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di Michele Paris
Un sondaggio pubblicato questa settimana dal New York Times ha messo in luce come le prospettive elettorali per l’anno in corso non appaiano particolarmente rosee per il Partito Democratico e il presidente Obama. Al di là degli equilibri politici di Washington a otto mesi dalle elezioni di “midterm”, tuttavia, l’indagine del quotidiano newyorchese rivela soprattutto e nuovamente lo stato comatoso della democrazia americana, con entrambi i partiti lontani anni luce dalle necessità e dalle aspirazioni della grande maggioranza della popolazione.
Il Partito Repubblicano, infatti, pur beneficiando dell’impopolarità crescente dei democratici e dell’inquilino della Casa Bianca, risulta anch’esso incapace di rispondere ai problemi che affliggono la società d’oltreoceano. Lo scarso entusiasmo che suscita tra gli elettori la prospettiva di un prossimo Congresso a totale maggioranza repubblicana è confermato, tra l’altro, dal modesto livello di gradimento fatto segnare nel nuovo sondaggio dal più importante esponente del partito, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner.
Il politico dell’Ohio, obiettivo anche delle critiche dell’ala destra repubblicana, ottiene l’approvazione di appena il 26% degli intervistati e non va molto meglio nemmeno tra i sostenitori del suo partito (33%).
La distanza tra il “GOP” e la gran parte della popolazione americana è evidenziata poi dal sostegno di una chiara maggioranza dei potenziali elettori ad iniziative a cui il partito si oppone, come la riforma dell’immigrazione per facilitare l’ottenimento della cittadinanza per gli stranieri irregolari, il controllo della diffusione delle armi, la legalizzazione della vendita di marijuana e dei matrimoni gay.
Ben due terzi delle persone sentite durante l’indagine del Times in collaborazione con CBS News, inoltre, ritengono che la distribuzione delle ricchezze negli USA dovrebbe essere più equa, mentre i repubblicani appoggiano in maniera aperta politiche ultra-liberiste che hanno creato le attuali disparità economiche e che, se perseguite ulteriormente, non farebbero che peggiorarle.
I giornalisti che hanno curato il pezzo sul nuovo sondaggio ricordano anche come la maggioranza degli americani vorrebbe che i due partiti facessero di più per aiutare una classe media in affanno, per poi affermare che questo scrupolo, assieme alle precedenti iniziative appoggiate dalla maggior parte degli elettori, rientra teoricamente nei progetti del presidente Obama.
Nonostante l’impegno per alterare la realtà dei fatti da parte di una stampa liberal che, come in questo caso, sembra non capacitarsi dell’impopolarità del presidente democratico nonostante quest’ultimo continui a presentarsi come il paladino delle classi più disagiate, gli elettori negli Stati Uniti e, ancor più, coloro che alle urne nemmeno si recano, hanno compreso da tempo come la retorica dei democratici non nasconda altro che un pressoché totale allineamento di questo partito agli interessi dei poteri forti, esattamente come quello Repubblicano.
Infatti, come aggiunge l’articolo del Times, le promesse di Obama non si traducono in un consenso generalizzato per il Partito Democratico, il quale nelle intenzioni di voto in vista delle elezioni di novembre ottiene soltanto il 39% delle preferenze contro il 42% dei rivali repubblicani.
Questi ultimi, dunque, grazie ad un sistema bloccato che di fatto impedisce l’emergere di movimenti o partiti alternativi, continuano a capitalizzare l’impopolarità di un presidente che viene correttamente identificato con politiche rivolte esclusivamente a favore di una ristretta élite economico-finanziaria, ma anche con il rafforzamento di un apparato di sorveglianza pervasivo ai danni dei cittadini e una “riforma” del sistema sanitario che sta progressivamente rivelando la propria natura di strumento per razionare l’assistenza e tagliare i costi della copertura.
Complessivamente, secondo la rilevazione di New York Times e CBS News, il livello di gradimento di Obama sarebbe sceso così al 41%, mentre il 51% dice di disapprovare la sua performance alla guida del paese. Se numeri simili dovessero persistere, le speranze dei democratici di mantenere il controllo sul Senato e di riconquistare alcuni seggi alla Camera potrebbero essere facilmente frustrate, visto che tradizionalmente la popolarità del presidente si riflette sulle sorti elettorali del suo partito nelle consultazioni di “medio termine”.
La situazione del Partito Repubblicano non appare comunque migliore, nemmeno a giudicare dalle sensazioni espresse dai suoi stessi elettori. Il 42% di essi si dice “per lo più scoraggiato” per il futuro del partito e la percentuale sale al 51 tra gli aderenti ai Tea Party.
Le divisioni e gli scontri tra gli attivisti di estrema destra del partito e l’establishment relativamente più moderato sono una delle poche speranze che rimangono al Partito Democratico in vista di novembre, dal momento che, come è accaduto negli ultimi anni, le primarie repubblicane potrebbero promuovere candidati attestati su posizioni ultra-reazionarie e quindi più facilmente battibili nelle elezioni vere e proprie per il Congresso.
