di Mario Lombardo

Con l’annuncio ufficiale diffuso la settimana scorsa che indica le date in cui si terrà il voto per il rinnovo della Camera bassa del parlamento indiano (“Lok Sabha”), sta entrando nel vivo una campagna elettorale definita dai media di mezzo mondo come la più importante da svariati decenni nella più popolosa democrazia del pianeta. L’appuntamento con le urne giunge infatti in un momento di profonda crisi del sistema economico di questo paese di oltre 1,2 miliardi di abitanti, il cui percorso verso il cambiamento minaccia di generare immense tensioni sociali.

Il faticoso meccanismo elettorale indiano prevede lo svolgimento del voto in numerose fasi che dureranno addirittura cinque settimane, dal 7 aprile al 12 maggio prossimi. Alcuni giorni più tardi verranno ufficializzati i risultati che assegneranno i 545 seggi della Camera bassa interamente elettiva, così che il nuovo governo dovrebbe essere insediato tra la fine di maggio e i primi di giugno.

Il sistema bicamerale indiano è composto anche da una Camera alta o Consiglio degli Stati (“Rajya Sabha”), i cui 250 membri sono nominati dalle assemblee legislative locali e, in minima parte, dal presidente della Repubblica.

Secondo tutti i sondaggi finora condotti, il partito del Congresso Nazionale Indiano al potere dovrebbe andare incontro ad una sonora sconfitta, probabilmente la più pesante della propria storia. Alcuni osservatori hanno tuttavia messo in guardia da conclusioni affrettate, visto che il partito guidato da Sonia Gandhi in altre occasioni nel recente passato era stato dato per battuto per poi far segnare risultati decisamente migliori a urne chiuse.

A beneficiare della possibile débacle del Congresso, in ogni caso, dovrebbe essere in primo luogo il partito nazionalista indù Bharatiya Janata (Partito del Popolo, BJP), tradizionale punto di riferimento della borghesia imprenditoriale indiana, già al potere in un governo di coalizione tra il 1998 e il 2004. Alla luce della frammentazione del sistema politico dell’India, però, è estremamente improbabile che uno dei due principali partiti riesca ad ottenere la maggioranza assoluta in parlamento, così che risulteranno ancora una volta decisivi i partiti minori, in particolare quelli locali e su base etnica o di casta.

La classe dirigente indiana si trova di fronte a scelte determinanti per il futuro del paese, in gran parte richieste dall’alta borghesia locale e dagli ambienti finanziari internazionali. L’India, infatti, da alcuni anni deve fare i conti con una crescita nemmeno lontanamente sufficiente a garantire la creazione dei posti di lavoro necessari ad assorbire la propria impetuosa crescita demografica, mentre l’inflazione continua a rimanere al di sopra dei livelli di guardia. Allo stesso modo, come altri paesi emergenti, l’India ha assistito ad una fuga di capitali negli ultimi mesi in seguito al parziale ritiro del “quantitative easing” della Federal Reserve americana e il possibile conseguente rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti.

Parallelamente a tutto ciò, centinaia di milioni di indiani sono tuttora costretti a vivere in condizioni di disperata povertà, spesso potendo contare su meno di 2 dollari al giorno.

Trovando il proprio sostegno elettorale soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione, il partito del Congresso ha garantito finora, e soprattutto durante la penultima legislatura, tra il 2004 e il 2009, un certo livello di spesa destinata all’assistenza sociale. Questi ultimi anni, tuttavia, sono stati segnati da un tentativo di accelerare le “riforme” di libero mercato, la cui implementazione è risultata però faticosa a causa della forte e più che giustificata opposizione popolare.

La scelta di Sonia Gandhi e del suo partito di aprire il sistema economico indiano al capitale straniero, così come, ad esempio, di provare a smantellare i sussidi ai prezzi dell’energia, ad allentare le regolamentazioni per le imprese e le protezioni per i lavoratori o a tagliare sensibilmente la spesa pubblica per ridurre il deficit, hanno determinato un significativo crollo della popolarità del Congresso, senza comunque incontrare il favore e l’appoggio della borghesia indiana.

Contrariata dall’incertezza con cui il Congresso ha cercato di mettere in atto le “riforme” richieste, quest’ultima ha invece dirottato il proprio sostegno verso il BJP e il suo candidato premier, Narendra Modi. Primo ministro dello stato occidentale di Gujarat, Modi è una figura molto controversa perché sospettato di avere favorito i pogrom anti-musulmani avvenuti sotto la sua leadership nel 2002 e che causarono migliaia di morti.

Lo sdoganamento e la promozione di Modi sono dovuti alla sua azione politica ultradecennale dedicata alla difesa degli interessi del capitalismo indiano e alla repressione di qualsiasi opposizione allo strapotere del business nel suo stato.

Questi servizi resi alla borghesia indiana hanno fatto passare dunque in secondo piano le sue responsabilità nelle violenze anti-musulmane e sono stati il trampolino di lancio del leader del BJP, abbracciato recentemente anche dagli Stati Uniti dopo essere stato a lungo sulla lista nera di Washington.

