentagono che apparentemente sembrano avere ben poco a che vedere con le normali funzioni di mantenimento dell’ordine ad esse attribuite.
A rivelare questo flusso di materiale, più adatto ad un teatro di guerra che alle esigenze di sicurezza delle città o della provincia americana, è stato un articolo apparso qualche giorno fa sul New York Times e poco o per nulla notato dal resto della stampa d’oltreoceano. Nell’indagine viene descritto come, durante gli anni dell’amministrazione Obama, i dipartimenti di polizia americani abbiano ottenuto, tra l’altro, “centinaia di migliaia di mitragliatrici, quasi 200 mila caricatori, migliaia di capi di abbigliamento mimetici ed equipaggiamenti per la visione notturna, centinaia di silenziatori, autoblindati, elicotteri e velivoli” vari.
Significativamente, il reporter del Times afferma che la fornitura di tutto questo materiale proveniente dalle forze armate si è accompagnato al crescente impiego delle squadre speciali della polizia denominate SWAT (Special Weapons and Tactics). Queste squadre vengono usate solitamente per interventi in situazioni critiche, come la liberazione di ostaggi o nei casi di terrorismo, ma negli ultimi tempi operano sempre più anche in situazioni di routine.
In maniera inquietante, il Times cita due episodi nei quali il ricorso ai team SWAT è sembrato del tutto fuori luogo, come in un’operazione condotta nel 2006 in un nightclub della Louisiana nell’ambito di un’ispezione sulla vendita di alcolici e in alcuni negozi di parrucchiere in Florida nel 2010 per verificare la regolarità delle loro licenze. In molte occasioni, inoltre, gli SWAT irrompono in abitazioni private alla ricerca di sospettati per crimini trascurabili, con modalità violente che hanno già causato svariati decessi.
Oltre agli SWAT, in netto aumento sono poi anche le Unità Paramilitari di Polizia (PPU), secondo uno studio presenti in quasi l’89% delle città sopra i 50 mila abitanti già negli anni Novanta e oggi diffusesi addirittura a più dell’80% delle città più piccole degli Stati Uniti contro meno del 20% negli anni Ottanta.Il caso della località di Neenah, nel Wisconsin, è estremamente significativo di questo stato di cose negli Stati Uniti. Con poco più di 25 mila abitanti, Neenah sembra essere la tradizionale cittadina della provincia americana, dove il livello di criminalità risulta ben al di sotto della media nazionale. Ciononostante, da qualche anno qui sono iniziati a giungere svariati veicoli anti-mina (MRAP) dell’esercito.
Se il capo della polizia locale sostiene che anche una “possibilità remota” di minacce di violenza estrema richiede precauzioni, è un residente di Neenah ad avere fornito una definizione pertinente di quanto sta accadendo nella sua città e in innumerevoli altre degli Stati Uniti, dove le forze dell’ordine, in realtà, “si stanno rafforzando [con equipaggiamenti militari] per fronteggiare una minaccia inesistente”.
Il trasferimento di attrezzature da guerra ai reparti di polizia locali era iniziato in America negli anni Novanta in seguito ad un’iniziativa del Congresso, ufficialmente per consentire alle città più grandi di fronteggiare la crescente intraprendenza delle gang della droga. Il programma garantisce oggi un numero senza precedente di armamenti pesanti alla polizia, nonostante sia la criminalità che gli episodi di terrorismo domestico negli USA siano crollati.
Le armi e gli equipaggiamenti da guerra scartati dall’esercito o in eccedenza vengono consegnati ai dipartimenti di polizia a titolo gratuito ma le maggiori città americane utilizzano spesso anche prestiti federali a fondo perduto per acquistare questo genere di materiale.
Nelle varie località americane oggetto dell’indagine del New York Times emerge l’atteggiamento ambiguo dei vertici delle forze di polizia nei confronti del programma del Pentagono. Soprattutto nelle città più piccole, infatti, appare chiaro come siano i militari a cercare di convincere le autorità locali della necessità di accettare equipaggiamenti utili solo in caso di guerra o gravi sommosse.
Pressoché invariabilmente, invece, i residenti delle città interessate manifestano il loro scetticismo o la totale contrarietà alla militarizzazione dei dipartimenti di polizia. In particolare, molti esprimono preoccupazione per le modalità con cui la polizia si approvvigiona di questo materiale, quasi sempre tenendo all’oscuro non solo la popolazione ma spesso anche i membri dei consigli comunali.Lo scenario descritto dal New York Times è la conseguenza diretta del clima creato dalla classe dirigente americana dopo l’11 settembre del 2001, nel quale la minaccia terroristica percepita è stata aumentata esponenzialmente a fronte di un sensibile calo degli eventi effettivamente registrati.
La militarizzazione delle forze di polizia sembra rispondere perciò alla necessità delle autorità di far fronte a possibili minacce derivanti dalle enormi tensioni sociali che si stanno accumulando negli Stati Uniti, in una realtà segnata da gigantesche e insostenibili disuguaglianze sociali e di reddito, nonché da attacchi continui alle condizioni di vita di decine di milioni di americani delle classi più disagiate.
La vera minaccia che la polizia USA, sempre più simile a una forza paramilitare, deve fronteggiare è così quella del dissenso interno e di possibili rivolte derivanti dall’esplosiva situazione sociale prodotta dalla crisi terminale del capitalismo.
Non a caso, infatti, le cronache sui giornali d’oltreoceano riportano quasi ogni giorno gli esempi della violenza della polizia, diretta invariabilmente contro lavoratori, poveri, senza tetto o appartenenti a minoranze etniche.
Come conferma l’indagine del New York Times, in definitiva, i metodi e gli strumenti usati dall’imperialismo americano per reprimere ogni resistenza alle innumerevoli occupazioni militari di paesi sovrani vengono progressivamente importati in patria, dove allo stesso modo si sta intensificando l’opposizione nei confronti di un sistema oligarchico con caratteristiche sempre più compatibili con quelle di uno stato di polizia.