A fronte dei conflitti interni, della lontananza siderale dalle necessità della popolazione e dello scetticismo per le sorti del partito manifestato dai suoi tradizionali elettori, il “GOP” appare oggi ugualmente favorito per il voto che rinnoverà tutta la Camera e un terzo del Senato. Questa prospettiva la dice perciò molto lunga sulla situazione in cui versa il Partito Democratico e, ancor più, il sistema rappresentativo americano.
D’altra parte, un senso generale di pessimismo continua a pervadere gli elettori americani, visto che il 63% degli intervistati da New York Times e CBS News crede che il paese si stia dirigendo nella direzione sbagliata. Allo stesso modo, ben 8 americani su 10 manifestano insoddisfazione o addirittura rabbia nei confronti della politica di Washington.
A peggiorare il quadro contribuisce infine anche il fatto che, tradizionalmente, simili sondaggi si limitano a considerare gli americani che intendono recarsi alle urne. Fuori dal panorama delineato dalla stampa ufficiale restano cioè sempre quegli americani che, in appuntamenti come le elezioni di “medio termine”, costituiscono la maggioranza e che non si prendono nemmeno la briga di partecipare ad un processo elettorale monopolizzato da due partiti che, a loro e alla maggior parte dei loro concittadini, non hanno ormai più nulla da offrire.
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di Michele Paris
La rimozione del presidente ucraino Viktor Yanukovich nel fine settimana con un vero e proprio colpo di stato, guidato nelle piazze da formazioni armate neo-naziste incoraggiate dall’intervento occidentale a favore dell’opposizione, è stata seguita lunedì dall’emissione di un mandato di arresto ai danni dell’ex leader del paese dell’Europa orientale da parte delle nuove autorità provvisorie di governo a Kiev.
Ad annunciare la decisione è stato l’appena nominato ministro degli Interni, Arsen Avakov, membro del partito “Patria” dell’ex premier ed oligarca Yulia Tymoshenko, protagonista a sua volta di un’apparizione pubblica dopo che aveva beneficiato della frenetica attività legislativa del Parlamento nei giorni scorsi, vedendosi improvvisamente cancellata una condanna a sette anni per corruzione.
Yanukovich sarebbe accusato di “uccisioni di massa di civili” assieme ad altre personalità a lui vicine nell’ambito degli scontri che settimana scorsa avevano causato un centinaio di decessi in seguito agli scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti armati.
Dopo essere fuggito da Kiev, tuttavia, l’ormai ex presidente sembra avere fatto perdere le proprie tracce. Secondo i resoconti dei media, Yanukovich era dapprima volato con un elicottero nella città orientale di Kharkov per poi raggiungere una sua residenza a Balaklava, in Crimea, dove avrebbe licenziato le sue guardie personali.
La brusca fine della presidenza Yanukovich appare estremamente significativa alla luce degli eventi che avevano segnato i giorni precedenti, sui quali è tutt’altro che superfluo tornare. Innanzitutto, solo poche ore prima della fuga da Kiev e dalla sua deposizione con un voto del Parlamento, Yanukovich aveva firmato un accordo con le forze di opposizione mediato dai ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia, rispettivamente Frank-Walter Steinmeier, Laurent Fabius e Radoslaw Sikorski.
Yanukovich aveva cioè ceduto alle pressioni occidentali, accettando condizioni che avrebbero limitato notevolmente i propri poteri. In particolare, ciò sarebbe avvenuto attraverso la reintroduzione della Costituzione del 2004 approvata dopo la cosiddetta “Rivoluzione Arancione” orchestrata da Washington e che avrebbe, tra l’altro, sottratto al controllo presidenziale i vertici dei servizi di sicurezza. Inoltre, elezioni presidenziali e parlamentari anticipate erano state fissate entro dicembre.
L’intesa si è rivelata però del tutto inutile, anzi è servita unicamente ad indebolire il presidente, esposto a un nuovo assalto dei gruppi di estrema destra interessati solo alle sue dimissioni immediate e a sradicare l’influenza russa sull’Ucraina. Su queste formazioni, i leader politici dell’opposizione – Arseniy Yatsenyuk del partito “Patria”, l’ex campione di boxe Vitali Klitschko del partito UDAR sponsorizzato dai conservatori tedeschi e Oleg Tyahnybok del partito neo-fascista Svoboda – non hanno potuto esercitare alcun reale controllo, anche se il loro intervento decisivo non è stato scoraggiato in nessun modo, visto che essi stessi avevano fatto affidamento sulle milizie armate per destabilizzare il regime fin dallo scoppio della crisi lo scorso novembre.
Nella serata di venerdì, gruppi apertamente fascisti come “Settore Destro” hanno dunque preso il controllo di alcuni edifici e punti nevralgici della capitale, così che il Parlamento ha finito per agire nonostante il precedente accordo, prendendo decisioni di dubbia legalità in merito alla sorte di Yanukovich.