Anche se i principali media indiani e occidentali stanno già celebrando il possibile successo di Modi e del BJP, la popolarità di questo partito risulta tutt’altro che travolgente, tanto che la probabile affermazione elettorale dipenderà in larga misura dal discredito del Congresso, penalizzato anche da svariati scandali legati ad episodi di corruzione. L’acceso nazionalismo indù e le politiche aggressivamente pro-business che lo caratterizzano continuano infatti a suscitare una decisa ostilità tra ampie fasce della popolazione. Il BJP, d’altra parte, nella sua storia ultra-trentennale solo in una occasione è stato in grado di raccogliere più del 25% dei consensi su scala nazionale.

L’ascesa del BJP ha spinto il Congresso a scegliere una campagna elettorale condotta all’insegna della difesa del secolarismo e delle politiche “progressiste” che teoricamente dovrebbero caratterizzarlo. L’inclinazione “neo-liberista” abbracciata a livello pratico dal partito, sia pure in maniera incerta, da almeno due decenni a questa parte ha però contribuito a scavare un solco tra di esso e la propria tradizionale base elettorale, sempre più alienata da un clan di potere che lascerà in eredità al nuovo governo un paese con tassi di povertà stratosferici e servizi pubblici allo sfascio.

La decisione di candidare Rahul Gandhi alla carica di primo ministro, inoltre, potrebbe non aiutare il Partito del Congresso. Il 43enne vice-presidente del partito, figlio di Sonia e dell’ex premier assassinato Rajiv Gandhi, ha infatti poca esperienza politica, ancor meno carisma e rappresenta il simbolo stesso del monopolio della sua famiglia sul Congresso e sulla politica indiana. La sua campagna elettorale di impronta populista, perciò, dovrebbe fare ben poco per ribaltare gli equilibri indicati dai sondaggi di opinione.

Dell’impopolarità del Congresso e della relativa incapacità del BJP di intercettare in maniera decisiva i voti degli elettori delusi dall’attuale governo potrebbe beneficiare almeno in parte il nuovo Partito dell’Uomo Comune (“Aam Aadmi”, AAP). Questo movimento ha saputo sfruttare il malcontento generalizzato per la classe politica indiana, promuovendo battaglie anti-corruzione che recentemente gli sono valse un inaspettato successo nelle elezioni per il rinnovo dell’assemblea locale della capitale, Delhi.

Pur non proponendo molto altro di un sistema come quello attuale ma senza corruzione o interferenze della politica nell’economia, l’AAP potrebbe conquistare un numero considerevole di seggi a livello nazionale, grazie anche al declino dei vari partiti di sinistra, alleati o ex alleati del partito del Congresso all’interno della cosiddetta Alleanza Progressista Unita.

A pesare sul voto in India e sulle sorti del prossimo governo, infine, saranno anche le delicate questioni strategiche e di politica estera che stanno segnando il continente, soprattutto in conseguenza della “svolta” asiatica anti-cinese annunciata da qualche anno dall’amministrazione Obama.

Le élite indiane sono in bilico tra l’abbraccio della partnership strategica con Washington e gli interessi nazionali contrastanti che, per ragioni principalmente economiche e di sicurezza energetica, suggerirebbero un certo grado di cooperazione con la Cina e, ad esempio, l’ulteriore rafforzamento dei legami con l’Iran.

Anche per questa ragione, perciò, in molti vedono con una qualche apprensione il sempre più probabile arrivo al potere a Delhi di Narendra Modi e del BJP, il cui nazionalismo spinto accompagnato a politiche ultra-liberiste, sull’esempio del governo Abe in Giappone, potrebbe scatenare forze difficilmente controllabili e determinare un pericoloso deterioramento dei rapporti con i vicini e rivali di sempre – Pakistan e Cina – alimentando ulteriormente le tensioni più o meno latenti in Asia centrale.

di Michele Paris

Una vicenda di spionaggio all’interno delle strutture stesse del governo americano sta scatenando accese polemiche in questi giorni tra i vertici della CIA da una parte e alcuni membri del Congresso di Washington dall’altra. Al centro della controversia c’è il contenuto del rapporto di una commissione del Senato sugli interrogatori con metodi di tortura condotti dall’agenzia di Langley dopo l’11 settembre 2001 e, parallelamente, la minaccia alla separazione del potere legislativo da quello esecutivo rappresentata dall’ingigantimento dell’apparato della sicurezza nazionale d’oltreoceano con il pretesto della lotta al terrorismo.

Le origini della vicenda vanno fatte risalire all’accordo che la presidente della commissione del Senato per i Servizi Segreti, la democratica Dianne Feinstein, aveva raggiunto nel 2009 con l’allora direttore della CIA, Leon Panetta, per mettere a disposizione dei membri della stessa commissione milioni di documenti dell’agenzia relativi agli interrogatori di presunti terroristi.

Per analizzare il materiale, i senatori e i rispettivi staff avevano però dovuto recarsi fisicamente in una stanza di un edificio della CIA non lontano dalla sede di Langley, in Virginia. Alla fine, dopo quattro anni di lavoro, nel dicembre del 2012 la commissione del Senato ha potuto ultimare il proprio rapporto di circa 6.300 pagine. Esso, tuttavia, rimane a tutt’oggi classificato, soprattutto a causa delle resistenze manifestate dalla stessa CIA alla sua pubblicazione, nonostante sia stato ufficialmente appoggiato anche dalla Casa Bianca.