Assieme alla rimozione del presidente, sono stati destituiti svariati ministri e nominati altri al loro posto, in attesa di un nuovo governo che dovrebbe essere insediato nella giornata di giovedì. Allo “speaker” del Parlamento, Oleksandr Turchynov, anch’egli del partito “Patria”, sono stati invece assegnati i poteri presidenziali fino alle elezioni, indette per la fine di maggio. Con un clamoroso voltafaccia, anche molti deputati del Partito delle Regioni di Yanukovich hanno votato con l’opposizione, emettendo inoltre un comunicato che assegna tutte le responsabilità della crisi in corso al deposto presidente.
Di fronte a questi eventi, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha denunciato l’opposizione ucraina per avere preso il potere “in maniera illegale”. Mosca, inoltre, ha richiamato in patria il proprio ambasciatore a Kiev per “consultazioni”.
Gli Stati Uniti e i governi europei hanno al contrario salutato l’azione del Parlamento, in linea con i loro sforzi che sono risultati determinanti nello svolgersi del colpo di stato a danni di Yanukovich. Ben lontani dagli scrupoli democratici che stanno riempiendo la retorica dei comunicati ufficiali occidentali in queste ore, le vere motivazioni dietro lo svolgersi dei fatti a Kiev hanno a che fare esclusivamente con i calcoli strategici delle potenze coinvolte.
Il desiderio di Washington e Bruxelles è stato cioè fin dall’inizio quello di strappare la più importante ex repubblica sovietica all’influenza della Russia. Ciò è ampiamente confermato anche dal fatto che nessuno in Occidente ha manifestato riserve nei confronti di un’opposizione di piazza dominata da forze neo-naziste violente. Il perseguimento senza scrupoli dei propri obiettivi strategici è risultato d’altra parte evidente già in varie occasioni solo in questi ultimi anni, ad esempio con l’appoggio garantito a milizie integraliste nella battaglia per il cambio di regime in Libia e in Siria.
D’altro canto, il regime di Yanukovich è crollato miseramente proprio per la diffusa ostilità incontrata nel paese e per la conseguente assenza di una reale base popolare. Questa realtà ha permesso la presa del potere da parte di un’opposizione filo-occidentale interessata a promuovere i propri interessi e quelli di una ristretta cerchia di oligarchi orientati verso l’Europea, nonché pronta a mettere in atto misure dettate dagli ambienti finanziari internazionali che devasteranno ulteriormente il tessuto sociale ucraino.
In definitiva, la crisi di questo paese è stata per il momento risolta, oltre che dalle violenze di gruppi di estrema destra, dall’intervento di governi stranieri e dal prevalere della volontà di guardare all’Occidente degli oligarchi ucraini, i quali hanno appoggiato una scelta valutata come la più opportuna per difendere o incrementare le proprie ricchezze costruite sul saccheggio dei beni pubblici in seguito alla fine dell’era sovietica.
Sul futuro immediato dell’Ucraina e sul reale successo ottenuto da Washington e Bruxelles pesano comunque molte incognite, a cominciare proprio dallo scatenamento di forze radicali, alcune delle quali legate storicamente all’occupazione della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Inoltre, nonostante la sostanziale impopolarità del regime di Yanukovich, le regioni orientali dell’Ucraina rimangono culturalmente ed economicamente legate alla Russia. Mosca, poi, considera il suo ex satellite fondamentale dal punto di vista strategico, valutando come una concreta minaccia l’interferenza occidentale, per non parlare di un possibile allargamento della NATO a Kiev, per alcuni osservatori il vero obiettivo delle manovre di questi ultimi mesi.
La gravità della situazione e i timori per una possibile reazione di Mosca sono stati rivelati anche dalle dichiarazioni rilasciate domenica alla NBC dalla consigliera per la sicurezza nazionale di Obama, Susan Rice, la quale ha affermato che il Cremlino commetterebbe un “grave errore” se dovesse decidere di inviare un proprio contingente militare in Ucraina per reinsediare un governo filo-russo.
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, in ogni caso, si stanno già muovendo per offrire all’Ucraina un pacchetto di aiuti finanziari attraverso il Fondo Monetario Internazionale (FMI) dopo che i nuovi leader provvisori a Kiev hanno espresso parere favorevole ad uno scenario simile e la Russia ha sospeso l’erogazione della seconda tranche dei 15 miliardi di dollari promessi al governo appena deposto. Lunedì il presidente ad interim Turchynov ha incontrato la numero uno della diplomazia UE, Catherine Ashton, verosimilmente per discutere i termini di un riavvicinamento a Bruxelles, mentre il Parlamento ha accettato le dimissioni del presidente della Banca Centrale ucraina, Ihor Sorkin, il quale verrà sostituito da Stepan Kubiv, già espressosi a favore del prestito del Fondo Monetario.