Le conclusioni del rapporto, secondo indiscrezioni pubblicate dai giornali, sarebbero estremamente critiche nei confronti dei metodi illegali utilizzati dalla CIA e autorizzati dai vertici dell’amministrazione Bush.

In ogni caso, dopo la fine dei lavori la commissione del Senato informò la CIA dei risultati della propria indagine e il successore di Panetta, l’attuale direttore John Brennan, preparò una risposta ufficiale di 122 pagine per respingere le accuse e confutare i fatti su cui il rapporto si era basato.

La buona fede di Brennan - già primo consigliere di Obama in materia di anti-terrorismo - è stata però messa in discussione da alcuni recenti fatti, a cominciare da una dichiarazione pubblica fatta nel dicembre scorso dal senatore democratico del Colorado, nonché membro della commissione per i Servizi Segreti, Mark Udall. Quest’ultimo aveva cioè rivelato l’esistenza di un’analisi interna condotta dalla CIA alcuni anni fa sotto la direzione di Panetta, nella quale venivano sostanzialmente condivise le conclusioni critiche a cui era giunto il rapporto del Congresso sugli interrogatori.

Udall intendeva sollevare “interrogativi sui motivi per cui l’analisi interna della CIA - mai portata all’attenzione della commissione [per i Servizi Segreti del Senato] - risultava differente dalla risposta formale seguita all’indagine della commissione stessa” fornita da Brennan.

Le parole del senatore democratico avevano così reso noto al pubblico quello che la CIA aveva iniziato da qualche tempo a sospettare: che i membri della commissione del Senato avevano avuto l’opportunità di leggere il documento riservato preparato sotto Panetta, non perché fornito dalla CIA ma, verosimilmente, accedendo in qualche modo ad esso durante l’esame del materiale messo a disposizione attraverso i terminali posizionati nell’apposita stanza del già ricordato edificio dell’agenzia in Virginia.

Il fatto che la CIA fosse già a conoscenza della presunta violazione della propria rete informatica da parte dei membri della commissione del Senato e del loro staff è il risultato del monitoraggio condotto dall’agenzia sui computer forniti a questi ultimi per l’esame dei propri documenti, malgrado l’accordo tra Panetta e Dianne Feinstein del 2009 prevedeva che non ci sarebbe stata alcuna sorveglianza di questo genere.

L’attività di spionaggio ai danni dei senatori era cominciata ad essere ipotizzata da molti all’inizio di quest’anno, quando un altro membro della commissione, il senatore democratico dell’Oregon Ron Wyden, aveva chiesto durante un’audizione a John Brennan se l’agenzia da lui diretta fosse sottoposta al dettato del “Federal Computer Fraud and Abuse Act”, la legge cioè che proibisce l’accesso alle reti dei computer di qualsiasi ufficio governativo senza autorizzazione.

Brennan aveva declinato di rispondere immediatamente, indirizzando però più tardi una replica scritta al senatore Wyden nella quale ammetteva come la CIA fosse tenuta al rispetto della suddetta legge, anche se essa non “proibisce attività di indagine o di intelligence a scopo protettivo”. Il direttore della CIA, in sostanza, ammetteva indirettamente il controllo dei computer dei membri della commissione, cercando di confondere le acque per occultare una grave violazione costituzionale di cui egli era il principale responsabile.

Il principale responsabile, ma non il solo, visto che successivamente il senatore Udall avrebbe inviato una lettera al presidente Obama, lasciando intendere che egli era a conoscenza delle azioni palesemente incostituzionali della CIA ai danni dei membri della commissione che dovrebbe sorvegliare sull’operato dell’agenzia stessa.

Nel suo messaggio all’inquilino della Casa Bianca, Udall ha cioè scritto: “Come lei sa, la CIA ha recentemente agito in una maniera senza precedenti nei confronti della commissione in relazione all’analisi interna [di Panetta sugli interrogatori con metodi di tortura] e queste azioni sono straordinariamente preoccupanti per la nostra democrazia e per le responsabilità di sorveglianza della commissione” stessa.

In definitiva, l’intera vicenda solleva una serie di questioni inquietanti relative a svariate azioni criminali, tra cui le principali risultano essere: il programma di torture adottato dopo gli attacchi dell’11 settembre, al centro dell’indagine del Senato tuttora nascosta al pubblico; l’occultamento della cosiddetta “Panetta review”, che sembrava appoggiare le conclusioni critiche della commissione sui Servizi Segreti; l’attività di spionaggio ai danni dei membri della commissione e dei loro staff.

Oltre alle responsabilità dirette dei vertici della CIA in tutti e tre i fatti, vi sono poi quelle delle ultime due amministrazioni, a cui la principale agenzia di intelligence americana fa capo. Le torture vere e proprie dei detenuti sospettati di terrorismo sono avvenute sotto l’amministrazione Bush, mentre le altre due azioni illegali sotto l’amministrazione Obama e la direzione della CIA di John Brennan, scelto per l’incarico dallo stesso presidente democratico.

In seguito ai fatti appena descritti sono scaturite due indagini, una dell’ispettore generale della CIA sul monitoraggio dei computer dei membri della commissione del Senato e l’altra, paradossalmente, dell’ufficio legale della stessa agenzia di intelligence sul possibile accesso non autorizzato alla rete informatica che ha portato alla lettura dell’analisi interna ordinata dall’ex direttore Panetta. Entrambi i casi sono stati già trasferiti al Dipartimento di Giustizia che si occuperà delle indagini.