Prevedibilmente, l’intervento dell’FMI arriverebbe solo in cambio di “riforme” economiche, come ha ricordato minacciosamente agli ucraini che stanno festeggiando la caduta del presidente Yanukovich la sua direttrice, Christine Lagarde, nel corso di un summit dei ministri delle Finanze del G-20 andato in scena a Sydney. Le condizioni che i giornali indicano come “necessarie” per accedere al prestito del Fondo comporteranno un grave peggioramento delle condizioni di vita per la grande maggioranza della popolazione, come l’aumento sostanziale del costo delle forniture di gas, la svalutazione della moneta nazionale e il taglio drastico della spesa pubblica.
Tra i numerosi leader occidentali che si sono precipitati ad assicurare un futuro prospero per l’Ucraina in seguito all’abbraccio di Washington e Bruxelles, il più esplicito è sembrato essere infine il commissario europeo per gli affari economici e monetari dell’UE, Olli Rehn. Quest’ultimo, anch’egli da Sydney, ha per la prima volta prospettato un possibile ingresso nell’Unione Europea dell’Ucraina “nel medio o lungo periodo”, sempre se “le condizioni di accesso saranno rispettate”.
Viste le conseguenze della medicina somministrata a forza ai paesi europei in difficoltà da Bruxelles, le parole di Rehn, così come le iniziative occidentali per favorire l’instaurazione a Kiev di un governo guidato dai partiti di destra già all’opposizione, suonano come una pesante minaccia per tutti gli ucraini che, come nel 2004, rischiano di risvegliarsi in fretta dal sogno di una nuova “rivoluzione” pianificata nelle cancellerie occidentali.
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di Michele Paris
La ripresa dei colloqui questa settimana tra l’Iran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sul nucleare di Teheran era stata anticipata da un inasprimento dei toni da parte del governo americano e dal conseguente pessimismo manifestato dai vertici della Repubblica Islamica per un esito positivo. L’incontro di tre giorni a Vienna, concluso nella giornata di giovedì, è stato il primo tentativo di trovare un accordo di ampio respiro dopo quello temporaneo della durata di sei mesi andato in porto lo scorso mese di novembre.
Iniziato martedì, il vertice ha visto nel corso del primo giorno di colloqui un faccia a faccia di quasi un’ora e mezza tra il vice-capo della delegazione dell’Iran e la numero uno di quella degli Stati Uniti, rispettivamente il vice-ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, e la sottosegretaria di Stato, Wendy Sherman. Nei giorni successivi, invece, nuove sessioni sono state condotte con i rappresentanti delle altre potenze coinvolte, senza che alla fine siano stati annunciati significativi passi avanti.
Secondo i partecipanti all’incontro nella capitale austriaca, questa prima fase del negoziato è servita a creare la struttura all’interno della quale verranno negoziate le questioni più delicate alla base di un eventuale accordo. A Vienna è stata decisa anche la data del prossimo incontro e la cadenza per quelli successivi. I rappresentanti dell’Iran e dei P5+1 si incontreranno nuovamente in Austria tra il 17 e il 20 di marzo e in seguito verrà organizzato un vertice ogni mese per provare a definire i contorni dell’accordo.
I principi che guideranno i negoziatori per superare le sostanziali differenze che caratterizzano le posizioni delle due parti non sono stati resi noti, anche se i delegati hanno annunciato per venerdì mattina una conferenza stampa congiunta tra il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, e la numero uno della diplomazia UE, Catherine Ashton, nella quale dovrebbe essere rivelato qualche dettaglio in più dei primi risultati dei colloqui appena terminati.
Il punto di partenza dei negoziati è comunque l’intesa provvisoria raggiunta a novembre ed entrata in vigore a gennaio, che prevede una certa limitazione dell’attività di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran in cambio di un modesto alleggerimento di alcune sanzioni economiche, grazie al quale il governo di Teheran potrà recuperare, tra l’altro, 4,2 miliardi di dollari degli oltre 100 che gli appartengono e che sono congelati su conti esteri.
L’atmosfera generale registrata a Vienna, nonostante l’apparente cordialità, è apparsa all’insegna di una certa diffidenza, sottolineata dalla conferma da parte di Araghchi di come lo smantellamento delle installazioni nucleari e dell’intero programma creato in questi anni non sia sull’agenda dei colloqui, come invece auspicherebbero alcuni governi occidentali o, ad esempio, il Congresso di Washington.
Il ministro degli Esteri Zarif ha comunque affermato che i colloqui sono “iniziati nel modo giusto” e che uno degli obiettivi condivisi è stato quello di consentire al suo paese di sviluppare un programma nucleare “esclusivamente pacifico”. Zarif ha però rimproverato gli Stati Uniti per avere discusso nelle scorse settimane la possibilità di approvare nuove sanzioni contro Teheran, creando “molta preoccupazione in Iran”.