Al di là delle conclusioni, tuttavia, quelle che appaiono evidenti sono ancora una volta le modalità con cui può ormai operare la struttura della sicurezza nazionale americana creata oltre un decennio fa, vale a dire senza alcun rispetto per la legalità e le più basilari norme costituzionali, a cominciare dai limiti imposti ai poteri dello Stato e alla loro suddivisione per garantire che quello esecutivo non sfoci nell’autoritarismo e nella tirannia.

Nel caso della sorveglianza ai danni dei detentori del potere legislativo da parte di un organo di quello esecutivo, infine, queste ultime rivelazioni seguono di poco gli sforzi senza successo di deputati e senatori per ottenere rassicurazioni dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), i cui vertici in recenti audizioni si erano rifiutati di escludere esplicitamente il monitoraggio delle conversazioni telefoniche dei membri del Congresso, affermando soltanto, e in maniera sinistra, che questi ultimi “godono dello stesso diritto alla privacy di qualsiasi cittadino degli Stati Uniti”.

di Fabrizio Casari

C’è bisogno di una robustissima dose d’ingenuità per credere alla campagna mediatica scatenata dai media occidentali nella vicenda ucraina. Si dovrebbe insomma credere ad un improvviso quanto inaspettato anelo democratico, una repentina attenzione alle sorti della popolazione ucraina priva di qualunque interesse diretto.

E invece Washington e Bruxelles soffiano prepotentemente sul fuoco da diversi anni nel teatro di quello che un tempo fu l’Unione Sovietica, proprio con l’intento di destabilizzare Mosca e la sua ripresa di ruolo internazionale nell’economia e in politica estera, come la gestione della crisi in Siria ha evidenziato.

Sembrerebbero una performance di ironia involontaria le parole pronunciate ieri da Obama, che invita Mosca a non interferire nella politica di Kiev. Buffo davvero che chi da anni finanzia i gruppi nazisti dell’opposizione, che ha costruito una sistema di propaganda mediatica e di supporto materiale alla condannata per peculato Timoshenko (detentrice del solo 10% elettorale) e che ha organizzato e diretto le rivolte di piazza che hanno sconvolto l’Ucraina, dica ora alla Russia, i cui legami storici, linguistici, militari ed economici sono conclamati, di non impicciarsi.

Insomma Mosca dovrebbe farsi accerchiare dalla Nato, vedersi limitare la sua sfera d’influenza e la sua possibilità di ricostruzione del suo ruolo strategico e tacere persino, giacché a Washington trovano più conveniente una Russia debole e silente, non in grado di competere con gli USA nella gestione della governance globale.

E di altra comicità involontaria si potrebbe parlare a proposito delle dichiarazioni di Obama e della Merkel che indicano come illegale il referendum del 16 Marzo indetto dal Parlamento della Crimea che dovrà decidere sull’eventuale annessione della Crimea alla Russia. In Crimea il 60% della popolazione è russa e solo il 10% parla ucraino. Ovvio dunque che di fronte al rigurgito nazista e sciovinista dei dirigenti ucraini, cerchino di ripararsi sotto l’ombrello protettivo russo.

E allora non si capisce perché un referendum deciso dal Parlamento della Crimea e votato dai cittadini dovrebbe essere illegale, mentre invece sarebbe legale assaltare le sedi del governo, sparare, uccidere, rovesciare un governo legittimamente eletto e mettere a ferro e fuoco la capitale, attività nelle quali l’opposizione ucraina - a forte guida nazistoide - si è cimentata nell’ultimo mese.

Un concetto bizzarro della democrazia, del resto già evidente nella sua doppia interpretazione quando chiedevano alla autorità di Kiev di liberare i dimostranti violenti arrestati, mentre in Occidente e negli stessi USA le proteste di piazza violente vengono sanzionate con decine di anni di carcere. Sarà che violare la pace dell’impero a Nord é un reato e quello di provare ad ampliarlo ad Est é invece un atteggiamento meritorio?

Dello stesso canovaccio fanno parte l’idea che le sanzioni economiche alla Russia (che prevedono anche il sequestro dei fondi russi in giro per il mondo) siano legittime, mentre la richiesta di Mosca a Kiev di pagare la bolletta del gas inevasa sia illegittima o provocatoria. Del resto, emerge un'altra contraddizione che il mainstream si guarda bene dall’evidenziare e che richiama alla vicenda dei Balcani.

Il sostegno alla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo venne spiegato sostenendo che, indipendentemente dall’integrità territoriale della ex-Jugoslavia, essendo la maggior parte della popolazione di etnia albanese, era legittimo che il Kosovo fosse indirettamente regalato all’Albania. Ebbene, la stragrande maggioranza della popolazione ucraina è di etnia russa, è russo-parlante e di religione ortodossa. Perché mai dunque, seguendo l’identico schema applicato nei Balcani, dovrebbe essere staccata dalla sua appartenenza?

Del resto è la propaganda occidentale ad incaricarsi di non fornire domande, di non evidenziare le contraddizioni e le assurdità delle pretese occidentali sull’Est Europa e sul bisogno di sovvertire permanentemente l’ordine interno ai paesi sui quali gli Stati Uniti considerano conveniente farlo per ragioni diverse e mai legittime, ma utili a rinsaldare il suo controllo unipolare.

Dalla Libia alla Siria, dal Venezuela all’Ucraina, l’Amministrazione Obama ha ormai nella destabilizzazione internazionale il suo focus principale. Nello specifico ucraino l’obiettivo è mettere all’angolo Mosca. Staccare Kiev da Mosca per inserire l’Ucraina nella Nato  è il progetto che Stati Uniti ed Europa stanno perseguendo ben consci degli effetti che la destabilizzazione dell’Ucraina potrebbe generare sulla complessiva stabilità dell’area.

Perché destabilizzare l’Ucraina significa accerchiare la Russia e azzerare il suo controllo militare sul Mar Nero, dove con la base militare di Sebastopoli Mosca controlla tutta l’area, strategicamente fondamentale soprattutto nel caso di un conflitto tra Occidente e Iran.

Scorazzare per il Mar Nero da padroni è del resto il sogno mai smentito del comando Nato dal 1989. E, nell’immediato, significa obbligare la Russia ad una corsa al riarmo, limitando così la sua crescita economica, già resa difficile dalla crisi che colpisce anche i russi.

Sembra evidente, da parte di Washington, l’intenzione di ripercorrere il cammino che si presentò nella seconda metà degli anni ’80, negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, quando l’Amministrazione Reagan con il progetto dello scudo spaziale spinse Mosca verso il riarmo, fiaccandone inesorabilmente l’economia e portandola alla fine del sistema.

L’Ucraina non è un paese qualunque nella mappa dell’ex Unione Sovietica, della quale veniva definito “il granaio”. Grazie alla produzione ucraina, infatti, l’ex impero sovietico riusciva a rifornire di grano alcune delle sue repubbliche, soprattutto quelle dove il clima impediva lo sviluppo di una agricoltura degna di tal nome, L’Ucraina oggi ha una produzione di grano che raggiunge i diciotto milioni di tonnellate all’anno ed una di mais che arriva fino a diciotto tonnellate e mezzo.

Il cinquanta per cento di queste produzioni è destinato all’esportazione, in particolare a Russia e Cina. Ed è qui che gli Stati Uniti decidono d’intervenire. Già, perché proprio Pechino è ormai parte rilevante degli investimenti economici nell’area e, in forza di ciò e grazie ad un sostanziale accordo politico di valore strategico con Mosca, recita un ruolo politico importante sullo scenario mondiale.

Non a caso, nei giorni scorsi Pechino ha invitato Washington e Bruxelles alla moderazione e a rientrare rapidamente nel contesto del diritto internazionale, relativamente alla non ingerenza negli affari interni dei paesi sovrani. La Cina, di fronte alle minacce statunitensi di agire con misure economiche a danno della Russia, ha fatto presente, per la prima volta in questi anni, di essere pronta a reagire con le stesse armi, insinuando la possibilità di mettere all’incasso una quota del debito USA nelle sue mani, cosa che provocherebbe l’immediato default statunitense. Insomma, la saggezza orientale suggerisce alla Casa Bianca moderazione ed attenzione nel profferire minacce, visto il rischio di rimanere schiacciati dalla ricaduta delle loro stesse misure.

D’altra parte Pechino ha ormai un ruolo importante anche nel mercato economico di buona parte dell’America Latina e una partnership di rilievo con l’Iran. Alla ricerca di mercati ed influenza politica su cui espandere il suo ruolo, Pechino si trova in conflitto ormai continuo con Washington; le stesse tensioni sul  Mar della Cina e la vicenda della sovranità cinese sulle penisole che vi si trovano, sono da tempo oggetto di confronto politico e militare conclamato con Stati Uniti e Giappone.

E il fatto che non solo l’Ucraina, ma buona parte dei paesi europei dipendano per una quota significativa del fabbisogno energetico dalla Russia, non fa che aumentare il peso di Mosca nello scenario internazionale e la sua alleanza con la Cina pone una serie ipoteca sull’organizzazione del comando planetario da parte della Nato, che da più di dieci anni sogna il suo spostamento ad Est, privilegiando la minaccia piuttosto che il dialogo con la Russia.

L’espansionismo militare ed economico degli Stati Uniti ad Est è una parte del disegno imperiale che trasforma ogni zona del pianeta dotato di risorse o posizionato in chiave strategica dal punto di vista geopolitico in area di interesse vitale per Washington. L’Europa si conferma un nano politico e nemmeno prova a pensare le ragioni per le quali non ha nessun interesse ad un incendio vicino ai suoi confini, neanche tenta di far capire a Washington che la Russia non è la Libia.

Gli Stati Uniti si confermano ogni giorno di più come il problema e non la soluzione per la pace mondiale. La lotta disperata contro il declino della sua leadership globale e lo scontro con Cina e Russia pone di nuovo il mondo non tanto all’alba di una nuova guerra fredda, essendo i sistemi non più antagonisti ma concorrenziali, ma certamente la tendenza alla guerra permanente come volano della ripresa economica statunitense si conferma come unica e pericolosissima strategia del comando unipolare. I falchi volano ovunque.



di Michele Paris

Il presidente Obama ha presentato ufficialmente la consueta proposta di bilancio del governo federale degli Stati Uniti per il prossimo anno finanziario che inizierà il primo ottobre. La bozza, per stessa ammissione dei giornali americani vicini agli ambienti democratici, è un insieme di misure populiste e di annunci demagogici che, pur avendo ben poche possibilità di essere effettivamente implementati, dovrebbero teoricamente aiutare un partito in grave affanno nelle elezioni di medio termine del mese di novembre.