Decisamente meno ottimista era apparso lunedì la guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, il quale aveva affermato che i colloqui “non andranno da nessuna parte”, ribadendo tuttavia la sua intenzione di non ostacolarli, coerentemente con la volontà manifestata da tempo di raggiungere un accomodamento con gli Stati Uniti e l’Occidente. Khamenei ha anche riassunto correttamente l’approccio americano alla questione del nucleare iraniano, utilizzato cioè da Washington come una “scusa per intimidire e destabilizzare” il suo paese.
D’altra parte, nelle settimane trascorse tra il raggiungimento dell’accordo temporaneo e l’inizio della nuova fase dei negoziati, svariati membri dell’amministrazione Obama – a cominciare dallo stesso presidente – avevano, tra l’altro, prospettato un attacco militare contro l’Iran, ribadito la validità delle sanzioni economiche in essere, penalizzato alcune compagnie accusate di averle violate e minacciato altre che avevano sondato il terreno per tornare a fare affari a Teheran, nonché aumentato l’impegno a favore dei “ribelli” siriani che si battono contro il regime di Bashar al-Assad, vale a dire il principale alleato della Repubblica Islamica.
A rendere sufficientemente chiare le intenzioni americane era stata poi la stessa Sherman in una recente apparizione al Senato di Washington. Durante la sua testimonianza di fronte a molti “falchi” del Congresso, la diplomatica statunitense aveva assicurato che la delegazione da lei guidata avrebbe chiesto il pressoché totale smantellamento del programma nucleare iraniano e di sottoporre quanto dovrebbe rimanere in attività ad un regime ispettivo estremamente invasivo.
Non solo, la lista delle richieste USA all’Iran potrebbe includere anche molto altro, come la fine del sostegno alla Siria, a Hezbollah in Libano e ad alcune formazioni palestinesi come la Jihad Islamica, ma anche la soppressione del programma domestico di difesa missilistica in fase di sperimentazione.
Questo atteggiamento dell’amministrazione Obama conferma perciò come gli Stati Uniti intendano utilizzare gli sforzi diplomatici non per raggiungere un accordo basato sul riconoscimento delle legittime aspirazioni iraniane, bensì come strumento solo momentaneamente alternativo alla minaccia militare.
La strada diplomatica, cioè, per gli USA resterà percorribile solo se l’Iran dovesse piegarsi interamente alle loro richieste e integrarsi in un sistema strategico mediorientale allineato agli interessi di Washington. In caso contrario, tornerà a prevalere l’opzione militare e la campagna per il cambio di regime a Teheran.
Questa impressione è stata rafforzata proprio in questi giorni, quando un portavoce della Casa Bianca ha ammesso che gli USA chiederanno all’Iran di affrontare anche la questione dei missili balistici nel corso dei negoziati. Ufficialmente, le preoccupazioni occidentali sarebbero legate alla possibile installazione di testate nucleari su missili a lungo raggio, mentre questo programma ha per l’Iran una funzione puramente difensiva di fronte alle minacce di aggressione lanciate regolarmente dai propri nemici, a cominciare da Israele.
Teheran, da parte sua, sempre attraverso il vice-capo della delegazione inviata questa settimana a Vienna, ha già dichiarato chiaramente che “le questioni difensive non sono negoziabili né soggette a compromesso”, così che l’Iran “non discuterà di argomenti diversi dal dossier nucleare durante i colloqui”.
Che quest’ultima questione possa diventare un’altra arma per fare pressioni sull’Iran, minacciando di far naufragare i negoziati, è confermato infine anche dal fatto che alcuni senatori americani hanno già presentato una bozza di legge per spingere la Casa Bianca ad includere nell’accordo finale sul nucleare di Teheran la rinuncia al proprio programma missilistico di difesa, come previsto peraltro da una più che discutibile risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
A dare forza agli argomenti americani aveva contribuito proprio settimana scorsa l’annuncio da parte della Repubblica Islamica di avere testato con successo due missili balistici – costruiti in Iran dopo lo stop alla fornitura dei sofisticati S-300 da parte della Russia – con una portata stimata di almeno 1.500 km.
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di Mario Lombardo
Il rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Corea del Nord diffuso lunedì a Ginevra è stato accolto con il previsto clamore da parte della “comunità internazionale”, al cui interno gli Stati Uniti e i loro alleati hanno salutato la minaccia da parte della speciale commissione di inchiesta di raccomandare l’incriminazione del giovane leader di Pyongyang, Kim Jong-un, presso la Corte Penale Internazionale.
Come ampiamente riportato dai media di tutto il mondo, l’indagine coordinata dall’ex giudice australiano Michael Kirby ha elencato i consueti crimini attribuiti al regime stalinista, dalle torture sistematiche alle detenzioni nei campi di lavoro, dalle esecuzioni arbitrarie agli aborti forzati, dalle violenze sessuali alla privazione del cibo come forma di “controllo sulla popolazione”.