Il bilancio “elettorale” della Casa Bianca ammonta a poco meno di 4 mila miliardi di dollari e tralascia molte delle concessioni improntate al rigore che il presidente stesso aveva offerto nell’autunno scorso ai repubblicani nell’ambito delle trattative su un accordo di ampio respiro per la riduzione del debito pubblico mai andato in porto.

Le proposte appena avanzate, perciò, sono sembrate a molti una sorta di programma su cui i candidati democratici potranno condurre la propria campagna nei prossimi mesi in un ambiente ostile a causa sia della generale impopolarità del Congresso che delle politiche anti-sociali e anti-democratiche perseguite dall’amministrazione Obama.

La proposta di bilancio, in ogni caso, non intende modificare i livelli di spesa restrittivi già fissati dai due partiti a dicembre 2013 con l’accordo siglato per evitare una nuova chiusura degli uffici governativi dopo lo “shutdown” dell’ottobre precedente. Obama si è limitato perciò a offrire circa 55 miliardi di dollari di ulteriori spese, da spartire equamente tra i programmi militari e quelli civili.

Questo denaro dovrebbe essere recuperato da tagli ad altri programmi pubblici e dalla riduzione di alcuni benefici fiscali riservati ai redditi più elevati, come l’esenzione delle tasse di una parte dei profitti di “hedge funds” e compagnie di “private equity”.

Quest’ultima misura rivela però la vera natura delle proposte di Obama, visto che essa era circolata per svariati anni al Congresso già durante l’amministrazione Bush e i democratici non erano stati in grado di approvarla nemmeno dopo le elezioni presidenziali del 2008 quando disponevano della maggioranza assoluta sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato.

Proposte populiste di questo genere vengono quindi ripresentate nella situazione attuale con i repubblicani in controllo della Camera e totalmente contrari anche a valutare un qualsiasi minimo innalzamento delle tasse per gli americani più ricchi.

In definitiva, Obama e i suoi colleghi di partito non hanno alcuna intenzione di penalizzare i grandi interessi economici e finanziari, come dimostra la loro intera azione di governo, ma intendono agitare proposte di stampo populista solo quando sono certi che esse non potranno in nessun modo diventare legge.

A questa strategia va ascritto l’atteggiarsi di Obama a paladino della “classe media” americana e le ormai innumerevoli apparizioni pubbliche nelle quali lamenta le enormi disuguaglianze sociali e di reddito al cui aumento, peraltro, la sua amministrazione ha dato un contributo decisivo.

Nei suoi discorsi, infatti, il presidente critica frequentemente la distribuzione delle ricchezze negli Stati Uniti e sollecita una serie di misure che colpiscano i redditi più elevati per risollevare le sorti delle classi più disagiate. Tutto questo, e sempre più spesso con l’approssimarsi del voto di novembre, prima di apparire di fronte ai facoltosi finanziatori del Partito Democratico per sollecitare ricche donazioni elettorali.

In merito al bilancio proposto questa settimana, va sottolineato come la metà delle spese extra per il prossimo anno fiscale consistano in buona parte nell’allargamento di un credito d’imposta di cui attualmente beneficiano quasi esclusivamente i lavoratori con figli all’interno di una certa fascia di reddito e che si risolverebbe in nient’altro che poche centinaia di dollari in più all’anno.

Se, poi, la Casa Bianca ha ad esempio escluso alcune misure di austerity proposte nei mesi scorsi, come la manipolazione del sistema di adeguamento delle pensioni al livello di inflazione per ridurre gli aumenti legati al costo della vita, nel bilancio non vi è traccia della cancellazione dei tagli alla spesa federale scattati automaticamente lo scorso anno in assenza di un accordo bipartisan sul livello del debito.

Questo meccanismo - definito “sequester” - ha determinato e continuerà a determinare per i prossimi anni pesanti ridimensionamenti dei servizi pubblici gestiti da vari dipartimenti e agenzie, come quelli della Protezione Ambientale, dello Sviluppo Urbano, della Salute e dell’Educazione.

Inclusa nel bilancio è al contrario la riforma del sistema fiscale americano da tempo avanzata da Obama e che prevede, tra l’altro, una riduzione dell’aliquota massima riservata alle corporations - ora al 35%, anche se di fatto molti colossi USA che operano anche all’estero già non pagano un solo dollaro di tasse - mettendo fine a scappatoie legali che consentono l’abbattimento del carico fiscale.

Infine, anche una serie di iniziative per aumentare gli investimenti in lavori pubblici e i programmi pre-scolastici su scala nazionale finiranno per risolversi in un nulla di fatto, vista l’opposizione repubblicana ad accettare aumenti di spesa anche di entità relativamente modesta.

Complessivamente, la bozza di bilancio di Obama prevede una riduzione del deficit federale dai 649 miliardi di dollari di quest’anno a 564 nel 2015, mentre il rapporto deficit/PIL dovrebbe scendere al 3,1% dal livello record di 10,1% registrato nel 2009.