Lo stesso rapporto non ha poi risparmiato considerazioni molto dure sulla Corea del Nord, affermando ad esempio che “la gravità, le dimensioni e la natura delle violazioni [dei diritti umani] rivelano una situazione che non ha eguali nella storia contemporanea”. Kirby, da parte sua, ha paragonato i metodi impiegati dal regime di Pyongyang a quelli della Germania nazista, dichiarando apertamente che l’obiettivo del rapporto è quello di “sollecitare azioni da parte della comunità internazionale”.
L’azione intrapresa dall’ONU questa settimana nei confronti della Corea del Nord si inserisce infatti nel quadro della campagna condotta dagli Stati Uniti e dagli altri governi occidentali per destabilizzare il regime di Kim Jong-un e, ancor più, per fare pressioni sull’unico alleato di quest’ultimo, la Cina.
Pechino, d’altra parte, viene eccezionalmente nominata dal rapporto e criticata, tra l’altro, per avere rimpatriato rifugiati nordcoreani pur essendo a conoscenza della sorte a cui essi sarebbero andati incontro e, più in generale, per avere fornito collaborazione nella messa in atto di crimini contro l’umanità.
Vittima designata della giustizia selettiva delle Nazioni Unite con il beneplacito degli Stati Uniti, la Corea del Nord non appare certo un modello di democrazia e molti dei crimini enumerati nel rapporto presentato a Ginevra sono stati e continuano indubbiamente ad essere commessi.
Le intenzioni della commissione di inchiesta presieduta dal giudice Kirby sono però quasi interamente di natura politica, come confermano sia le modalità di raccolta delle informazioni riportate nel rapporto sia la parzialità della storia raccontata al mondo per dipingere la situazione dell’isolato e impoverito paese dell’Asia nord-orientale.
Il resoconto dei crimini commessi dal regime, per cominciare, si basa esclusivamente sulle testimonianze degli esuli nordcoreani, soprattutto di stanza nella Corea del Sud, dove questa comunità viene spesso influenzata o manipolata da ambienti anti-comunisti ultra-reazionari e del fondamentalismo cristiano, se non direttamente dai servizi segreti di Seoul. Il regime nordcoreano, infatti, non aveva concesso ai membri della commissione ONU di operare sul proprio territorio.
In merito ad alcune accuse specifiche, inoltre, l’ONU, pur indirizzando pesanti critiche alla Cina, esula gli Stati Uniti da ogni responsabilità. Ciò appare evidente soprattutto in relazione alla questione alimentare e alle violazioni del “diritto al cibo” dei cittadini nordcoreani.
Le numerose carestie che negli anni hanno fatto centinaia di migliaia di morti in questo paese sono da attribuire in primo luogo al blocco economico imposto proprio da Washington a partire dalla fine del conflitto del 1953 come arma per isolare e destabilizzare il regime stalinista.
Le sanzioni sono state poi costantemente inasprite in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, nell’ambito della strategia statunitense di penetrazione in Asia orientale, quasi sempre facendo leva sulla questione dei diritti umani, sulle provocazioni di Pyongyang o sull’avanzamento del programma nucleare militare. Una situazione, quest’ultima, che ha alimentato il senso di assedio del regime e le conseguenti misure repressive adottate per conservare il potere.
Sul fronte delle accuse rivolte a Pechino per avere rimpatriato i profughi nordcoreani, poi, la Cina condivide il ricorso a politiche simili con molti altri governi anche occidentali o, ad esempio, con la stessa Australia del giudice Kirby, responsabile di rimpatri forzati verso Indonesia, Papua Nuova Guinea e altri paesi del sud-est asiatico.
Più in generale, la creazione della commissione di inchiesta ONU e il possibile rinvio di Kim Jong-un alla Corte Penale dell’Aia confermano l’attitudine di questi organi internazionali a perseguire una giustizia a senso unico, quasi sempre volta a favorire gli interessi imperialistici degli Stati Uniti o delle altre potenze loro alleate.
Nessuna commissione di inchiesta è stata infatti creata per individuare le responsabilità di crimini colossali come le aggressioni di Afghanistan o Iraq che hanno causato devastazione sociale e milioni di morti tra le popolazioni civili. Entrambe le avventure belliche degli USA – la seconda delle quali anche formalmente illegale dal punto di vista del diritto internazionale – rientrano oltretutto nella definizione di “guerra di aggressione”, condannata dai principi di Norimberga in seguito al processo per i crimini nazisti evocati a Ginevra dal giudice Kirby.
L’obiettivo del rapporto sulla Corea del Nord sembra essere dunque quello di preparare l’opinione pubblica internazionale ad una probabile prossima escalation di pressioni e provocazioni nei confronti del regime di Kim Jong-un, con una strategia consolidata che fa puntualmente riferimento ai principi umanitari, come accadde, ad esempio, alla vigilia del bombardamento NATO della Serbia nel 1999 e della stessa invasione dell’Iraq nel 2003, anticipati da campagne di demonizzazione contro Slobodan Milosevic e Saddam Hussein.