A conferma del carattere demagogico della proposta partorita dalla Casa Bianca c’è la totale assenza di una qualsiasi proposta che ripristini i sussidi federali eccezionali di disoccupazione per i senza lavoro da oltre sei mesi, terminati con la fine dell’anno 2013. Nell’indifferenza di politici e media, gli americani senza alcuna fonte di entrate hanno ormai raggiunto i due milioni e altre centinaia di migliaia si aggiungeranno a questo numero nei prossimi mesi, quando si esauriranno progressivamente i sussidi di breve durata garantiti dai singoli stati.

Al di là della retorica, dunque, il disinteresse di Obama per i disoccupati e, più in generale, per gli americani a basso reddito, colpiti anche dal doppio taglio ai fondi destinati ai buoni alimentari (“food stamps”) degli ultimi mesi pari a quasi 20 miliardi di dollari, rivela il vero volto della sua amministrazione e dell’intera classe politica d’oltreoceano.

Ciò rende evidente anche il senso della campagna condotta dallo stesso presidente per l’innalzamento della retribuzione minima negli Stati Uniti, inaugurata a Gennaio nel discorso sullo stato dell’Unione. La proposta è quella di passare dagli attuali 7,25 dollari l’ora a 10,10, ma anche in questo caso l’iniziativa richiede un’approvazione del Congresso e i repubblicani in maggioranza alla Camera considerano qualsiasi aumento imposto per legge una minaccia inammissibile ai profitti delle grandi aziende. Oltretutto, anche l’adozione di un simile livello di retribuzione minima non consentirebbe ai lavoratori più sfruttati di condurre una vita decente.

L’impegno di Obama, in definitiva, è dettato soltanto da necessità elettorali, così da provare a mobilitare la tradizionale base democratica sempre più alienata dal partito e ad intercettare il voto di lavoratori e classe media che chiedono una più equa distribuzione delle ricchezze negli Stati Uniti.

In questo quadro rientra anche la più recente decisione della Casa Bianca relativa alla sempre più impopolare “riforma” del sistema sanitario. Mercoledì, Obama ha ordinato cioè il rinvio di due anni dell’obbligo di adeguamento delle polizze già esistenti ai requisiti previsti dalla nuova legge.

Quest’ultima disposizione qualche mese fa aveva sollevato una valanga di critiche, poiché milioni di persone si erano viste cancellare le proprie polizze sanitarie sottoscritte con le compagnie private per essere sostituite da altre in linea con la “riforma” ma decisamente più costose, nonostante lo stesso Obama avesse più volte affermato che chiunque era soddisfatto del proprio piano di copertura avrebbe potuto conservarlo senza alcuna difficoltà.

di Liliana Adamo

Secondo Public Eye Awards 2014, è la peggiore al mondo, prima in classifica per “l’Oscar della vergogna”, fra quelle imprese che si macchiano di reati contro l’ambiente e i diritti umani. Seguita da FIFA Syngenta, Bayer, BASF, Gazprom si è aggiudicata l’ignominioso premio dopo che la Dichiarazione di Berna e Greenpeace, hanno chiamato al voto il popolo degli internauti, invitandoli a eleggere il caso top di violazioni.

Proposte delle varie associazioni ambientaliste e dalle ONG, vagliate dall’Università San Gallo e da una giuria indipendente, le diciannove aziende “aspiranti”, sono state prese di mira e subissate da appelli e richiami alle proprie responsabilità attraverso i social network più in voga; intanto che Kumi Naidoo (direttore esecutivo di Greenpeace), in conferenza stampa il 23 gennaio scorso, durante il WEF a Davos, annunciava la lista dei “vincitori”.

Tutt’altro che dilettevole, la questione si pone alle coscienze in tutta la sua criticità; infatti, da qui a un decennio, Gazprom è l’azienda che potrebbe disinvoltamente innescare l’estinzione del fragile ecosistema artico, organismo regolatore dei flussi climatici globali, caratterizzato da una biodiversità unica e importante. Quali siano le propensioni all’insostenibilità perpetrate dal colosso estrattivo russo, è presto detto: copiose e indiscriminate fuoriuscite di greggio, trivellazioni prive d’ogni controllo in cerca di nuovi giacimenti nel disinteresse totale per le norme di sicurezza ambientale e a tutela dei lavoratori.

Due mesi fa, in un regime di sostanziale impunità (e con singolare tempismo), subito dopo il rilascio degli Artic30 di Greenpeace, la più grande compagnia russa di gas naturale (le sue riserve ammontano a 18.991 kmq, pari al 18% di territorio complessivo terrestre), ha cominciato a produrre le prime quantità commerciabili dalla discussa piattaforma Prirazlomnaya al largo della costa Pechora; la stessa, oggetto della clamorosa protesta attuata dagli attivisti, finiti poi nelle carceri statali, insieme due giornalisti freelance, con l’accusa di “pirateria e terrorismo”, mentre, l’atteggiamento della Gazprom, questo sì “criminale”, propugnato a spada tratta dal sistema politico che fa capo al nuovo zar del gas, Vladimir Vladimirovi? Putin, merita da solo, una breve cronistoria.

Monopolista dell’export, dal 2004 il colosso russo diventa il solo fornitore di Bosnia ed Erzegovina, Estonia, Finlandia, Macedonia, Lettonia, Lituania, Moldavia e Slovacchia, fornisce il 97% del gas alla Bulgaria, l’89 all’Ungheria, l’86 alla Polonia, i tre quarti del totale alla repubblica Ceca, per arrivare via via in Turchia, Austria, Romania, Germania, Francia e infine Italia; l’UE quindi, ottiene il 25% delle sue forniture da questa compagnia.

Gazprom, con una capitalizzazione azionaria pari a 270 miliardi, una rete di condotti più lunga al mondo (158.200 chilometri), infinite riserve di gas naturale, controlla imperturbabilmente banche, assicurazioni, società di costruzioni, agricole e di mediazioni finanziarie, proprietaria e sponsor di squadre di calcio (FC Zenit San Pietroburgo, Chelsea Football Club, Schalke 04, nondimeno della UEFA Champions League).

A dispetto della sua potenza, è unanimemente risaputo come le condizioni obsolete e le limitate capacità tecniche dei suoi impianti stiano mettendo a rischio non solo la vita stessa (biologica e umana) dei territori che prosciuga indiscriminatamente ma anche il già compromesso automatismo climatico, a difesa dell’intero pianeta.

Faiza Oulahsen, attivista olandese degli Arctic30, sostiene con forza che la stessa Shell (cui, per buona sorte, è stato rigettato il piano di trivellare il suolo dell’Alaska, dopo che una nuova piattaforma è andata alla deriva lo scorso 31 dicembre), firmando un accordo di collaborazione con Gazprom, dovrebbe preoccuparsi di una partnership così “scomoda” e potenzialmente pericolosa, perché sui possibili danni ambientali sarebbero tenuti a pagare esclusivamente gli stessi investitori della compagnia anglo-olandese.

A riflettere su una comparazione si potrebbe citare l’esempio più eloquente, il disastro della Deepwater Horizon (Golfo del Messico, 2010) e la controversia tra British Petrolium, i suoi investitori e governo americano, con la compagnia anglosassone costretta a un risarcimento senza precedenti, 4,5 miliardi di dollari - oltre 3,5 miliardi di euro - senza contare l’ammontare in corso di versamento e i suoi dirigenti indagati per omicidio colposo.

Eppure, sempre secondo Greenpeace, se un incidente di questo tipo dovesse ripetersi nelle acque gelide intorno al Circolo Polare, nessuno sarebbe pronto a intervenire, per la sola ragione che l’accordo di cooperazione (preparazione e risposta) cui sta lavorando il Consiglio Artico, elargisce buone intenzioni ma manca di misure concrete contro l’inquinamento da petrolio in mare.

La spartizione dell’Artico per le immense riserve petrolifere e gas naturali, con nuovi giacimenti off shore pronti per lo sfruttamento, prevede, infatti, un’autorità garante sovranazionale con il Canada a guida dell’organismo, raggruppando Stati Uniti, Russia, Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda e Danimarca (in rappresentanza della Groenlandia), a titolo decisionale premono anche Cina e Corea del Sud, mentre l’Italia chiede di farne parte come osservatore permanente.

Impegno del Consiglio è tracciare una bozza per trovare soluzioni comuni, fermo restando, denunciano gli ambientalisti, che si lascia ai singoli stati il compito di stabilire le regole per prevenire e rispondere alle emergenze e alle imprese coinvolte nel grande business, le responsabilità per eventuali bonifiche, pur senza specificare, come afferma Ben Ayliffe sul sito di Greenpeace: “Quali siano i metodi per tappare i pozzi e pulire animali e ambiente o le attrezzature adeguate…”.

In considerazione del fatto che la stessa conformazione morfologica dell’habitat artico sia così particolare e fragile, acque avvolte dall’oscurità e coperte di ghiacci, eventuali bonifiche sarebbero difficili senza un’adeguata e preesistente tecnologia in grado di bloccare fuoriuscite del petrolio sotto i giacchi, trasportato attraverso i confini del mare da fortissimi venti e correnti. E questa scienza tecnologica, come spiega la Reuters, citando fonti del DNV norvegese (ente di certificazione leader nel mondo, per il supporto di performance aziendali con assessment nell’ambito della sostenibilità), è tuttora insufficiente.

Un altro aspetto andrebbe evidenziato: l’Artide, oltre ai concetti (pur condivisibili e sacrosanti), sulla difesa dell’ambiente, delle popolazioni autoctone, degli animali e del clima, è per diritto, patrimonio dell’umanità intera. Il diritto vive di formulazioni ed espressioni a prescindere.

Se l’Antartide si è salvato grazie ad una situazione giuridica più chiara e coerente, attraverso le norme del Trattato di Washington (1959) e della Convenzione di Wellington (1988) che frenano, in sostanza, le pretese territoriali sull’immenso continente di ghiaccio a sud del globo, disponendo che le terre nel 60° di latitudine, siano interdette da attività a scopo militare, caccia e pesca severamente regolate a finalità di tutela, allora anche il Circolo Polare Artico, avulso dalle logiche di mercato e pretese d’ogni singolo stato, dovrebbe essere tutelato da un assoluto consenso internazionale, perché luogo di tutti, necessario a tutti, cui nessuno può arroccarsi sulle proprie speculazioni.




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