Tramite la condanna della Corea del Nord, in questo caso, l’attenzione viene dirottata in particolare sulla Cina, al centro della “svolta” strategica statunitense in Estremo Oriente. Non a caso, d’altra parte, proprio alla vigilia della presentazione del rapporto ONU, il segretario di Stato americano John Kerry, nel corso di una visita a Pechino aveva nuovamente invitato i leader cinesi a esercitare tutte le pressioni possibili per costringere il loro vicino nord-orientale ad abbandonare il proprio programma nucleare.
Ben consapevole dello scenario in cui si colloca il rapporto ONU, nella giornata di martedì il governo cinese ha definito “critiche ingiuste” quelle mossegli contro dalla commissione d’inchiesta sulla Nord Corea. Una portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha poi affermato che “la politicizzazione della questione dei diritti umani non fa nulla” per migliorare la condizione di questi ultimi in un determinato paese.
La Cina, infine, non ha confermato la propria volontà di esercitare il potere di veto nel caso il rapporto ONU dovesse approdare al Consiglio di Sicurezza per un eventuale voto su ulteriori sanzioni ai danni di Pyongyang. È sensazione comune degli osservatori, tuttavia, che Pechino bloccherà ogni azione motivata politicamente che possa danneggiare l’alleato nordcoreano e determinare un arretramento nei confronti degli Stati Uniti su una questione cruciale per la propria sicurezza nazionale.
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di Michele Paris
I lavoratori americani della fabbrica Volkswagen di Chattanooga, nel Tennessee, qualche giorno fa hanno inflitto un colpo pesantissimo al sindacato automobilistico UAW (United Automobile Workers) e alle sue ambizioni di allargare la propria presenza nel sud degli Stati Uniti per fronteggiare la continua emorragia di iscritti tra le proprie fila. Relativamente a sorpresa, nell’impianto della compagnia tedesca una netta maggioranza dei dipendenti ha infatti votato contro l’ingresso della UAW nella loro fabbrica.
Dopo tre giorni di consultazioni, quasi il 90 per cento dei dipendenti ha espresso il proprio parere sulla questione e, con una maggioranza di 712 a 626, il sindacato automobilistico americano è stato alla fine pesantemente sconfitto. L’esito del voto è apparso a molti sorprendente, dal momento che la UAW aveva investito ingenti risorse per accedere alla struttura di Chattanooga e, soprattutto, perché la dirigenza della Volkswagen aveva mantenuto un approccio neutrale se non, addirittura, espresso una tacita approvazione al processo di sindacalizzazione.
I vertici Volkswagen, in particolare, erano e sono tuttora impegnati a promuovere la creazione anche negli Stati Uniti di “consigli di fabbrica” sul modello tedesco. Per fare ciò, tuttavia, secondo la legge USA è necessario che i lavoratori di una determinata fabbrica siano rappresentati da un sindacato.
Secondo i commenti apparsi in questi giorni sui media ufficiali d’oltreoceano, il modello dei “consigli”, che la Volkswagen impiega praticamente in tutti i suoi più di 100 impianti nel mondo, avrebbe permesso di aumentare la produttività della compagnia attraverso la collaborazione con i lavoratori.
In realtà, questi organi, dove siedono assieme alla dirigenza aziendale i rappresentanti di operai e impiegati, servono fondamentalmente a reprimere qualsiasi forma di opposizione alle decisioni dei vertici delle compagnie dietro la facciata della cosiddetta “co-gestione” e in cambio di modeste concessioni.
Avendo già svolto questo ruolo nei confronti dei propri iscritti a Detroit, la UAW aveva convinto la Volkswagen ad appoggiare i propri sforzi per accedere alla fabbrica del Tennessee, così da mettere le mani su nuovi contributi da prelevare dagli stipendi dei lavoratori e aprire una breccia negli stati meridionali degli Stati Uniti, dove tradizionalmente prevale uno spirito anti-sindacale.
Per fare ciò, il presidente del sindacato automobilistico, Bob King, aveva anche cercato di aggirare la legge, sostenendo che la presenza della sua organizzazione non doveva essere certificata da un voto, visto che alcuni mesi fa la maggioranza dei dipendenti della fabbrica aveva espresso per iscritto il proprio favore alla presenza della UAW.
Dopo il voto, così, il numero uno della Volkswagen di Chattanooga, Frank Fischer, si è detto addolorato per i risultati, mentre lo stesso King ha annunciato di volere considerare un’azione legale contro coloro che avrebbero “avvelenato il clima e impedito un voto regolare”.
Il presidente della UAW ha fatto riferimento soprattutto ad alcuni politici repubblicani che nelle settimane precedenti la consultazione si erano impegnati in un’accesa campagna anti-sindacale. Il governatore dello stato, Bill Haslam, aveva ad esempio sostenuto che i possibili fornitori della fabbrica non avrebbero aperto impianti nell’area di Chattanooga se i lavoratori Volkswagen avessero votato per il sindacato.
Il senatore del Tennessee nonché ex sindaco di Chattanooga, Bob Corker, aveva invece rivelato come i vertici Volkswagen gli avessero confessato che, sempre in caso di voto a favore della UAW, l’apertura prevista di una nuova linea di produzione sarebbe stata dirottata verso un altro stabilimento, quasi certamente in Messico. Da parte sua, la Volkswagen aveva smentito il senatore repubblicano, affermando che “non esiste alcun legame tra la decisione dei nostri dipendenti di Chattanooga… e la costruzione di un nuovo prodotto per il mercato americano”.
Il senatore statale, Bo Watson, aveva poi promesso che l’assemblea legislativa del Tennessee non avrebbe approvato ulteriori benefici fiscali per la Volkswagen se i lavoratori avessero accettato il sindacato in fabbrica, mettendo in dubbio i piani di investimento dell’azienda a Chattanooga.
Se la propaganda degli ambienti più reazionari del sud degli Stati Uniti per convincere i dipendenti della Volkswagen può avere avuto un qualche peso, è in primo luogo la storia recente della UAW ad averli convinti a lasciare questo sindacato fuori dai cancelli della loro fabbrica.
A riassumere lo stato d’animo dei lavoratori nel recarsi al voto è stato proprio uno di questi ultimi sentito dal New York Times, al quale ha affermato che la maggior parte dei suoi colleghi è convinta che la UAW abbia profondamente danneggiato i lavoratori del settore auto di Detroit. In altre parole, gli operai di Chattanooga sono perfettamente a conoscenza di come la UAW abbia favorito la chiusura di fabbriche e la scomparsa di migliaia di posti di lavoro nella metropoli del Michigan, così come la drastica riduzione dei livelli retributivi e la distruzione delle conquiste dei lavoratori.
La “ristrutturazione” di General Motors e Chrysler attraverso la bancarotta forzata voluta dall’amministrazione Obama nel 2009 è stata possibile solo grazie alla collaborazione del sindacato che si è tradotta, tra l’altro, nel dimezzamento degli stipendi per i neo-assunti e nella virtuale soppressione della giornata lavorativa di 8 ore.
Molti operai sentiti dai giornali durante le operazioni di voto a Chattanooga avevano fatto notare come la Volkswagen paghi attualmente in media 19,5 dollari l’ora, vale a dire circa 5 dollari in più rispetto ai dipendenti assunti negli ultimi anni nelle fabbriche di Detroit rappresentate dalla UAW. Il timore diffuso, perciò, è che l’ingresso in azienda di quest’ultima avrebbe potuto innescare nel prossimo futuro un processo di adeguamento verso il basso delle retribuzioni.
Nelle dichiarazioni precedenti il voto di settimana scorsa e nei documenti ufficiali, d’altra parte, i vertici della UAW avevano prospettato proprio un’evoluzione simile se richiesta dall’azienda, in linea con il ruolo svolto a Detroit. Negli accordi con la Volkswagen per la presenza sindacale a Chattanooga, tra l’altro, sarebbe stato previsto che la UAW si sarebbe impegnata a “mantenere e, dove possibile, a migliorare la competitività e il vantaggio relativo ai costi di produzione sui concorrenti negli Stati Uniti e in Nordamerica”.
In un’apparizione pubblica, Bob King aveva poi offerto i servizi della sua organizzazione al management Volkswagen in vista della creazione dei “consigli di fabbrica”. Il numero uno della UAW aveva cioè rassicurato circa la disponibilità a “lavorare assieme alla compagnia per ottenere il più alto livello qualitativo e la più alta produttività” attraverso “la cooperazione tra la forza lavoro e la dirigenza”.
Dopo il voto di venerdì, la Volkswagen ha fatto sapere di volere comunque continuare nel tentativo di creare un “consiglio di fabbrica” nell’impianto di Chattanooga, nonostante i paletti imposti dalla legislazione statunitense in assenza di un parere positivo dei lavoratori alla presenza di un’organizzazione sindacale.
Gli sforzi del colosso automobilistico tedesco per trapiantare negli USA un modello ormai regolarmente diffuso in patria sono legati anche agli affanni registrati recentemente sul mercato americano. Secondo i dati ufficiali, le vendite sono calate del 7 per cento nel 2013 a seguito delle difficoltà incontrate da una politica aziendale finora basata quasi unicamente sulle auto di medie dimensioni. Volkswagen, perciò, starebbe ora progettando di investire 7 miliardi di dollari per lanciare la già ricordata nuova linea di produzione, questa volta orientata verso il mercato nordamericano dei SUV.
Gli ostacoli incontrati finora e il nuovo piano di investimenti richiederanno verosimilmente una “razionalizzazione” negli impianti esistenti con conseguenze che si rifletteranno sulle condizioni di lavoro. Da qui la necessità di poter contare sulla collaborazione dei sindacati o, visto il loro crescente discredito, sui tanto celebrati “consigli di fabbrica” per far digerire ai lavoratori le imposizioni provenienti dall’alto.